una ostilità immotivata e razzista contro i migranti

migranti

gli sbarchi si riducono, l’ostilità aumenta

di Andrea Federica de Cesco
in “Corriere della Sera” del 5 dicembre 2018

«Nel corso del 2018 abbiamo vissuto un paradosso: a fronte di una drastica riduzione degli sbarchi (dell’80%), c’è stata una drammatizzazione e strumentalizzazione del fenomeno migratorio, che si sta traducendo in un’aperta ostilità verso gli stranieri»

Vincenzo Cesareo, segretario generale della Fondazione Ismu (iniziative e studi sulla multietnicità), ha aperto così la mattinata dedicata al ventiquattresimo rapporto dell’ente di ricerca scientifica indipendente, che dal 1993 è impegnato nello studio e nella diffusione di una corretta conoscenza dei fenomeni migratori.

Il testo, edito da FrancoAngeli, è stato presentato  all’Università degli Studi di Milano, con il vicedirettore del Corriere Venanzio Postiglione in veste di moderatore e con il politologo Nicola Pasini ad aprire il dibattito.

Il responsabile del settore Statistica della Fondazione Ismu Gian Carlo Blangiardo ha poi messo in luce alcuni dei numeri raccolti nel volume, a partire da quelli sulla presenza di stranieri in Italia: al primo gennaio scorso erano 6 milioni e 108 mila; considerando che la popolazione italiana conta 60 milioni e 484 mila residenti, ciò significa che è stata superata la soglia simbolica di uno straniero ogni 10 abitanti. «Rispetto al 2017 c’è stato un incremento del 2,5% degli stranieri presenti in Italia. Tale aumento è trascinato in particolare da quello dell’8,6% degli irregolari», ha detto Blangiardo, che è a un passo dalla guida dell’Istat.

Un altro tema centrale è la formazione dei giovani stranieri e l’intercultura come pratica educativa, su cui si è concentrata la responsabile Ismu del settore Educazione Mariagrazia Santagati, mentre il direttore generale della Cooperazione internazionale e dello sviluppo della Commissione europea Stefano Manservisi ha evidenziato l’importanza di facilitare gli investimenti privati nei Paesi africani e anche le rimesse dei migranti. Nello stesso contesto il Centro sportivo italiano di Milano ha ricevuto il riconoscimento della Fondazione Cariplo e della Fondazione Ismu 2018 per il progetto «Sport Inside», che promuove i percorsi d’integrazione sociale e di inserimento per i giovani stranieri che chiedono la protezione internazionale

image_pdfimage_print

il commento al vangelo della domenica

“convertirsi partendo da un solo verbo: dare”

il commento di E. Ronchi al vangelo della terza domenica di avvento(16 dicembre 2018):

In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». […]

«Esulterà, si rallegrerà, griderà di gioia per te, come nei giorni di festa». Sofonia racconta un Dio che esulta, che salta di gioia, che grida: «Griderà di gioia per te», un Dio che non lancia avvertimenti, oracoli di lamento o di rimprovero, come troppo spesso si è predicato nelle chiese; che non concede grazia e perdono, ma fa di più: sconfina in un grido e una danza di gioia. E mi cattura dentro. E grida a me: tu mi fai felice! Tu uomo, tu donna, sei la mia festa.
Mai nella Bibbia Dio aveva gridato. Aveva parlato, sussurrato, tuonato, aveva la voce interiore dei sogni; solo qui, solo per amore, Dio grida. Non per minacciare, ma per amare di più. Il profeta intona il canto dell’amore felice, amore danzante che solo rende nuova la vita: «Ti rinnoverà con il suo amore».
Il Signore ha messo la sua gioia nelle mie, nelle nostre mani. Impensato, inaudito: nessuno prima del piccolo profeta Sofonia aveva intuito la danza dei cieli, aveva messo in bocca a Dio parole così audaci: tu sei la mia gioia.
Proprio io? Io che pensavo di essere una palla al piede per il Regno di Dio, un freno, una preoccupazione. Invece il Signore mi lancia l’invito a un intreccio gioioso di passi e di parole come vita nuova. Il profeta disegna il volto di un Dio felice, Gesù ne racconterà il contagio di gioia (perché la mia gioia sia in voi, Giovanni 15,11).
Il Battista invece è chiamato a risposte che sanno di mani e di fatica: «E noi che cosa dobbiamo fare?». Il profeta che non possiede nemmeno una veste degna di questo nome, risponde: «Chi ha due vestiti ne dia uno a chi non ce l’ha». Colui che si nutre del nulla che offre il deserto, cavallette e miele selvatico, risponde: «Chi ha da mangiare ne dia a chi non ne ha». E appare il verbo che fonda il mondo nuovo, il verbo ricostruttore di futuro, il verbo dare: chi ha, dia!
Nel Vangelo sempre il verbo amare si traduce con il verbo dare. La conversione inizia concretamente con il dare. Ci è stato insegnato che la sicurezza consiste nell’accumulo, che felicità è comprare un’altra tunica oltre alle due, alle molte che già possediamo, Giovanni invece getta nel meccanismo del nostro mondo, per incepparlo, questo verbo forte: date, donate. È la legge della vita: per stare bene l’uomo deve dare.
Vengono pubblicani e soldati: e noi che cosa faremo? Semplicemente la giustizia: non prendete, non estorcete, non fate violenza, siate giusti. Restiamo umani, e riprendiamo a tessere il mondo del pane condiviso, della tunica data, di una storia che germogli giustizia. Restiamo profeti, per quanto piccoli, e riprendiamo a raccontare di un Dio che danza attorno ad ogni creatura, dicendo: tu mi fai felice.

Fonte:www.avvenire.it

image_pdfimage_print

il nuovo libro di Zanotelli contro il ‘nuovo razzismo’

il manifesto antirazzista di un vero rivoluzionario

il nuovo libro di Alex Zanotelli

“prima che gridino le pietre”

“manifesto contro il nuovo razzismo”

pubblicato da Chiarelettere (150 pagine, 15 euro)

di Paolo Piffer
in “Trentino” del 5 dicembre 2018

Un dato:

Secondo l’Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni unite che si occupa di migrazioni), i rifugiati nel mondo sono 65 milioni, l’86% dei quali è ospite dei Paesi più poveri. Solo il restante 14% si trova in Occidente.

