gli scarti umani segno di disumanizzazione di una società

gli ‘scartati’

la denuncia di papa Francesco

da Altranarrazione’

Il capitalismo genera esclusione e povertà concentrando la ricchezza nelle mani di pochi

introduzione:

La reificazione (vedi Marx e G. Lukacs) è una delle conseguenze più inquietanti del modo di produzione capitalistico. Non solo si determina lo spostamento di valore dalle persone alle cose ma i singoli stessi si valutano secondo parametri di utilità funzionale o produttiva.  Chi è in esubero secondo le esigenze del capitale, chi non può produrre o semplicemente non raggiunge risultati quantificabili in termini economici non serve e quindi può essere scartato. Questa visione antropologica, ad altissima capacità di propagazione, riduce e uccide. Fa leva sugli istinti peggiori quelli cioè che sembrano realizzare l’uomo ed invece lo deformano. Riuscire a far parte di un sistema lasciando morti e feriti dietro il proprio passaggio appaga solo il delirio di onnipotenza ed innesca un inarrestabile processo di svuotamento dei contenuti essenziali.

testo di papa Francesco:

…è inaccettabile, perché disumano, un sistema economico mondiale che scarta uomini, donne e bambini, per il fatto che questi sembrano non essere più utili secondo i criteri di redditività delle aziende o di altre organizzazioni. Proprio questo scarto delle persone costituisce il regresso e la disumanizzazione di qualsiasi sistema politico ed economico: coloro che causano o permettono lo scarto degli altri – rifugiati, bambini abusati o schiavizzati, poveri che muoiono per la strada quando fa freddo – diventano essi stessi come macchine senza anima, accettando implicitamente il principio che anche loro, prima o poi, verranno scartati – è un boomerang questo! Ma è la verità: prima o poi loro verranno scartati – quando non saranno più utili ad una società che ha messo al centro il dio denaro”.

(dal Discorso di Papa Francesco alla Delegazione della “Global Foundation“, 14/01/2017)

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il ‘sovranismo del dolore’ che ci rende ‘duri come sassi’ – un grido che provoca alla reazione

150 morti in mare, ma non ce ne frega niente

benvenuti nell’epoca del sovranismo del dolore

di Giulio Cavalli

Ci si indigna giustamente per la questione Rackete, ma ogni volta che muoiono i migranti pochi chilometri oltre le nostre acque territoriali nessuno dice nulla. Ecco come siamo diventati sovranisti del dolore

Ma che ce ne fotte dei centocinquanta che sono morti ieri su un barcone al largo delle coste libiche. Che poi, se ci pensate, centocinquanta è un numero arrotondato, più o meno all’incirca, perché quei morti lì si arrotondano come se fossero prosciutto al bancone della salumeria – “signora sono un etto e mezzo che faccio, lascio”? E che ce ne fotte di quegli altri centocinquanta che invece si sono salvati (forse, non si sa, si presume, come al solito) e sono state riportati in Libia dove se vengono ammazzati non vengono nemmeno contabilizzati, spariscono, semplicemente? Nulla, non ce ne fotte nulla.   

Chissà cosa ci si è conficcato nel cuore per insegnarci così bene a preoccuparci dei morti solo quando sono prossimi a noi, una sorta di sovranismo del dolore per cui se accade a più di qualche chilometro riusciamo a viverlo con la leggerezza di un safari. Chissà perché (giustamente) ci indigniamo per gli accaldati che stavano sulla nave di Carola Rackete e invece gli annegati riusciamo a scavalcarli come se fossero un semplice starnuto.  

Ci indigniamo per gli accaldati che stavano sulla nave di Carola Rackete e invece gli annegati riusciamo a scavalcarli come se fossero un semplice starnuto

Centocinquanta morti (se sono veramente centocinquanta) sarebbero la peggiore tragedia di quest’anno nel Mediterraneo, roba da pelle d’oca, roba che dovrebbe rizzare i capelli a tutti e invece finisce nelle colonnine dei giornali dove si discute delle inezie. I politici, pronti a salire su una nave attraccata, non riescono a vederci nessuna opportunità nel farsi fotografare mentre parlano di Libia: non tira, non funziona, non va.

E allora tutti a convergere su questo infeltrimento generale, tutti a restringersi un po’ in un nuovo sovranismo emozionale che ci impone di occuparsi solo delle cose più vicine, dei nostri figli, dei nostri parenti più prossimi, della nostra famiglia, al massimo dei nostri vicini, tutti ad accontentarsi che la nostra regione sia tranquilla, che ce ne fotte del Paese, che la nostra città sia potabile, che il nostro quartiere sia edibile, che il nostro condominio sia sereno o addirittura che il nostro pianerottolo non ci dia troppi pensieri. Tutti chiusi come isole, senza nemmeno bisogno del Mediterraneo intorno, che al massimo cozzano tra di loro per un secondo nel lavoro o nella quotidianità, si frastagliano, si usurano. Sarebbe da capire come sia successo che non riusciamo più a sentire un lutto oltre a una certa distanza: siamo noi i naufraghi, quelli che hanno bisogno di essere asciugati.

