in morte di Eugenio Melandri … una bella pagina del quotidiano ‘il manifesto’

«hai fatto bene!»

di Luca Kocci
in “il manifesto” del 29 ottobre 2019

Quando il 19 ottobre 2018 Eugenio Melandri va a Roma ad incontrare il papa per la messa a Santa Marta e gli riassume brevemente la propria vita di missionario, pacifista e comunista, «Francesco – racconta lo stesso Melandri – mi prende una mano, me la stringe forte e mi sorride. Poi mi dice: hai fatto bene!».

Melandri è ancora sospeso a divinis e non può esercitare il ministero sacerdotale. Il provvedimento gli era stato comminato dal Vaticano trent’anni prima quando, dopo essere stato allontanato dalla direzione di Missione Oggi, il mensile dei saveriani che aveva trasformato in un periodico fortemente impegnato sui temi della pace e del disarmo, nel giugno 1989 era stato eletto europarlamentare con Democrazia proletaria, violando il Codice di diritto canonico («è fatto divieto ai chierici di assumere uffici pubblici, che comportano una partecipazione all’esercizio del potere civile»; «non abbiano parte attiva nei partiti politici») e venendo punito con la sospensione a divinis. Quell’«hai fatto bene» di Francesco, però, non poteva restare senza conseguenze. Così poche settimane fa – ma con un ritardo di almeno un paio di decenni –, la Congregazione vaticana per il clero annulla la sospensione: Melandri viene riammesso all’esercizio del ministero sacerdotale e incardinato nella diocesi di Bologna guidata dal cardinal Matteo Zuppi. Una «riabilitazione» che, durante il pontificato di Bergoglio, ha riguardato anche altri preti, in passato giudicati troppo di sinistra: sia viventi, come il nicaraguense sandinista Ernesto Cardenal, sia già morti, come Primo Mazzolari e Lorenzo Milani.

La scorsa settimana, il 20 ottobre, Melandri torna a celebrare l’eucaristia, insieme ai confratelli amici e «compagni» di una vita («compagno è una bellissima parola, significa spezzare e condividere il pane», ha detto durante la messa), quella generazione «post-sessantottina» di preti impegnati per la giustizia e la pace dalla seconda metà degli anni ‘80:

Albino Bizzotto (dei Beati i costruttori di pace, con cui nel 1992 ha partecipato alla marcia per la pace a Sarajevo assediata),

Tonio Dell’Olio (già coordinatore nazionale di Pax Christi, poi responsabile internazionale di Libera, ora alla Pro Civitate Christiana di Assisi),

Renato Sacco (coordinatore nazionale di Pax Christi),

il vescovo Giorgio Biguzzi, animatore della campagna contro i bambini soldato in Sierra Leone.

Giusto una settimana prima di morire, nella mattinata del 27 ottobre, a causa di un tumore, che ha affrontato con forza, condividendo senza reticenze sul suo profilo Facebook tutti i momenti di sofferenza, di speranza e di gioia – come appunto l’incontro con papa Francesco e la riabilitazione canonica – e senza mai rinunciare ad intervenire sull’attualità politica, dalle leggi contro i migranti volute dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, alla recente aggressione turca contro i curdi.

Nato a Brisighella (Ra) nel 1948, nel 1974 Melandri entra nei missionari saveriani. Dal 1980 al 1988 dirige Missione Oggi, dalle cui colonne conduce importanti battaglie contro lo scandalo della cooperazione internazionale e per il disarmo, attirando su di sé le ire del governo e della Dc che, con la complicità del Vaticano e dei vertici dei saveriani, riescono a farlo allontanare dalla rivista. Si impegna in politica (europarlamentare di Dp, poi con Rifondazione comunista), nel sociale (con Dino Frisullo fonda Senzaconfine), per la pace e il disarmo.

Questa mattina l’addio ad Eugenio Melandri: i funerali si svolgeranno alle ore 11, presso la casa dei saveriani di San Pietro in Vincoli (Ra), in via monsignor Bertaccini.




dalla parte di papa Francesco … la decisa scelta di Pérez Esquivel

perché io scelgo Francesco

di Adolfo Pérez Esquivel

 

Papa Francesco segna un cammino chiaro e preciso: tornare alla fonte del Vangelo, alla spiritualità, all’impegno con i poveri e a porre “l’Amore in azione”. Ci chiede “pregate per me”, perché conosce la responsabilità dell’essere il successore di Pietro, sa quali sono le sfide e sa che è necessario cercare il dialogo e l’unità nella diversità.

La Chiesa cammina per il mondo tra luci e ombre, angosce e speranze (GS.1). Sappiamo che è sottomessa a conflitti e interessi politici, sociali ed economici di gruppi di potere che sono dentro e fuori dal Vaticano. Questi gruppi non sono disposti a perdere privilegi e spazi di potere e per questo portano avanti un’intensa campagna contro Papa Francesco.

 Papa Francesco ha assunto il proprio ruolo per affrontare e risolvere questi numerosi conflitti che vive la Chiesa nell’attualità.

Francesco si è mosso con fermezza e anche con dolore contro l’occultamento di crimini, come la pedofilia, commessi da parte di settori del clero e messi a tacere per secoli grazie alla complicità e alle paure.

Ci invita a risvegliare la spiritualità e a impegnarci con i poveri per rafforzare il cammino della Chiesa come popolo di Dio.

Di fronte al neoliberalismo, la recessione e il conformismo, Francesco non predica la rassegnazione.

Disegna invece cammini di trasformazione spirituale, sociale, culturale e politica alla luce del Vangelo.

Di fronte agli interessi economici e politici dei governi e delle imprese che negano il cambio climatico mettendo a rischio il pianeta e la vita, con l’Enciclica Laudato Si’ egli chiede a tutti di ristabilire l’equilibrio dell’opera della Creazione, tra i bisogni dell’umanità e il rispetto per la Madre Terra.

Papa Francesco chiede ai paesi ricchi di ricevere le migliaia di rifugiati che fuggono dalle proprie terre rase al suolo dai conflitti armati, dalla fame e dalla disperazione per trovare nuovi orizzonti di vita.

Convoca le grandi potenze per far sì che le armi nucleari vengano messe al bando e vengano fatti accordi per costruire la Pace.

Di fronte alle molteplici divisioni su questioni religiose, apre le proprie braccia per guidare un dialogo interreligioso che promuova l’unità nella diversità.

Di fronte a tanta disperazione si appella ai giovani perché diventino protagonisti delle proprie vite e della storia.

Di fronte allo sviluppo e alla creazione di piattaforme tecnologiche, Papa Francesco ci esorta a non scegliere un “internet dell’indifferenza” ma “un internet della solidarietà”. Ci esorta a rammentare che “siamo membra gli uni degli altri” (Lettera agli Efesini, 4,25) e ci ricorda che “Dio non è indifferente”, che a “Dio interessa l’umanità e non l’abbandona”. Ci invita a comprendere che la social network commuity non è sinonimo di comunità e ci spinge a evitare che “ciò che dovrebbe essere una finestra aperta al mondo (la comunità in rete) diventi una vetrina per esibire il proprio narcisismo”.

Francesco apre cammini guidati dalla forza del Vangelo e ricorda che durante il Concilio Vaticano II, Papa Giovanni XXIII diceva che la Chiesa doveva aprire le porte e le finestre per far entrare la luce e togliere la polvere accumulata nei secoli. È necessario ricordare queste parole per illuminare il presente.

Vincolati allo spirito del Concilio Vaticano II e al Patto delle Catacombe con i poveri, ci preoccupano le cospirazioni contro Papa Francesco di chi mantiene il silenzio complice per coprire le ingiustizie e le violazioni dei diritti umani e dei popoli dentro e fuori alla Chiesa. Dimenticano che il Vangelo ci invita a seguire gli insegnamenti e la vita di Gesù per camminare e incontrare la grande famiglia umana e costruire la Pace. Ignorano il Pontefice che — in linea con il Concilio Vaticano II — ci invita a camminare insieme per comprendere i segni dei tempi in un’esperienza di Chiesa Sinodale per incontrarci attraverso la volontà di Dio.

Rivolgo un appello a tutti i popoli per sostenere nostro fratello Papa Francesco. Alziamo le nostre voci contro gli attacchi dei gruppi conservatori e reazionari che stanno portando avanti una battaglia contro di lui, anche grazie all’appoggio dei gruppi egemonici di comunicazione.

Mi appello alle comunità religiose, alle comunità ecclesiali di base, ai movimenti laici, alle organizzazioni sociali, sindacali, politiche e intellettuali e a tutte le e persone e gruppi che hanno senso umanitario per sostenere Papa Francesco nel suo impegno di proteggere il pianeta, creare un mondo più giusto e solidale e costruire la Pace.

 

l’autore

Adolfo Pérez Esquivel, 87 anni, nel 1980 ha vinto il premio Nobel per la pace per le sue denunce contro gli abusi della dittatura argentina




il commento al vangelo della domenica

quando mettiamo «io» al posto di «Dio»

il commento di E. Ronchi al vangelo della trentesima domenica del tempo ordinario (27 ottobre 2019):

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo” […]».