E un commento:

“Eppure l’Europa si sente sotto assedio, si sente invasa, reagisce con paura e ostilità, erge muri, srotola filo spinato, chiude i porti, respinge i migranti. Quella stessa Europa che pretende di essere l’esempio della civiltà tollera episodi di discriminazione e xenofobia. Gli italiani, emigrati negli anni in tutto il mondo, hanno dimenticato la loro storia, o fanno finta di non ricordarla”.

Padre Alex Zanotelli, il comboniano originario di Livo, in val di Non, torna in libreria dopo “Korogocho. Alla scuola dei poveri” – che risale ormai ad una quindicina d’anni fa, sulla sua esperienza missionaria nella baraccopoli alle porte di Nairobi, in Kenia – con “Prima che gridino le pietre”, pubblicato da Chiarelettere (150 pagine, 15 euro).”Manifesto contro il nuovo razzismo” è il sottotitolo. Perché di questo si tratta. Di un accorato appello, indignato, contro il trattamento riservato ai migranti da gran parte dell’Europa, come dagli Stati Uniti di Trump.

Da buon giornalista, è stato per anni direttore della rivista “Nigrizia”, Zanotelli prende in mano i numeri.

“È semplicemente ridicolo parlare di invasione – scrive – In Europa gli abitanti sono più di cinquecento milioni e gli immigrati arrivati negli ultimi sei anni sono meno di due milioni della popolazione, meno dello 0,4%: una goccia nel mare”.

E ancora:

“Se si guarda all’Italia è vero che abbiamo avuto molti sbarchi ma il numero di rifugiati ogni mille abitanti è molto più basso che in altri Paesi d’Europa: 2,4 rifugiati ogni 1000 abitanti secondo i dati dell’Unhcr, tutto sommato pochi rispetto ai 23 rifugiati ogni 1000 della Svezia, gli 11 ogni 1000 della Norvegia, ma anche la Germania ne ospita di più (8,1 ogni 1000) e la Francia (4,6 ogni 1000)“.

Sugli irregolari presenti in Italia, annota:

“Non sappiamo esattamente quanti siano ma non è difficile fare una stima realistica e non di pura propaganda (come invece il ministro dell’interno Matteo Salvini che in campagna elettorale ha promesso di mandarne a casa 500mila). Se si sommano le richieste di asilo respinte dalle commissioni territoriali dal 2014 ad oggi si arriva ad una cifra di poco superiore a 100mila persone”.

“Siamo di fronte a un razzismo di Stato”, e Zanotelli ne ha per tutti, dalle leggi TurcoNapolitano alla Bossi-Fini, dai decreti Maroni alla “realpolitik di Minniti”. Di fronte al quale

“l’unica arma che abbiamo è la disobbedienza civile, ciascuno nel suo ruolo, se non diciamo no qui e ora salta la nostra umanità”.

Guarda anche in casa sua il comboniano.

“Nel mio paese d’origine, in Trentino, il 50% ha votato Lega (per l’esattezza, alle ultime politiche, il 54,04% ndr). Ne fui profondamente indignato – scrive – Mi sono vergognato perché non ci si può dire cristiani e contemporaneamente aderire ai valori della Lega, o l’una o l’altra cosa”.

Neanche presagisse l’invito del neoassessore provinciale leghista Mirko Bisesti a porre crocefissi nelle aule scolastiche e metter su presepi in vista del Natale negli istituti, padre Alex tuona:

“La croce rappresenta un uomo che predicava l’amore e la fratellanza ed è morto per le sue idee, morto insieme a due ladroni, non compreso, non amato, tradito. Quell’uomo stava con i poveri, le prostitute, gli stranieri, i malati, gli infermi. Quando guardiamo il presepe dobbiamo renderci conto che non è una composizione pittorica e folcloristica, è la rappresentazione di una famiglia povera che vaga in cerca di riparo. Altrimenti il presepe, se viene usato come simbolo identitario contro altri, diventa l’opposto del suo significato originario”.

Nel “manifesto” c’è poi la lista dei tanti casi di stranieri che negli ultimi mesi, da nord a sud della penisola, sono stati attaccati, da italiani. Una sequela dolorosa. E una sorta di “breviario” africano. Il continente dal quale arrivano migliaia e migliaia di migranti, spesso non accolti. Fortunatamente, sottintende Zanotelli,

“c’è sempre qualcuno che si ribella, che non sta in silenzio. E sono queste persone a fare la differenza”.

image_pdfimage_print

la giornalista linciata sui social

 

ha denunciato le violenze contro una ladra rom, la giornalista Rai chiude Facebook per i troppi insulti

le violenze verbali subite dalla giornalista sono continuate anche su Internet, tanto da costringerla a chiudere il proprio account

 

Parole irripetibili. Sconcezze. Sessismo a go go e esaltazione della violenza. Non c’è da stupirsi che Giorgia Rombolà, la giornalista Rai che oggi è stata brutalmente aggredita verbalmente dai passeggeri della Metro A di Roma per aver difeso una donna rom, abbia deciso di chiudere il suo profilo facebook.

La Rombolà ha assistito a un tentato furto da parte della rom, che era già stata adocchiata e fermata dai vigilantes che la stavano trattenendo. Ma la vittima del tentato furto ha deciso che non siamo a Roma, nel 2018, ma nel Far West o in qualche villaggio medievale in cui vale la legge del taglione: se rubi, ho il diritto di pestarti a sangue. E così giù di botte, tirate di capelli, testa sbattuta contro il muro. Il tutto davanti alla figlia della donna, di circa 4 anni, che è caduta a terra senza che nessuno si preoccupasse di aiutarla.

La giornalista ha cercato di intervenire e per tutta risposta il suo viaggio in metro è stato costellato di insulti, che sono continuati su internet con questi toni.
Ad esempio sulla pagina del Primato Nazionale, testata di estrema destra legata a Casapound, ne sono comparsi molti, anche se i più sconci erano nel profilo della giornalista che è stato chiuso.

“Ringraziasse Dio che non abbiano preso a calci nel culo pure lei e con ceffoni sulla bocca che farebbe meglio a tenere chiusa. ignobile idiota”

“Per sostentarsi bisogna lavorare onestamente non rubare… capito buonista del cazzo….tanto la cessa non prende mezzi pubblici come tutti ma gira in macchinone” (al signore sfugge che il tutto è avvenuto in metro).

