Europa terra da evangelizzare

l’altro

In Occidente l’altro è una cosa tra le cose, senza storia, volto e voce. Facilmente sostituibile perché considerato solo nel suo ruolo e non nella sua esistenza. Ma se non si riconosce l’altro non si riconosce neanche Dio.

quando arriverà il vangelo in Europa?

Di prima mattina la civiltà occidentale scatta al semaforo per precedere l’altro. Sulle strade non circolano esseri umani ma piloti di Formula Uno alla ricerca di record personali. C’è una gara da vincere e un piedistallo da conquistare. Il capoufficio aspetta, si deve far di tutto per entrare nelle sue simpatie magari svelando le negligenze vere o presunte del collega. Che poi è lo stesso con il quale a pranzo si critica (rigorosamente alle spalle) proprio il capoufficio. L’uomo evoluto crede che la dignità si trovi nella conquista. La luna, la terra, le risorse e il destino altrui. È sufficiente non guardare i morti che si lasciano per strada. Occorre scalare e se necessario calpestare. I complimenti e i riconoscimenti cancellano eventuali rimorsi ma ancora più efficaci sono le paroline magiche: funziona così. Cinismo? Funziona così. Prevaricazione? Funziona così. L’uomo occidentale tiene famiglia e soprattutto deve pagare le rate della macchina. Lo trovi perennemente davanti allo specchio mentre incensa il suo “io”, corruttibile e senza respiro. In Occidente l’altro è una cosa tra le cose, senza storia, volto e voce. Facilmente sostituibile perché considerato solo nel suo ruolo e non nella sua esistenza. Ma se non si riconosce l’altro non si riconosce neanche Dio. Infatti a preoccupare prima dell’affermazione delle radici cristiane dell’Europa dovrebbero essere i frutti contraddittori e decisamente antievangelici. La cultura, la prassi e la società occidentale risultano, ad oggi, le più ostili all’azione della grazia.

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il commento al vangelo della domenica


 Tra voi non è così 


Mc 10,35-45

In quel tempo Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, si avvicinarono a Gesù dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».

Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

Nel vangelo secondo Marco dopo ognuno dei tre annunci della passione fatti da Gesù nella sua salita verso Gerusalemme è registrata una scena di incomprensione da parte dei discepoli. Dopo il primo annuncio (cf. Mc 8,31), è Pietro che arriva a contestare le parole di Gesù (cf. Mc 8,32), facendosi “ostacolo” – “Satana” (Mc 8,33), come lo chiama Gesù – sul cammino che Dio ha assegnato a suo Figlio. Quando Gesù afferma per la seconda volta la necessitas passionis (cf. Mc 9,31), tutti i discepoli, come intontiti, non comprendono, anzi si mettono a discutere su chi tra loro può essere considerato il più grande (cf. Mc 9,32-34).

Nel brano evangelico di questa domenica, dopo il terzo annuncio della sua sofferenza e morte, passaggio inevitabile verso la resurrezione (cf. Mc 10,32-34), sono Giacomo e Giovanni che mostrano quanto sono distanti dal modo di pensare di Gesù. I due fratelli hanno seguito Gesù fin dall’inizio del suo ministero pubblico, sono i suoi primi compagni insieme a Pietro e ad Andrea, hanno abbandonato tutto, famiglia e professione, per stare con lui (cf. Mc 1,16-20), e in qualche modo si sentono gli “anziani” della comunità. Essendo figli di Salome, probabilmente sorella di Maria, la madre di Gesù (cf. Mc 15,40; Mt 27,56; Gv 19,25), sono cugini di Gesù, dunque suoi parenti, appartenenti alla famiglia, al clan, e per questo pensano di vantare precedenze sugli altri.

Eccoli allora presentarsi a Gesù per dirgli ciò che pensano di “meritare” per l’avvenire, quando Gesù, il Re Messia, stabilirà il suo regno: “Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. È una pretesa più che una domanda, fatta da chi ragiona esattamente come tante volte facciamo noi nel quotidiano: le relazioni contano, dunque occorre rivendicare il loro peso… E questo non avviene solo tra noi uomini e donne, fratelli e sorelle, perché anche nei confronti di Dio vantiamo pretese: siamo noi i credenti, siamo noi i cristiani, dunque presso Dio dobbiamo avere una precedenza sugli altri…

Gesù replica a Giacomo e Giovanni con infinita pazienza: “Non sapete quello che chiedete”. Risposta anche ironica, perché Gesù sa che nella sua vera gloria, quella sulla croce, alla sua destra e alla sua sinistra ci saranno due malfattori, crocifissi e suppliziati come lui (cf. Mc 15,27). Vi è qui lo scontro tra due visioni della gloria: i due discepoli la intendono come successo, potere, splendore, mentre Gesù l’ha appena indicata nel servizio, nel dono della vita, nell’essere rigettato in quanto obbediente alla volontà di Dio. Per questo egli tenta ancora una volta di portare i discepoli a guardare non alla gloria come termine finale, ma al cammino che conduce alla vera gloria, quella che essi neppure riescono a immaginare. E lo fa ponendo loro una domanda: “Potete bere il calice che io sto per bere, o ricevere l’immersione nella quale io devo essere immerso?”.