Una parabola “di battaglia”, in cui Gesù ha l’audacia di denunciare che pregare può essere pericoloso, può perfino separarci da Dio, renderci “atei”, adoratori di un idolo. Il fariseo prega, ma come rivolto a se stesso, dice letteralmente il testo; conosce le regole, inizia con le parole giuste «o Dio ti ringrazio», ma poi sbaglia tutto, non benedice Dio per le sue opere, ma si vanta delle proprie: io prego, io digiuno, io pago, io sono un giusto. Per l’anima bella del fariseo, Dio in fondo non fa niente se non un lavoro da burocrate, da notaio: registra, prende nota e approva. Un muto specchio su cui far rimbalzare la propria arroganza spirituale. Io non sono come gli altri, tutti ladri, corrotti, adulteri, e neppure come questo pubblicano, io sono molto meglio. Offende il mondo nel mentre stesso che crede di pregare. Non si può pregare e disprezzare, benedire il Padre e maledire, dire male dei suoi figli, lodare Dio e accusare i fratelli. Quella preghiera ci farebbe tornare a casa con un peccato in più, anzi confermati e legittimati nel nostro cuore e occhio malati. Invece il pubblicano, grumo di umanità curva in fondo al tempio, fermatosi a distanza, si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Una piccola parola cambia tutto e rende vera la preghiera del pubblicano: «tu», «Signore, tu abbi pietà». La parabola ci mostra la grammatica della preghiera. Le regole sono semplici e valgono per tutti. Sono le regole della vita. La prima: se metti al centro l’io, nessuna relazione funziona. Non nella coppia, non con i figli o con gli amici, tantomeno con Dio. Il nostro vivere e il nostro pregare avanzano sulla stessa strada profonda: la ricerca mai arresa di qualcuno (un amore, un sogno o un Dio) così importante che il tu viene prima dell’io. La seconda regola: si prega non per ricevere ma per essere trasformati. Il fariseo non vuole cambiare, non ne ha bisogno, lui è tutto a posto, sono gli altri sbagliati, e forse un po’ anche Dio. Il pubblicano invece non è contento della sua vita, e spera e vorrebbe riuscire a cambiarla, magari domani, magari solo un pochino alla volta. E diventa supplica con tutto se stesso, mettendo in campo corpo cuore mani e voce: batte le mani sul cuore e ne fa uscire parole di supplica verso il Dio del cielo (R. Virgili). Il pubblicano tornò a casa perdonato, non perché più onesto o più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l’umiltà) ma perché si apre – come una porta che si socchiude al sole, come una vela che si inarca al vento – a Dio che entra in lui, con la sua misericordia, questa straordinaria debolezza di Dio che è la sua unica onnipotenza.




torna in auge il ‘patto delle catacombe’ – un buon segno per la nostra chiesa

a Roma 150 vescovi del Sinodo rinnovano il “Patto delle Catacombe” per una Chiesa povera

Un gruppo di partecipanti all’assise sull’Amazzonia e di altre iniziative parallele, guidati da monsignor Kräutler, si ritroveranno nelle Catacombe di Santa Domitilla per rinnovare le promesse fatte nel 1965 da 42 Padri Conciliari

di Salvatore Cernuzio

 Circa 150 partecipanti al Sinodo dell’Amazzonia si incontreranno questa domenica 20 ottobre per rinnovare il cosiddetto “Patto delle Catacombe”, il documento che quarantadue vescovi e cardinali, soprattutto latinoamericani, firmarono il 16 novembre 1965, a pochi giorni dalla conclusione del Concilio Vaticano II, per impegnarsi a vivere in povertà e servizio e mettere i poveri al centro del loro ministero. Si pensa che fu proprio questo atto ad aver ispirato la Teologia della Liberazione, sorta poi negli anni seguenti.
L’incontro avvenne nelle Catacombe di Santa Domitilla, sulla via Ardeatina a Roma. È lì che si recheranno in carovana domenica mattina, intorno alle 7, i Padri del Sinodo – principalmente brasiliani e colombiani – insieme ai partecipanti di altre iniziative concomitanti all’assise come “Amazzonia, Casa Comune” con base nella parrocchia di Santa Maria in Traspontina.
Nella basilica semi sotterranea dedicata ai martiri Nereo e Achilleo, sarà firmato un nuovo documento che, secondo il sito brasiliano Dom Total, avrà il titolo di “Patto delle Catacombe per la Casa comune”. In esso confluiranno quindi i temi trattati dal Sinodo per la Regione pan-Amazzonica in corso in Vaticano.
Quello di domenica sarà, dunque, un evento parallelo. A guidarlo sarà l’arcivescovo austriaco naturalizzato brasiliano, Erwin Kräutler, pastore emerito della prelatura di Xingu, tra i protagonisti di questo Sinodo. La messa verrà presieduta invece dal cardinale Claudio Hummes. La celebrazione come pure l’atto della firma si svolgeranno in forma privata e non sarà consentita la partecipazione della stampa.
L’iniziativa è stata preparata «alcuni mesi prima» dell’inizio del Sinodo, come spiega a Vatican Insider l’organizzatore padre José Oscar Beozzo. «Il 16 novembre 2015, abbiamo celebrato i 50 anni del “Patto” firmato nelle Catacombe di Santa Domitilla. Con il Sinodo, alcuni vescovi di Brasile, Colombia, Ecuador hanno voluto riprendere il “Patto” e rinnovarlo nel contesto amazzonico alla luce delle sfide di oggi».
I presuli firmatari hanno quindi tenuto diverse riunioni per comporre il nuovo testo che trae le mosse da quello del 1965. In esso gli allora Padri riuniti nel Concilio si impegnavano a rinunciare a tutti i simboli, i beni materiali o ai privilegi del potere, e a mettere i poveri al centro del ministero pastorale. Una sfida, dunque, da parte dei «fratelli nell’Episcopato» per dar vita, attraverso tredici promesse concrete, a quella Chiesa «serva e povera» auspicata all’epoca da Papa Giovanni XXIII e, cinquant’anni dopo, dal successore Francesco.
A firmare il “Patto” furono 42 prelati e tra coloro che collaborarono alla stesura si segnala la presenza di dom Helder Câmara (1909-1999), l’arcivescovo di Olinda e Recife, servo di Dio, scomparso vent’anni fa a 90 anni. Detto «o bispinho» per la bassa statura, Câmara – del quale si è conclusa la fase diocesana della causa di beatificazione – ha lasciato una traccia pastorale profonda nel suo Paese sapendo coniugare il Vangelo e le lotta per la giustizia e percorrendo sempre la strada della pacificazione.
Il suo insegnamento risalta nel “Patto delle Catacombe” dal quale, come detto, ha tratto ispirazione quella corrente di pensiero teologico sviluppatasi con la riunione del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) di Medellín del 1968, come diretta estensione delle idee e dei principi riformatori messi in moto in Roma dal Concilio, che passò alla storia con il nome di “Teologia della Liberazione”.
Nel documento si leggono promesse come «dare tutto il tempo, la riflessione, il cuore, i mezzi» al «servizio apostolico e pastorale del lavoro e dei gruppi economicamente deboli e sottosviluppati». In altri passaggi i vescovi assicurano: «Cercheremo di vivere secondo il modo ordinario della popolazione, per quanto riguarda l’alloggio, il cibo e i mezzi di trasporto», «affideremo la gestione finanziaria nella nostra diocesi a una commissione laica», «eviteremo ciò che può sembrare conferire privilegi», «saremo aperti a tutti, qualunque sia la loro religione».
Tutti impegni che ora i partecipanti al Sinodo vogliono rinnovare per il loro ministero nelle terre dell’Amazzonia sfruttate dalle grandi multinazionali nelle sue risorse e umiliate per il trattamento riservato ai suoi popoli, depredati dei loro territori e, in alcuni casi, condannati ad un lento annientamento.

PATTO DELLE CATACOMBE PER LA CASA COMUNE

per una Chiesa dal volto amazzonico, povera e serva, profetica e samaritana

Noi, partecipanti al Sinodo panamazzonico, condividiamo la gioia di vivere tra numerosi popoli indigeni, quilombos, costieri, migranti, comunità alla periferia delle città di questo immenso territorio del Pianeta. Con loro abbiamo sperimentato la forza del Vangelo che agisce nei piccoli. L’incontro con queste persone ci sfida e ci invita a una vita più semplice di condivisione e di gratuità. Influenzati dall’ascolto delle loro grida e lacrime, accogliamo di cuore le parole di papa Francesco: “Molti fratelli e sorelle in Amazzonia portano pesanti croci e attendono il conforto liberatore del Vangelo, la carezza amorevole della Chiesa. Per loro, con loro camminiamo insieme”.

Ricordiamo con gratitudine i vescovi che alla fine del Concilio Vaticano II nelle Catacombe di Santa Domitilla firmarono Il Patto per una Chiesa serva e povera. Ricordiamo con riverenza tutti i martiri membri delle comunità ecclesiali di base, delle comunità pastorali e dei movimenti popolari; leader indigeni, missionarie e missionari, laici, preti e vescovi, che hanno versato il loro sangue a causa di quest’opzione per i poveri, per difendere la vita e lottare per la salvaguardia della nostra Casa Comune. Al ringraziamento per il loro eroismo uniamo la nostra decisione di continuare la loro lotta con fermezza e coraggio. È un sentimento di urgenza che si impone di fronte alle aggressioni che oggi devastano il territorio amazzonico, minacciato dalla violenza di un sistema economico predatore e consumistico.

Di fronte alla Santissima Trinità, le nostre Chiese particolari, le Chiese dell’America Latina e dei Caraibi e di quelle che sono solidali in Africa, Asia, Oceania, Europa e nel nord del continente americano, ai piedi degli apostoli Pietro e Paolo e della moltitudine di martiri di Roma, dell’America Latina e in particolare della nostra Amazzonia, in profonda comunione con il successore di Pietro invochiamo lo Spirito Santo e ci impegniamo personalmente e comunitariamente a quanto segue:

1. Assumere, di fronte all’estrema minaccia del riscaldamento globale e dell’esaurimento delle risorse naturali, un impegno a difendere la giungla amazzonica nei nostri territori e con i nostri atteggiamenti. Da essa provengono il dono dell’acqua per gran parte del territorio sudamericano, il contributo al ciclo del carbonio e la regolazione del clima globale, una biodiversità incalcolabile e una ricca socio-diversità per l’umanità e l’intera Terra.