“Beh, poteva offrire il suo portafogli alla rom!
Continua a fare la bella addormentata, chissà, forse qualche principe rom, o africano ti sveglierà … non so in che modo ma ti sveglierà”

“E anche grazie a questi pseudo giornalisti che l’Italia sta andando a puttane … nel dubbio una passata l’avrei data anche a lei..”

Ovviamente, trattandosi di una donna, non sono mancati gli insulti sessisti, anche da parte di altre donne.

Siamo alla frutta: oltre a essere precipitati in un clima da Far West, ci siamo anche abituati a una violenza fisica e verbale che permea la nostra quotidianità. Essere pronti ad alzare le mani e la voce sembra essere diventata la normalità.

image_pdfimage_print

la cosa più importante nella vita secondo Boff

alla fine saremo tutti giudicati sull’amore

quello effettivo

un colloquio con Leonardo Boff

 

 

Forse aveva ragione Bauman quando scriveva:

“Il vero problema dell’attuale stato della nostra civiltà è che abbiamo smesso di farci delle domande. Astenerci dal porre certi problemi è molto più grave di non riuscire a rispondere alle questioni già ufficialmente sul tappeto; mentre porci domande sbagliate troppo spesso ci impedisce di guardare ai problemi davvero importanti. Il prezzo del silenzio viene pagato con la dura moneta delle umane sofferenze. Porsi le questioni giuste è ciò che, dopotutto, fa la differenza tra l’affidarsi al fato e perseguire una destinazione, tra la deriva e il viaggio. Mettere in discussione le premesse apparentemente indiscutibili del nostro modo di vivere può essere considerato il più urgente dei servizi che dobbiamo svolgere per noi stessi e per gli altri”.

Per questo abbiamo bisogno di letture “divergenti” che aiutino – anche le nostre comunità ecclesiali – a guardare in profondità, a mettere in discussione l’ovvio, a chiedere fino a che punto la fede in Gesù Cristo è passione per l’uomo e per la storia.

Lo facciamo con un testimone privilegiato: Leonardo Boff, uno dei padri della teologia della liberazione. Boff, nipote di immigrati veneti giunti in Brasile alla fine del XVIII secolo per installarsi nel Rio Grande do Sul, è entrato nell’Ordine dei frati francescani minori nel 1959. Emessa la professione solenne e diventato sacerdote, studia negli Stati Uniti,in Belgio e in Germania, dove consegue il dottorato di filosofia e teologia presso l’Università di Monaco (uno dei due relatori era Joseph Ratzinger).

Tornato in Brasile, Boff occupa la cattedrale di teologia sistematica ed ecumenica a Petropolis, è direttore di numerose riviste teologiche e consulente della Conferenza episcopale brasiliana. La sua azione teologica, unita a quella di Gustavo Gutierrez, sostanzia la teologia della liberazione.

Ma l’uscita del libro “Chiesa: carisma e potere” gli procura un confronto serrato con la Congregazione per la Dottrina della Fede che gli impone, per un anno, un “silenzio ossequioso”. Dopo qualche anno, Leonardo Boff abbandona l’Ordine dei francescani. Ma non il suo impegno nelle comunità di base brasiliane e la sua attività di teologo, docente e scrittore. Nel 1993 è nominato docente di etica, filosofia della religione ed ecologia presso l’Università Statale di Rio de Janeiro.

Attualmente vive a Jardim Araras, una riserva ecologica a Petropolis, insieme a Marcia Maria Monteiro de Miranda e ha sei bambini adottati.

Cosa vuol dire guardare e leggere la storia con gli occhi di chi fa più fatica, con gli occhi dei poveri?

Significa cambiare lo scenario. Perché ogni punto di vista è a partire da un punto. Da quello che scegliamo, dipende il nostro sguardo e il nostro giudizio. I poveri sono la stragrande parte dell’umanità, sono la maggioranza della popolazione. Eppure, nonostante questo, non hanno voce: sono socialmente invisibili, non contano, sono considerati uno zero economico perché producono poco e consumano poco. Nella contabilità del sistema non hanno un peso.

Qual è stata l’intuizione della teologia della liberazione? E’ stata quella di sostenere che coloro che sono ai margini, che vivono nella periferia, coloro che secondo il giudizio del mondo sono non persone,  sono, invece, l’apparizione di Cristo crocefisso nella storia, sono coloro che hanno la centralità nel Vangelo, i primi destinatari del messaggio di Gesù.  Vedere la verità evangelica a partire dai poveri significa vedere a partire dalla stragrande parte della popolazione.

E questo cambia radicalmente il paesaggio sociale. Occorre conoscere la vita dei poveri nelle favelas, nelle borgate: non funziona niente: non c’è né Stato né la scuola, né parrocchia, né polizia. Uomini e donne, vecchi e bambini  abbandonati a se stessi. Sopravvivono in mezzo a questa immensa via crucis di dolore e di passione. Vedere il mondo a partire da loro significa dire anzitutto che questo non può essere, bisogna cambiare questa realtà. E’ troppo disumana, troppo ingiusta. Ti fa star male.

Soprattutto quando incontri il dolore innocente: i bambini che stendono le mani, il dramma, diffuso, della prostituzione infantile, lo sfascio di molte famiglie. Tutto questo provoca l’ira sacra, come quella dei profeti biblici.

Da questo sguardo sul mondo è nata la teologia della liberazione?

Sì! La povertà se analizzata in profondità è sempre un’ingiustizia e ogni ingiustizia è peccato. Sociale e storico insieme. Perché la povertà non è naturale, non è qualcosa che Dio vuole: è stata prodotta dentro relazioni storiche umane la cui conseguenza ha generato impoverimento. Non sono poveri, sono impoveriti, sono oppressi. E contro l’oppressione vale la liberazione.

Noi, alla fine degli anni sessanta, siamo partiti da una domanda, che rimane aperta ancora dopo tanti anni: come annunciare Dio, padre e madre di tenerezza di bontà, in un mondo di miserabili? Come dire che Dio è buono a chi vive una vita disperata?

Quali conseguenze nascono da questa domanda?