Centocinquanta morti (se sono veramente centocinquanta) sarebbero la peggiore tragedia di quest’anno nel Mediterraneo

Chissà quando riusciremo ad avere occhi per leggere i numeri, quei numeri che qui vengono violentati, anche loro, dalla propaganda che serve per rassicurare i biliosi in un gioco perverso che calpesta i cadaveri per aspirare voti: dice il ministro dell’interno (minuscolo) Matteo Salvini che quest’anno sono stati recuperati solo due corpi nel Mediterraneo, l’ha detto con un sorriso sardonico da Bruno Vespa che sardonico mimava un’intervista, e invece Missing Migrants (fonte ritenuta affidabile da tutta la comunità internazionale) parla di seicentoottantasei morti nel Mediterraneo – più centocinquanta, circa, quando saranno contabilizzati – 486 dei quali (più centocinquanta) nella rotta libica, alla faccia di chi racconta che senza le Ong non parte più nessuno. Alla faccia di chi pensa che bastino le spacconate di Salvini a fermare i fenomeni migratori. Chissà come abbiamo fatto a cedere alla propaganda che lucra sui morti come si rubano i soldi agli anziani distratti sull’uscio di casa.

Ma quei morti, no, non contano perché in fondo i morti che non arrivano cadaveri sulle nostre coste, che non vengono fotografati, in fondo sono morti che non lasciano macchie sul tappeto del nostro salotto e quindi si possono anche non contare. E non è questione solo di questo governo, no: rinchiudere i morti nel sacchetto dell’umido che chiamiamo Libia (e le sue coste e le sue porzioni di mare) è una pratica che funziona da anni qui da noi, dove ci illudiamo che i cadaveri conti o solo se ne sentiamo l’odore, ne vediamo gli occhi di vetro o ce ne commuoviamo mentre ci interrompono l’aperitivo vacanziero sulla spiaggia.

E continuiamo a scrivere di un mondo giusto ma non sappiamo nemmeno guardare un poi più in là del cancellino del nostro giardino

Chissà se in fondo il sovranismo non sia solo un provincialismo sentimentale che ci impedisce di vedere il mondo, il resto del mondo, e ci consente di rimanere tranquilli per i morti che possiamo mettere in carico agli altri, mica nostri.

Ieri sono morte (circa, che è una parola che taglia come una lama) centocinquanta persone e noi non abbiamo detto beh, concentrati com’eravamo sui capezzoli di Carola che sono avvenuti a casa nostra e quindi ferocemente ci riguardano. E continuiamo a scrivere di un mondo giusto ma non sappiamo nemmeno guardare un poi più in là del cancellino del nostro giardino. Beati noi che abbiamo imparato a disinfettarci dal dolore. Duri come sassi.

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il commento al vangelo della domenica

“padre nostro”

la preghiera che unisce terra e cielo


Padre Nostro, la preghiera che unisce terra e cielo
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della diciassettesima domenica del tempo ordinario (28 luglio 2019): 

Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”».

Signore insegnaci a pregare. Tutto prega nel mondo: gli alberi della foresta e i gigli del campo, monti e colline, fiumi e sorgenti, i cipressi sul colle e l’infinita pazienza della luce. Pregano senza parole: «ogni creatura prega cantando l’inno della sua esistenza, cantando il salmo della sua vita» (Conf. epis. giapponese).
I discepoli non domandano al maestro una preghiera o delle formule da ripetere, ne conoscevano già molte, avevano un salterio intero a fare da stella polare. Ma chiedono: insegnaci a stare davanti a Dio come stai tu, nelle tue notti di veglia, nelle tue cascate di gioia, con cuore adulto e fanciullo insieme. «Pregare è riattaccare la terra al cielo» (M. Zundel): insegnaci a riattaccarci a Dio, come si attacca la bocca alla sorgente.
Ed egli disse loro: quando pregate dite “padre”. Tutte le preghiere di Gesù che i Vangeli ci hanno tramandato iniziano con questo nome. È il nome della sorgente, parola degli inizi e dell’infanzia, il nome della vita. Pregare è dare del tu a Dio, chiamandolo “padre”, dicendogli “papà”, nella lingua dei bambini e non in quella dei rabbini, nel dialetto del cuore e non in quello degli scribi. È un Dio che sa di abbracci e di casa; un Dio affettuoso, vicino, caldo, da cui ricevere le poche cose indispensabili per vivere bene.
Santificato sia il tuo nome. Il tuo nome è “amore”. Che l’amore sia santificato sulla terra, da tutti, in tutto il mondo. Che l’amore santifichi la terra, trasformi e trasfiguri questa storia di idoli feroci o indifferenti.
Il tuo regno venga. Il tuo, quello dove i poveri sono principi e i bambini entrano per primi. E sia più bello di tutti i sogni, più intenso di tutte le lacrime di chi visse e morì nella notte per raggiungerlo.
Continua ogni giorno a donarci il pane nostro quotidiano. Siamo qui, insieme, tutti quotidianamente dipendenti dal cielo. Donaci un pane che sia “nostro” e non solo “mio”, pane condiviso, perché se uno è sazio e uno muore di fame, quello non è il tuo pane. E se il pane fragrante, che ci attende al centro della tavola, è troppo per noi, donaci buon seme per la nostra terra; e se un pane già pronto non è cosa da figli adulti, fornisci lievito buono per la dura pasta dei giorni.
E togli da noi i nostri peccati. Gettali via, lontano dal cuore. Abbraccia la nostra fragilità e noi, come te, abbracceremo l’imperfezione e la fragilità di tutti.
Non abbandonarci alla tentazione. Non lasciarci soli a salmodiare le nostre paure. Ma prendici per mano, e tiraci fuori da tutto ciò che fa male, da tutto ciò che pesa sul cuore e lo invecchia e lo stordisce.
Padre che ami, mostraci che amare è difendere ogni vita dalla morte, da ogni tipo di morte.

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