a Lucca il ‘museo della follia’

arte e follia

l’umanità nascosta

 il ‘Museo della Follia’ 

a Lucca

Già all’ingresso, dove la luce è soffusa e le pareti che ti circondano riflettono ombre inquietanti, capisci che non sarà una visita facile. La gentilezza e il fare cordiale e disponibile delle ragazze addette alla biglietteria non bastano ad attenuare le scariche di adrenalina che si impossessano di te. Nemmeno la garanzia che il curatore è il Prof. Sgarbi ti aiuta a pensare che percorrerai la via della Bellezza.

Visitare il Museo della Follia di Lucca è un’esperienza unica. Un tuffo nel mare scuro dell’oblio. La voglia di fuggire fuori all’aperto e quella morbosa di continuare la visita si fondono tra loro.  Ormai hai sollevato il sipario nero e sei dentro, appena all’inizio di un arco scenico angosciante. Forse sì, forse sei ancora in tempo a tornare indietro quando leggi il cartello “Entrate ma non cercate un percorso, l’unica via è lo smarrimento”. No! Non c’è più tempo perché altri visitatori sono dietro di te. Oramai è troppo tardi.  Così inizi a guardare, leggere, sentire di quello che è stato in un tempo non molto lontano, un vero e proprio processo di disumanizzazione.

All’ex Cavallerizza di Lucca il filo conduttore delle oltre duecento opere in mostra, dove è stata data particolare attenzione agli artisti toscani, è proprio il legame tra arte e follia. I turbamenti, le angosce, le ansie e le paure di artisti del calibro di Goya, Lega, Bacon, Mancini, Signorini, Pirandello, Ligabue si sono concretizzati diventando opere meravigliose. Come non condividere ciò che il Prof. Sgarbi afferma dicendo «La follia è una forma creativa insuperabile».

All’interno, oltre alle installazioni interattive e multimediali, si trovano anche oggetti e documenti recuperati nell’ex manicomio abbandonato di Teramo dove i malati vivevano in condizioni a dir poco aberranti.  Questi reperti narrano l’umiliazione e il dolore dell’alienazione. Le teche, illuminate ad arte, magistralmente riflettono ombre e intorno a te è il buio. Esse contengono decine e decine di penosi reperti. Lettere di protesta, camice di forza, farmaci con i loro contenitori, siringhe, disegni, giocattoli e tanti altri effetti personali dei pazienti che, scampati alla distruzione, testimoniano una infelice esistenza.

In una sala, al centro, simile a quello originale esposto, fa mostra di sé un gigantesco “apribocca” di legno. È posto in relazione al dipinto “L’adolescente” di Silvestro Lega dove la fanciulla sembra avere lo sguardo assente e distante dal mondo.

Spesso le teche sono circondate da pitture di un cromatismo tale che sovente ricorda le opere dei migliori impressionisti.

Toccanti e commoventi sono le foto/ritratto di novanta pazienti selezionati tra le diverse cartelle cliniche negli ex manicomi d’Italia.  Ci si arriva attraverso un corridoio a specchi dove la luce abbagliante disturba la vista ormai abituata al buio delle altre sale. Una composizione della griglia illuminata a neon di oltre ottanta metri di superfice. I volti raffigurati che esprimono gli innumerevoli atteggiamenti del malato mentale sembrano guardare il visitatore e chiedere aiuto, comprensione, pietà.

Negli spazi della mostra colpisce in maniera particolare la ricostruzione della stanza dello scrittore Mario Tobino, primario del manicomio di Maggiano dal 1942 al 1980. Tutto perfettamente in ordine. Le carte, la macchina Olivetti sul tavolo, il lettino, sono un vero e proprio tuffo nel passato. Questo spazio si può solo osservare come odierni testimoni di qualcosa che appare essenziale, monastico, ridotto, minimalista ma estremamente affascinante. Il ricordo tangibile un uomo che ha dedicato la maggior parte della sua vita alle sofferenze dei malati di mente.

Usciti fuori, dopo la visita, l’aria aperta suscita l’impressione di liberarsi da mille catene e di ritrovare sé stessi. Rimane la sensazione di essere sfuggiti a un girone infernale, dove in quei luoghi chiamati manicomi, carenti di mezzi, spesso gestiti da uomini di scarsa volontà e che assomigliavano molto più a dei lager che a dei luoghi di cura, ci si occupava del malato di mente disprezzandolo fino al punto di considerarlo lo scarto della società.

Via via che ci allontaniamo dal Museo si fa strada, però, la certezza che nel nostro breve peregrinaggio attraverso il dolore ci siamo anche avvicinati ad un altare dove questi individui, sporchi, indifesi, senza voce e senza diritti, nella loro infinita debolezza, non sono rifiuti ma persone e conservano come ogni altro essere umano la propria dignità diventando l’immagine stessa di Dio e della Fede.

Herman Hesse diceva ” Anche un orologio fermo segna l’ora esatta due volte al giorno”

Alessandro Orlando

 

(Il Museo della Follia è un progetto di Contemplazioni a cura di Vittorio Sgarbi. Autori: Cesare Inzerillo, Sara Pallavicini, Giovanni Lettini, Stefano Morelli. La mostra itinerante che ha già toccato molte città italiane rimarrà aperta fino al 18 agosto 2019)

le foto sono state gentilmente concesse da Maurizio Gori

image_pdfimage_print

il Messaggio del Papa per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2019

papa Francesco sui migranti

il motto dei veri cristiani è

«prima gli ultimi»


Il Messaggio di papa Francesco per la ‘giornata mondiale del migrante e del rifugiato’ del 2019, che si celebrerà il prossimo 29 settembre, sul tema
“Non si tratta solo di migranti”

Foro Osservatore Romano

 il testo del Messaggio del Papa per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2019, che si celebrerà in prossimo 29 settembre

Cari fratelli e sorelle,

la fede ci assicura che il Regno di Dio è già presente sulla terra in modo misterioso (cfr CONC. ECUM. VAT. II, Cost. Gaudium et spes, 39); tuttavia, anche ai nostri giorni, dobbiamo con dolore constatare che esso incontra ostacoli e forze contrarie. Conflitti violenti e vere e proprie guerre non cessano di lacerare l’umanità; ingiustizie e discriminazioni si susseguono; si stenta a superare gli squilibri economici e sociali, su scala locale o globale. E a fare le spese di tutto questo sono soprattutto i più poveri e svantaggiati.