Per annunciare che Dio è veramente padre di tutti, specialmente dei poveri, perché sia vero il nostro annuncio, bisogna cambiare questa realtà. Non a partire da Gramsci o da Marx. No! Occorre cambiare dal capitale simbolico del cristianesimo: tutti questi poveri sono allo stesso tempo poveri e credenti, poveri e cristiani.

Come fare in modo che la fede cristiana, troppo a lungo sinonimo di rassegnazione, possa essere una fede di liberazione? Nei vangeli si racconta che Gesù libera le persone dalla fame, dal dolore, dalla morte. Occorre fare del contenuto della fede una forza di mobilitazione sociale,  un atteggiamento per un cambio di liberazione.

Cosa significa in concreto?

Significa avviare un’azione che porti più libertà. E’ un processo pedagogico, non avviene dall’oggi al domani. Per questo la teologia della rivoluzione non è mai stata una teologia latinoamericana. E’ stata pensata in Europa.

Per noi liberazione è creare le condizioni perché, riconoscendosi carichi di una dignità che viene da Gesù Cristo, ogni uomo, insieme agli altri, crei le condizioni sociali, culturali, economiche e politiche perché possa essere specchio dell’immagine divina.

I poveri al centro, dunque

Certo. Dobbiamo costruire la liberazione a partire dai poveri. Occorre superare la visione paternalistica, assistenzialistica, di chi ha molto e aiuta coloro che non hanno niente.  E’ importante condividere il pane. Però questo rischia di tenere l’altro sempre dipendente.

Occorre invece fare del povero soggetto della sua liberazione. I poveri sanno pensare, organizzarsi, muoversi. Non siamo noi a liberarli. Non è né la Chiesa né lo stato che liberano i poveri. Possono stare accanto a loro, camminare insieme, condividere il loro dolore, assumere la loro causa. Anche se tutto questo può procurare ferite e lacerazioni.

L’unica Chiesa che oggi nel mondo ha dei martiri è la Chiesa della liberazione: tantissimi vescovi, suore, laici, sacerdoti. Perché? Perché hanno assunto la posizione più difficile. Vista dai ricchi la loro era un’insurrezione, una tribolazione sociale che doveva essere evitata. Invece hanno dimenticato che l’opposto della povertà non è la ricchezza è la giustizia. Questo è il cuore della teologia della liberazione e il centro dell’insegnamento sociale della chiesa. In molti documenti – da Leone XIII in poi – la chiesa ha affermato che non vuole una società povera o una società ricca ma una società giusta e fraterna.

Ma se la Chiesa assume il punto di vista dei crocefissi della storia, non rischia di diventare una grande Ong, di ridurla ad essere solo un organizzazione umanitaria?

Può darsi che ci siano stati eccessi perché quando si vede a quale livello arriva la disumanizzazione qualcuno può aver assunto posizioni radicali. Ricordo quando portai Moltmann, il grande teologo della speranza, a visitare il Brasile. Al termine del lungo viaggio ci chiese perché non facevamo niente di fronte al peccato sociale, all’ingiustizia strutturata.  Gli abbiamo spiegato che avevamo scelto la pedagogia di Paolo Freire che implica da sempre un coinvolgimento di tutti, un cambiamento, lento e graduale, delle menti e dei cuori.

Sì, può darsi, come ricorda mio fratello Clodovis, che qualcuno abbia posto l’accento più sulla liberazione che sulla teologia. Ma la stragrande maggioranza dei teologi, delle comunità di base, dei cristiani latinoamericani non dimenticano la radice, la fonte della liberazione che è il Vangelo e la prassi di Gesù. La fede cristiana in sé stessa è liberatrice e questo non perché i teologi lo dicono. La vita di Gesù ha sempre un contenuto di liberazione e tutti dobbiamo fare in modo che il vangelo non diventi un pozzo di acque morte ma sorgente di acque vive.

Alla fine della vita, ci ricordano i grandi mistici, saremo giudicati non se avremo fatto teologia o meno ma se avremo avuto un rapporto di cura e di amore con quanti hanno fame, hanno sete, sono colpiti dall’Aids. Saremo, cioè, giudicati dall’amore. Quello effettivo.

A ottant’anni, dopo che hai scritto decine di libri, ti sei impegnato in molte lotte, qual è la tua immagine di Dio?

Ti racconto una piccola storia che forse spiega quello che ho in mente. In Brasile c’era un grande antropologo che ha sempre difeso gli indios, cercato la giustizia e per questo ha vissuto anche in esilio. Era ateo e invidiava frei Betto e me. “Come mai due persone intelligenti come voi credono in Dio?” ci diceva sempre. Aveva il cancro e sapeva di morire. Un giorno ha voluto che andassi a trovarlo perché desiderava avere un’ultima grande discussione metafisica con me. Mi ha fatto leggere la sua autobiografia dove terminava, con amarezza, dicendo che tutto – la sua vita e le sue passioni, la sua lotta e il suo impegno – finiva ora nella polvere cosmica, nel niente. Mi chiese: “Tu che dici?”.

Gli ho risposto che questo non era vero. “C’è un’ultima istanza di amore e di accoglienza che ha la figura di una nonna (italiana, non tedesca!).” Gli ho detto: “Quando arriverai di là, non porterai con te alcun passaporto, passerai direttamente. La tua vita a difesa dei poveri ti impedirà di fermarti alla dogana, di pagare pesanti pedaggi. E quando giungerai, Dio ti aprirà le sue braccia dicendoti: “Finalmente sei arrivato. Ti aspettavo con tanta nostalgia. Perché sei giunto così tardi?” E comincerà a abbracciarti e baciarti con dolcezza. Perché Dio è madre e padre di infinita tenerezza”.  Lui ha cominciato a piangere e ha perso i sensi.

Quando si è ripreso mi ha detto: “Questo che dici lo accetto, un Dio così lo voglio anch’io. Un Dio che mi ama per quello che sono. Ma, dimmi la verità: “Tutto questo è un’idea tua o un’invenzione della Chiesa?” “Non è ne mia né della Chiesa ma è l’immagine che Dio ci ha consegnato nella figura di Gesù. Che si chiama suo padre ‘Abbà’, che parla di Dio come del padre che aspetta con ansia il figliol prodigo e gli corre incontro, che sceglie sempre la via della misericordia?’”.

