una bimba e il suo tema sul razzismo

il razzismo attraverso gli occhi di una bambina

ecco il tema che ha commosso il web

ecco il tema di una bambina bolognese che fa un ritratto inconsueto del razzismo: autentico, delicato e senza giri di parole

Tema

Il tema di una bambina bolognese di circa dieci anni, ha fatto il giro del web dopo essere stato postato dalla mamma su Facebook.
La bambina nel compito svolto in classe, ha raccontato il razzismo dal suo punto di vista scrivendo:
“Non so bene cos’è il razzismo. So solo che è una chiusura mentale nelle persone. Non accettare qualcuno per il colore della pelle è impossibile, è terribile! Ma il razzismo non si manifesta solo con una persona di un altro colore: parte tutto dalla religione, poi dalle abitudini, dai vestiti, dai cibi”.
I compagni di scuola della bambina provengono da più parti del mondo.
Un ambiente formativo, dunque, dove l’integrazione è all’ordine del giorno. Per questo motivo un’insegnante ha coinvolto fin dal principio i suoi alunni in dibattiti e letture sull’argomento.
“Una persona può essere razzista anche se non se ne accorge o non volendo. Si può essere razzisti anche in classe non accettando un compagno, ad esempio, se è di un altro colore e quindi mangia diversamente, e magari per quello nei suoi vestiti è impregnato l’odore delle spezie. O perché è un po’ dispettoso, quella è una piccola forma di razzismo. Bisogna sforzarsi di accettarlo per com’è”, ha continuato la bambina. Che è giunta poi a una riflessione più ampia: “La diversità ha sempre creato problemi nella mentalità delle persone”.
La bimba si è soffermata anche su una questione italiana:
“Un tempo non si era razzisti solo con i neri, ma anche con i meridionali, che non potevano affittare case o stanze al Nord, perché sulla porta c’era scritto ‘Non affittasi ai meridionali’. Ma il bello è che oggi i meridionali che oramai avranno 60 anni, sono più inferociti e razzisti delle altre persone e non so perché. Mi chiedo: se lo sono già scordati cosa gli facevano?”.
“Io auguro a tutti i razzisti di non restare razzisti per sempre”,
ha concluso la ragazzina.
La madre, orgogliosa della figlia, ha commentato sui social:
“Mi ha fatto commuovere, perché è privo di violenza e odio. Voglio che diventi virale perché abbiamo bisogno di messaggi positivi considerando i morti in mare. L’Italia può ripartire e migliorare, a cominciare dai bambini”.



“la storia ci condannerà!” così p. Zanotelli

padre Zanotelli accusa ancora:

“sui migranti saremo giudicati come i nazisti”

parla il religioso attaccato dai leghisti:

“Il Vangelo parla di perdono, di accoglienza, se siete cristiani non potete scegliere chi si regge sull’odio o sul disprezzo”. Come Salvini

Padre Alex Zanotelli

di Stefano Miliani

“Il Vangelo parla di perdono, di accoglienza dell’altro, se siete cristiani e lo scegliete non potete scegliere Salvini. La Storia ci giudicherà come noi oggi giudichiamo i nazisti”. Padre Alex Zanotelli, missionario, critica con forza e coerenza la politica anti-immigratoria sbandierata dal vicepremier che ama indossare divise militari e la Lega ricambia attaccandolo e screditando la sua figura religiosa. Direttore per anni di “Nigrizia”, l’80enne padre Zanotelli della comunità comboniana è autore del recente pamphlet pubblicato da Chiarelettere Prima che gridino le pietre (leggi qui un estratto).

Volgarità leghiste contro padre Zanotelli: uno pseudo-prete che vuole chiese-moschee

Padre, il leghista Alessandro Pagano si è riferito a lei dicendo che “di questi pseudo preti non abbiamo bisogno” perché, a parere dell’esponente della Lega, “il suo unico chiodo in testa è attaccare #Salvini”.

Prima di tutto non voglio attaccare nessuno, non mi interessa e men che meno mi interessa Salvini. Il problema non sono i leghisti. Ho invece sempre detto con chiarezza che ognuno deve decidersi nella vita e ho parlato ai cristiani.

Decidersi su cosa?

Se siete cristiani potete naturalmente scegliere qualunque politica, ognuno è libero, però dovete fare i calcoli con vostra coscienza. Il Vangelo parla di perdono, di accoglienza dell’altro e se lo scegliete non potete scegliere il Vangelo di Salvini che si regge sull’odio o sul disprezzo dell’altro. Mi meravigliano però tanti cristiani.

Perché?

Non c’è coerenza con quello che credono e dicono. Faccio perciò appello ai cristiani leghisti. A loro dico: provate a chiedervi che cuore avete. Un uomo se è un uomo si commuove davanti a certe realtà. Fin da tempi più antichi far fuori un bambino o trucidare qualcuno faceva scattare qualcosa nel cuore. Come è possibile che noi che ci dichiariamo umani siamo diventanti così insensibili?

Intende i migranti che affogano nel Mediterraneo e che non vediamo?

Certo: se non vediamo non sentiamo. Per questo hanno messo il cordone sanitario intorno alla Libia: se non si vedono la gente non reagisce quando, come ieri, periscono in mare 117 persone e altri 60 sono morti davanti al Marocco. Se sappiamo i dettagli, un bambino che aveva due anni, una donna affogata, allora sentiamo qualcosa. Invece è possibile diventare così bestie da non sentire? Da non avere un sentimento? Non giudico ma chiedo: siete uomini o bestie? Decidetelo. Persino la bestia è più tenera in certe situazioni. Ne sono certo: i nostri nipoti diranno di noi le stesse cose che diciamo noi dei nazisti e di Auschwitz. L’Europa dovrà rispondere davanti alla storia. Un giorno non ci sarà più la tribù bianca che governa il mondo e allora verremo portati davanti alla storia per questi che sono delitti come lo sono stati il colonialismo e il neocolonialismo. La storia ce lo rinfaccerà.