Le società economicamente più avanzate sviluppano al proprio interno la tendenza a un accentuato individualismo che, unito alla mentalità utilitaristica e moltiplicato dalla rete mediatica, produce la “globalizzazione dell’indifferenza”. In questo scenario, i migranti, i rifugiati, gli sfollati e le vittime della tratta sono diventati emblema dell’esclusione perché, oltre ai disagi che la loro condizione di per sé comporta, sono spesso caricati di un giudizio negativo che li considera come causa dei mali sociali. L’atteggiamento nei loro confronti rappresenta un campanello di allarme che avvisa del declino morale a cui si va incontro se si continua a concedere terreno alla cultura dello scarto. Infatti, su questa via, ogni soggetto che non rientra nei canoni del benessere fisico, psichico e sociale diventa a rischio di emarginazione e di esclusione.

Per questo, la presenza dei migranti e dei rifugiati – come, in generale, delle persone vulnerabili – rappresenta oggi un invito a recuperare alcune dimensioni essenziali della nostra esistenza cristiana e della nostra umanità, che rischiano di assopirsi in un tenore di vita ricco di comodità. Ecco perché “non si tratta solo di migranti”, vale a dire: interessandoci di loro ci interessiamo anche di noi, di tutti; prendendoci cura di loro, cresciamo tutti; ascoltando loro, diamo voce anche a quella parte di noi che forse teniamo nascosta perché oggi non è ben vista.

«Coraggio, sono io, non abbiate paura!» (Mt 14,27). Non si tratta solo di migranti: si tratta anche delle nostre paure. Le cattiverie e le brutture del nostro tempo accrescono «il nostro timore verso gli “altri”, gli sconosciuti, gli emarginati, i forestieri […]. E questo si nota particolarmente oggi, di fronte all’arrivo di migranti e rifugiati che bussano alla nostra porta in cerca di protezione, di sicurezza e di un futuro migliore. È vero, il timore è legittimo, anche perché manca la preparazione a questo incontro» (Omelia, Sacrofano, 15 febbraio 2019). Il problema non è il fatto di avere dubbi e timori. Il problema è quando questi condizionano il nostro modo di pensare e di agire al punto da renderci intolleranti, chiusi, forse anche – senza accorgercene – razzisti. E così la paura ci priva del desiderio e della capacità di incontrare l’altro, la persona diversa da me; mi priva di un’occasione di incontro col Signore (cfr Omelia nella Messa per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, 14 gennaio 2018).

«Se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?» (Mt 5,46). Non si tratta solo di migranti: si tratta della carità. Attraverso le opere di carità dimostriamo la nostra fede (cfr Gc 2,18). E la carità più alta è quella che si esercita verso chi non è in grado di ricambiare e forse nemmeno di ringraziare. «Ciò che è in gioco è il volto che vogliamo darci come società e il valore di ogni vita. […] Il progresso dei nostri popoli […] dipende soprattutto dalla capacità di lasciarsi smuovere e commuovere da chi bussa alla porta e col suo sguardo scredita ed esautora tutti i falsi idoli che ipotecano e schiavizzano la vita; idoli che promettono una felicità illusoria ed effimera, costruita al margine della realtà e della sofferenza degli altri» (Discorso presso la Caritas Diocesana di Rabat, 30 marzo 2019).

«Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione» (Lc 10,33). Non si tratta solo di migranti: si tratta della nostra umanità. Ciò che spinge quel Samaritano – uno straniero rispetto ai giudei – a fermarsi è la compassione, un sentimento che non si spiega solo a livello razionale. La compassione tocca le corde più sensibili della nostra umanità, provocando un’impellente spinta a “farsi prossimo” di chi vediamo in difficoltà. Come Gesù stesso ci insegna (cfr Mt 9,35-36; 14,13-14; 15,32-37), avere compassione significa riconoscere la sofferenza dell’altro e passare subito all’azione per lenire, curare e salvare. Avere compassione significa dare spazio alla tenerezza, che invece la società odierna tante volte ci chiede di reprimere. «Aprirsi agli altri non impoverisce, ma arricchisce, perché aiuta ad essere più umani: a riconoscersi parte attiva di un insieme più grande e a interpretare la vita come un dono per gli altri; a vedere come traguardo non i propri interessi, ma il bene dell’umanità» (Discorso nella Moschea “Heydar Aliyev”di Baku, Azerbaijan, 2 ottobre 2016).

«Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli» (Mt 18,10). Non si tratta solo di migranti: si tratta di non escludere nessuno. Il mondo odierno è ogni giorno più elitista e crudele con gli esclusi. I Paesi in via di sviluppo continuano ad essere depauperati delle loro migliori risorse naturali e umane a beneficio di pochi mercati privilegiati. Le guerre interessano solo alcune regioni del mondo, ma le armi per farle vengono prodotte e vendute in altre regioni, le quali poi non vogliono farsi carico dei rifugiati prodotti da tali conflitti. Chi ne fa le spese sono sempre i piccoli, i poveri, i più vulnerabili, ai quali si impedisce di sedersi a tavola e si lasciano le “briciole” del banchetto (cfr Lc 16,19-21). «La Chiesa “in uscita” […] sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 24). Lo sviluppo esclusivista rende i ricchi più ricchi e i poveri più poveri. Lo sviluppo vero è quello che si propone di includere tutti gli uomini e le donne del mondo, promuovendo la loro crescita integrale, e si preoccupa anche delle generazioni future.

«Chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (Mc 10,43-44). Non si tratta solo di migranti: si tratta di mettere gli ultimi al primo posto. Gesù Cristo ci chiede di non cedere alla logica del mondo, che giustifica la prevaricazione sugli altri per il mio tornaconto personale o quello del mio gruppo: prima io e poi gli altri! Invece il vero motto del cristiano è “prima gli ultimi!”. «Uno spirito individualista è terreno fertile per il maturare di quel senso di indifferenza verso il prossimo, che porta a trattarlo come mero oggetto di compravendita, che spinge a disinteressarsi dell’umanità degli altri e finisce per rendere le persone pavide e ciniche. Non sono forse questi i sentimenti che spesso abbiamo di fronte ai poveri, agli emarginati, agli ultimi della società? E quanti ultimi abbiamo nelle nostre società! Tra questi, penso soprattutto ai migranti, con il loro carico di difficoltà e sofferenze, che affrontano ogni giorno nella ricerca, talvolta disperata, di un luogo ove vivere in pace e con dignità» (Discorso al Corpo Diplomatico, 11 gennaio 2016). Nella logica del Vangelo gli ultimi vengono prima, e noi dobbiamo metterci a loro servizio.

«Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Non si tratta solo di migranti: si tratta di tutta la persona, di tutte le persone. In questa affermazione di Gesù troviamo il cuore della sua missione: far sì che tutti ricevano il dono della vita in pienezza, secondo la volontà del Padre. In ogni attività politica, in ogni programma, in ogni azione pastorale dobbiamo sempre mettere al centro la persona, nelle sue molteplici dimensioni, compresa quella spirituale. E questo vale per tutte le persone, alle quali va riconosciuta la fondamentale uguaglianza. Pertanto, «lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (S. PAOLO VI, Enc. Populorum progressio, 14).

«Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,19). Non si tratta solo di migranti: si tratta di costruire la città di Dio e dell’uomo. In questa nostra epoca, chiamata anche l’era delle migrazioni, sono molte le persone innocenti che cadono vittime del “grande inganno” dello sviluppo tecnologico e consumistico senza limiti (cfr Enc. Laudato si’, 34). E così si mettono in viaggio verso un “paradiso” che inesorabilmente tradisce le loro aspettative. La loro presenza, a volte scomoda, contribuisce a sfatare i miti di un progresso riservato a pochi, ma costruito sullo sfruttamento di molti. «Si tratta, allora, di vedere noi per primi e di aiutare gli altri a vedere nel migrante e nel rifugiato non solo un problema da affrontare, ma un fratello e una sorella da accogliere, rispettare e amare, un’occasione che la Provvidenza ci offre per contribuire alla costruzione di una società più giusta, una democrazia più compiuta, un Paese più solidale, un mondo più fraterno e una comunità cristiana più aperta, secondo il Vangelo» (Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2014).

Cari fratelli e sorelle, la risposta alla sfida posta dalle migrazioni contemporanee si può riassumere in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Ma questi verbi non valgono solo per i migranti e i rifugiati. Essi esprimono la missione della Chiesa verso tutti gli abitanti delle periferie esistenziali, che devono essere accolti, protetti, promossi e integrati. Se mettiamo in pratica questi verbi, contribuiamo a costruire la città di Dio e dell’uomo, promuoviamo lo sviluppo umano integrale di tutte le persone e aiutiamo anche la comunità mondiale ad avvicinarsi agli obiettivi di sviluppo sostenibile che si è data e che, altrimenti, saranno difficilmente raggiunti.

Dunque, non è in gioco solo la causa dei migranti, non è solo di loro che si tratta, ma di tutti noi, del presente e del futuro della famiglia umana. I migranti, e specialmente quelli più vulnerabili, ci aiutano a leggere i “segni dei tempi”. Attraverso di loro il Signore ci chiama a una conversione, a liberarci dagli esclusivismi, dall’indifferenza e dalla cultura dello scarto. Attraverso di loro il Signore ci invita a riappropriarci della nostra vita cristiana nella sua interezza e a contribuire, ciascuno secondo la propria vocazione, alla costruzione di un mondo sempre più rispondente al progetto di Dio.

È questo l’auspicio che accompagno con la preghiera invocando, per intercessione della Vergine Maria, Madonna della Strada, abbondanti benedizioni su tutti i migranti e i rifugiati del mondo e su coloro che si fanno loro compagni di viaggio.

image_pdfimage_print

“prima gli ultimi!! – per papa Francesco gli ‘ultimi’ vengono prima!

papa Francesco contro il motto
prima gli italiani’
i cristiani dicono

prima gli ultimi’

per papa Francesco il trattamento riservato ai migranti sempre più spesso “rappresenta un campanello di allarme che avvisa del declino morale a cui si va incontro se si continua a concedere terreno alla cultura dello scarto”


Nel giorno del trionfo della Lega di Matteo Salvini alle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo Papa Francesco ha nuovamente lanciato un allarme riferendosi al modo in cui vengono trattati migranti e richiedenti asilo. Per il Pontefice il trattamento riservato loro sempre più spesso “rappresenta un campanello di allarme che avvisa del declino morale a cui si va incontro se si continua a concedere terreno alla cultura dello scarto”. “Non si tratta solo di migranti; su questa via – spiega Bergoglio -, ogni soggetto che non rientra nei canoni del benessere fisico, psichico e sociale diventa a rischio di emarginazione e di esclusione”.  Per questa ragione secondo Francesco “la presenza dei migranti e dei rifugiati – come, in generale, delle persone vulnerabili – rappresenta oggi un invito a recuperare alcune dimensioni essenziali della nostra esistenza cristiana e della nostra umanità, che rischiano di assopirsi in un tenore di vita ricco di comodità”.

Nel messaggio dedicato alla  Giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2019, che si celebrerà in prossimo 29 settembre, il Papa ha scritto: 

“Conflitti violenti e vere e proprie guerre non cessano di lacerare l’umanità; ingiustizie e discriminazioni si susseguono; si stenta a superare gli squilibri economici e sociali, su scala locale o globale. E a fare le spese di tutto questo sono soprattutto i più poveri e svantaggiati”. “Le società economicamente più avanzate – aggiunge – sviluppano al proprio interno la tendenza a un accentuato individualismo che, unito alla mentalità utilitaristica e moltiplicato dalla rete mediatica, produce la ‘globalizzazione dell’indifferenza”.