2. Riconoscere che non siamo padroni della madre terra, ma suoi figli e figlie, formati dalla polvere della terra (Gen 2, 7-8), ospiti e pellegrini (1 Pt 1, 17b e 1 Pt 2, 11), chiamati ad essere suoi gelosi custodi (Gen 1,26). Pertanto ci impegniamo per un’ecologia integrale, in cui tutto è interconnesso, il genere umano e tutta la creazione perché tutti gli esseri sono figlie e figli della terra e su di loro aleggia lo Spirito di Dio (Gen 1,2).

3. Accogliere e rinnovare ogni giorno l’alleanza di Dio con tutto il creato: “Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca, con tutti gli animali della terra”. (Gen 9, 9-10; Gen 9, 12-17).

4. Rinnovare nelle nostre chiese l’opzione preferenziale per i poveri, in particolare per i popoli originari, e insieme a loro garantire il diritto ad essere protagonisti nella società e nella Chiesa. Aiutarli a preservare le loro terre, culture, lingue, storie, identità e spiritualità. Crescere nella consapevolezza che devono essere rispettati a livello locale e globale e, di conseguenza, con tutti i mezzi alla nostra portata promuovere la loro accoglienza su un piano di parità nel concerto mondiale di altri popoli e culture.

5. Abbandonare, di conseguenza, nelle nostre parrocchie, diocesi e gruppi ogni tipo di mentalità e posizione colonialista, accogliendo e valorizzando la diversità culturale, etnica e linguistica in un dialogo rispettoso con tutte le tradizioni spirituali.

6. Denunciare tutte le forme di violenza e di aggressione contro l’autonomia e i diritti delle popolazioni indigene, la loro identità, i loro territori e i loro modi di vita.

7. Annunciare la novità liberante del Vangelo di Gesù Cristo, nell’accogliere l’altro e il diverso, come accadde a Pietro nella casa di Cornelio: “Voi sapete che a un Giudeo non è lecito aver contatti o recarsi da stranieri; ma Dio mi ha mostrato che non si deve chiamare profano o impuro nessun uomo”. (At 10,28).

8. Camminare ecumenicamente con altre comunità cristiane nell’annuncio inculturato e liberante del Vangelo, e con altre religioni e persone di buona volontà, in solidarietà con i popoli originari, i poveri e i piccoli, in difesa dei loro diritti e nella preservazione della Casa Comune.

9. Stabilire nelle nostre chiese particolari uno stile di vita sinodale, in cui i rappresentanti dei popoli originari, i missionari, i laici, a causa del loro battesimo e in comunione con i loro pastori, abbiano voce e voto nelle assemblee diocesane, nei consigli pastorali e parrocchiali, in breve, in tutto ciò che compete loro nel governo delle comunità.

10. Impegnarsi nell’urgente riconoscimento dei ministeri ecclesiali già esistenti nelle comunità, portati avanti da agenti pastorali, catechisti indigeni, ministre e ministri della Parola, valorizzando soprattutto la loro attenzione per i più vulnerabili ed esclusi.

11. Rendere effettivo nelle comunità che ci hanno affidato il passaggio da una pastorale di visita a una pastorale di presenza, assicurando che il diritto alla mensa della Parola e alla mensa dell’Eucaristia diventi effettivo in tutte le comunità.

12. Riconoscere i servizi e la reale diaconia della grande quantità di donne che oggi gestiscono comunità in Amazzonia e cercano di consolidarle con un adeguato ministero di donne leader di comunità.

13. Cercare nuovi percorsi di azione pastorale nelle città in cui agiamo, con il protagonismo di laici e giovani, con attenzione alle loro periferie e ai migranti, ai lavoratori e disoccupati, agli studenti, agli educatori, ai ricercatori e al mondo della cultura e della comunicazione.

14. Assumere contro la valanga del consumismo uno stile di vita gioiosamente sobrio, semplice e solidale con coloro che hanno poco o niente; ridurre la produzione di rifiuti e l’uso di materie plastiche, favorire la produzione e la commercializzazione di prodotti agro-ecologici e utilizzare i trasporti pubblici, se possibile.

15. Porsi accanto a coloro che sono perseguitati per il servizio profetico di denuncia e di riparazione di ingiustizie, di difesa della terra e dei diritti dei piccoli, di accoglienza e sostegno dei migranti e dei rifugiati. Coltivare vere amicizie con i poveri, visitare i più semplici e i malati, esercitando il ministero dell’ascolto, della consolazione, del sostegno e dell’appoggio, cose che portano incoraggiamento e rinnovano la speranza.

Consapevoli delle nostre debolezze, della nostra povertà e piccolezza di fronte a sfide così grandi e serie, ci affidiamo alla preghiera della Chiesa. Possano le nostre comunità ecclesiali, soprattutto, aiutarci con la loro intercessione, con il loro affetto nel Signore e, quando necessario, con la carità della correzione fraterna.

Accogliamo con favore l’invito del cardinale Hummes a essere guidati dallo Spirito Santo in questi giorni del Sinodo e al nostro ritorno alle nostre chiese: “Lasciatevi avvolgere dal manto della Madre di Dio e della Regina dell’Amazzonia. Non lasciamo che ci vinca l’autoreferenzialità, ma la misericordia davanti al grido dei poveri e della terra. Saranno necessarie molta preghiera, meditazione e discernimento, nonché una pratica concreta di comunione ecclesiale e spirito sinodale. Questo sinodo è come una mensa che Dio ha preparato per i suoi poveri e ci chiede di essere quelli che servono alla mensa”.

Celebriamo quest’Eucaristia del Patto come “un atto di amore cosmico”. “Sì, cosmico! Perché anche quando si svolge sul piccolo altare di una chiesa di un villaggio, l’Eucaristia è sempre celebrata, in un certo senso, sull’altare del mondo.” L’Eucaristia unisce cielo e terra, abbraccia e penetra tutta la creazione. Il mondo uscito dalle mani di Dio ritorna a Lui in felice e piena adorazione: nel Pane Eucaristico “la creazione tende alla divinizzazione, alle sante nozze, all’unificazione con il Creatore stesso”. Per questa ragione, l’Eucaristia è anche fonte di luce e di motivazione per le nostre preoccupazioni per il medio ambiente e ci porta a essere custodi di tutta la creazione”.

Roma, 20 ottobre 2019
Catacombe di Santa Domitilla

 

 




il commento al vangelo della domenica


📖 “Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”
il commento di E. Bianchi al vangelo della ventinovesima domenica del tempo ordinario (20 ottobre 2019):
In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: «Fammi giustizia contro il mio avversario». Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: «Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi»». E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

Nel vangelo secondo Luca Gesù aveva già dato un insegnamento sulla preghiera attraverso la consegna ai discepoli del Padre nostro (cf. Lc 11,1-4) e una parabola, poi commentata, sulla necessità di insistere nella preghiera, chiedendo e bussando presso Dio, che sempre concede lo Spirito santo, cioè la cosa buona tra le cose buone, quella più necessaria ai credenti (cf. Lc 11,5-13). Al capitolo 18 c’è una ripresa di questo insegnamento, attraverso la parabola parallela a quella dell’amico importuno: la parabola del giudice iniquo e della vedova insistente.

È necessario pregare sempre, dice Gesù. Ma cosa significa pregare sempre? E ancora, dobbiamo chiedercelo: com’è possibile? Evadere queste domande significa per il credente rimuovere una verità elementare: la preghiera è un’azione difficile, faticosa, per questo è molto comune, anche tra i credenti maturi e convinti, essere vinti dalla difficoltà del pregare, dallo scoraggiamento, dalla constatazione di non essere esauditi secondo i desideri, dalle vicissitudini della vita. Oggi poi la domanda non è solo: “come pregare?”, ma anche: “perché pregare?”. Viviamo in una cultura nella quale scienza e tecnica ci fanno credere che noi umani siamo capaci di tutto, che dobbiamo sempre cercare un’efficacia immediata, che l’autonomia dataci da Dio nel vivere nel mondo ci esime dal rivolgerci a lui. E va anche riconosciuto che a volte in molti credenti la preghiera sembra solo il frutto di un’indomabile angoscia, una chiacchiera con Dio, un verbalizzare sentimenti generati dalle nostre profondità, devozione e pietà in cerca di garanzia e di meriti per se stessi. C’è una preghiera diffusa che è brutta e falsa preghiera: non la preghiera cristiana, quella secondo la volontà di Dio, quella che Dio gradisce.

E allora, al di là delle difficoltà naturali che sovente denunciamo – mancanza di tempo, velocità della vita quotidiana, distrazioni, aridità spirituale –, cosa possiamo imparare dal Vangelo riguardo alla preghiera? Innanzitutto, va sempre ribadito che la preghiera cristiana si accende, nasce dall’ascolto della voce del Signore che ci parla. Come “la fede nasce dall’ascolto” (Rm 10,17), così anche la preghiera, che è nient’altro che l’eloquenza della fede (cf. Gc 5,15). Per pregare in modo cristiano, e non come fanno i pagani (cf. Mt 6,7), cioè le altre vie religiose umane, occorre ascoltare, occorre lasciarsi aprire gli orecchi dal Signore che parla e accogliere la sua Parola: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta” (1Sam 3,9). Non c’è preghiera più alta ed essenziale dell’ascolto del Signore, della sua volontà, del suo amore che mai deve essere meritato.

