il ‘padre nostro’ oltre la pratica devozionale

‘padre nostro’

preghiera come esperienza

da Altranarrazione

 

«Signore insegnaci a pregare» (1)

Noi chiediamo di imparare una pratica devozionale, Dio, invece, nel padre nostro, ci indica una prassi esperienziale. Le parole che ci confida rappresentano, in sintesi, le azioni che già compie in nostro favore. È un orizzonte esistenziale, da condividere e testimoniare, non degradabile a formula verbale e meccanica. Il padre nostro è, per noi, possibilità di conversione, è atto di affidamento, è riconoscimento alla sua gratuità. È un memoriale che rinnova e attualizza la nostra relazione con Lui, rendendoci partecipi alle grazie che ne scaturiscono. C’è un contenuto su cui fondare le nostre scelte. C’è un senso da accogliere capace di guarire le ferite interiori, consolare dopo ogni caduta e strappare dall’angoscia della precarietà. Possiamo ritrovare l’autenticità di noi stessi, rinunciando alla parodia in cui, spesso, ci trasformiamo e che mettiamo in circolazione. La preghiera-prassi del padre nostro consente sempre il ritorno da qualsiasi lontananza, annulla le false immagini, ravviva il fuoco, non permette alla sfiducia di attecchire. Ci invita sulla strada della confidenza, dell’abbraccio, della comprensione. Dio si presenta come un dono senza forme e riverenze perché Semplicità è un altro suo nome.

Abbà

Padre: che ci ami per la nostra fragilità, che conosci le nostre tenebre e su queste desideri manifestare la tua Misericordia;
sia santificato il tuo nome: rinnegando gli idoli che deturpano il tuo volto e il nostro;
dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano: continua a donarti, non ritirarci il soffio vitale dell’anima, salvaci dall’abisso dell’autosufficienza e dell’egoismo sociale, senza ripensamenti e nonostante le delusioni che ricevi;
venga il tuo regno: sì, desideriamo realizzare la tua idea di comunità pacifica e solidale anche a costo della nostra stessa vita;
perdonaci i nostri peccati perché anche noi perdoniamo: ci sentiamo amati da te, senza merito. Non desideriamo quindi odiare e distinguiamo l’ingiustizia dagli oppressori. Combattiamo la prima, attendiamo la conversione dei secondi;
non abbandonarci alla tentazione: confermaci nell’opzione preferenziale per i poveri, nella verità del servizio che si oppone alla menzogna del potere e della vanagloria. Porta a compimento l’immagine e la somiglianza (2) con cui ci hai reso tuoi figli: libertà capace di creare e di donarsi.

(1) Vangelo di Luca 11, 1

(2) Cfr. Genesi 1, 26-27

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contro il letteralismo biblico – l’ultimo libro di Spong

L’“eresia dei gentili”: la rivoluzione teologica di John S. Spong

l’“eresia dei gentili”: la rivoluzione teologica di John S. Spong

 da: Adista Notizie n° 8 del 02/03/2019
Se qualche adulto prova ancora piacere a leggere l’Iliade o l’Orlando furioso è perché, sin da ragazzo, queste opere gli sono state presentate come poemi, creazioni di fantasia pregne di significati morali e di insegnamenti esistenziali. La Bibbia – Antico e Nuovo Testamento o, come si preferisce dire per rispetto verso gli Ebrei, Primo e Secondo Testamento – non ha avuto la stessa sorte. Indubbiamente chi l’ha redatta, mettendo per iscritto secolari tradizioni orali, non intendeva fare opera di storia né di scienze naturali, quanto esprimere – attraverso miti, poemi, leggende, fiabe, epopee, omelie – alcune convinzioni di fede del suo popolo. Ma quando la Bibbia è uscita dall’alveo medio-orientale – ed è stata ascoltata, letta, tradotta dai “Gentili”, da Greci e Latini – il registro linguistico originario è stato inesorabilmente frainteso: Adamo, Eva, Abramo, Mosé… non più figure simboliche, ma personaggi storici dalla fisionomia e dalle vicende francamente inverosimili.