Secondo Bergoglio “il timore è legittimo, anche perché manca la preparazione a questo incontro”. “Il problema è quando dubbi e timori condizionano il nostro modo di pensare e di agire al punto da renderci intolleranti, chiusi, forse anche – senza accorgercene – razzisti. E così la paura ci priva del desiderio e della capacità di incontrare l’altro, la persona diversa da me; mi priva di un’occasione di incontro col Signore”.
Per finire a chi si fa schermo dell’identità cristiana, ricorda che “la fede si dimostra con le opere di carità verso gli ultimi, anche stranieri” e che per un cristiano è contraddittorio affermare “prima io e il mio gruppo” perché nella logica di Cristo e del Vangelo “gli ultimi vengono prima”
image_pdfimage_print

il commento al vangelo della domenica


 “lo Spirito santo, il Consolatore, vi insegnerà ogni cosa” 
il commento di E. Bianchi al vangelo della sesta domenica di pasqua (26 maggio 2019):

Gv 14,23-29

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore.Avete udito che vi ho detto: «Vado e tornerò da voi». Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate.

In questo tempo pasquale la chiesa continua a offrirci i “discorsi di addio” di Gesù (cf. Gv 13,31-16,33), collocati nell’ultima cena ma da intendersi quali parole di Gesù glorificato, del Signore risorto e vivente che si rivolge alla sua comunità aprendole gli occhi sul suo presente nella storia, una volta avvenuto il suo esodo da questo mondo al Padre (cf. Gv 13,1).

In quel contesto di ultimo incontro tra Gesù e i suoi, alcuni discepoli gli pongono delle domande: Pietro innanzitutto (cf. Gv 13,36-37), poi Tommaso (cf. Gv 14,5), infine Giuda, non l’Iscariota. Costui gli chiede: “Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?” (Gv 14,22). È una domanda che deve aver causato anche sofferenza nei discepoli: dopo quell’avventura vissuta insieme a Gesù per anni, egli se ne va e sembra che nulla sia veramente cambiato nella vita del mondo… Una piccola e sparuta comunità ha compreso qualcosa perché Gesù si è manifestato a essa, ma gli altri non hanno visto e non vedono nulla. A cosa si riduce dunque la venuta del Figlio dell’uomo sulla terra, la sua vita in attesa del regno di Dio imminente che egli proclamava?

Gesù allora risponde: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”. Ecco perché Gesù non si manifesta al mondo che non crede in lui, che gli è ostile perché non riesce ad amarlo: per avere la manifestazione di Gesù occorre amarlo! Ogni volta che si leggono queste parole, si è turbati in profondità: Gesù, figlio di Maria e di Giuseppe, uomo come noi, non ci chiede solo di essere suoi discepoli, di osservare il suo insegnamento, ma anche di amarlo, perché amandolo si compie ciò che lui vuole e facendo ciò che lui vuole lo si ama. In ogni caso, qui l’amore viene definito necessario per la relazione con Gesù. Amare è una parola impegnativa, eppure Gesù la utilizza, leggendo la relazione con il discepolo non solo nella fede, nell’obbedienza all’insegnamento, nella sequela, ma anche nell’amore.

Più in profondità, Gesù precisa che chi lo ama, nell’amore per lui resterà fedele alla sua parola – riassunta per il quarto vangelo nel “comandamento nuovo”, “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 13,34; 15,12) – , sarà amato dal Padre, così che il Padre e il Figlio verranno a mettere dimora presso di lui: inabitazione di Dio in chi ama Gesù! Se manca l’amore, invece, non ci sarà riconoscimento di questa presenza quando Gesù sarà “assente”; dopo la sua vicenda terrena, infatti, una volta salito presso il Padre (cf. Gv 20,17), Gesù sarà assente, e tuttavia, se l’amore resta, egli sarà presente nel suo discepolo. Di fronte a queste parole la nostra comprensione vacilla, ma ci può venire in soccorso l’esperienza vissuta in una relazione di amore, quando l’amato/a è assente eppure noi facciamo una certa esperienza della sua presenza in noi, nell’attesa che ritorni e con la sua presenza faccia a faccia rinnovi la relazione d’amore e la riempia.

Questa è un’esperienza dell’assente che possono conoscere solo gli amanti, e Gesù la promette indicandola però nello spazio della fedeltà alla sua parola, della realizzazione dei suoi comandi. Per questo specifica che la sua parola, quella data ai discepoli e alle folle in tutta la sua vita, non era parola sua, ma parola di Dio, del Padre che lo aveva inviato nel mondo. Questa parola ormai consegnata ai credenti, che rimane per sempre, è capace di far sentire la presenza di Gesù quando la parola stessa sarà letta, meditata, ascoltata e realizzata dal cristiano; sarà un segno, un sacramento efficace, che genera la Presenza del Signore. Gesù non è più tra di noi con la sua presenza fisica, in quanto glorificato, risuscitato dallo Spirito e vivente presso il Padre; ma la sua parola, conservata nella chiesa, lo rende vivente nell’assemblea che lo ascolta, Presenza divina che fa di ogni ascoltatore la dimora di Dio. Quella “Parola (Lógos)” che “si è fatta carne (sárx)” (Gv 1,14) in Gesù di Nazaret si è fatta voce (phoné) e quindi lógos, parola degli umani, e in ogni credente si fa Presenza di Dio (Shekinah), si fa carne (sárx) umana del credente, continuando a dimorare nel mondo (cf. Gv 17,18).

E di tutta questa dinamica di presenza è assolutamente artefice lo Spirito di Dio che è anche lo Spirito di Cristo. È l’altro Inviato dal Padre,

è l’altro Maestro inviato dal Padre,

è l’altro Consolatore inviato dal Padre.