Una volta avvenuto l’ascolto, la preghiera può diventare un pensare davanti a Dio e con Dio, un’invocazione del suo amore, una manifestazione di lode, adorazione, confessione nei suoi confronti. La preghiera cambia in ciascuno di noi a seconda dell’età, del cammino spirituale percorso, delle situazioni nelle quali viviamo. Ci sono tanti modi di pregare quanti sono i soggetti oranti. E guai a chi pretende di giudicare la preghiera di un altro: il sacerdote Eli giudicava la preghiera di Anna nella dimora di Dio come il borbottio di un’ubriaca, mentre quella era preghiera gradita a Dio e da lui ascoltata (cf. 1Sam 1,9-18)! Dunque veramente la preghiera personale è “secretum meum mihi”, e la preghiera liturgica deve ispirarla, ordinarla, illuminarla e renderla sempre più evangelica, come Gesù Cristo l’ha normata.

Quando così avviene, la preghiera deve essere solo insistente, perseverante, non venire meno, perché sia che viva del pensare di fronte a Dio o con Gesù Cristo, sia che si manifesti come lode o ringraziamento, sia che assuma la forma dell’intercessione per gli umani, è sempre dialogo, comunicazione con Dio, apertura e accoglienza della sua presenza, tempo e spazio in cui lo Spirito di Dio che è vita ispira, consola e sostiene. Ecco perché pregare sempre! Non si tratta di ripetere costantemente formule o riti (sarebbe impossibile farlo continuamente), ma di pensare e compiere tutto alla presenza di Dio, ascoltando la sua voce e confessando la fede in lui. Per questo l’Apostolo Paolo nelle sue lettere più volte e con diverse espressioni ripete il comandamento: “Pregate ininterrottamente” (1Ts 5,17); “Siate perseveranti nella preghiera” (Rm 12,12); “In ogni occasione, pregate con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito” (Ef 6,18); “Perseverate nella preghiera e vegliate in essa, rendendo grazie” (Col 4,2). Ciò significa restare sempre in comunione con il Signore, nel sentire la sua presenza, nell’invocarlo nel proprio cuore e accanto a sé, nell’offrirgli il corpo, cioè la concreta vita umana, come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio (cf. Rm 12,1).

Ed ecco allora la parabola. C’è una vedova (categoria che, insieme all’orfano e al povero, esprime secondo la Bibbia la condizione di chi è senza difesa, oppresso) che chiede a un giudice di farle giustizia, di liberarla dalla sua ingiusta oppressione. Ma quel giudice, dice Gesù, “non teme Dio né ha rispetto per gli umani”. È dunque un cattivo giudice, che mai avrebbe esercitato la giustizia a favore di quella donna; eppure a un certo momento, vinto dalla sua insistenza e per non essere più tormentato da lei, decide di esaudirla. Lo fa nella sua logica egoistica, per non essere più disturbato. Al termine di questa breve parabola, Gesù se ne fa esegeta e con autorevolezza pone una domanda ai suoi ascoltatori: “Se accade così sulla terra da parte di un giudice al quale non importa né la giustizia umana né la Legge di Dio, Dio che è giudice giusto non ascolterà forse le suppliche e le grida dei chiamati da lui a essere suo popolo, sua comunità e assemblea in alleanza con lui? Tarderà forse a intervenire?”.

Con queste parole Gesù conferma la fede dei credenti in lui e tenta di placare la loro ansia e i loro dubbi sull’esercizio della giustizia da parte di Dio. La comunità di Luca, infatti, ma ancora oggi le nostre comunità, faticano a credere che Dio è il difensore dei poveri e degli oppressi. L’ingiustizia continua a regnare e nonostante le preghiere e le grida nulla sembra cambiare. Ma Gesù, con la sua forza profetica, assicura: “Dio farà loro giustizia in fretta!”. Il giudizio di Dio ci sarà, verrà su tutti come suo improvviso intervento e arriverà in fretta, nella fretta escatologica, anche se a noi umani sembra tardare. “Ai tuoi occhi, o Dio, mille anni sono come ieri”, canta il salmo (90,4), ed è vero che per noi umani non è come per Dio, ma attendiamo quel giorno che, sebbene sembri indugiare, verrà in fretta, senza tardare (cf. Ab 2,3; Eb 10,37; 2Pt 3,9). Dunque la perseveranza nel pregare ha i suoi effetti, non è inutile, e occorre sempre ricordare che Dio è un giudice giusto che esercita il giudizio in un modo che per ora non conosciamo. Siamo miopi e ciechi quando cerchiamo di vedere l’azione di Dio nel mondo, e soprattutto l’azione di Dio sugli altri…

Ma per Gesù la preghiera è l’altra faccia della medaglia della fede perché, come si è detto, nasce dalla fede ed è eloquenza della fede. Per questo segue un’ultima domanda, non retorica, che indica l’inquietudine di Gesù circa l’avventura della fede nel mondo: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”. Domanda che inquieta anche noi, che a volte abbiamo l’impressione di essere gli ultimi cristiani sulla terra e temiamo che la nostra fede venga meno. Nulla è garantito, nulla è assicurato, e purtroppo ci sono cristiani convinti che la chiesa resterà sempre presente nella storia. Ma chi lo assicura, se neanche la fede è assicurata? Dio non abbandona certo la sua chiesa, ma questa può diventare non-chiesa, fino a diminuire, scomparire e dissolversi nella mondanità, magari religiosa, senza più essere comunità di Gesù Cristo il Signore. La chiamata di Dio è sempre fedele, ma i cristiani possono diventare increduli, la chiesa può rinnegare il Signore.

Quando leggiamo il nostro oggi, possiamo forse non denunciare la morte della fede come fiducia, adesione, fede nell’umanità e nel futuro, prima ancora che nel Dio vivente? E se viene a mancare la fiducia negli altri che vediamo, come potremo coltivare una fiducia nell’Altro, nel Dio che non vediamo (cf. 1Gv 4,20)? La mancanza di fede è la ragione profonda di molte patologie dei credenti e la tentazione di abbandonare la fede è quotidiana e presente nei nostri cuori. Non ci resta dunque che rinnovare la fede, con la speranza nella venuta di Gesù, Figlio dell’uomo, Giudice giusto, e con l’amore fraterno vissuto attingendo all’amore di Gesù, amore fedele fino alla fine (cf. Gv 13,1), per tutti gli umani.

fonte: Monastero di Bose




la sfida dell’ambiente nell’ultimo libro di papa Francesco

 

papa Francesco

rivedere i criteri della vita per salvare la vita sulla Terra

In uno scritto inedito, Francesco parla della necessità di chiedere e dare perdono, azioni possibili solo nello Spirito Santo, per superare l’attuale crisi ecologica. Il testo, di cui il Corriere della Sera ha pubblicato un estratto, è contenuto nel volume “Nostra Madre Terra. Una lettura cristiana della sfida dell’ambiente”, edito dalla Lev, che raccoglie i discorsi del Papa sulla cura del creato e uscirà il 24 ottobre in Italia e Francia con prefazione del Patriarca Bartolomeo

Proprio perché tutto è connesso (cfr. Laudato si’ 42; 56) nel bene, nell’amore, proprio per questo ogni mancanza di amore ha ripercussione su tutto. La crisi ecologica che stiamo vivendo è così anzitutto uno degli effetti di questo sguardo malato su di noi, sugli altri, sul mondo, sul tempo che scorre; uno sguardo malato che non ci fa percepire tutto come un dono offerto per scoprirci amati. È questo amore autentico, che a volte ci raggiunge in maniera inimmaginabile e inaspettata, che ci chiede di rivedere i nostri stili di vita, i nostri criteri di giudizio, i valori su cui fondiamo le nostre scelte. In effetti, è ormai noto che inquinamento, cambiamenti climatici, desertificazione, migrazioni ambientali, consumo insostenibile delle risorse del pianeta, acidificazione degli oceani, riduzione della biodiversità sono aspetti inseparabili dall’iniquità sociale: della crescente concentrazione del potere e della ricchezza nelle mani di pochissimi e delle cosiddette società del benessere, delle folli spese militari, della cultura dello scarto e di una mancata considerazione del mondo dal punto di vista delle periferie, della mancata tutela dei bambini e dei minori, degli anziani vulnerabili, dei bambini non ancora nati.

Non bastano soluzioni puramente ambientali

Uno dei grandi rischi del nostro tempo, allora, di fronte alla grave minaccia per la vita sul pianeta causata dalla crisi ecologica, è quello di non leggere questo fenomeno come l’aspetto di una crisi globale, ma di limitarci a cercare delle — pur necessarie e indispensabili — soluzioni puramente ambientali. Ora, una crisi globale domanda una visione e un approccio globale, che passa anzitutto per una rinascita spirituale nel senso più nobile del termine. Paradossalmente i cambiamenti climatici potrebbero diventare un’opportunità per farci le domande di fondo sul mistero dell’essere creato e su ciò per cui vale la pena vivere. Questo porterebbe a una profonda revisione dei nostri modelli culturali ed economici, per una crescita nella giustizia e nella condivisione, nella riscoperta del valore di ogni persona, nell’impegno perché chi oggi è ai margini possa essere incluso e chi verrà domani possa ancora godere della bellezza del nostro mondo, che è e rimarrà un dono offerto alla nostra libertà e alla nostra responsabilità.

Prendere coscienza di una cultura che si impone

La cultura dominante — quella che respiriamo attraverso le letture, gli incontri, lo svago, nei media, ecc. — è fondata sul possesso: di cose, di successo, di visibilità, di potere. Chi ha molto vale molto, è ammirato, considerato ed esercita una qualche forma di potere; mentre chi ha poco o nulla, rischia di perdere anche il proprio volto, perché scompare, diventa uno di quegli invisibili che popolano le nostre città, una di quelle persone di cui non ci accorgiamo o con cui cerchiamo di non venire a contatto. Certamente ciascuno di noi è anzitutto vittima di questa mentalità, perché veniamo in tanti modi bombardati da essa. Fin da bambini, cresciamo in un mondo dove un’ideologia mercantile diffusa, che è la vera ideologia e pratica della globalizzazione, stimola in noi un individualismo che diventa narcisismo, avidità, ambizioni elementari, negazione dell’altro… Pertanto, in questa nostra attuale situazione, un atteggiamento giusto e sapiente, anziché l’accusa o il giudizio, è anzitutto quello della presa di coscienza.

