la valenza innovativo-rivoluzionaria della correziione al ‘padre nostro’

la nuova versione della preghiera cambia l’immagine del Dio e sposta radicalmente la teodicea, ovvero la secolare interrogazione (filosofica ed etica) su a chi debba essere attribuita la responsabilità del male

nel nome del padre che diventa anche un po’ madre

Laura Marchetti

Pur da atea e anticlericale, guardo con speranza il cambiamento formulato nel nuovo Messale Romano per la preghiera del Padre Nostro, la più importante perché l’unica formulata direttamente da Gesù ai discepoli nel Vangelo di Matteo (quello di Pasolini, del Cristo dei poveri cristi). A quasi 50 anni dalla versione di Paolo VI, la nuova traduzione dall’aramaico sembra più aderente al messaggio evangelico rivoluzionario.
Trasformata in orazione, in implorazione pronunciata da milioni di oranti, può contrastare in profondità, nell’inconscio, le parole feroci che dominano messaggi ed azioni del potere politico in questi sciagurati tempi.
La nuova versione, innanzitutto, cambia l’immagine del Dio e sposta radicalmente la teodicea, ovvero la secolare interrogazione (filosofica ed etica) su a chi debba essere attribuita la responsabilità del male. La vecchia formula «e non ci indurre in tentazioni», addossa in qualche modo a Dio (un Dio perverso, che gioca con la testa dell’uomo a fargli paura e a renderlo ancora più fragile con le sue trappole), la corresponsabilità nella tentazione, rendendo così il male inerente al sacro, dunque ontologico e ineliminabile. La nuova formula invece «non abbandonarci in tentazione», pur ribadendo la fragilità dell’uomo e quindi in parte assolvendolo, esonera Dio, finendo così per attribuire l’avvento del male alla storia o alla società. In questo modo il male diventa fenomenologico, dunque modificabile e, nell’estrema utopia, eliminabile.
La nuova formula del Messale Romano ha anche un’altra ricaduta sul quotidiano, in quanto modifica, oltre all’immagine di Dio, l’immagine del padre , sua proiezione, come sappiamo dopo Feuerbach. L’immagine paterna che emerge dalla prima versione è quella tradizionale del patriarcato: un padre che non vuol cedere la strada, ma anzi pone ostacoli al figlio come fosse un nemico, in un rapporto sempre improntato alla rivalità e al conflitto, conflitto dal quale il giovane esce sempre soccombente rispetto al vecchio (a fondazione di una gerontocrazia perdurante nei secoli). La nuova immagine paterna, invece, essendo evocata da una implorazione dettata non dalla paura ma finalizzata ad una richiesta sollecita di protezione e di cura («non mi abbandonare», vuol dire anche amami e non mi lasciare solo sulla mia croce o la mia strada), prefigura l’immagine di un padre dolce, scritto con la minuscola, e con funzioni materne: un padre/madre che, aiutando, può contribuire all’autonomia e alla liberazione del giovane figlio/a.
Un padre/madre così modifica anche l’immagine e la pratica della politica: il nostro punto cruciale. La patria , così come la intendono gli stati fra loro in guerra e in guerra con i cittadini, corrisponde ad un modello di pater patriarca e padrone e, soprattutto, proprietario di patrimoni (diritti e beni) per secoli lasciati in eredità solo al figlio maschio.
La sua idea sacrificale corrisponde perfettamente al Dio del Levitico che chiede sangue e sacrifici, forgiando militarmente, ancora oggi, il modello sovranista che, non a caso, è anche spudoratamente machista. Il padre/madre dolce, che non ti abbandona, corrisponde invece non allo stato militare ma allo stato sociale, leggero e tenero, non indifferente alla vita, ai bisogni, alle richieste di aiuto che vengono dal cittadino, anche da quello più fragile e abbandonato: dall’orfano, dalla vedova, dallo straniero, dall’ammalato, come recita un altro straordinario passo evangelico. Il suo gesto di cura riforma così la patria trasformandola in matria, terra della madri e dei padri/madri, terra natale comune, destino comune, lingualatte comune dal cui abbraccio nessuno, proprio nessuno, può essere escluso.
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