Gesù sale al Padre e lo Spirito santo, che era suo “compagno inseparabile” (Basilio di Cesarea), da Cristo scende su tutti i credenti come un Paraclito, chiamato accanto quale difensore e consolatore; sarà proprio lui a insegnare ogni cosa, facendo ricordare tutte le parole di Gesù e, nel contempo, rinnovandole nell’oggi della chiesa. C’è una sola differenza tra Gesù e il Consolatore: Gesù parlava di fronte ai discepoli che lo ascoltavano, mentre il Consolatore, che con il Figlio e il Padre viene ad abitare nel credente, parla come un “maestro interiore”, con più forza, potremmo dire… Non siamo orfani, non siamo stati lasciati soli da Gesù, e quel Dio che dovevamo scoprire fuori di noi, davanti a noi, ora dobbiamo scoprirlo in noi come presenza che ha messo in noi la sua tenda, la sua dimora.

Certo, nell’andarsene Gesù vede la sua opera, quella che umanamente ha realizzato in obbedienza al Padre, “incompiuta”, perché i discepoli non capiscono ancora, perché la verità nella sua pienezza non è ancora rivelabile e lui stesso avrebbe ancora molti insegnamenti da dare, molte cose da rivelare… Eppure ecco che Gesù ci insegna l’arte di “lasciare la presa”: se ne va senza ansia per la sua comunità e per il suo destino, ma anzi con la fiducia che c’è lo Spirito, il Consolatore e Difensore,

il quale agirà nella comunità da lui lasciata;
insegnerà molte cose necessarie e che egli stesso, Gesù, si era inibito di insegnare
perché la comunità non era pronta a recepirle e a comprenderle;
e soprattutto darà ai discepoli grande forza e tanti doni che essi non possedevano.

“Lo Spirito santo vi insegnerà ogni cosa e vi farà ricordare tutto ciò che io vi ho detto”: promessa, questa, che vediamo realizzata nella vita della chiesa e nella nostra vita, nelle nostre storie. Oggi il Vangelo lo comprendiamo più di ieri, più di mille anni fa. Per la salvezza degli uomini e delle donne di ieri era sufficiente quella comprensione, ma per noi oggi è necessaria un’altra comprensione, dovuta alla “corsa” del Vangelo nella storia (cf. 2Ts 3,1), perché in essa il Vangelo si dilata e la chiesa lo approfondisce, lo comprende meglio e di più. La fede dei grandi padri della chiesa è ancora la fede della chiesa di oggi, ma molto più approfondita. Il Vangelo letto al concilio di Trento è lo stesso Vangelo letto da noi oggi, ma oggi lo comprendiamo meglio, come affermava papa Giovanni. Siamo nel tempo in cui lo Spirito santo, che è sempre Spirito del Padre, procedendo da lui, ma anche Spirito del Figlio, perché suo “compagno inseparabile”, è presente nelle vie della chiesa e agisce quando essa lo invoca e gli obbedisce.

Così nella chiesa c’è la pace, lo shalom, la vita piena lasciata da Gesù, non la pace mondana, ma una pace sorretta dalla speranza, perché Gesù ha detto ancora: “Me ne vado, ma ritornerò a voi!”. “Se n’è andato il nostro pastore”, abbiamo cantato nel responsorio del sabato santo; ma in questo tempo pasquale che dura fino al giorno del Signore possiamo cantare: “Ecco, ritorna il nostro Pastore”, perché viene a noi ogni giorno in questa discesa del Padre e del Figlio nella forza syn-kata-batica, ac-con-discendente, dello Spirito santo. Viene con la Parola, fedelmente; viene con gli eventi della storia nei quali, al di là delle evidenze, è sempre operante; viene nella nostra carne che fatica e lotta, ma per essere trasfigurata dalla sua gloriosa venuta.

Ma noi amiamo Gesù? Secondo le sue affermazioni ascoltate e interpretate, infatti, se non lo amiamo, non siamo capaci di restare fedeli alla sua parola. Se invece viviamo tale amore e tale obbedienza al Signore, la sua vita diventa la nostra vita.

image_pdfimage_print

il fondamentalismo è anche tra noi – intervista a Timothy Radcliffe

 “anche i populismi sono una forma di fondamentalismo”

 

intervista con il teologo e biblista Timothy Radcliffe
Timothy Radcliffe
Chi è attratto da un fondamentalismo non riesce a confrontarsi con la complessità della vita
È il pensiero di Timothy Radcliffe, teologo e biblista di Oxford, uno degli autori cattolici più letti al mondo, che al Salone internazionale del Libro di Torino ha riflettuto sul tema «Credere al tempo dei fondamentalismi», politici e religiosi. Tra i quali inserisce anche i populismi.

Padre, quali rischi portano?

«L’incapacità di dialogare con le persone che pensano in modo diverso. Questo può portare un individuo a rinchiudersi in una bolla mentale. E tutto ciò viene aggravato dai moderni mezzi di comunicazione: gli algoritmi ci spingono a essere in contatto con individui che condividono i nostri pregiudizi e paure».

Chi si fa attrarre?

«Coloro che hanno difficoltà a confrontarsi con le ambiguità, la ricchezza e la complessità della vita. E la crescita del populismo – che è una forma di fondamentalismo – attira chi si sente lasciato indietro».

Ci fa qualche esempio?

«Negli Usa a votare Trump sono state molte persone bianche escluse dalle élite che dominano la politica e i mass media. La stessa cosa è avvenuta con la Brexit in Gran Bretagna. I gilet gialli in Francia esprimono un desiderio di visibilità e dicono: “Guardatemi! Esisto!”. Questa rabbia di non essere presi in considerazione finisce con l’attirare anche i detenuti che si convertono all’islam e poi si arruolano nell’Isis».

Che ruolo ha il cristianesimo?

«Ha una risposta arguta e sottile al desiderio di identità, uno dei primi elementi efficaci del fondamentalismo. Se sei cattolico, sai chi sei. Appartieni a una comunità definita con le sue proprie tradizioni. Ma attenzione: ti viene anche insegnato che non sai pienamente chi sei. L’apostolo san Giovanni scrive: “Noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”».

A livello laico quale atteggiamento serve?

«Riconoscere la rabbia e la frustrazione di chi si sente marginalizzato».