Strutture di peccato

Siamo coinvolti, infatti, in strutture di peccato (come le chiamava san Giovanni Paolo II) che producono il male, inquinano l’ambiente, feriscono e umiliano i poveri, favoriscono la logica del possesso e del potere, sfruttano in maniera esagerata le risorse naturali, costringono popolazioni intere a lasciare le loro terre, alimentano l’odio, la violenza e la guerra. Si tratta di un trend culturale e spirituale che opera una distorsione del nostro senso spirituale che viceversa — in virtù del nostro essere stati creati a immagine e somiglianza di Dio — ci orienta naturalmente al bene, all’amore, al servizio nei confronti del prossimo.

Riscoprirsi persone appartenenti a una sola famiglia

Per questi motivi, la svolta non potrà venire semplicemente dal nostro impegno o da una rivoluzione tecnologica: senza trascurare tutto ciò, abbiamo bisogno di riscoprirci persone, cioè uomini e donne che riconoscono di essere incapaci di sapere chi sono senza gli altri, e che si sentono chiamati a considerare il mondo intorno a loro non come uno scopo in sé stesso, ma come un sacramento di comunione. In questo modo i problemi di oggi possono diventare delle autentiche opportunità affinché ci scopriamo davvero una sola famiglia, la famiglia umana.

Il perdono per superare la crisi ecologica

Mentre prendiamo consapevolezza che stiamo mancando l’obiettivo, che stiamo dando priorità a ciò che non è essenziale o addirittura a ciò che non è buono e fa male, può nascere in noi il pentimento e la richiesta di perdono. Sogno sinceramente una crescita nella consapevolezza e un pentimento sincero da parte di noi tutti, uomini e donne del XXI secolo, credenti e non, da parte delle nostre società, per esserci lasciati prendere da logiche che dividono, affamano, isolano e condannano. Sarebbe bello se diventassimo capaci di chiedere perdono ai poveri, agli esclusi; allora diventeremmo capaci di pentirci sinceramente anche del male fatto alla terra, al mare, all’aria, agli animali…

Chiedere e dare perdono sono azioni che sono possibili solo nello Spirito Santo, perché è Lui l’artefice della comunione che apre le chiusure degli individui; ed è necessario molto amore per mettere da parte il proprio orgoglio, per rendersi conto di aver sbagliato e per avere speranza che sono veramente possibili nuove strade. Il pentimento dunque per noi tutti, per la nostra èra, è una grazia da implorare umilmente al Signore Gesù Cristo, affinché nella storia questa nostra generazione possa essere ricordata non per i suoi errori, ma per l’umiltà e la saggezza di aver saputo invertire la rotta.

Ripartire dalle relazioni, non è sufficiente l’innovazione tecnologica

Quanto sto dicendo può forse apparire idealista e poco concreto, mentre appaiono più percorribili le strade che puntano a sviluppare delle innovazioni tecnologiche, alla riduzione del ricorso agli imballaggi, allo sviluppo dell’energia da fonti rinnovabili, ecc. Tutto questo è senza dubbio non solo doveroso, ma necessario. Eppure non è sufficiente. L’ecologia è ecologia dell’uomo e della creazione tutta intera, non solo di una parte. Come in una grave malattia non basta la sola medicina, ma occorre guardare al malato e capire le cause che hanno portato all’insorgere del male, così analogamente la crisi del nostro tempo va affrontata nelle sue radici. Il cammino proposto consiste allora nel ripensare il nostro futuro a partire dalle relazioni: gli uomini e le donne del nostro tempo hanno tanta sete di autenticità, di rivedere sinceramente i criteri della vita, di ripuntare su ciò che vale, ristrutturando l’esistenza e la cultura.

papa Francesco

 




l’ipocrisia dell’ “aiutiamoli a casa loro”

aiutarli a casa loro?

non c’è bisogno, basterebbe restituire quello che noi occidentali abbiamo rubato in Africa

E qualcuno ha fatto anche due conti: 70.000 miliardi (si scrive così: 70.000.000.000.000)…!

 

Aiutarli a casa loro

Aiutarli a casa loro? Il problema non è aiutarli a casa loro. È liberare casa loro. E restituire il maltolto. E che maltolto!

L’africa ha tutte le ricchezze possibili: oro, diamanti, petrolio e gas, metalli e minerali anche rari.  E’ (ed è sempre stato) il continente più ricco del mondo. Eppure è alla fame… Perché? Per lo sfruttamento di noi occidentali. Uno sfruttamento che non immaginate neanche quanto vale.

Ma qualcuno quattro conti li ha fatti, e ci ha scritto un libro.

«QUANTO L’EUROPA DEVE RESTITUIRE ALL’AFRICA»
 Un libro importante (scaricabile in rete) di Paola Caforio e Maurizio Marchi con i contributi di Jeff Hoffman e Lucy Pole

Quanto deve restituire l’Europa all’Africa

Gli autori e le autrici, dopo aver tracciato un quadro aggiornato e particolareggiato, da un punto di vista economico, storico e culturale dell’Africa nel colonialismo, nel neo-colonialismo e nei rapporti attuali con l’Europa, abbozzano una sorta di «Processo di Norimberga» dei misfatti europei nei secoli, arrivando a “tirare le somme” di quanto l’Europa deve restituire al continente nero. Una cifra enorme, ma realistica, fondata e perfino prudente, quantificata in oltre 70.000 miliardi di euro: se gli africani ottenessero questo risarcimento (è questa la parola chiave del libro) avrebbero diritto almeno a 70.000 euro ognuno, uomo, donna, bambino, vecchio. La vita cambierebbe per tutti, per gli africani ma anche per gli europei e per un mondo che ha fatto finora dell’ingiustizia e della sopraffazione la sua linea guida.

La tratta degli schiavi, la colonizzazione storica, lo scambio ineguale di merci a prezzi fissati dagli europei, i genocidi di interi popoli inermi o resistenti, fino all’emigrazione forzata, un vero espianto degli organismi migliori (più giovani e forti) dal tessuto sociale africano: sono questi i principali crimini che vanno risarciti all’Africa, un continente ricchissimo di risorse umane e naturali che è stato ridotto nell’estrema povertà dall’aggressione europea e dal neoliberismo, recentemente dall’indebitamento e dalla militarizzazione.

Un libro indispensabile per chi vuole reagire all’ondata razzista e xenofoba montante con la ragione e moltissime ragioni.

Maurizio Marchi, nato a Rosignano nel 1948 da una famiglia di lavoratori Solvay, ha compiuto studi di storia, filosofia, economia all’Università di Pisa, senza poterli concludere per ragioni familiari; ha lavorato per quasi 40 anni al ministero dell’Economia a Livorno; ha sempre militato volontariamente a sinistra; ha al suo attivo oltre 15 libri sui temi dell’ambiente, della salute, della pace e dei diritti umani. Con Paola Caforio e Jeff Hoffman fa parte dell’associazione nazionale Medicina democratica.

Paola Caforio, nata a Pisa nel 1962; si è laureata in Psicopedagogia all’Università di Firenze, è Counselor Olistico e insegnante di Scuola Primaria; ha scritto una ventina di libri di storia locale e ha gestito alcune associazioni di volontariato nella zona di Cecina; attualmente fa parte di Medicina Democratica, del Tavolo della Pace della Bassa Val di Cecina ed è Presidente della Associazione Encuentrarte.

Hanno dato un contributo al libro anche Jeff Hoffman (Coordinatore del Tavolo per la Pace della  Val di Cecina) con un capitolo dedicato al ruolo non sempre trasparente di alcune ONG; e Lucy Pole con una serie di interviste ad alcuni giovani migranti della zona di Cecina.

 

Al seguente link è disponibile il libro di Caforio, Marchi, Hoffman, Pole

https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/saggistica/508904/quanto-leuropa-deve-restituire-allafrica/




il dono delle lacrime perché non ci resta che piangere

davanti a questa società rimangono solo le lacrime

si deridono gli ultimi, convinti che la ricchezza sia meritata si disprezzano i poveri

 

Illuminati dalla Parola, sospinti dallo Spirito, occorre perseguire l’alternativa evangelica al pensiero dominante.

da Altranarrazione

Ti chiediamo, Signore, il dono delle lacrime.
Lacrime di sdegno per l’ingiustizia, di compassione e di comprensione per i calpestati.
Vediamo il loro dolore per la scientifica sottrazione di opportunità e non vogliamo né girarci dall’altra parte, né passare oltre.
Ascoltiamo parole vuote di senso, senza partecipazione e non vogliamo né adeguarci, né addormentarci in una quiete ipocrita.
Ci troviamo nel cuore dell’Impero, in una società malata di distanza e ubriaca di gossip. Si vivono relazioni prigioniere della forma, si recita il copione previsto dal ruolo. Sul grande palcoscenico costruito dall’opulenza, la massima aspirazione è diventata una felicità di plastica. Senza luce negli occhi. Senza sorriso. Senza calore.
Non ci si ferma a confrontare il pensiero dominante con il paradigma evangelico. Non si considerano prospettive diverse, non emergono decisioni radicali, testimonianze autentiche. Scarseggiano i profeti, abbondano i replicanti. È una società rigida, legata dalla catena dell’immodificabilità, che preferisce la sicurezza garantita dai modelli iniqui alla novità introdotta dal dinamismo dello Spirito.
Si rende culto alla competizione con sofisticate liturgie. E non si manifestano dubbi o esitazioni neanche davanti al suo frutto avvelenato: il cinismo. Si abbandonano defunti e feriti per non perdere il “proprio” turno.
Rassicurati dai risultati raggiunti si deridono gli ultimi, convinti che la ricchezza sia meritata si disprezzano i poveri.
Perdonali, Signore, perché non sanno che insieme a Te si risorge da qualsiasi morte (soprattutto quando la causa è da ricercare nell’indifferenza, nella sopraffazione, nell’emarginazione).
Donaci, Signore, la grazia delle lacrime, perché il tempo è compiuto (Mc 1,15).