Dalla Lega lei è stato definito “globalista” e il termine vuole essere dispregiativo.

Non parlo in chiave politica. Non sono un globalista se non nel senso che siamo un unico mondo, che siamo tutti su un’unica barca e quindi o ci salviamo insieme o periremo tutti insieme: se il pianeta va incontro al disastro ecologico la pagheremo tutti, se saltiamo in aria per una bomba atomica saltiamo per aria tutti. Pertanto dobbiamo fare i conti a livello globale, non è possibile che gli otto uomini più ricchi della Terra abbiano quanto miliardi di persone e che quattro miliardi di persone vivano con due dollari al giorno. È allora globalismo pensare che tutti hanno diritto a un minimo di vita: queste sono le domande che dobbiamo porci, sono i ragionamenti che dobbiamo fare.




un mondo di esagerate disuguaglianze che uccide i poveri

Raporto Oxfam

si aggravano le diseguaglianze, nel mondo i ricchi sempre più ricchi


Eugenio Fatigante
L’ingiusta distribuzione della ricchezza nel rapporto: 262 milioni di bambini non possono andare a scuola e 10mila persone al giorno muoiono perché non hanno accesso alle cure

Foto Ansa

La ruota della ricchezza continua a girare a senso unico. Maledettamente. Succede così che, in un pianeta sempre disuguale, e anche per questo sempre più segnato dal fenomeno delle migrazioni, il taglio di servizi essenziali come sanità e istruzione genera costi altissimi: 262 milioni di bambini non possono andare a scuola e 10mila persone al giorno muoiono perché non hanno accesso alle cure. Basterebbe una tassazione anche minima – lo 0,5% in più di oggi – sull’1% dei “Paperoni” del globo per evitare tutto ciò. E la ricaduta sarebbe enorme: ricerche stimano che, se si insegnasse a tutti i bambini del mondo a saper leggere (in modo “basico”), almeno 171 milioni di persone uscirebbero dalla povertà estrema.

Come ogni anno, alla vigilia del “conclave” finanziario di Davos, in Svizzera, che riunisce dal 22 gennaio l’Olimpo del business mondiale, arrivano i numeri dell’ong britannica Oxfam, una delle più autorevoli, a squarciare il velo su quello che tutti sanno ma che spesso si tace: le fratture nella distribuzione del reddito fra ricchi e poveri.

Il solco si è allargato: le fortune dei super-ricchi sono aumentate del 12% lo scorso anno, al ritmo di 2,5 miliardi di dollari al giorno, mentre 3,8 miliardi di persone (che la metà più povera dell’umanità) hanno visto decrescere quel che avevano dell’11%. Sono dati che suonano sempre come schiaffi: l’uomo più ricco in assoluto, Jeff Bezos, il gran capo di Amazon, a marzo 2018 aveva un patrimonio netto stimato in 112 miliardi di dollari, quando appena l’1% di questa somma corrisponde all’intera spesa sanitaria dei 105 milioni di etiopi.

Insiste molto, quest’anno, sul tema della tassazione il rapporto di Oxfam, che apre un focus inquietante anche sulla nostra Italia che sta vedendo partire il reddito di cittadinanza. Siamo comunque inseriti in modo integrante in questo panorama mondiale, anzi i numeri provano che nel 2018 i contrasti si sono aggravati: il 20% più ricco degli italiani detiene (a metà 2018) il 72% della ricchezza nazionale contro il 66% di un anno prima, mentre il 60% più povero deve accontentarsi appena del 12,4%, ancora meno del 14,8% di 12 mesi prima. E i primi 21 miliardari italiani (secondo la rivista Forbes) avevano gli stessi beni del 20% più povero della popolazione.

Una concentrazione di enormi fortune nelle mani di pochi, che evidenzia l’insostenibilità del sistema economico. La Ong denuncia l’aggravarsi del quadro: se la quota della ricchezza globale nelle mani dell’1% più ricco è in crescita dal 2011, una tendenza opposta caratterizza la povertà estrema. Dopo un drastico calo, tra il 1990 e il 2013, del numero di persone che vivono con meno di 1,90 dollari al giorno, ad allarmare è il meno 40% segnato dal tasso annuo di riduzione della povertà estrema tra 2013 e 2015 (ancor più accentuatosi nell’ultimo triennio), una maggiore povertà che – va da sé – colpisce in primis l’Africa subsahariana. Sono stime della Banca Mondiale, che ha di recente rivisto a 3,20 e 5,50 dollari al giorno le soglie di povertà rispettivamente per gli stati a medio-basso e a medio-alto reddito.

Di fronte a tutto questo, “Bene pubblico o ricchezza privata?”, il nuovo rapporto di Oxfam, rivela come questo persistente divario limiti le economie e alimenti la rabbia sociale in tutto il mondo. Lo studio mette inoltre in evidenza le responsabilità dei governi, in ritardo nell’adottare efficaci misure di contrasto, soprattutto fiscali. «Non dovrebbe essere il conto in banca a decidere per quanto tempo si potrà andare a scuola o quanto si vivrà – ha detto Winnie Byanyima, direttrice di Oxfam International –. Eppure è proprio questa la realtà in gran parte del mondo, spesso anche grazie a trattamenti fiscali privilegiati».

L’ingiustizia fiscale sulle spalle dei più poveri
Mentre sanità e istruzione continuano infatti a essere sotto-finanziati, con la conseguenza che ne vengono esclusi i più poveri, nel pianeta solo 4 centesimi per ogni dollaro raccolto dal Fisco (dato 2015) proveniva dalle imposte sul patrimonio, successione inclusa.