Basterebbe questo?

«No. Occorre anche smontare gli assunti di base di ogni forma di fondamentalismo, e avere la forza per sfidare ogni risposta populista alle sofferenze di chi è messo da parte».

Che cosa devono fare i cristiani?

«La Chiesa ha qualcosa di meraviglioso da offrire. Siamo parte di un’organizzazione locale, conosciamo il dolore della gente. Pensiamo a papa Francesco quando era arcivescovo di Buenos Aires: era immerso nella vita delle baraccopoli. Ma al contempo la Chiesa è anche l’istituzione più globale che esista, presente in ogni nazione. Per questo lo straniero è mio fratello. E Dio di solito visita le persone come uno straniero. Dobbiamo essere aperti alla presenza di Dio negli stranieri».

Questo articolo è stato pubblicato nell’edizione del 12 maggio 2019 del quotidiano La Stampa

image_pdfimage_print

papa Francesco contro Casa Pound … e Salvini

il papa riceve i rom di Casal Bruciato

«quel che è successo non è civiltà»

di Maria Rosaria Spadaccino
in “Corriere della Sera

«Quando leggo sui giornali qualcosa di brutto vi dico la verità: soffro. Oggi ho letto qualcosa di brutto e soffro perché questa non è civiltà, non è civiltà»

Sedana si fa il segno della croce quando papa Francesco arriva sull’altare di san Giovanni in Laterano durante l’assemblea diocesana. Nascosta dietro la prima navata, con Violetta la piccola di 3 anni tra le braccia, sorride emozionata. Imer Omerovic e la moglie Sedana, bosniaci musulmani, prima attendono tra la gente, poi raggiungono la sacrestia dove incontrano il Papa.

Francesco scherza con la bimba, li invita a chiedere aiuto alla Chiesa per qualunque cosa, si fa raccontare la loro storia. «Dovete resistere», li esorta. In questo modo manifesta il suo affetto alla famiglia vittima di minacce ed insulti razzisti, perché assegnatari legittimi di una casa popolare a Casal Bruciato. «Quando leggo sui giornali qualcosa di brutto vi dico la verità: soffro. Oggi ho letto qualcosa di brutto e soffro perché questa non è civiltà, non è civiltà». Le parole del Papa pronunciate ieri mattina in Vaticano durante l’incontro con il popolo rom sono una consolazione potente per chi da 4 giorni vive blindato nella casa che era il sogno di una vita. Ieri, in un primo momento, si era diffusa la voce che gli Omerovic spaventati avrebbero manifestato l’intenzione di andarsene, poi questa idea sarebbe cambiata nel corso della giornata. «Sono certo turbati e molto stanchi, ma vogliono provare davvero a cambiare vita. E questa casa è una grande opportunità», osserva Patrizia, l’operatrice sociale che li sta aiutando.

Ma le tensioni di questi giorni non si sono ancora dissolte come testimoniano ieri a Casal Bruciato le molte bandiere tricolori appese alle finestre (distribuite da CasaPound). Intanto dalle indagini sarebbero stati già denunciati gli autori, militanti di estrema destra, delle minacce di stupro alla madre della famiglia rom. Ma la vita per gli Omerovic è sempre complessa. Per uscire di casa e raggiungere la basilica di San Giovanni infatti sono stati scortati dalla polizia. Sul fronte politico la sindaca Virginia Raggi rivendica con forza la vicinanza ai rom: «Un sindaco deve stare vicino agli ultimi». E il vicepremier Luigi Di Maio precisa: «È giusto dare la massima solidarietà a una donna che viene minacciata di stupro da CasaPound o da fascisti».

Ma nella trasmissione «Dritto e Rovescio» aggiunge: «Però dobbiamo rivedere le norme che fanno arrabbiare le persone. Per evitare episodi come questo». Mentre il premier Giuseppe Conte aggiunge: «La legge va applicata». E il segretario del Pd Nicola Zingaretti annuncia la riapertura della sezione del partito a Casal Bruciato: «Bisogna starci 365 giorni l’anno, tornare nei luoghi dove la vita, se non ci sono politica e servizi, può provocare questi istinti

image_pdfimage_print

il commento al vangelo della domenica


 la mano di Cristo, il pastore buono 
il commento di E. Bianchi al vangelo della quarta domenica di pasqua (12 maggio 2019):

Gv 10,27-30

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre.
Io e il Padre siamo una cosa sola».

Il capitolo 10 del vangelo secondo Giovanni contiene una lunga discussione tra Gesù e alcuni farisei che egli dichiara in una situazione di peccato, perché credono e dicono di vedere mentre in realtà non vedono e non operano un discernimento circa l’identità di Gesù e la qualità della sua azione (cf. Gv 9,40-41).

Con una parabola Gesù cercare di rivelare loro come egli non sia un ladro ma sia il pastore che entra ed esce attraverso la porta dell’ovile, non in incognito, il pastore che cammina davanti a pecore le quali lo seguono perché riconoscono la sua voce. La parabola però non viene compresa e allora Gesù fa dichiarazioni esplicite su di sé e sulla propria missione: è lui la porta dell’ovile; è lui il pastore buono che, pur di custodire le pecore, è disposto a dare la sua vita, perché ha la capacità di dare la vita per le pecore e di riceverla di nuovo dal Padre (cf. Gv 10,17). Queste parole creano divisione tra quanti lo ascoltano: alcuni lo giudicano indemoniato, altri riconoscono il suo operare carico di salvezza (cf. Gv 10,19-21).

In quei giorni “ricorreva a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno. Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone. Allora i capi dei giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: ‘Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente’” (Gv 10,22-24). Gesù è dunque costretto a riprendere la parola per denunciare che la situazione di non fede in lui è dovuta al fatto che quegli ascoltatori non sono sue pecore (cf. Gv 10,26), non sono disposti ad accogliere le sue parole.