 Luca 7,31-35

«”A chi dunque posso paragonare la gente di questa generazione? A chi è simile? È simile a bambini che, seduti in piazza, gridano gli uni agli altri così:
Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato,
abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!.
È venuto infatti Giovanni il Battista, che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: È indemoniato. È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e voi dite: Ecco un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori!. Ma la Sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli”».




il commento al vangelo della domenica

«Gesù, maestro, abbi pietà di noi!»

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventottesima domenica del tempo ordinario (13 ottobre 2019):

 

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. […]

 

Dieci lebbrosi che la sofferenza ha riunito insieme, che si appoggiano l’uno all’altro. Appena Gesù li vide… Notiamo il dettaglio: appena li vide, subito, spinto dalla fretta di chi vuole bene, disse loro: andate dai sacerdoti e mostrate loro che siete guariti! I dieci si mettono in cammino e sono ancora malati; la pelle ancora germoglia piaghe, eppure partono dietro a un atto di fede, per un anticipo di fiducia concesso a Dio e al proprio domani, senza prove: «La Provvidenza conosce solo uomini in cammino» (san Giovanni Calabria), navi che alzano le vele per nuovi mari. I dieci lebbrosi credono nella salute prima di vederla, hanno la fede dei profeti che amano la parola di Dio più ancora della sua attuazione, che credono nella parola di Dio prima e più che alla sua realizzazione. E mentre andavano furono guariti. Lungo il cammino, un passo dopo l’altro la salute si fa strada in loro. Accade sempre così: il futuro entra in noi con il primo passo, inizia molto prima che accada, come un seme, come una profezia, come una notte con la prima stella, come un fiume con la prima goccia d’acqua. E furono guariti. Il Vangelo è pieno di guariti, sono il corteo gioioso che accompagna l’annuncio di Gesù: Dio è qui, è con noi, coinvolto nelle piaghe dei dieci lebbrosi e nello stupore dell’unico che ritorna cantando. E al quale Gesù dice: la tua fede ti ha salvato!. Anche gli altri nove che non tornano hanno avuto fede nelle parole di Gesù. Dove sta la differenza? Il samaritano salvato ha qualcosa in più dei nove guariti. Non si accontenta del dono, lui cerca il Donatore, ha intuito che il segreto della vita non sta nella guarigione, ma nel Guaritore, nell’incontro con lo stupore di un Dio che ha i piedi nel fango delle nostre strade, e gli occhi sulle nostre piaghe. Nessuno si è trovato che tornasse a rendere gloria a Dio? Ebbene «gloria di Dio è l’uomo vivente» (sant’Ireneo). E chi è più vivente di questo piccolo uomo di Samaria? Lui, il doppiamente escluso, che torna guarito, gridando di gioia, danzando nella polvere della strada, libero come il vento? Non gli basta tornare dai suoi, alla sua famiglia, travolto da questa inattesa piena di vita, vuole tornare alla fonte da cui è sgorgata. Altro è essere guariti, altro essere salvati. Nella guarigione si chiudono le piaghe, ma nella salvezza si apre la sorgente, entri in Dio e Dio entra in te, come pienezza. I nove guariti trovano la salute; l’unico salvato trova il Dio che dona pelle di primavera ai lebbrosi, che fa fiorire la vita in tutte le sue forme, e la cui gloria è l’uomo vivente, «l’uomo finalmente promosso a uomo» 




la chiesa italiana in sinodo? i nostri vescovi non sembrano molto interessati

 

UN «PROBABILE SINODO» DELLA CHIESA ITALIANA?

dal I Convegno ecclesiale del 1976 a oggi

da: La Civiltà Cattolica

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Quarantatré anni fa si è tenuto a Roma il primo grande Convegno nazionale della Chiesa italiana sul tema «Evangelizzazione e promozione umana», allo scopo di verificare in che misura il Concilio Vaticano II, a 10 anni dalla conclusione, fosse stato recepito nel nostro Paese.

Fin dall’inizio, fu pensato non come un Convegno di studio o di ricerca teologica, ma come evento ecclesiale di natura essenzialmente pastorale. Il suo pregio maggiore, infatti, non furono le sue conclusioni sul piano dottrinale, bensì il fatto stesso della sua celebrazione. Del resto, secondo l’impostazione data al Convegno da mons. Enrico Bartoletti, segretario generale della Conferenza episcopale italiana, esso doveva essere una prova concreta di come attuare in Italia l’«aggiornamento» voluto dal Concilio, sia instaurando un dialogo fraterno fra tutte le componenti del popolo di Dio sia proponendo forme diverse di missionarietà, richieste dai nuovi tempi. Il risultato fu straordinario, come confermarono la ricaduta che l’evento ebbe in tutte le Chiese locali e la sua risonanza nell’opinione pubblica. Tanto che la Cei decise di ripetere l’esperienza ogni 10 anni[1].

Può sembrare strano che oggi, dopo il V Convegno (Firenze 2015), si torni a parlare soprattutto del primo di 40 anni fa. È in corso un ampio dibattito – avviato proprio de La Civiltà Cattolica con un articolo del suo direttore[2] – sull’opportunità o meno di un Sinodo della Chiesa italiana. E non è un caso che proprio all’interno di questa discussione ci si richiami esplicitamente al Convegno di Roma del 1976, più che agli altri che seguirono. Fa una certa impressione, per esempio, vedere mons. Domenico Pompili, vescovo di Rieti, rifarsi a quella prima esperienza: «Sento che [un eventuale Sinodo] potrebbe avere un effetto benefico anche come naturale evoluzione di quel lungo percorso che nella Chiesa italiana ha avuto avvio con il primo Convegno ecclesiale di Roma (1976). A più di 40 anni di distanza, la situazione è mutata, anzi complicata non poco: è quindi quanto mai urgente proseguire. Del resto, papa Francesco nel suo discorso al V Convegno ecclesiale di Firenze (2015) è stato esplicito: “Spetta a voi decidere: popolo e pastori insieme”. Come accadde a Roma nel primo Convegno “evangelizzazione e promozione umana”»[3].

Giustamente mons. Pompili ritiene che un eventuale Sinodo dovrà essere una «naturale evoluzione» del cammino iniziato nel 1976[4]. Il Convegno «Evangelizzazione e promozione umana», infatti, fu vissuto da tutti quelli che vi presero parte – vescovi e delegati diocesani – come una vera Pentecoste, come una chiamata dello Spirito Santo alla Chiesa italiana affinché affrontasse con maggior coraggio il rinnovamento suo e della sua pastorale. Per tutti i partecipanti quel Convegno fu un momento di grazia, e tale è rimasto nel loro ricordo.

La svolta iniziata dal Convegno del 1976 fu presto interrotta, in seguito alla morte di Paolo VI (6 agosto 1978), avvenuta poco dopo quella di mons. Bartoletti (5 marzo 1976). Ciò non toglie, però, che quello che Francesco ha definito un «probabile Sinodo» della Chiesa italiana dovrà, in ogni caso, rifarsi a quella prima forte esperienza[5].

Volendo dare anche noi un contributo al dibattito, preferiamo farlo sotto forma di testimonianza. Ci spingono, da un lato, il dovere di valorizzare pienamente l’esperienza del Convegno del 1976 e, dall’altro, l’importante discorso di papa Francesco a Firenze, il 10 novembre 2015, al V Convegno ecclesiale[6]: un discorso del quale la Chiesa italiana aveva estremo bisogno. E tuttavia lo stesso Pontefice, parlando il 9 maggio 2019 al Convegno della diocesi di Roma, ha detto al riguardo: «Sparito. È entrato nell’alambicco delle distillazioni intellettuali ed è finito senza forza, come un ricordo».

Roma 1976: un cammino interrotto

Perché le conclusioni del Convegno «Evangelizzazione e promozione umana» non ebbero il seguito che meritavano? Di per sé, i vescovi, nel documento ufficiale di valutazione di quell’evento ecclesiale, lo giudicarono molto positivamente e accolsero parecchie delle sue coraggiose conclusioni, compresa la tanto discussa «scelta religiosa», compiuta dall’Azione cattolica di Vittorio Bachelet e sostenuta da Pao­lo VI, con la fine del collateralismo tra Chiesa e Dc. Nello stesso tempo, però, i vescovi lasciarono cadere le due principali proposte del Convegno: l’introduzione nella Chiesa italiana dello «stile del con-venire» (come allora si chiamava la «sinodalità») e la nuova concezione di missionarietà, diversa dalla pastorale classica tradizionale[7].

La non accettazione di quelle due richieste divenne definitiva con il II Convegno ecclesiale (Loreto 1985). Ricordiamo che l’anno precedente c’era stata la XXIII Assemblea generale della Cei. Giovanni Pao­lo II, impegnato fuori Italia in un viaggio apostolico, non potendo essere presente, inviò una lettera all’Assemblea. Facendo il punto sull’imminente Convegno ecclesiale, scriveva testualmente: «Ci si dovrà preoccupare che sin dalle primissime fasi della preparazione e nella stessa composizione degli organi, ai quali essa verrà affidata, siano rispettate le esigenze della comunione, curando da un lato che l’Episcopato abbia il posto che gli compete per istituzione divina e, dall’altro, che ogni espressione delle molteplici realtà ecclesiali, in sintonia con le legittime Autorità, si trovi debitamente rappresentata»[8]. San Giovanni Paolo II preferiva la linea della «presenza» rispetto a quella della «mediazione culturale»; insisteva sulla Chiesa come «forza sociale», oltre che forza spirituale, e tornava a sottolineare la necessità dell’unità politica dei cattolici.