È una tipologia di tassazione che è stata ridotta in molti Paesi ricchi dove, in media, l’aliquota massima dell’imposta sui redditi delle persone fisiche è passata dal 62% nel 1970 al 38% nel 2013 (è al 28% negli stati definiti in via di sviluppo). Per 90 grandi corporation mondiali l’aliquota effettiva sui redditi d’impresa è crollata, tra 2000 e 2016, dal 34 al 24%.
I benestanti, insomma, si fanno sempre più ricchi anche in virtù dei sistemi fiscali. Storpiature che generano paradossi: in Paesi come il Brasile o il Regno Unito il 10% dei più poveri paga, in proporzione al reddito, più tasse rispetto al 10% più ricco. Ecco perché in molti paesi un’istruzione e una sanità di qualità sono diventate un lusso.

Nei Paesi in via di sviluppo un bambino di una famiglia povera ha il doppio delle possibilità di morire entro i 5 anni, rispetto a un suo coetaneo benestante. Sono fenomeni presenti però anche in Europa: a Londra l’aspettativa di vita in un quartiere povero è inferiore di 6 anni rispetto a uno agiato.

Una disparità nelle disparità è poi quella di genere. A livello globale gli uomini possiedono oggi il 50% in più della ricchezza netta delle donne e controllano oltre l’86% delle aziende. Anche il divario retributivo, pari al 23%, penalizza sempre le donne. Un dato che per di più non tiene conto del contributo gratuito delle donne al lavoro di cura. Secondo le stime di Oxfam, se tutto il lavoro di cura non retribuito (e non contabilizzato dalle statistiche ufficiali) svolto dalle donne nel mondo fosse appaltato a una sola azienda, questa realizzerebbe un fatturato di 10mila miliardi di dollari all’anno, ossia 43 volte quello di Apple, la più grande azienda al mondo.

«Le persone ovunque sono arrabbiate e frustrate – conclude Elisa Bacciotti, direttrice delle campagne di Oxfam Italia –. Ma i governi possono apportare cambiamenti reali per la vita delle persone assicurandosi che le grandi aziende e le persone più ricche paghino la loro giusta quota di tasse, e che il ricavato venga investito in strutture a cui tutti possano accedere gratuitamente. I governi possono ancora costruire un futuro migliore per tutti, non solo per pochi privilegiati. È una loro responsabilità».




“non ci farete mai a vostra immagine e somiglianza” a proposito di emigrazioni sicure, ordinate e regolate

l’ordine migrante dei ‘figli di sabbia’


L'ordine migrante dei figli di sabbia
Mauro Armanino
Il patto globale pensato per le migrazioni le vuole proprio così: sicure, ordinate e soprattutto regolate. La dottrina dell’Oim è stata dunque fatta propria dalle Nazioni Unite e da buona parte dei Paesi che l’hanno assunta. Ma a noi, figli di sabbia del Sahel, come altrove nel Sud del mondo, la sicurezza che interessa è quella alimentare, quella di curarsi quando malati e quella di pagare l’affitto a fine mese. Ci preme la sicurezza che i figli possano terminare l’anno scolastico e che le piogge arrivino puntuali all’appuntamento desiderato. Ci affascina la sicurezza che dovrebbe accompagnare chi ha scelto di viaggiare. La sicurezza di chi osa tradurre la mobilità in frontiere che, strada facendo, si trasformano in passerelle. La sicurezza che imponete è diventata, qui come nel Nord del mondo, fatto dei militari e appannaggio delle ditte che ne hanno fatto uno dei business più lucrativi. Se “migrazioni sicure” significano per voi “migrazioni scelte” allora è inevitabile la domanda su chi abbia il diritto di scegliere. Noi vorremmo essere sicuri di arrivare a destinazione e di essere trattati come soggetti di diritti umani. Vorremmo da voi la sicurezza di non essere detenuti e poi rispediti di forza alla sabbia da cui veniamo.
Quanto poi alle migrazioni ordinate che esigete, suonano come un’illusione di cattivo gusto. Fate di tutto per disordinare l’economia, la politica, il commercio, la cultura, la democrazia, i nascituri e il clima. Avete colonizzato una parte del mondo e con la globalizzazione, da voi gestita e imposta, la perpetuate a piacimento. Avete fatto di tutto per disordinare il mondo e con le migrazioni, invece, vorreste ordinarlo. L’unico ordine che vi interessa è quello che mantiene le cose come stanno e che il mondo, così com’è, non cambi affatto. Chiunque osi mettere in discussione il disordine che avete volutamente creato è tacciato di ribelle, sovversivo e terrorista. Siete riusciti a fare dei migranti dei criminali che infrangono, con vostro disappunto, l’ordine del mondo che la voluta disuguaglianza rende funzionale ai vostri interessi di potere. Il vostro ordine non ci riguarda e le migrazioni non saranno mai assimilate ai vostri progetti. Ci arroghiamo il diritto di disordinare le vostre arroganti pretese di conservazione dei privilegi. L’ordine che proponete si trova coerentemente realizzato nei campi di detenzione dei sogni più belli che la nostra epoca abbia mai prodotto.
Se intendete, infine, patteggiare la regolarità delle migrazioni con la nostra dignità allora vi sbagliate. Non riuscirete mai a modellarci secondo i vostri sistemi di omologazione economica. Ci avete definito dapprima “clandestini” e in seguito “illegali”, occultando che queste parole non sono che il frutto delle vostre scelte politiche e soprattutto etiche. La regolarità che preconizzate è quella dei cimiteri e dei supermercati che sono ormai le vostre cattedrali preferite. Preferiamo ancora la nostra vecchia e cara sabbia, così fedele a se stessa perché irregolare come le stagioni del Sahel. La vostra regolarità invece non ci interessa. Ripetete la stessa storia da anni, fabbricate armi, guerre e paci senza pudore e poi arrivate come gli angeli custodi dell’armonia universale quando Natale si avvicina. Utilizzate i droni armati per regolare a modo vostro le contese e se questo non bastasse costruite muri che terranno lontano coloro che non si riconoscono nel vostro mondo. Perché mai dovremmo adeguarci alle vostre regole, dittature mascherate dell’unico pensiero che ancora vi interessi. Le merci da produrre, vendere e poi buttare dopo l’uso, esattamente come per i migranti. Non ci farete mai a vostra immagine e somiglianza, lo sapete bene. Siamo fedeli alla sabbia di cui siamo fieri di essere figli.



il commento al vangelo della domenica

 


il commento di E. Bianchi al vangelo della seconda domenica del tempo ordinario (20 gennaio 2019):


Gv 2,1-12

In quei giorni vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo 10e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».
Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
Dopo questo fatto scese a Cafàrnao, insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai suoi discepoli. Là rimasero pochi giorni. poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».