A questo punto dobbiamo però fare un’osservazione di grande importanza. Nelle sante Scritture pastori e pecore sono molto presenti, perché facevano parte della società pastorale-agricola in cui la Bibbia è sorta. Essere pastore significava svolgere un mestiere che aveva grande rilevanza e tutti sentivano la figura del pastore come esemplare. Noi oggi siamo lontani da quella situazione, non conosciamo né vediamo, se non raramente, pastori che conducono il gregge; e soprattutto, le pecore non ci appaiono capaci di rappresentarci. Per questi motivi, le parole di Gesù al riguardo non sono più performative come lo erano ai suoi tempi in Palestina. Di conseguenza, non mi soffermo tanto sulle immagini del pastore e delle pecore, ma vorrei approfondire i verbi utilizzati, che nelle parole di Gesù vogliono comunicarci un messaggio su di lui: su Gesù, ovvero su un uomo che ha vissuto realmente tra di noi, che era umano come noi, che ha lasciato una traccia indelebile del suo comportamento nel cuore di quelli che “sono entrati e usciti con lui”.

Innanzitutto Gesù dice che quanti lo seguono, cioè sono suoi discepoli, “ascoltano la sua voce”. Questo è l’atteggiamento di chi crede: è credente perché ha ascoltato parole affidabili. È il primo passo che l’essere umano deve compiere per entrare in una relazione: ascoltare, che è molto più del semplice sentire. Ascoltare significa innanzitutto riconoscere colui che parla dalla sua voce, dal suo timbro particolare. Ci vogliono certamente impegno e fatica, ma solo facendo discernimento tra quelli che parlano è possibile ascoltare quella voce che ci raggiunge in verità e con amore. Tutta la fede ebraico-cristiana dipende dall’ascolto – “Shema‘ Jisra’el! Ascolta, Israele!” (Dt 6,5; Mc 12,29 e par.) – e sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento “la fede nasce dall’ascolto” (fides ex auditu: Rm 10,17). Per avere fede in Gesù occorre dunque ascoltarlo, con un’arte che permetta una comunicazione profonda, la quale giorno dopo giorno crea la comunione.

La seconda azione che Gesù presenta come propria delle sue pecore si riassume nel verbo seguire: “Esse mi seguono”. Materialmente ciò significa andare dietro a lui ovunque egli vada (cf. Ap 14,4), ma seguirlo anche conformando la nostra vita alla sua, il nostro camminare al modo in cui lui ci chiede di camminare (cf. 1Gv 2,6). Il pastore quasi sempre sta davanti al gregge per aprirgli la strada verso pascoli abbondanti, ma a volte sta anche in mezzo, quando le pecore riposano, e sa stare anche dietro, quando le pecore devono essere custodite affinché non si perdano. Gesù assume questo comportamento verso la sua comunità, verso di noi, e ci chiede solo di ascoltarlo e di seguirlo senza precederlo e senza attardarci, con il rischio di perdere il cammino e l’appartenenza alla comunità.

In questa condivisione di vita, in questo coinvolgimento tra pastore e pecore, tra Gesù e noi, ecco la possibilità della conoscenza: “Io conosco le mie pecore”. Certamente Gesù ci conosce prima che noi conosciamo lui, ci scruta anche là dove noi non sappiamo scrutarci; ma se guardiamo a lui fedelmente, se ascoltiamo e “ruminiamo” le sue parole, allora anche noi lo conosciamo. E da questa conoscenza dinamica, sempre più penetrante, ecco nascere l’amore, che si nutre soprattutto di conoscenza. Cor ad cor, presenza dell’uno accanto all’altro, possiamo quindi dire umilmente: “Io e Gesù viviamo insieme”. Gesù è “il pastore buono” (Gv 10,11.14), certo, ma anche l’amico e l’amante fedele, potremmo dire: sentendoci da lui amati, conosciuti, chiamati per nome, penetrati dal suo sguardo amante, allora possiamo decidere di amarlo a nostra volta.

Che cosa attendere dunque da Gesù Cristo? Il dono della vita per sempre e quella convinzione profonda che siamo nella sua mano e che da essa nessuno potrà mai strapparci via. La mano di Gesù è mano che ci tocca per guarirci; mano che ci rialza se cadiamo; mano che ci attira a sé quando, come Pietro affondiamo (cf. Mt 14,31); mano che ci offre il pane di vita; mano che si presenta a noi con i segni dell’aver sofferto per darci la vita (cf. Lc 24,39; Gv 20,20.27); mano che ci benedice (cf. Lc 24,50), tesa verso di noi per accarezzarci e consolarci. Ecco quella mano del Signore che più volte è stata dipinta tesa verso l’essere umano, perché ognuno di noi per camminare ha bisogno di mettere la propria mano in quella di un altro. Solo così non ci sentiamo soli e, anche se non siamo esenti da cadute o sventure, confidiamo di essere sempre sostenuti dal Signore, sempre in relazione con lui.

Queste parole del Kýrios risorto – “Nessuno strapperà le mie pecore dalla mia mano, perché sono il dono più grande che il Padre mi ha fatto, il dono più grande di tutte le cose” – sono e restano, anche nella notte della fede, anche nelle difficoltà a camminare nella notte, ciò che ci basta per sentirci in relazione con il Signore. Se anche volessimo rompere questa relazione e se anche qualcuno o qualcosa tentasse di romperla, non potrà mai accadere di essere strappati dalla mano di Gesù Cristo. L’Apostolo Paolo, significativamente, ha gridato: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?” (Rm 8,35). No, niente e nessuno, “ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati” (Rm 8,37). E la mano di Gesù Cristo risorto è la mano di Dio, perché lui e il Padre sono uno.

Ma dobbiamo dirlo: una fede così, anche se povera e fragile, scatena l’avversione e la violenza di chi non può credere in Gesù. Ecco perché, al sentire queste sue parole, quei farisei che credevano di vedere bene raccolgono delle pietre per lapidarlo (cf. Gv 10,31). Dove c’è un’azione, un comportamento, una parola di amore, gli uomini religiosi vedono una bestemmia, un attentato al loro Dio, che vorrebbero fosse un Dio senza l’uomo, contro l’uomo! Amano infatti più la religione che l’umanità, più le idee e la loro dottrina che non l’umano, cioè i fratelli o le sorelle accanto a noi nella loro condizione di peccato, di fragilità: condizione, appunto, propria degli umani, che la mano di Dio deve salvare e rialzare.