Si deve constatare che nei successivi quattro Convegni ecclesiali i laici non svolsero più quel ruolo di corresponsabilità che tanto proficuamente avevano esercitato durante il Convegno del 1976 applicando lo stile del «con-venire»[9]. Da Loreto a Firenze, i Convegni che seguirono furono visti piuttosto come l’occasione propizia per i vescovi di comunicare al popolo di Dio che è in Italia, con autorità – «occupando il posto che gli compete per istituzione divina» –, il programma pastorale per il successivo decennio, elaborato dalla Cei.

In secondo luogo, non venne adeguatamente recepita l’altra proposta principale di una nuova concezione di missionarietà, più adeguata ai tempi cambiati. Infatti, interpellato dalle tensioni e dalle speranze della società italiana, il Convegno non aveva esitato a denunciare l’impreparazione della Chiesa ad affrontare la crisi del Paese. Occorreva perciò ripensare il concetto stesso di missionarietà, fondandolo sulla nuova comprensione del nesso tra evangelizzazione e promozione umana messo in luce dal Concilio e dal progetto pastorale pluriennale della Cei degli anni Settanta su «Evangelizzazione e sacramenti». Non bastava più ammodernare i metodi pastorali tradizionali, ma era necessario un cambio di mentalità; occorreva una «conversione missionaria»: ripensare cioè non solo i metodi pastorali, ma l’annuncio stesso della fede nella società in evoluzione. Bisognava tornare al Vangelo, all’essenziale.

Oggi – si disse nel 1976 – non bastano più le dichiarazioni e i documenti ufficiali, né la riaffermazione di princìpi dottrinali generici e astratti; né basta più una pastorale difensiva, tesa soprattutto a garantire la sicurezza e la tranquillità della Chiesa, lasciando ad «altri» la pena e la responsabilità di immischiarsi nei problemi del Paese per risolverli. Come cittadini – ribadì con forza il Convegno – siamo tutti responsabili. Era necessario, quindi, affrontare anche il problema di una nuova forma di presenza dei cattolici nella vita sociale e politica.

Certo – si ripeté più volte – la Chiesa in quanto tale non compie opzioni di natura economica o politica, tuttavia partecipa in prima persona alla promozione umana, che è parte integrante ed essenziale dell’evangelizzazione. E lo fa sia giudicando e orientando le opzioni temporali alla luce della parola di Dio e del magistero (con la sua «dottrina sociale»), sia attraverso l’impegno politico diretto, laico e pluralistico, dei cattolici, non isolati, ma insieme con tutti gli altri cittadini di buona volontà[10]. Il Convegno del 1976 di fatto rimase una tappa isolata[11].

Firenze 2015: il cammino interrotto di nuovo

Si comprende, dunque, l’accoglienza positiva che in modo speciale gli eredi del Convegno del 1976 provarono ascoltando il discorso di papa Francesco a Firenze, il 10 novembre 2015. Esso fu recepito come un forte richiamo a tutta la Chiesa italiana perché con coraggio riprendesse il cammino interrotto.

Infatti, anche il Papa a Firenze insisté proprio sui due punti fondamentali – sinodalità e Chiesa in uscita missionaria – che avevano fatto difficoltà alla Cei dopo il Convegno «Evangelizzazione e promozione umana». Tuttavia, anche dopo il Convegno di Firenze quei due stessi punti sono risultati ancora una volta non facilmente digeribili. Eppure essi sono alla base stessa del programma dell’attuale pontificato, fin dalla prima Esortazione apostolica di Francesco, l’Evangelii gaudium.

Proprio per questo, a Firenze, la «sinodalità» era stata posta alla base del V Convegno ecclesiale, fin dalla sua preparazione: «Nell’Invito a Firenze, pubblicato dalla CEI l’11 ottobre 2013, era stato rivolto a tutte le Chiese d’Italia – da parte del Comitato preparatorio – “un cordiale appello a muoverci subito e insieme”, per realizzare, già mentre si procedeva verso l’appuntamento di Firenze, quel “convenire” comunitario che è “traduzione permanente del paradigma sinodale rappresentato dal Concilio”»[12]. Si era cercato, cioè, di dare fin dall’inizio un’impronta sinodale agli stessi lavori preparatori, tanto che papa Francesco nel suo discorso a Firenze ha potuto definire quel Convegno «un esempio di sinodalità». Purtroppo, neppure il Convegno fiorentino ha ancora prodotto l’effetto desiderato di riprendere il cammino interrotto, già proposto per la prima volta a Roma nel 1976[13].

La duplice esperienza del I e del V Convegno ecclesiale dimostra, dunque, quanto sia difficile superare le due tentazioni denunciate dal Papa a Firenze.

La prima tentazione è quella di riporre – ovviamente non a parole, ma nei fatti – la propria fiducia e sicurezza nelle strutture, nell’organizzazione, nella pianificazione perfetta elaborata a tavolino, finendo con legalizzare e burocratizzare la pastorale e col mortificarne ogni creatività. È la tentazione del pelagianesimo: credere che possiamo salvarci con i nostri soli sforzi.

La seconda è la tentazione di rifugiarsi nello spiritualismo intimistico e disincarnato, che porta la Chiesa all’autoreferenzialità, a ripiegarsi su se stessa, a preoccuparsi soprattutto dei suoi problemi interni, a chiudersi tra le mura del tempio, ossessionata dall’osservanza delle norme canoniche. Questo conduce a svalutare il servizio dei fratelli e a frenare gli slanci dell’amore per gli altri: «Ognuno pensi a salvare la propria anima!». È la tentazione dello gnosticismo, che riduce il cristianesimo a «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare» (Evangelii gaudium, n. 94).

Un Sinodo per l’Italia?

A questo punto, si pone necessariamente la questione se il Convegno ecclesiale nazionale sia davvero uno strumento adatto per stimolare la Chiesa italiana a compiere l’auspicato salto di qualità sulla via del rinnovamento conciliare, che da molto tempo attendiamo. Il problema, infatti, sta nel modo sbagliato con cui spesso si affrontano le gravi sfide di oggi, considerandole non come opportunità, ma come ostacoli all’evangelizzazione. «Oggi – ha sottolineato papa Francesco a Firenze – non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere. Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo»[14]. Se questo è vero – e come dubitarne? –, l’auspicato rinnovamento della Chiesa italiana può essere solo il frutto dei doni dello Spirito Santo. Un semplice Convegno ecclesiale nazionale non può bastare. Non sarà necessario, dunque, un Sinodo?

Per rendersene conto, è sufficiente una breve riflessione. I Convegni nazionali sono una forma originale di incontro ecclesiale, intermedia tra i Convegni di studio e il Sinodo. Ovviamente, i Convegni ecclesiali non sono finalizzati alla ricerca accademica, com’è proprio invece dei Convegni di studio, sebbene gli uni e gli altri si propongano sempre un tema centrale da affrontare. D’altro lato, i Convegni ecclesiali non sono neppure un Sinodo, sebbene usino criteri analoghi per garantire la rappresentanza di tutte le componenti.

In particolare, poi, il Sinodo ha una sua propria autorità teologica e disciplinare, e le sue conclusioni, regolarmente votate e approvate, assumono un valore vincolante. Ciò, invece, non accade con i Convegni ecclesiali, i quali hanno valore puramente consultivo, né prevedono votazioni o approvazione di documenti finali. Le loro conclusioni sono unicamente indicative e servono soprattutto a cogliere gli orientamenti e le tensioni che fermentano nella base ecclesiale. Non essendo né Incontri di studio, né un Sinodo, i Convegni ecclesiali hanno, tuttavia, una loro finalità specifica: quella di avviare nella Chiesa processi concreti di cambiamento di mentalità, di strutture e di vita.

È chiaro, dunque, che sarebbe del tutto insufficiente puntare sul prossimo VI Convegno del 2025, sperando che esso possa finalmente far riprendere alla Chiesa italiana il necessario cammino di rinnovamento. Perché non pensare piuttosto a un Sinodo e all’effusione di Spirito Santo che esso sempre comporta, e convocarlo al posto del prossimo VI Convegno ecclesiale? A favore di questa soluzione militano in particolare alcune gravi sfide, che non devono essere considerate ostacoli, ma opportunità di una nuova evangelizzazione.

Una difficile sfida da affrontare in un Sinodo sarebbe la crisi che oggi rischia di incrinare il rapporto di fede e di amore che lega strettamente la Chiesa italiana al Vescovo di Roma. Si tace su questo problema essenziale della vita ecclesiale. Possibile che la nostra comunità cristiana non sappia che cosa fare dinanzi agli attacchi, violenti e frequenti, contro papa Francesco, provenienti in gran parte dal suo stesso interno, che giungono persino all’assurda richiesta delle sue dimissioni? Quale iniziativa è necessario intraprendere, che coinvolga l’intero popolo di Dio? A poco servono le dichiarazioni formali di filiale attaccamento e adesione: c’è bisogno, piuttosto, di rassicurare i fedeli, con un atto ufficiale e solenne, che l’essenza evangelica del servizio petrino nella Chiesa rimane sempre immutata, anche se cambia il modo di esercitarlo, come fa papa Francesco. Non si può far finta che non esista nella Chiesa italiana il grave problema che i fedeli acquisiscano una fede più cosciente e matura nella missione del Successore di Pietro.