La grande eredità che ci ha lasciato Gesù Cristo – e che i cristiani e le chiese non hanno ancora del tutto assimilato – è questa. Non dilapidiamola!

image_pdfimage_print

un presepe in solidarietà ai migranti che fa discutere

Acquaviva

bufera sul presepe pro migranti

il sindaco: «È un’opera d’arte»

si tratta di una rappresentazione davvero singolare della Natività dove san Giuseppe e la Madonna sono raffigurati da due manichini-migranti che rischiano di affondare in un mare di bottiglie di plastica, con un Gesù Bambino di colore su un salvagente

Graziana Capurso

Il cartello che accompagna l’installazione recita: «Il bambino nasce nel mare, dove con Giuseppe e Maria, profughi, non accolti da nessuno vive l’esperienza che molti migranti affrontano nel nostro Mar Mediterraneo. E il mare di plastica a fare da sfondo alla Natività è un grido dall’allarme contro l’inquinamento». L’opera, realizzata dal comitato Feste patronali e con il sostegno dell’amministrazione comunale, vuole essere una denuncia contro i “tradizionalisti”, che sui social e sul quotidiano “Il Giornale” l’hanno descritta come “ridicola”.

A queste polemiche il sindaco Davide Carlucci ha commentato: «Vi sarebbe piaciuto vietare questa installazione, vi sarebbe piaciuto dare sfogo ai vostri pruriti fascistoidi: “Questo non si fa, questo non si può..” E invece no. Ad Acquaviva c’è ancora la libertà, c’è ancora la democrazia. Fatevene una ragione! Quando l’arte fa scandalo e quando anche il messaggio religioso è (per dirla con don Tonino Bello) “scandaloso” – aggiunge Carlucci – vuol dire che l’obiettivo è stato raggiunto. Scuotere la nostra visione del mondo “pacificata”, insinuare il dubbio, farci reagire. E da questo punto di vista l’installazione di piazza dei Martiri ha centrato in pieno l’obiettivo».

Pioggia di critiche sui social, che ancora una volta si dividono tra chi è a favore e chi è contro l’installazione della “discordia”: «Che brutta fine che stiamo facendo. Non riusciamo più nemmeno a rispettare quelle 2 tradizioni che ci sono rimaste». «Quest’opera prende origine da un clamoroso falso ideologico: Giuseppe e Maria, non erano profughi. La Sacra Famiglia – commentano su Facebook – si era mossa non spinta da motivi di migrazione, ma per rispondere al censimento, farsi registrare e pagare il tributo previsto e non trovava posto nelle strutture della piccola Betlemme. Il Vangelo è chiaro». «Si tratta della solita pagliacciata». «Ben venga l’idea di stimolare la riflessione dell’opinione pubblica su tematiche ambientali e sui flussi migratori, ma è irrispettoso strumentalizzare e politicizzare la Natività per questi scopi, questo non è un presepe», tuonano su Facebook. E ancora: «Oggi, il presepe non può che essere così: senza cometa e senza Magi. Un presepe di paura e di dolore. Ma il bambino è sempre una speranza». «Onore al sindaco, quest’opera è meravigliosa, evidentemente la verità fa male».

L’iniziativa si colloca all’interno di una serie di eventi organizzati per celebrare il Natale nel paese: il “Natale Acquavivese” iniziato l’8 dicembre, si concluderà il 6 gennaio: in questo periodo ad arricchire la cittadina una serie di concerti, balli, presentazioni di libri, street band, zampognari, la Casa di Babbo Natale nel centro storico e vari mercatini natalizi.

image_pdfimage_print

il commento al vangelo della domenica


 Un’immersione per la remissione dei peccati” 
il commento di E. Bianchi al vangelo della seconda domenica di avvento (9 dicembre 2018):
 Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturea e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto. Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaia:
Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate isuoi sentieri!
Ogni burrone sarà riempito,
ogni monte e ogni colle sarà abbassato;
le vie tortuose diverranno diritte
e quelle impervie, spianate.
Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!

Per l’evangelista Luca l’inizio dell’annuncio del Vangelo si ha con la chiamata e la missione di Giovanni il Battista, che non a caso egli ci presenta già come “colui che annuncia il Vangelo” (cf. Lc 3,18). Gesù, infatti, era nato a Betlemme circa trent’anni prima (cf. Lc 3,23), ma la sua vita era stata caratterizzata dal nascondimento. Quei tre decenni restano per tutti i vangeli “gli anni oscuri di Gesù”, nel senso che sappiamo che egli è stato allevato a Nazaret (cf. Lc 2,51-52), poi è cresciuto ed è diventato una persona matura: non conosciamo però con esattezza dove ciò sia avvenuto, anche se supponiamo che Gesù abbia trascorso quel tempo nel deserto, quale discepolo di Giovanni. 

Ecco allora il racconto solenne di Luca, che inserisce nella macrostoria dell’impero romano e del sacerdozio giudaico l’evento decisivo, l’intervento di Dio nel deserto. Vale la pena riportarlo alla lettera: “Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode principe della Galilea, e Filippo, suo fratello, principe dell’Iturea e della Traconìtide, e Lisània principe dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio fu (venne, cadde) su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto”. Ecco l’evento decisivo: la parola di Dio “avviene” su un uomo, Giovanni, appartenente alla stirpe sacerdotale ma dimorante nel deserto di Giuda, e lo istituisce profeta, cioè porta-parola dello stesso Signore Dio. La profezia che da cinque secoli taceva in Israele si rende dunque di nuovo presente in uomo che, reso predicatore itinerante dalla Parola, percorre tutta la valle del Giordano, regione marginale situata tra la terra santa e il deserto, per far ritornare a Dio il suo popolo.