Comprendere nelle sue profondità il racconto giovanneo delle nozze di Cana non è un’operazione facile, anche se lo si legge sovente soprattutto in occasione della celebrazione del matrimonio cristiano. La vera domanda che sorge, infatti, è: “Che nozze sono queste?”. E anche: “Chi è lo sposo, chi è la sposa?”.

Il vero protagonista, in effetti, è solo Gesù e i diversi personaggi – la madre, i discepoli, i servi – sono presentati solo in riferimento a lui. I due coniugi che celebrano quelle nozze non appaiono mai e lo sposo al quale si rivolge il maestro di tavola non parla neppure per dare una risposta. In questo modo il quarto vangelo vuole rivelarci che Gesù, radunata la comunità dei discepoli chiamati a sé nel precedente capitolo, celebra le nozze con lei, la sposa con cui stringe la nuova alleanza nuziale.

Resta molto significativo che “la madre di Gesù”, mai chiamata con il suo nome di Maria in questo vangelo, “era già la” (ên ekeî), quale presenza che precede sia Gesù sia i discepoli invitati a quelle nozze. È già là, perché è innanzitutto la figlia di Sion, la figura di Israele che attende l’ora del Messia, e significativamente sta là “all’inizio dei segni” di Gesù, come starà là presso la croce, al compimento di tutti i segni operati da Gesù (cf. Gv 19,25).

Giovanni precisa anche che queste nozze avvengono alla fine della settimana inaugurale del ministero simbolico di Gesù, tre giorni dopo i quattro giorni indicati in precedenza. Così quello delle nozze è il terzo giorno, giorno che evoca l’epifania del Signore al Sinai e la celebrazione dell’alleanza tra Dio e il suo popolo (cf. Es 19,10.16), giorno della gloria di Gesù, giorno in cui si è rivelato quale Signore risorto e vivente (cf. 1Cor 15,4).

Ed ecco che tutti sono ormai al banchetto nuziale, ma manca il vino! In questa situazione di mancanza di un elemento necessario alla festa, la madre di Gesù, attenta a quello svolgimento, interviene presso il figlio dicendogli: “Non hanno vino!”. In tal modo afferma una situazione reale e, nel contempo, invita rispettosamente Gesù a fare qualcosa. Se non vi è vino, come si potranno celebrare le nozze con la gioia necessaria alla festa? Penso sovente che se la chiesa, come la madre di Gesù, in mezzo all’umanità svolgesse anche solo questa funzione di far notare al Signore che “non c’è vino”, non c’è gioia, questo sarebbe già da parte sua assolvere un ministero essenziale…

Nelle Scritture il vino è innanzitutto promessa di Dio stesso, dono della beatitudine e della gioia fatto al suo popolo. È il vino che rallegra il cuore dell’uomo (cf. Sal 104,15), ma anche il cuore di Dio (cf. Gdc 9,13: ’Elohim), ed è proprio il vino che segnerà il banchetto escatologico promesso, attraverso il profeta, a tutti i popoli della terra, quel banchetto in cui si celebrerà la liberazione definitiva dalla morte (cf. Is 25,8): “Il Signore dell’universo imbandirà un banchetto, lo preparerà per tutti i popoli sul monte Sion, un banchetto di vivande scelte e vini eccellenti, di cibi gustosi e vini raffinati” (Is 25,6). È il vino che celebra il clima dell’amore tra lo sposo e la sposa nella “cella vinaria” (Ct 2,4) del Cantico dei cantici, vino che scenderà come rigagnoli dalle colline della terra benedetta (cf. Gl 4,18). È il vino della gratuità, che fa trascendere la vita sotto il segno della necessità del pane (cf. Sal 104,15), in un eccesso che chiama l’uomo e la donna fuori di sé. Per questo nel pasto lasciato da Gesù come suo memoriale ci sono il pane necessario e il vino gratuito (cf. Mc 14,22-24 e par.; 1Cor 11,23-25), perché l’umano deve sempre affermare l’uno e l’altro, sentirsi creatura bisognosa ma anche capace di creazione, di bellezza, di canto e di danza.

Non c’è dunque celebrazione di nozze senza vino, e la madre di Gesù per questo interviene. Ma la risposta enigmatica di Gesù avviene tramite parole che creano una distanza, che le chiedono di restare al suo posto, perché in quanto madre fisica di Gesù non può pretendere nulla: “Che cosa c’è tra me e te, o donna?”. In altri termini, Gesù le sta dicendo che, se c’è una sua relazione primaria con lui, non è il suo averlo generato fisicamente, ma è una relazione più profonda e decisiva con Dio stesso. Poi aggiunge: “Non è ancora giunta la mia ora!”. Anche questa è una parola enigmatica, che forse allude a quell’ora che né lui stesso né sua madre possono decidere. È e sarà l’ora di Gesù come e quando la vuole il Padre, e Gesù ne riceverà il segno dal Padre stesso. Perciò Maria da madre si mostra subito discepola che ascolta, obbedisce al figlio e chiede agli altri di fare lo stesso: “Tutto quello che vi dirà, fatelo”. La madre si manifesta innanzitutto quale discepola e perciò chiede che siano riservati a Gesù ascolto e obbedienza, nient’altro. Non ha un messaggio proprio, non può dire altre parole, perché è una donna credente, capace di ascolto, obbediente al Signore: è la prima discepola tra i discepoli, che invita tutti a diventare discepoli di Gesù!