Oltre il letteralismo

Da un secolo a oggi la teologia sta cercando di uscire dall’equivoco bimillenario, da un “letteralismo” imbarazzante che costringe i nostri contemporanei mediamente istruiti a una scelta dolorosa: o credere (rinunziando a ciò che le scienze umane e naturali, oltre che la logica, insegnano) o gettare alle ortiche la Bibbia (salvando la propria integrità intellettuale). Certo, de-mitizzare il Primo Testamento è stato relativamente facile; non altrettanto agevole l’operazione per il Secondo Testamento. Il vescovo episcopaliano John Shelby Spong, con notevole coraggio (ha dovuto sopportare non solo reazioni accademiche ed ecclesiastiche, ma perfino aggressioni fisiche), si è impegnato su questa strada, pubblicando – accanto ad altri titoli interessanti –

Letteralismo biblico: eresia dei Gentili. Viaggio in un cristianesimo nuovo per la porta del Vangelo di Matteo,

ed. it. a cura di don Ferdinando Sudati, Massari ed., Bolsena (Vt) 2018 (ed. or. 2016), pp. 398

Spong non nega certo che il germe dei vangeli sia stata un’esperienza storica, solo ne circoscrive attentamente i contorni: nel primo secolo della nostra era alcuni ebrei furono affascinati dalla personalità e dal messaggio di un maestro nomade, Jeshua di Nazareth, e per qualche anno si misero al suo seguito. Le autorità religiose ebraiche lo percepirono però come un pericoloso sovversivo dell’ordine (teologico-morale-politico-sociale) costituito e lo fecero condannare a morte dall’autorità romana occupante la Palestina. I discepoli caddero in un profondo sconforto ma le esperienze mistiche attestate da alcuni di loro li convinsero che il maestro non era precipitato nel nulla della morte, che al contrario era stato accolto e reso immortale dall’abbraccio del Dio vivente. Pochi decenni dopo la crocifissione (51- 64) è Paolo, con le sue lettere, a formulare e diffondere la fede in Gesù; poco dopo è Marco (intorno al 72) che riprende la predicazione paolina e la struttura in un racconto più ampio e articolato: il primo dei quattro vangeli ritenuti, nel IV secolo, gli unici “canonici”. Ancora poco dopo un decennio (intorno all’84) Matteo riprende, a sua volta, il testo di Marco e lo amplifica, arricchendolo di dettagli: secondo quale criterio?

Gesù “costruito” sulle profezie

Spong, sulla scia del biblista Michael Douglas Goulder (1927-2010), sostiene che i capitoli del vangelo secondo Matteo seguono molto fedelmente la scansione della liturgia in vigore nelle sinagoghe. Da ebreo che si rivolge ad ebrei, sa che la sua ricostruzione teologicoliturgica non sarà presa alla lettera, avendo come scopo esplicito non tanto rendicontare storicamente la vita di Gesù (che egli, personalmente, potrebbe non aver neppure conosciuto), quanto attestare la fede della sua comunità. Essa si è infatti convinta che, dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme del 70 d. C., la “gloria” di Dio, la “presenza” di Jahvé, risplenda nella persona del Nazareno, visto come il nuovo Mosé. Matteo esprime questa fede costruendo un racconto che ripercorre, tappa dopo tappa, la vicenda di Mosé: bambino salvato dall’eccidio dei neonati ebrei, fuggito in Egitto, rimasto quaranta anni (che diventano giorni) nel deserto, promulgatore sul monte della Legge (che diventa la nuova Legge, il “discorso della montagna”)… La tesi di Spong è di una semplicità disarmante (anche se, alle orecchie dei lettori ingenui, risulta allarmante): non sono le ‘profezie’ veterotestamentarie ad essere puntualmente avveratesi in Gesù, ma è la vicenda di Gesù che è stata costruita letterariamente sulla base delle ‘profezie’ veterotestamentarie.