Giovanni predica la conversione, ossia l’esigenza di un mutamento di mentalità, di comportamento e di stile di vita, e chiede che questa volontà, questa decisione che può avere origine solo nel cuore, sia accompagnata da un’azione semplice, umana: si tratta di lasciarsi immergere (questo, alla lettera, il senso del verbo “battezzare”) nelle acque del fiume Giordano. Questo atto è immagine di un affogamento: si va sott’acqua, si depone nell’acqua “l’uomo vecchio con i suoi comportamenti mortiferi” (Col 3,9; cf. Rm 6,6; Ef 4,22), e si viene fatti riemergere dalle acque come uomini e donne in grado di “camminare in una vita nuova” (Rm 6,4). Questa immersione, segno che significa un ricominciare, una novità, ed è compiuto pubblicamente, davanti a tutti e davanti al profeta che immerge, diventa un impegno. Non è una delle tante abluzioni prescritte dalla Torah per riacquistare la purità perduta, ma è un atto compiuto una volta per sempre, che indica una precisa opzione, che dovrà essere guida e criterio di tutta la vita che verrà. Conversione, ritorno sulla strada che porta a Dio, ritorno al Signore, rivolgersi a lui: ecco ciò che questa immersione significa, in vista della venuta del Signore e del suo giudizio (cf. Lc 3,7-9).

Secondo il vangelo (cf. anche Mc 1,4) in questo gesto è contenuta una grande novità: la remissione dei peccati da parte di Dio. Sì, quell’immersione, segno della volontà di conversione, è strettamente legata alla remissione, al perdono dei peccati per opera di Dio. È questa offerta potente di perdono da parte di Dio, è questo suo amore preveniente a causare la conversione, oppure è la conversione a causare il suo perdono? Nessun dubbio: “è Dio che produce in noi il volere e l’operare” (cf. Fil 2,13) e che sempre ci offre, ben prima che noi lo desideriamo o lo cerchiamo, il suo amore, che è misericordia infinita. Se noi predisponiamo tutto per ricevere questo amore, se sappiamo accoglierlo e dunque ci convertiamo, allora il dono del perdono dei peccati ci raggiunge e opera ciò che nessuno di noi potrebbe operare: i nostri peccati, il nostro aver fatto il male è cancellato e dimenticato da Dio, che ci guarda come creature irreprensibili perché perdonate e giustificate dalla sua misericordia. Questo è il Vangelo, la buona notizia che comincia a risuonare tra le dune e le rocce del deserto e il fiume Giordano, per opera di Giovanni. Questo è il messaggio che, dopo la passione, morte e resurrezione del Signore Gesù, dovrà essere predicato a tutte le genti (cf. Lc 24,47). Ormai questo annuncio è dato dal precursore che è un profeta in mezzo al popolo, il quale accorre a lui per ascoltare la parola di Dio annunciata dalla sua voce.

Giovanni, chiamato dalla parola di Dio “venuta” su di lui come “veniva” sugli antichi profeti (cf. Ger 1,2; Ez 1,3), compie una missione ben precisa, preannunciata dal profeta Isaia (cf. Is 40,3-5): una missione, un ministero di consolazione. Non possiamo qui non fare memoria dei “monaci” della comunità di Qumran che vivevano proprio in quella regione del deserto in cui era apparso pubblicamente Giovanni. Essi avevano applicato a se stessi proprio questa profezia di Isaia che chiedeva di aprire una strada nel deserto e di appianarla per la venuta del Signore, assumendola come fonte del loro ministero e della loro missione. Per questo erano venuti nel deserto per vivere secondo la volontà di Dio e per attendere nella preghiera e nello studio perseverante delle sante Scritture la venuta del suo Messia e del suo regno. Giovanni, asceta come loro nel deserto, condivide con loro la stessa missione, e il suo manifestarsi è conforme alla medesima profezia di Isaia: “Com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaia, ‘voce che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, rendete dritti i suoi sentieri … Ogni carne vedrà la salvezza di Dio’”. Questa voce – Luca lo sottolinea – vuole raggiungere “ogni carne”, ogni uomo e ogni donna, non solo i figli e le figlie di Israele, in modo che tutti possano ricevere la salvezza di Dio: questa infatti non è rivolta solo al popolo delle alleanze e delle benedizioni, come annunciavano gli antichi profeti, ma Giovanni il Battista proclama che è una salvezza universale, per tutti, proprio per tutti! Dunque buona notizia “non per alcuni, né per pochi né per molti, ma per tutti”, come ha gridato con gioia papa Francesco (Cattedrale di Firenze, 10 novembre 2015, Incontro con i rappresentanti del convegno nazionale della chiesa italiana).

Tutto ciò avviene ai margini della terra santa, alle soglie del deserto, con il suo vuoto, il suo silenzio, la sua solitudine. Quale contrasto tra la “grande” storia, che vede regnare Tiberio, Erode e gli altri, che registra il sommo sacerdozio di Anna e Caifa, e la storia di salvezza, che si realizza in modo umile, nascosto! Niente di ciò che dà lustro al potere politico è presente; niente di ciò che caratterizza la solenne liturgia sacerdotale del tempio appare: no, semplicemente un fiumiciattolo, dell’acqua in cui immergersi, dei corpi che scendono e risalgono dall’acqua per azione delle braccia di un uomo, Giovanni, il quale è solo voce che nel deserto chiede una vita altra, nuova, chiede agli uomini e alle donne di ritornare al Signore e di ricominciare a vivere secondo la sua volontà. Quello di Giovanni era un battesimo in cui l’acqua era eloquente di per sé, non oscurata o nascosta da tante pretese azioni cultuali: acqua, parola, corpi che sono immersi e poi riemergono, braccia che accompagnano chi discende e poi lo risollevano… piena umanità di quel segno-sacramento dell’immersione. È sufficiente però per molti cristiani definirlo “battesimo”, per comprenderlo purtroppo solo come rito e non come gesto e parola, gesto che parla, parola che agisce segno efficace dell’azione del Dio vivente!