A questo punto Gesù dà un segno in cui anticipa la sua ora, non ancora venuta, ma che giungerà solo alla croce, dove si celebreranno nozze di sangue. I servi di tavola subito gli obbediscono: portano sei giare piene di acqua, che serviva per la purificazione. Quest’acqua, che secondo i padri della chiesa è segno di tutta l’economia dell’antica alleanza, a causa della presenza di Gesù diventa la bevanda messianica della nuova alleanza. È significativo che il maestro di tavola, colui che la presiedeva, in realtà “non sapeva da dove (póthen) venisse quel vino”, mentre i servi che hanno obbedito alla parola di Gesù sanno che quel vino messianico viene da lui. Così “è avvenuta la manifestazione (ephanérosen) della gloria di Gesù” e i discepoli hanno creduto in lui. Il segno di Cana è simbolico: nozze e alleanza tra Gesù e la sua chiesa.

Quell’acqua così abbondante, più di seicento litri, diventa il vino per le nozze! Quantità e qualità eccezionali dicono che quel vino e più di un semplice vino, è il vino dell’amore donato da Gesù ai suoi, è l’amore che non può più mancare. Noi ancora oggi continuiamo a bere di quel vino di Cana donatoci da Gesù, e alla sua tavola, quando celebriamo l’incontro con lui, l’adesione a lui, la fede in lui, celebriamo le nozze tra lui e la comunità cristiana, la chiesa, suo corpo. Come nelle nozze i due diventano “una sola carne” (Gen 2,24; Mc 10,7.8; Mt 19,5.6; Ef 5,31), così nell’eucaristia i credenti diventano corpo di Cristo, Signore e Sposo, Sposo che si dà totalmente alla sua comunità, alla sua sposa.

Perché è così potente e intrigante la metafora delle nozze? Perché più di altre esprime la verità dell’incarnazione: corpi che diventano un solo corpo, comunione e comunicazione nel canto dell’amore, nella sobria ebbrezza del vino. Il nostro linguaggio umano è limitato, soprattutto quando vuole alludere a realtà invisibili, e allora fa ricorso alle realtà più umane, umanissime: il mangiare, il bere vino, l’incontro dei corpi nella celebrazione dell’amore reciproco e della reciproca appartenenza. Siamo sempre invitati al banchetto di Cana, non per cercare uno sposo e una sposa che non ci sono, ma per essere noi coinvolti in questo incontro tra Cristo, Signore e Sposo, e la sua comunità. Si tratta di andare a Cana,

di cercare di vedere con occhi di fede,
di ascoltare le parole della fede,
di eseguire le parole dette da Gesù,
di gustare il vino del Regno
e di toccare, sì di toccare il corpo di Gesù.

Allora sentiremo che lui è in attesa di bere presto con noi il vino nuovo del Regno (cf. Mc 14,25 e par.): l’ha bevuto sulla terra, l’ha lasciato a noi in dono eucaristico, ma lo berrà di nuovo con noi nella terra nuova, nel cielo nuovo (cf. Is 65,17; 66,22; 2Pt 3,13; Ap 21,1).




“i gesti capaci di fare impazzire di gioia il Padre Eterno”

santità quotidiana

don Ciotti:

“Essere misericordiosi, denunciare le ingiustizie, incontrare Dio negli ultimi”

 

Dio ha bisogno della nostra voce per denunciare le ingiustizie e delle nostre mani per soccorrere gli ultimi. Inoltre è Lui che fissa gli appuntamenti con le persone, a noi però chiede di aiutarlo a fissare questi appuntamenti. Così don Luigi Ciotti parla della “santità della porta accanto”

Un barbone incontrato a 17 anni su una panchina di Torino. Don Tonino Bello. Il clochard Bartolo con la sua casa di cartone. Il vescovo Michele Pellegrino. Suor Margherita, una vita spesa per gli ultimi. L’abbraccio delle madri. Quello della sua quando la baracca in cui vivevano viene spazzata via da un tornado; quelli delle mamme ripescate dal mare di Lampedusa, immortalate per sempre nell’ultimo disperato gesto di proteggere i loro bambini. Le lacrime dei sommozzatori che le riportavano in superficie. E’ un rosario quello sgranato il 15 gennaio da don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e dell’Associazione Libera, alla Pontificia Università Gregoriana dove è stato invitato per parlare di santità quotidiana nell’ambito del ciclo annuale di conferenze pubbliche promosso dal Centro fede e cultura “Alberto Hurtado” dell’Ateneo, ispirato all’esortazione apostolica “Gaudete et Exsultate” di Papa Francesco. Un rosario di gesti e immagini nel quale gli ultimi si saldano ai santi o sono santi essi stessi. Del resto, dice al Sir a margine dell’incontro:

“Dio ci chiede di essere santi nella concretezza di ogni giorno. Di essere misericordiosi, di soccorrere, aiutare, accogliere.

Come noi chiediamo a Lui misericordia, così Lui ci chiede di impegnarci per ungere di dignità, come dice Papa Francesco, la vita di tutte le persone”. “Non si ama Dio se non si ama il prossimo – avverte, e questo sarà il leit motiv della sua riflessione -. I comandamenti sono un invito a essere coerenti, credibili”. Il pensiero va a Lampedusa, anni fa, dove è spesso ritornato, e alla vicenda delle navi Sea Watch e Sea Eye bloccate nel Mediterraneo per 19 giorni: “Non si può respingere la vita delle persone; non si può restare indifferenti. Siamo chiamati a lottare per la vita che vuol dire lottare per la speranza di tutti.