Se è così, l’autore invita a non cercare in questo vangelo (come in nessun’altra pagina biblica) una veridicità storica, quanto ad accoglierne – se lo si vuole accogliere – il significato intenzionato da Matteo stesso: che in Gesù il messaggio biblico tracima rispetto alle barriere etniche di un popolo autoproclamatosi eletto e si rivolge all’umanità intera. «Andate in tutte le nazioni, dice il Cristo risorto» – e qui non si pensa certo alla rianimazione miracolosa di un cadavere, quanto a una dimensione inedita e incomparabile in cui Gesù, «primogenito di molti fratelli», è entrato dopo la crocifissione. «Andate da coloro che avete definito oltre i confini dell’amore di Dio. Andate da coloro che avete deciso che sono reietti. Andate da coloro che avete giudicato inadeguati. Andate dai non circoncisi, dagli impuri, dai perduti, dai non battezzati e dai diversi. Andate oltre il livello delle vostre esigenze di sicurezza. Andate da coloro che vi minacciano. […]. Proclamate loro la buona notizia dell’amore infinito di Dio, un amore che ci abbraccia tutti. Con il potere di questa esperienza, permettete alle vostre paure di dissolversi; e insieme a quelle paure scomparse, dite addio anche alle vostre insicurezze, ai vostri pregiudizi, ai vostri confini. Nella comunità umana c’è posto per tutti. Imparate a mettere in pratica questa verità. Non ci sono emarginati per l’amore di Dio. Questo è ciò che il grande Mandato significa». Un annunzio che, per essere credibile, deve intrecciare parole e gesti, teorie e opere: le comunità cristiane o diventano segni efficaci dell’amore invisibile del Padre (impegnandosi a dare la vista ai ciechi, il pane agli affamati, la libertà agli oppressi) o non hanno né senso né valore.

Parte superiore del fronte di copertina del libro di John Shelby Spong Letteralismo biblico: eresia dei Gentili. Viaggio in un cristianesimo nuovo per la porta del Vangelo di Matteo (a cura di Ferdinando Sudati), 2018, tratta dal sito di Massari Editore 

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purificare dal maschilismo la relazione con Dio

prospettiva femminile

da Altranarrazione 

È sempre più urgente purificare dal maschilismo la relazione con Dio. Non ci può essere autentica vita spirituale senza uno sguardo al femminile sulla realtà, sul mondo interiore e sui rapporti sociali

«Ad Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (Osea 11,3-4)

Dio agisce nelle profondità dell’essere, occorre immergersi più che elaborare. I processi di razionalizzazione, o peggio di banalizzazione, rischiano di produrre solo proiezioni e non incontri. E non basta, nemmeno, immergersi, ma è necessario pure fare spazio, svuotarsi. Infatti non si può accogliere l’altro, con i suoi sentimenti, i suoi punti di vista, le sue esigenze se è già tutto deciso, stabilito, cristallizzato. A dialogare con Dio, poi, è l’anima e solo indirettamente la ragione a cui arrivano dei frammenti che sono spesso difficilmente decifrabili. Dio viene a guarire e a custodire dopo che ci siamo persi e feriti inseguendo il nostro idolo: l’autosufficienza. Nasciamo su iniziativa di altri, non sopravviviamo senza l’iniziativa di altri, ma prevale la vanagloria dell’immagine di (falsa) forza sulla (vera) esigenza di trovare un fondamento esistenziale e di testimoniare la solidarietà riconoscendo un destino comune.

«Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (Osea 11,8)

«Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani» (Isaia 49, 15-16)

Siamo davvero i suoi figli, i nostri deliri di egoismo, i nostri rifiuti, le ombre che gli nascondiamo lo toccano nelle viscere. Non è un dolore intellettuale, per sentito dire, ma  è il dolore della madre che  somatizza. Non è il dolore di chi parla o scrive ma è quello che toglie il respiro e ti piega. Una madre che soffre, una vedova che piange il suo amato: è l’immagine di Dio che emerge da questa prospettiva. Qualcuno coinvolto in quello che avviene, molto diverso dal Giudice monocratico con il pollice su, in caso di osservanza del Codice Morale, con il pollice giù, in caso di violazione, come risulta da alcine descrizioni. Un Giudice che valuta corrispondenze tra comportamenti e regole, non una madre che giustifica e abbraccia il figlio anche se colpevole.

«Chi è costei che sorge come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiere a vessilli spiegati?» (Cantico dei Cantici 6,10)

Ecco l’anima che ha incontrato la Grazia, che è stata visitata da Dio. È sola, ma non smarrita. In silenzio e in attesa per non prevaricare. Ecco l’anima che scoprendo la femminilità può incontrare il suo Dio e comprendere qualcosa di più. E, cioè, le cose più belle: quelle solo intuibili, quelle non di pubblico dominio, non classificabili, non manipolabili. Ecco l’anima contemplativa e compassionevole che vive il tempo dell’esilio preparando la cella del cuore per l’appuntamento (1) con il suo Amato e praticando la giustizia nei confronti dei poveri, degli ultimi, dei prediletti di Dio.

(1) «Che lui scavi nella tua anima il suo abisso e tu sia qui sempre presente a lui»

Elisabetta della Trinità

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il commento al vangelo della domenica

dal deserto al giardino

cammino verso la vita


Dal deserto al giardino, cammino verso la vita
il commento di E. Ronchi al vangelo della prima domenica di quaresima (10 marzo 2019):

In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”». […]

Dal deserto al giardino: dal deserto di pietre e tentazioni al giardino del sepolcro vuoto, fresco e risplendente nell’alba, mentre fuori è primavera: è questo il percorso della Quaresima. Non penitenziale, quindi, ma vitale. Dalle ceneri sul capo, alla luce che «fa risplendere la vita» (2Tm 1,10). Deserto e giardino sono immagini bibliche che accompagnano la storia e i sogni di Israele, che contengono un progetto di salvezza integrale che avvolgerà e trasfigurerà ogni cosa esistente, umanità e creature tutte, che insieme compongono l’arazzo della creazione. Con la Quaresima non ci avviamo lungo un percorso di penitenza, ma di immensa comunione; non di sacrifici ma di germogli. L’uomo non è polvere o cenere, ma figlio di Dio e simile a un angelo (Eb 2,7) e la cenere posta sul capo non è segno di tristezza ma di nuovo inizio: la ripartenza della creazione e della fecondità, sempre e comunque, anche partendo dal quasi niente che rimane fra le mani. Le tentazioni di Gesù nel deserto costituiscono la prova cui è sottoposto il suo progetto di mondo e di uomo, il suo modello di Messia, inedito e stravolgente, e il suo stesso Dio. La tentazione è sempre una scelta tra due amori. Di’ a questa pietra che diventi pane. Trasforma le cose in beni di consumo, riduci a merce anche i sassi, tutto metti a servizio del profitto. Le parole del Nemico disegnano in filigrana un essere umano che può a suo piacimento usare e abusare di tutto ciò che esiste. E così facendo, distrugge anziché «coltivare e custodire» (Gen 2,15). Ognuno tentato di ridurre i sogni a denaro, di trasformare tutto, anche la terra e la bellezza, in cose da consumare. Ti darò tutto il potere, tutto sarà tuo. Il paradigma del potere che ha sedotto e distrutto regni e persone, falsi messia e nuovi profeti, è messo davanti a Gesù come il massimo dei sogni. Ma Gesù non vuole potere su nessuno, lui è mendicante d’amore. E chi diventa come lui non si inginocchierà davanti a nessuno, eppure sarà servitore di tutti. Buttati giù, e Dio manderà i suoi angeli a portarti. Mostra a tutti un Dio immaginario che smonta e rimonta la natura e le sue leggi, a piacimento, come fosse il suo giocattolo; che è una assicurazione contro gli infortuni della vita, che salva da ogni problema, che ti protegge dalla fatica di avanzare passo passo, e talvolta nel buio. Gesù risponde che non gli angeli, ma «la Parola opera in voi che credete» (1Ts 2,13). Che Dio interviene con il miracolo umile e tenace della sua Parola: lampada ai miei passi; pane alla mia fame; mutazione delle radici del cuore perché germoglino relazioni nuove con me stesso e con il creato, con gli altri e con Dio.
(Letture: Deuteronomio 26,4-10; Salmo 90; Romani 10,8-13; Luca 4,1-13)