Dunque la salvezza è vicina e “ogni carne”, cioè tutta l’umanità fragile, mortale e peccatrice potrà vederla. Al risuonare della voce che grida nel deserto e che annuncia la venuta del Signore, occorrerà andargli incontro e spianargli la via, raddrizzare i sentieri che portano all’incontro con lui: questa è un’operazione necessaria nel cuore di ogni persona, che deve abbassare i monti del proprio orgoglio e della propria autosufficienza, deve riempire gli abissi infernali e le disperazioni che la abitano. Nel cammino di conversione si tratta dunque di predisporre tutto il cuore, liberando dagli ostacoli che impediscono alla grazia, cioè all’amore gratuito di Dio, di operare. Solo così la preghiera e la vigilanza richieste nell’Avvento diventano operanti in noi, rendendoci capaci di alzare lo sguardo e di andare incontro con parrhesía al Signore che viene!

image_pdfimage_print

sempre più cattivi e sempre più razzisti … linciaggio di una rom per tentato furto

Roma

l’odio viaggia anche in metro

rom pestata davanti alla figlia per un tentato furto

La giovane aggredita brutalmente alla presenza della piccola. Il drammatico racconto della giornalista insultata dalla folla per aver cercato di fermare il pestaggio

di GABRIELE ISMAN

Roma sempre più cattiva e sempre più razzista

Capita così che alla fermata San Giovanni della Metro A una giovane rom tenti di rubare il portafoglio a un passeggero.
Con lei una bambina di 3-4 anni. Il furto viene sventato: come racconterà su Facebook Giorgia Rombolà, giornalista di Rai News 24,
“ne nasce un parapiglia, la bambina cade a terra, sbatte sul vagone. Ci sono già i vigilantes a immobilizzare la giovane (e non in modo tenero), ma a quest’uomo alto mezzo metro più di lei, robusto (la vittima del tentato furto?) non basta. Vuole punirla. La picchia violentemente, anche in testa. Cerca di strapparla ai vigilantes tirandola per i capelli. Ha la meglio. La strattona fina a sbatterla contro il muro, due, tre, quattro volte.
La bimba piange, lui la scaraventa a terra”.
Rombolà interviene prima urlando all’uomo di non picchiare la ragazza, poi cercando di fermarla. I vigilantes poi riescono a portare via la rom, l’uomo robusto se ne va, ma a bordo del treno la giornalista si ritrova circondata.
“Un tizio che mi insulta dandomi anche della puttana dice che l’uomo ha fatto bene, che così quella stronza impara. Due donne (tra cui una straniera) dicono che così bisogna fare, che evidentemente a me non hanno mai rubato nulla.
Argomento che c’erano già i vigilantes, che non sono per l’impunità, ma per il rispetto, soprattutto davanti a una bambina. Dicono che chissenefrega della bambina, tanto rubano anche loro, anzi ai piccoli menargli e ai grandi bruciarli”.Ancora Rombolà scrive:

“Un ragazzetto dice se c’ero io quante mazzate. Dicono così. Io litigo, ma sono circondata. Mi urlano anche dai vagoni vicini. E mi chiamano comunista di merda, radical chic, perché non vai a guadagnarti i soldi buonista del cazzo. Intorno a me, nessuno che difenda non dico me, ma i miei argomenti. Mi guardo intorno, alla ricerca di uno sguardo che seppur in silenzio mi mostri vicinanza.
Niente. Chi non mi insulta, appare divertito dal fuori programma o ha lo sguardo a terra. Mi hanno lasciato il posto, mi siedo impietrita. C’è un tizio che continua a insultarmi. Dice che è fiero di essere volgare. E dice che forse ci rivedremo, chissà, magari scendiamo alla stessa fermata”.

Il racconto sul social si conclude in modo amarissimo:

“Cammino verso casa, mi accorgo di avere paura, mi guardo le spalle. E scoppio a piangere. Perché finora questa ferocia l’avevo letta, questa Italia l’avevo raccontata. E questo, invece, è successo a me
image_pdfimage_print

per la chiesa l’Italia è in pericolo per la politica di governo

Francesco Peloso

La Chiesa lancia l'allrme sulla manovra e sul rapporto tra Europa e governo. Preoccupazioni del Vaticano anche sul clima.

la chiesa lancia l’allarme sulla manovra e sul rapporto tra Europa e governo
preoccupazioni del Vaticano anche sul clima

Un governo in conflitto con l’Europa, contro le Nazioni Unite in materia di migrazioni, tutto sommato assente nei negoziati per fermare il cambiamento climatico in corso a Katowice, in Polonia: su tre fronti decisivi il neo-isolazionismo promosso dall’esecutivo Lega-M5s incontra le critiche più o meno esplicite della Chiesa italiana e della Santa Sede. Risultato: ora non solo Bruxelles è sempre più lontana, ma anche le due sponde del Tevere sembrano essersi allargate come raramente era avvenuto negli ultimi decenni.

Il Vaticano dunque guarda con crescente preoccupazione la deriva autarchica del governo Conte a cominciare dai rapporti con l’Europa; il Vecchio continente del resto, secondo i vescovi, non è unito solo sotto il profilo politico o economico, le sue radici comuni si ritrovano, anzi, pure nel tessuto originario cristiano, in un nucleo di valori condivisi, nel rispetto dei diritti umani, nel mantenimento della pace; e se certo il processo di integrazione europeo può essere rinnovato e modificato, altra cosa è rinchiudersi nel nazionalismo e nella xenofobia. Così almeno si è espresso nei giorni scorsi li presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, intervenendo a un’iniziativa organizzata da un gruppo di associazioni cattoliche (Azione Cattolica, Acli, Comunità di Sant’Egidio, Cisl, Confcooperative, Fuci e Istituto Sturzo) dal titolo non casuale: La nostra Europa, con tanto di appello europeista pubblicato dal quotidiano dei vescovi Avvenire. Tema tanto più delicato nel momento in cui il governo italiano si trova al centro di una delicatissima trattativa sulla manovra economica con le istituzioni europee.

L’AFFONDO DEL PRESIDENTE CEI CONTRO LA LINEA DEL GOVERNO

Il cardinal Bassetti, scartando gli eufemismi curiali, ha affermato: «L’Italia ha un bisogno forte dell’Europa e l’Europa ha una necessità vitale dell’Italia. Non credo che nessuno ci guadagnerebbe da un ipotetico distacco. Un distacco che, tra l’altro, da un punto di vista storico, geografico, spirituale e culturale non ha alcuna ragion d’essere, dopo di che», ha rilevato il presidente della Cei, «si possono discutere le modalità dell’unione politica, ma senza perdere di vista un fatto: rilanciare significa anche rivedere, migliorare, riformare, non distruggere». Dunque nel pieno della crisi fra Roma e Bruxelles, dal vertice della Chiesa non ci si nasconde quale sia li vero rischio (o obiettivo politico non dichiarato): la rottura fra l’Italia e l’Ue. D’altronde Bassetti indica una strada ben precisa per ridare slancio a un’unione intesa come «comunità di popoli in pace che supera gli egoismi e i rancori nazionali», ovvero quella di dare vita a «un’Europa unita, pacificata e solidale, che non speculi sui conflitti sociali e sulle divisioni politiche, che non pratichi l’incultura della paura e della xenofobia, ma che costruisca, con animo puro, la cultura della solidarietà per un nuovo sviluppo della promozione umana». Nel discorso del cardinale non è mancata una citazione di Alcide De Gasperi, storico leader democristiano, fra i fondatori, insieme ad altri esponenti europei di ispirazione cristiana, del primo nucleo della comunità europea nel secondo Dopoguerra.