E la speranza non è un reato, l’immigrazione non è un reato”.

Come non è un reato la povertà. Quella che a 17 anni gli ha mosso il cuore quando, emigrato con la sua famiglia “molto povera”, precisa, dal Veneto a Torino, andando a scuola vedeva tutti i giorni un “barbone” con tre cappotti logori addosso, che su una panchina leggeva libri e li sottolineava con la matita rossa e blu. “Avevo 17 anni e intuivo la disperazione di una persona ripiegata su se stessa ma non ne capivo il mistero”. Luigi gli chiese ogni giorno se avesse bisogno di qualcosa, ma l’uomo per dodici giorni non rispose. Il tredicesimo giorno “le prime parole tra un adolescente imbranato e fragile e un signore anziano; un medico di un paesone del nord Italia nella cui vita, come può capitare a ciascuno di noi, è arrivata all’improvviso la tempesta”. “A pezzi – ricorda con emozione don Ciotti – cominciò a raccontarmi la sua disperazione, oltre alla preoccupazione per la ‘bomba’ che i ragazzi si facevano al bar di fronte mischiando farmaci e alcol. Mi chiese di fare qualcosa per loro, lui che era vecchio e fragile non era in grado di aiutarli”. “Dopo qualche giorno – aggiunge con un filo di voce – il mio amico non c’era più, la panchina era vuota, ma a 18 anni ho fondato Gruppo Abele. E’ lui che mi ha permesso di fare uno scatto per andare incontro a chi fa più fatica. Dalla strada fatta di storie e volti ho imparato che è possibile cercare Dio per incontrare le persone, ma è anche possibile cercare le persone per incontrare Lui.

Attraverso gli ultimi ho incontrato Dio”.

“Un gigante e per me un maestro. Morendo mi ha voluto lasciare in dono la stola sacerdotale che lo ha accompagnato nel suo ultimo anno di vita”. Il secondo grano del rosario è don Tonino Bello con il quale don Ciotti ha avuto un lungo rapporto di amicizia. “Aveva un amico che a via della Conciliazione viveva in una scatola di cartone, si chiamava Bartolo – racconta -. Ogni volta che veniva a Roma don Tonino mi parlava di lui e diceva che in Bartolo c’è Dio. E nessuno doveva stupirsi. In Bartolo – assicurava – ci sono frammenti di santità, quei cartoni sono un ostensorio. Ricordando don Tonino penso davvero che

i cartoni di Bartolo e la panchina del mio amico di Torino erano un ostensorio.

La strada mi ha offerto un dono immenso: quelle scatole, quelle baracche, quelle tende mezze rotte dove vivono tante persone sono un ostensorio.

Sono la strada che ci indica il Vangelo.

Nato da pochi mesi, il Gruppo Abele inizia a strappare ragazze al marciapiede e giovani alla droga. Alla fine dello stesso anno, il 1965, Paolo VI nomina Michele Pellegrino arcivescovo di Torino. “Non l’ho mai dimenticato – dice don Ciotti -, vero testimone di santità della porta accanto. Evangelizzare i poveri è stato il suo motto e la sua scelta. Chiese di essere chiamato padre, né eccellenza né eminenza. Scelse una semplice croce di legno e un anello semplicissimo. La sua lettera pastorale “Camminare insieme” la realizzò ascoltando famiglie, giovani, operai, sacerdoti: è stata davvero un camminare insieme”.

Santità quotidiana sono le mamme con le loro fatiche e i loro sacrifici. E i loro abbracci.

Come la mamma di don Ciotti, che durante il tornado che nel 1953 spezzò la guglia della Mole antonelliana teneva stretti i suoi figli (Luigi aveva sei anni) mentre metà della povera baracca in cui vivevano veniva spazzata via dalla furia del vento. “Con le lacrime agli occhi ma immobile, per proteggerci. Non scorderò mai questa immagine”. E Lampedusa. “Ci vado spesso e non posso dimenticare quando su richiesta del programma tv ‘A Sua immagine’ abbiamo commentato il Vangelo con i sommozzatori che stavano recuperando i corpi degli annegati nel naufragio. Adulti, padri di famiglia che raccontavano con le lacrime agli occhi lo strazio di quei 20 giorni, il dover dividere le mamme dai loro bambini stretti in un ultimo, disperato abbraccio. Dicevano:

Li avremmo voluto lasciare lì, in quell’abbraccio.

Il rosario prosegue con suor Margherita, “una donna molto semplice che a Torino tutti conoscono”. Per lunghi anni caposala all’ospedale San Giovanni, ad un certo punto venne chiesto alle suore di lasciare il nosocomio. In un solo sabato mattina, al mercato di zona 4 mila persone firmarono perché potesse restare. “Vi è rimasta fino alla pensione ed ora, infaticabile, lavora con noi per gli ultimi”.

“Dio – conclude don Ciotti – ha bisogno della nostra voce per denunciare le ingiustizie e delle nostre mani per soccorrere. Inoltre è Lui che fissa gli appuntamenti con le persone, a noi però chiede di aiutarlo a fissare questi appuntamenti. Sono convinto che sono questi gesti a fare impazzire di gioia il Padre Eterno”.




caro Salvini, la pacchia l’avete fatta voi. Sulla nostra pelle. Sulle nostre vite

lettera a Salvini da parte di un’immigrata africana

«La faccia cattiva la dedichi ai potenti che occupano casa mia»