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il commento al vangelo della domenica

la fecondità è la prima legge di un albero


La fecondità è la prima legge di un albero
il commento di E. Ronchi al vangelo della ottava domenica del tempo ordinario (3 marzo 2019):
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro. Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? […]

L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene. Il buon tesoro del cuore: una definizione così bella, così piena di speranza, di ciò che siamo nel nostro intimo mistero. Abbiamo tutti un tesoro buono custodito in vasi d’argilla, oro fino da distribuire. Anzi il primo tesoro è il nostro cuore stesso: «un uomo vale quanto vale il suo cuore» (Gandhi). La nostra vita è viva se abbiamo coltivato tesori di speranza, la passione per il bene possibile, per il sorriso possibile, la buona politica possibile, una “casa comune” dove sia possibile vivere meglio per tutti. La nostra vita è viva quando ha cuore. Gesù porta a compimento la religione antica su due direttrici: la linea della persona, che viene prima della legge, e poi la linea del cuore, delle motivazioni profonde, delle radici buone. Accade come per gli alberi: l’albero buono non produce frutti guasti. Gesù ci porta alla scuola della sapienza degli alberi. La prima legge di un albero è la fecondità, il frutto. Ed è la stessa regola di fondo che ispira la morale evangelica: un’etica del frutto buono, della fecondità creativa, del gesto che fa bene davvero, della parola che consola davvero e guarisce, del sorriso autentico. Nel giudizio finale (Matteo 25), non tribunale ma rivelazione della verità ultima del vivere, il dramma non saranno le nostre mani forse sporche, ma le mani desolatamente vuote, senza frutti buoni offerti alla fame d’altri. Invece gli alberi, la natura intera, mostrano come non si viva in funzione di se stessi ma al servizio delle creature: infatti ad ogni autunno ci incanta lo spettacolo dei rami gonfi di frutti, un eccesso, uno scialo, uno spreco di semi, che sono per gli uccelli del cielo, per gli animali della terra, per gli insetti come per i figli dell’uomo. Le leggi profonde che reggono la realtà sono le stesse che reggono la vita spirituale. Il cuore del cosmo non dice sopravvivenza, la legge profonda della vita è dare. Cioè crescere e fiorire, creare e donare. Come alberi buoni. Ma abbiamo anche una radice di male in noi. Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello? Perché ti perdi a cercare fuscelli, a guardare l’ombra anziché la luce di quell’occhio? Non è così lo sguardo di Dio. L’occhio del Creatore vide che l’uomo era cosa molto buona! Dio vede l’uomo molto buono perché ha un cuore di luce. L’occhio cattivo emana oscurità, diffonde amore per l’ombra. L’occhio buono è come lucerna, diffonde luce. Non cerca travi o pagliuzze o occhi feriti, i nostri cattivi tesori, ma si posa su di un Eden di cui nessuno è privo: «con ogni cura veglia sul tuo cuore perché è la sorgente della vita» (Proverbi 4,23).

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