Gesù chiede innanzitutto se sono disposti a bere “il calice della sofferenza”, espressione biblica per indicare la sofferenza da subire (cf. Sal 75,9; Is 51,17.22, ecc.). Si ricordi che Gesù stesso nell’agonia del Getsemani sarà tentato di allontanare da sé quel calice: “Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice!” (Mc 14,36)… Nella sequela di Gesù, nel condividere la sua strada e la sua sorte, vi è per i discepoli una sofferenza da accogliere, senza rivolte e senza la tentazione di esserne esenti. Non solo, c’è anche un’immersione, un “andare sotto”, un affogare momentaneo nei “flutti della morte” (Sal 18,5), che sarà un evento prima per Gesù, ma che poi dovrà essere condiviso da chi si sente coinvolto nella sua vita e vuole stare con lui ovunque egli vada (cf. Ap 14,4). Viene qui impiegato il termine greco báptisma (e il verbo corrispondente baptízein), di cui non comprendiamo più il significato: battesimo è immersione, è andare sott’acqua, è affogare come creatura vecchia per uscire dall’acqua come creatura nuova. Si noti l’insistenza del testo originale, come appare da una traduzione alla lettera: “Potete voi con l’immersione con cui sono immerso essere immersi?”. Ecco il battesimo, che dà inizio sacramentalmente alla vita cristiana, ma che deve diventare esperienza, vita concreta, fino al momento finale della morte, quando i flutti ci travolgeranno, e poi dopo la morte, quando Dio ci chiamerà alla vita eterna attraverso la resurrezione.

Giacomo e Giovanni, sempre “boanèrghes, cioè ‘figli del tuono’” (Mc 3,17), rispondono affermativamente alla domanda di Gesù, e capiranno solo più tardi il prezzo di questa disponibilità: quando Marco scrive il vangelo, intorno all’anno 70, sa che nel 44 Giacomo era stato martirizzato da Erode a Gerusalemme (cf. At 12,2) e Giovanni secondo la tradizione vivrà nell’isola di Patmos una lunga passione di prigioniero esiliato… In ogni caso, Gesù accoglie questa loro spontanea professione di disponibilità alla croce, ma ricorda anche che non spetta a lui concedere di sedere alla sua destra o alla sua sinistra, ma “è per coloro per i quali è stato preparato” dal Padre (passivo divino). Sta di fatto che questa richiesta dei due fratelli – che Matteo, per riguardo a Giacomo e a Giovanni, pone in bocca alla loro madre (cf. Mt 20,20) – suscita subito una reazione sdegnata negli altri con-discepoli, che li contestano per gelosia e perché infastiditi dalla loro pretesa.

E qui va detto con franchezza e senza ingenuità che la comunità di Gesù è immagine delle nostre comunità: uomini e donne chiamati da Gesù e scelti da lui; uomini e donne che sovente mostrano di avere poca fede o addirittura apistía, incredulità (cf. Mc 9,24; 16,14); uomini e donne fragili e deboli che a volte non riescono a comprendere le parole di Gesù, le esigenze della sequela, e dunque contraddicono la loro vocazione e la loro identità. La comunità, peraltro scelta, istruita e formata dal Signore presente e operante in mezzo a essa, appare una povera comunità. Marco ha l’audacia di metterci davanti agli occhi la tragica parabola di questa comunità: quelli che

“abbandonata la barca, le reti e il padre, seguirono Gesù” (cf. Mc 1,18-20),

nell’ora della passione “abbandonarono Gesù e fuggirono tutti” (Mc 14,50).

Ecco, non dimentichiamo la debolezza e la fragilità della comunità del Signore, perché se tale era la comunità i cui membri erano stati scelti e istruiti personalmente da Gesù, come potrebbero le nostre comunità essere migliori?