Ho visto la sua faccia ieri al telegiornale. Dipinta dei colori della rabbia. La sua voce ,poi, aveva il sapore amarissimo del fiele. Ha detto che per noi che siamo qui nella vostra terra è finita la pacchia. Ci ha accusati di vivere nel lusso, rubando il pane alla gente del suo paese. Ancora una volta ho provato i morsi atroci della paura…
Chi sono? Non le dirò il mio nome. I nomi, per lei, contano poco. Niente. Sono una di quelli che lei chiama con disprezzo “clandestini”.
Vengo da un paese, la Nigeria, dove ben pochi fanno la pacchia e sono tutti amici vostri. Lo dico subito. Non sono una vittima del terrorismo di Boko Haram. Nella mia regione, il Delta del Niger non sono arrivati. Sono una profuga economica, come dite voi, una di quelle persone che non hanno alcun diritto di venire in Italia e in Europa.
Lo conosce il Delta del Niger? Non credo. Eppure ogni volta che lei sale in macchina può farlo grazie a noi. Una parte della benzina che usa viene da lì.
Io vivevo alla periferia di Port Harkourt, la capitale dello Stato del Delta del Niger. Una delle capitali petrolifere del mondo. Vivevo con mia madre e i miei fratelli in una baracca e alla sera per avere un po’ di luce usavamo le candele. Noi come la grande maggioranza di chi vive lì.
E’ dura vivere dalle mie parti. Molto dura. Un inferno se sei una ragazza. Ed io ero una ragazza. Tutto è a pagamento. Tutto. Se non hai soldi non vai a scuola e non puoi curarti. Gli ospedali e le scuole pubbliche non funzionano. E persino lì, comunque, se vuoi far finta di studiare o di curarti, devi pagare. E come fai a pagare se di lavoro non ce ne è? La fame, la miseria, la disperazione e l’assenza di futuro, sono nostre compagne quotidiane.
La vedo già storcere il muso. E’ pronto a dire che non sono fatti suoi, vero?
Sono fatti suoi, invece.
Il mio paese, la regione in cui vivo, dovrebbe essere ricchissima visto che siamo tra i maggiori produttori di petrolio al mondo. E invece no. Quel petrolio arricchisce poche famiglie di politici corrotti, riempie le vostre banche del frutto delle loro ruberie, mantiene in vita le vostre economie e le vostre aziende.
Il mio paese è stato preda di più colpi di stato. Al potere sono sempre andati, caso strano, personaggi obbedienti ai voleri delle grandi compagnie petrolifere del suo mondo, anche del suo paese. Avete potuto, così, pagare un prezzo bassissimo per il tanto che portavate via. E quello che portavate via era la nostra vita.
Lo avete fatto con protervia e ferocia. La vostra civiltà e i vostri diritti umani hanno inquinato e distrutto la vita nel Delta del Niger e impiccato i nostri uomini migliori. Si ricorda Ken Saro Wiwa? Era un giovane poeta che chiedeva giustizia pe noi. Lo avete fatto penzolare da una forca…
Le vostre aziende, in lotta tra loro, hanno alimentato la corruzione più estrema. Avete comprato ministri e funzionari pubblici pur di prendervi una fetta della nostra ricchezza.
L’Eni, l’Agip, quelle di certo le conosce. Sono accusate di aver versato cifre da paura in questo sporco gioco. Con quei soldi noi avremmo potuto avere scuole e ospedali. A casa, la sera, non avrei avuto bisogno di una candela…
Sarei rimasta lì, a casa mia, nella mia terra.
Avrei fatto a meno della pacchia di attraversare un deserto. Di essere derubata dai soldati di ogni frontiera e dai trafficanti. Di essere violentata tante volte durante il viaggio. Avrei volentieri fatto a meno delle prigioni libiche, delle notti passate in piedi perché non c’era posto per dormire, dell’acqua sporca e del pane secco che ti davano, degli stupri continui cui mi hanno costretta, delle urla strazianti di chi veniva torturato.
Avrei fatto a meno della vostra ospitalità. Nel suo paese tante ragazze come me hanno come solo destino la prostituzione. Lo sapete. E non fate niente contro la nostra schiavitù anzi la usate per placare la vostra bestialità. Io sono riuscita a sfuggire a questo orrore, ma sono stata schiava nei vostri campi. Ho raccolto i vostri pomodori, le vostre mele, i vostri aranci in cambio di pochi spiccioli e tante umiliazioni.
Ancora una volta, la pacchia l’avete fatta voi. Sulla nostra pelle. Sulle nostre vite. Sui nostri poveri sogni di una vita appena migliore.
Vedo che non ho mai pronunciato il suo nome. Me ne scuso, ma mi mette paura. Quella per l’ingiustizia di chi sa far la faccia dura contro i deboli, ma sa sorridere sempre ai potenti.
Vuole che torniamo a casa? Parli ai suoi potenti, a quelli degli altri paesi che occupano di fatto casa mia in una guerra velenosa e mai dichiarata. Se ha un po’ di dignità e di coraggio, la faccia brutta la faccia a loro.



per un mondo alla deriva … un Dio ‘rovesciato’

 

“un Dio rovesciato”

don Aldo Antonelli

 

Dall’alto dei miei sogni, frustati ma non frustrati, vedo un mondo alla deriva.
Gente assetata di amore e popoli in guerra:
Dittature di piombo e democrazie di plastica;
Quattro miliardi di tonnellate di rifiuti che ogni anno si accatastano su se stessi;
1.400 miliardi di dollari spesi per commercio di armi mentre
795 milioni di persone soffrono la fame;
7.000 tonnellate di oppiacei e
3 milioni di bambini che muoiono di fame ogni anno;
250 milioni di emigranti nel mondo alla dannata ricerca di un luogo in cui poter vivere.
È una umanità che a forza di produrre armi, droghe e rifiuti è diventata rifiuto esse stessa! (…)

Sono innamorato
di questo Dio rovesciato
che non abita i palazzi del potere,
per il quale non c’è posto negli alberghi dei satolli
e che i sacerdoti del tempio non conoscono e non riconoscono:
Dio laico

Mi dà ribelle speranza
questo Dio non più Dio
(o, forse, ancor più Dio?)
che non piove dall’alto
delle presunzioni spocchiose dei saputi
ma nasce dal basso di una storia
fuori legge e fuori canone:
Dio “ateo”!