IL GLOBAL COMPACT E IL RUOLO DEL VATICANO

In effetti, la preoccupazione odierna, Oltretevere, è che nel disfarsi dell’unione politica, nel dispiegarsi «degli egoismi nazionali», vada in frantumi un percorso di solidarietà e civiltà innervato anche sulle varie tradizioni cristiane del continente che, pur tra diverse crisi e problemi, ha permesso all’Europa di progredire in pace come mai era avvenuto nella storia. Un approccio che urta soprattutto con l’ideologia della nuova Lega – non più solo del Nord ma nazionale – di Matteo Salvini. E in effetti è stato proprio il leader leghista a far ingranare la retromarcia al governo anche sul Global compact for migration, un accordo non vincolante promosso dalle Nazioni Unite, per gestire in modo il più possibile condiviso il fenomeno migratorio, combattendo i trafficanti, costruendo vie legali di accesso, creando alleanze fra i diversi Paesi coinvolti. Un accordo al cui raggiungimento ha collaborato in modo particolarmente attivo la diplomazia vaticana, anche per dare una risposta a quegli Stati, fra i quali appunto l’Italia, i quali, per geografia e storia, sono diventati terra d’approdo privilegiata. Per tale ragione il fatto che il governo abbia ritirato improvvisamente il proprio consenso all’intesa, viene giudicata in Vaticano una scelta strumentale dettata più dalla propaganda che dal realismo.

Vaticano Dicastero Economia Finanze

Infine l’ambiente: in Polonia a Katowice in questi giorni sono iniziati i negoziati per attuare l’intesa mondiale sullo stop al cambiamento climatico sottoscritta a Parigi nel dicembre 2015. Per papa Francesco la «cura della casa comune» è un punto fondamentale del suo magistero, da qui passa quell’idea di ecologia integrale in forza della quale ambiente, popoli, sviluppo dovrebbero far parte di un unico modello non più dominato dalla volontà di dominio e dallo sfruttamento illimitato delle risorse. Temi immensi, come si può intuire, sui quali la voce dell’Italia, per ora, è molto flebile fino a perdersi del tutto nelle polemiche di giornata.

image_pdfimage_print

alcune parrocchie lucchesi contro la politica disumana di Salvini

parrocchie lucchesi contro il decreto sicurezza e la Lega si arrabbia

Dura presa di posizione dell’Unità pastorale: “Effetti della legge peggiori del ‘male’, accelerazione di barbarie nel nostro Paese”.

I dirigenti toscani del Carroccio: “Pensate alle anime, non fate politica

“Una certa parte dei cristiani e delle loro comunità, più che seguire il vangelo ‘secondo’ Matteo, ‘assecondano’ l’altro Matteo, difendendone le idee e l’operato”
Ad ammonire i propri fedeli, contro i provvedimenti su immigrazione e sicurezza del ministro dell’Interno, sono un gruppo di parrocchie toscane del Lucchese: un avvertimento contro i consensi nei confronti delle politiche di Matteo Salvini e che senza mezzi termini – in linea con molti esponenti del mondo cattolico – condanna la nuova legge sulla sicurezza. E la Lega Toscana reagisce invitando “i pastori di Dio a limitarsi al compito di curare le anime e non di fare dichiarazioni politiche”.
Nuove polemiche, dunque, che seguono quelle degli ultimi giorni sul presepe, in particolare dopo l’appello del prete padovano Don Luca Favarin, affinché “non si faccia il presepio quest’anno”, scelta “evangelica”  per evitare “ipocrisie” (visto che “Gesù era un migrante e noi li lasciamo per strada”).
Stavolta a manifestare aspre critiche nei confronti del nuovo provvedimento, approvato da qualche giorno, sono le parrocchie di Massarosa, Bozzano, Pieve a Elici, Gualdo e Montigiano, le quali hanno uno dei loro punti di riferimento in don Virginio Colmegna, il presidente della Casa della Carità di Milano che ha invitato i cristiani a mettere in atto “atti di disobbedienza civile”. Le parrocchie sottolineano citazioni del mondo cattolico secondo cui gli effetti della legge sicurezza “saranno peggiori del ‘male’ che si vuole curare. Ma poco importa a chi bada più ai consensi elettorali che al bene comune e all’affermazione dei diritti e dei valori”.
Per l’Unità Pastorale delle comunità del Lucchese, che scrive sul suo blog ai fedeli,
“la gran parte dei cittadini attende indolente in una sorte di ‘letargo di civiltà’, spettatori passivi di un continuo regredire dell’Italia nell’ambito dei diritti umani e civili” ma “in alcune città qualche segno di risveglio si è manifestato, tentando di rallentare un’accelerazione di barbarie che corrode il Paese”.
Altrettanto dura è  la reazione dei leader locali del Carroccio:
“Uno dei problemi che affligge la Chiesa di oggi  la ‘fuga’ dei fedeli dai luoghi sacri, con messe sempre meno partecipate. E dichiarazioni politiche come queste, certo, non aiutano a tornare a frequentare, come noi auspichiamo, i nostri luoghi di culto”,
spiegano Elisa Montemagni e Andrea Recaldin, rispettivamente capogruppo in Consiglio regionale Toscana e commissario provinciale della Lega. 

E anche il ministro dell’interno Matteo Salvini in una diretta Facebook è tornato a rispondere a quella parte di mondo cattolico che critica la legge sicurezza sottolineando che ci sono molti

“parroci, suore, missionari, vescovi, cardinali che privatamente e pubblicamente mi dicono di andare avanti perché c’è bisogno di regole”.

image_pdfimage_print
image_pdfimage_print

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fonire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o clicchi su "Accetta" permetti al loro utilizzo.

Chiudi