Un’altra difficile sfida – richiamata dal Papa anche a Firenze – meritevole di essere affrontata in un autorevole dibattito sinodale riguarda le implicazioni etiche e comportamentali dei fedeli, all’interno della crisi spirituale e culturale senza precedenti in cui si dibatte l’Italia. «La Chiesa – ha detto papa Francesco – sappia anche dare una risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della società comune. I credenti sono cittadini».

Ci chiediamo: quale intervento autorevole la Chiesa italiana potrà pronunciare, alla luce del Vangelo e del magistero, sul fatto che milioni di fedeli – non esclusi sacerdoti e consacrati – condividano, o quanto meno appoggino, concezioni antropologiche e politiche inconciliabili con la visione evangelica dell’uomo e della società[15]?

* * *

Abbiamo citato solo alcuni casi ed episodi che confermano e manifestano l’esistenza di sfide molto gravi per la Chiesa italiana. Tanti altri se ne potrebbero aggiungere. Non ce n’è forse abbastanza per un Sinodo? Ogni Sinodo, certamente, è un dono divino, più che una scelta umana. Non spetta però al Papa convocarlo, ma deve essere una decisione di tutto il popolo di Dio, vescovi e fedeli insieme. L’ha detto il Pontefice stesso a Firenze: «Ma allora che cosa dobbiamo fare, padre? – direte voi –. Che cosa ci sta chiedendo il Papa? Spetta a voi decidere: popolo e pastori insieme». Intanto si può iniziare subito con la preghiera. Il Sinodo, infatti, come ogni altro dono dello Spirito, va invocato, atteso e accolto in ginocchio.

 

[1].      Finora si sono tenuti cinque Convegni ecclesiali nazionali: a Roma (1976), Loreto (1985), Palermo (1995), Verona (2006), Firenze (2015).

[2].      Cfr A. Spadaro «I cristiani che fanno l’Italia», in Civ. Catt. 2019 I 250-252. Segnaliamo pure: Id., «Più ascolto e Spirito Santo contro l’hackeraggio delle coscienze», in Famiglia Cristiana, 2 giugno 2019, 21; Id., «Sinodo», in L’ Espresso, 28 luglio 2019, 7.

[3].      A. Monda, «Uno stile sinodale per l’Italia. Intervista al vescovo Domenico Pompili», in Oss. Rom., 3 febbraio 2019. Tra le varie riflessioni apparse successivamente su questa proposta ne segnaliamo solamente alcune: E. Bianchi, «Domande per la Chiesa», in Oss. Rom., 11 aprile 2019; G. Brunelli, «Il tempo di un sinodo nazionale», in Il Regno-Attualità, aprile 2019; E. Castellucci, «Viene un tempo di Sinodo, non certo di supplenza», in Avvenire, 17 febbraio 2019; M. Faggioli, «La Chiesa sinodale di papa Francesco è una scelta politica», in Famiglia Cristiana, 28 febbraio 2019; C. Lorefice, «Un Sinodo per l’Italia», in Corriere della Sera, 18 febbraio 2019; A. Monda, «La società italiana ha bisogno di una Chiesa vitale. Intervista a Giuseppe De Rita», in Oss. Rom., 21 maggio 2019.

[4].      Ho avuto il privilegio di vivere quell’evento ecclesiale in prima persona sia nella fase preparatoria (durata circa tre anni), sia nella sua celebrazione (30 ottobre – 4 novembre 1976). Infatti, mons. Enrico Bartoletti, segretario della Cei, mi chiamò a far parte del Consiglio di presidenza, per preparare e poi gestire il Convegno. Il Consiglio di presidenza era formato dal presidente, mons. Bartoletti, in rappresentanza dei vescovi, e da due vicepresidenti: il prof. Giuseppe Lazzati, rettore dell’Università Cattolica di Milano, in rappresentanza del laicato, e p. Bartolomeo Sorge, direttore de La Civiltà Cattolica, in rappresentanza del clero. Cfr Cei, Evangelizzazione e promozione umana. Atti del Convegno ecclesiale (Roma, 30 ottobre – 4 novembre 1976), Roma, Ave, 1977.

[5].      Ha detto Francesco il 20 maggio 2019, aprendo la 73a Assemblea generale della Cei: «Sulla sinodalità, anche nel contesto di un probabile Sinodo per la Chiesa italiana – ho sentito un “rumore” ultimamente su questo, è arrivato fino a Santa Marta! –, vi sono due direzioni: sinodalità dal basso in alto, ossia il dover curare l’esistenza e il buon funzionamento della Diocesi: i consigli, le parrocchie, il coinvolgimento dei laici… (cfr CIC 469-494) – incominciare dalle diocesi: non si può fare un grande sinodo senza andare alla base. Questo è il movimento dal basso in alto – e la valutazione del ruolo dei laici; e poi la sinodalità dall’alto in basso, in conformità al discorso che ho rivolto alla Chiesa italiana nel V Convegno Nazionale a Firenze, il 10 novembre 2015, che rimane ancora vigente e deve accompagnarci in questo cammino. Se qualcuno pensa di fare un sinodo sulla Chiesa italiana, si deve incominciare dal basso verso l’alto, e dall’alto verso il basso con il documento di Firenze. E questo prenderà tempo, ma si camminerà sul sicuro, non sulle idee».

[6].      Francesco, Discorso ai rappresentanti del V Convegno nazionale della Chiesa italiana, Firenze, 10 novembre 2015, in w2.vatican.va

[7].      Ecco il «voto finale» di «Evangelizzazione e promozione umana»: «Di fronte alla vastità dei problemi e alla loro complessità, risulta chiaro che la risposta pastorale della Chiesa italiana non può essere più affidata alla stesura di un documento fatta da alcuni esperti, né alla decisione dell’una o dell’altra componente del Popolo di Dio. Affinché la presa di coscienza maturata nella preparazione e nella celebrazione di questo Convegno nazionale non svanisca nel nulla o non resti frustrata, è necessario dar vita a strutture permanenti di consultazione e di collaborazione tra vescovi, rappresentanti delle varie componenti della comunità ecclesiale ed esperti provenienti da tutti i movimenti di ispirazione cristiana operanti in Italia. È urgente offrire  alla nostra comunità ecclesiale un luogo di incontro, di dialogo, di analisi e di iniziativa che, da un lato, traduca nei fatti il nesso inscindibile tra evangelizzazione e promozione umana, tanto efficacemente evidenziato dal Convegno, e, dall’altro, superi in radice l’impossibile divisione tra “Chiesa istituzionale” e “Chiesa reale” con la conseguente minaccia della costituzione in Italia di due Chiese parallele che non si incontrano più» (B. Sorge, «Una Chiesa in ricerca, in servizio, in crescita». Sintesi dei lavori del Convegno nazionale su «Evangelizzazione e promozione umana», in Civ. Catt. 1976 IV 438).

[8].      Giovanni Paolo II, s., «Messaggio alla XXIII Assemblea generale della CEI», nn. 3; 5, in Oss. Rom., 9 maggio 1984, in w2.vatican.va

[9].      Su questo «no» della Cei alla richiesta di dar vita a un organismo pastorale nazionale di dialogo tra i Pastori, i laici e le diverse componenti del popolo di Dio, cfr Consiglio permanente della Cei, Documento «Evangelizzazione e promozione umana» (1° maggio 1977), in Enchiridion CEI, Bologna, EDB, vol. 2, 957-974.

[10].    Cfr B. Sorge, «Una Chiesa in ricerca, in servizio, in crescita», cit., 423.

[11].    Sorse quindi spontaneamente, nella base della comunità ecclesiale, un ampio dibattito sulla «Ricomposizione dell’area cattolica», e qualche anno dopo si crea­rono e si moltiplicarono le «Scuole di formazione politica e sociale»: cfr B. Sorge, La «ricomposizione» dell’area cattolica in Italia, Roma, Città Nuova, 1979.

[12].    Citato in M. Naro, «Tentazioni antiche e sempre nuove: il discorso di Francesco al Convegno ecclesiale di Firenze», in Ricerche teologiche 28 (2017/1) 54. Lo stesso papa Francesco, un mese prima, aveva ribadito per l’ennesima volta in che cosa consista la sinodalità, commemorando il 50° del Sinodo dei Vescovi: «Una Chiesa sinodale – disse – è una Chiesa dell’ascolto»; «È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, collegio episcopale, vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo».

[13].    Scrive il teologo Massimo Naro: «Purtroppo, tutto ci si poteva attendere dopo il Convegno nazionale di Firenze, tranne che questo esercizio di sinodalità venisse interrotto quasi istituzionalmente, potremmo dire dall’alto, senza più riprenderne gli esiti se non sporadicamente, passandoli sotto silenzio, senza più ritrovarsi a riflettere e a progettare a partire da essi. In ogni caso, rimane l’invito di Francesco a “camminare insieme”, da lui ribadito in molte altre occasioni» (M. Naro, «Tentazioni antiche…», cit.).

[14].    Francesco, Discorso ai rappresentanti del V Convegno nazionale della Chiesa italiana, cit.

[15].    Più concretamente: che cosa dire e che cosa fare di fronte a chi estorce il consenso dei cittadini con la paura e con l’odio, nascondendosi dietro la maschera di una falsa religiosità? È un problema largamente sentito in Italia, a causa anche dell’attività criminale della mafia, ma non solo. Con la paura, con l’odio e con la parvenza di religiosità si riesce a irretire anche molti credenti – e perfino alcuni sacerdoti –, con gravissimo danno e pericolo per la convivenza civile. Il Papa ci è di esempio. Nello stesso giorno in cui un leader politico chiedeva in piazza i «pieni poteri», usciva su La Stampa un’intervista nella quale papa Francesco si diceva «preoccupato, perché si sentono discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel 1934. “Prima noi. Noi… noi”» (D. Agasso, «Papa Francesco: “Il sovranismo mi spaventa, porta alle guerre”», in La Stampa, 9 agosto 2019).