Gesù ha detto: “Io sono il pastore buono”

“Io sono uno con il Padre”,

ma attraverso lo stile con cui ha vissuto ha anche detto, non esplicitamente ma realmente, nei fatti: “Io sono l’uomo, l’umanità (“Ecce homo!”), perché anche in piena relazione con gli uomini e le donne che sono nel mondo. Sono l’uomo come Dio l’ha voluto, uno con l’umanità così come sono uno con il Padre”. Certamente le parole “Io e il Padre siamo uno” sono il vertice della rivelazione fatta da Gesù sul suo rapporto con Dio, sulla sua intimità, sulla sua comunione con il Padre. Saranno proprio queste parole a ispirare l’affermazione della divinità di Gesù nel concilio di Calcedonia. Parole che risultavano scandalose per i giudei, ma che sono fondamento della fede per noi discepoli di questo Dio fattosi uomo in Gesù di Nazaret, il nostro pastore.

image_pdfimage_print

la spiritualità della liberazione è l’opposto della psicologia della sopportazione

storia di salvezza e storia di liberazione

«strappa l’oppresso dal potere dell’oppressore, non esser pusillanime quando giudichi» (1)

la squallida manipolazione della Scrittura trasforma la spiritualità della liberazione in psicologia della sopportazione (tendente alla rassegnazione)

I dominatori del mondo, nella bulimica smania di conquista, non si appropriano solo della terra e della vita degli oppressi, ma anche del loro Dio. Così, promuovono la squallida manipolazione della Scrittura, che trasforma la spiritualità della liberazione in psicologia della sopportazione (tendente alla rassegnazione) e convincono, spesso, la Chiesa, in cambio di qualche triste privilegio, a mettersi al loro servizio, oppure a mantenersi equidistante, cioè pusillanime nel giudizio. Agiscono pure sugli oppressi facendo apparire conveniente la collaborazione con la catena di sfruttamento, che prevede qualche eccezione, a cui possono aspirare. Dio, invece, agisce in modo opposto, salvando l’ultimo. Su questo non abbiamo alcun dubbio, ma occorre riflettere sulle modalità. Sicuramente non adopera mezzi magici o spettacolari, e neanche procede dall’alto, sfoggiando poteri o prerogative. Dio scende, assume la condizione dell’oppresso, ed incarnandosi dimostra fattivamente da che parte si pone. Entra nella storia degli oppressi, la scrive camminando nelle profondità degli abissi (2) insieme a loro, e la legge da quella prospettiva. Dio cammina con i calpestati verso il Regno, ma non prescindendo da loro. Si tratta di una causa che richiede partecipazione e coinvolgimento. Si tratta, al tempo stesso, di vocazione e di missione, di un dono da ricevere e di un impegno da portare avanti. C’è la schiavitù che si può decidere di accettare e la libertà che si può, ancora, conquistare. In mezzo si trova il deserto, il nulla, l’incertezza. L’oppresso deve scegliere di attraversarlo, rompendo ogni indugio, rinunciando ad ogni calcolo, senza attendere autorizzazioni o aspettarsi applausi. Come unica certezza la Parola eterna che Dio ha pronunciato:

«Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso» (3).

(1) Siracide 4,9

(2) Cfr. Siracide 24,5

(3) Esodo 3,7-8

image_pdfimage_print

il Dio di Gesù è il Dio della liberazione

credo al Dio della liberazione

Christine Prieto

Come Dio fece uscire gli Ebrei dal paese di schiavitù

allo stesso modo credo che Gesù Cristo ci fa uscire dalle nostre prigioni.

Credo che egli ci insegna, giorno dopo giorno, a costruire la nostra umana dignità

e a rimanere in piedi di fronte al Padre, nella gioia, nella pace del cuore,

nella fiducia nel suo amore e nel suo sostegno.

 

Credo che Gesù ci faccia scoprire chi è Dio.

Un Dio che non abita in case fatte dalla mano dell’uomo.

Ovvero un Dio che noi non possiamo racchiudere nelle statue,

nei templi, nei dogmi, nei pregiudizi.

Ma un Dio che abita le pietre viventi, che siamo noi.

 

Credo che Gesù ami e chiami tutti gli esseri umani senza distinzione:

le donne e gli uomini,

i bianchi, i neri, i gialli,

i poveri e i ricchi,

gli eterosessuali, gli omosessuali, i transessuali,

i giovani e i vecchi… e tutte le altre differenze che esistono.

Perché sono tutti diletti figli di Dio.

 

Credo che Dio voglia che costruiamo insieme un mondo di pace

condividendo la nostra diversità e le nostre ricchezze.

 

 Christine Prieto
image_pdfimage_print

le vie di Dio e le nostre vie

le scelte di Dio

da Altranarrazione

“i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le mie vie non sono le vostre vie” (Is.)

Una giovinetta di periferia per realizzare le speranze degli oppressi e spezzare le catene forgiate dal mondo.

Dei subumani (i pastori) (1) per l’annuncio di gioia che nessuno è ancora riuscito a spegnere.

Dei pescatori, rozzi, malfamati, pavidi, per testimoniare l’Amore che non indietreggia e si lascia crocifiggere.

Un’eretica (la samaritana) per rivelare il dono della vita interiore.

Una prostituta e un’adultera per rivelare il paradigma alternativo e creativo di Dio.

Niente re, regine, potenti.

Niente specialisti, addetti al culto, intellettuali.

Niente palazzi, uffici, burocrazie.

Niente cattedre, pulpiti, tavole rotonde.

Noi ti rendiamo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli, agli ultimi, agli esclusi (2).

(1) Così venivano considerati all’epoca.
(2) Cfr. Vangelo di Luca 10, 21

image_pdfimage_print
image_pdfimage_print

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fonire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o clicchi su "Accetta" permetti al loro utilizzo.

Chiudi