I selci sconnessi di campagna
hanno più dignità
dei prefabbricati compatti della città:
questi facilmente componibili,
quelli non gestibili:
Dio anarchico!

Le parole balbettate
nel silenzio della notte
sono più eloquenti
che i mantra urlati dai cannoni mediatici dei satrapi a gongolo:
Dio indicibile!

Il dubbio
del pensiero che domanda
è più splendente della certezza insolente
di profferte risposte:
Dio “in-certo”!

Ti amo, rovesciato Dio.

Con te piango,
ferita tenerezza.

Con te sogno,
inesistente,
a(v)venire!

don Aldo Antonelli, Huffington Post, 23 dicembre  2015



l’evangelizzazione dei rom e sinti in Italia – il volume di L. Piasere

la chiesa nomade

per un’antropologia storica dell’evangelizzazione cattolica dei rom e sinti in Italia

“Cari zingari, cari nomadi, cari gitani, venuti da ogni parte d’Europa, a voi il nostro saluto.”

Con queste parole il 26 settembre 1965 papa Paolo VI inizia il suo discorso in un grande raduno che viene considerato oggi il punto di partenza per nuove strategie pastorali verso rom e sinti. Il libro analizza il modo in cui la Chiesa cattolica contribuisce alla metamorfosi dei “nomadi” nell’Italia (e in parte nell’Europa) della seconda metà del Novecento attraverso quelle nuove strategie pastorali. Si tratta di strategie che portarono decine di preti, suore e laici a vivere con i “nomadi” in nome della condivisione in Cristo, che svilupparono un’editoria cattolica rivolta ai “nomadi” o riguardante i “nomadi”, che favorirono la traduzione in romanes di testi ezvangelici e liturgici e che portarono agli onori degli altari, per la prima volta nella storia, un “nomade”. Ma le strategie pastorali non appaiono sempre omogenee e concordi all’interno della Chiesa, né nei rapporti con i “nomadi”, né nei rapporti con le autorità diocesane e parrocchiali. Partendo dalle esperienze etnografiche dell’autore, il volume analizza tali rapporti, tenendo in considerazione le storie di vita di singoli missionari e attivisti religiosi che hanno vissuto per decenni nei campi nomadi o nei quartieri rom della Penisola.

Leonardo Piasere è professore ordinario di Antropologia culturale all’Università di Verona. Specialista di studi rom, è stato direttore di diversi progetti di ricerca nazionali e internazionali. È autore di centinaia di pubblicazioni, molte delle quali tradotte all’estero.




il commento al vangelo della domenica

Il cielo si apre

Siamo tutti figli di Dio nel Figlio


Il cielo si apre Siamo tutti figli di Dio nel Figlio
Ermes Ronchi
il commento di E. Ronchi al vangelo della domenica del Battesimo di Gesù (13 gennaio 2019):

In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il Battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».

«Viene dopo di me colui che è più forte di me”. In che cosa consiste la forza di Gesù? Lui è il più forte perché parla al cuore. Tutte le altre sono voci che vengono da fuori, la sua è l’unica che suona in mezzo all’anima. E parla parole di vita.
«Lui vi battezzerà…» La sua forza è battezzare, che significa immergere l’uomo nell’oceano dell’Assoluto, e che sia imbevuto di Dio, intriso del suo respiro, e diventi figlio: a quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio (Gv 1,12). La sua è una forza generatrice («sono venuto perché abbiano la vita in pienezza», Gv 10,10), forza liberante e creativa, come un vento che gonfia le vele, un fuoco che dona un calore impensato. «Vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Il respiro vitale e il fuoco di Dio entrano dentro di me, a poco a poco mi modellano, trasformano pensieri, affetti, progetti, speranze, secondo la legge dolce, esigente e rasserenante del vero amore. E poi mi incalzano a passare nel mondo portando a mia volta vento e fuoco, portando libertà e calore, energia e luce. Gesù stava in preghiera ed ecco, il cielo si aprì. La bellezza di questo particolare: il cielo che si apre. La bellezza della speranza! E noi che pensiamo e agiamo come se i cieli si fossero rinchiusi di nuovo sulla nostra terra. Ma i cieli sono aperti, e possiamo comunicare con Dio: alzi gli occhi e puoi ascoltare, parli e sei ascoltato.
E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento». La voce annuncia tre cose, dette per Gesù e per ciascuno di noi: “Figlio” è la prima parola: Dio è forza di generazione, che come ogni seme genera secondo la propria specie. Siamo tutti figli di Dio nel Figlio, frammenti di Dio nel mondo, specie della sua specie, abbiamo Dio nel sangue e nel respiro.
“Amato” è la seconda parola. Prima che tu agisca, prima di ogni merito, che tu lo sappia o no, ogni giorno ad ogni risveglio, il tuo nome per Dio è “amato”. Immeritato amore, incondizionato, unilaterale, asimmetrico. Amore che anticipa e che prescinde da tutto.
“Mio compiacimento” è la terza parola. Che nella sua radice contiene l’idea di una gioia, un piacere che Dio riceve dai suoi figli. Come se dicesse a ognuno: figlio mio, ti guardo e sono felice. Se ogni mattina potessi immaginare di nuovo questa scena: il cielo che si apre sopra di me come un abbraccio, un soffio di vita e un calore che mi raggiungono, il Padre che mi dice con tenerezza e forza: figlio, amore mio, mia gioia, sarei molto più sereno, sarei sicuro che la mia vita è al sicuro nelle sue mani, mi sentirei davvero figlio prezioso, che vive della stessa vita indistruttibile e generante.