Allora Gesù li chiama tutti e dodici intorno a sé e dà loro una lezione molto istruttiva, perché è un’apocalisse del potere mondano, politico. Dice: “Voi sapete”, perché basta guardare, osservare, “che coloro i quali sono considerati i governanti delle genti dominano, spadroneggiano su di esse, e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così (Non ita est autem in vobis)”. Attenzione, Gesù non dice: “Tra voi non sia così”, facendo un augurio o impartendo un comando, ma: “Tra voi non è così”, ovvero, “se è così, voi non siete la mia comunità!”. Non è possibile che la comunità cristiana abbia come modello il potere mondano, che si lasci conformare a ciò che fanno i governi, quasi sempre ingiusti e spesso totalitari: il governo nella comunità cristiana è “altro”, oppure non è governo, ma dominio. D’altra parte, Gesù non nega la necessità di un governo nella società umana, ma lo legge nella sua realtà, come si manifesta in concreto. Sì, a volte c’è qualcuno che merita il governo perché sa esercitarlo nella giustizia, ma è evento raro, perché le forze mondane, i poteri oscuri lo rimuovono presto…

Ecco dunque la vera “costituzione” data alla chiesa: una comunità di fratelli e sorelle, che si servono gli uni gli altri, e tra i quali chi ha autorità è servo di tutti i servi. Nella chiesa non c’è possibilità di acquisire meriti di anzianità, di fare carriera, di vantare privilegi, di ricevere onori: occorre essere servi dei fratelli e delle sorelle, e basta! Il fondamento di questa comunità è proprio l’evento nel quale il Figlio dell’uomo, Gesù, si è fatto servo e ha dato la sua vita in riscatto per le moltitudini, cioè per tutti. Gesù non ha dominato, ma ha sempre servito fino a farsi schiavo, fino a lavare i piedi, fino ad accettare una morte ignominiosa, assimilato ai malfattori. Sì, Gesù è il Servo sofferente tratteggiato dal profeta Isaia nel brano che in questa domenica ascoltiamo come prima lettura: “Dopo il suo intimo tormento”, cioè dopo aver conosciuto la sofferenza, “il giusto mio Servo” – dice il Signore – “giustificherà le moltitudini (rabbim), egli si addosserà le loro iniquità” (Is 53,11). Questa la gloria del Messia, di Gesù, quindi la gloria del cristiano: non riconoscimenti mondani, non posizioni o posti di successo e di trionfo, ma la gloria di chi serve i fratelli e le sorelle e dà la vita nella libertà e per amore al seguito di lui, Gesù.

Questo vangelo non riguarda solo la comunità storica di Gesù, i Dodici, ma riguarda soprattutto noi, la chiesa oggi. In particolare, riguarda quelli che nella comunità cristiana esercitano un servizio, sempre tentati di farlo diventare dominio, potere, sempre tentati di lavorare per sé e non per il bene della comunità. E sia chiaro: nella chiesa il servizio non è finalizzato ad assicurare una dinamica di gruppo positiva ed efficace secondo schemi psicologici. No, il servizio è una legge per la comunità cristiana, perché realizza concretamente il nostro amore fraterno, perché questa è la posizione del Kýrios, del Signore. Al cuore della comunità c’è il Kýrios che si fa nostro servo e ci dice: “Se io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri” (Gv 13,14).

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la preghiera del ‘primo’ che si fa ‘ultimo’ per servire

preghiera del discepolo

da Altranarrazione

Fa, o Signore, 

che io non ottenga mai una posizione sociale, un riconoscimento, una funzione; 
che io non diventi mai competente, esperto, intenditore; 
che io non abbia titoli per parlare o reputazione per essere ascoltato; 
che io sia deriso, accantonato, travisato; 
che io sia scartato dalle strutture, disprezzato dalle gerarchie, rigettato dal Sistema; 
che io sia eliminato da tutte le competizioni; 
che io non risulti idoneo a qualsiasi obbedienza di tipo militare; 
che io non provi soddisfazione in nessuna cosa inventata dal mondo; 
che io abbia la forza di resistere ai compromessi imposti dal Capitale, agli idoli borghesi, alle logiche del denaro. 
Ed, infine, fa, o Signore, che io ti segua spogliandomi delle maschere indossate o subite, svuotandomi dell’indifferenza assorbita o dimostrata e scegliendo il luogo che hai scelto per te: la sconfitta. Lì, finalmente, con la distruzione dell’orgoglio e dell’autosufficienza, nulla più ci dividerà.

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in Italia triplicati i poveri parola di Caritas

la povertà è triplicata in Italia

l’allarme della Caritas: un povero su due ha meno di 34 anni

In Italia, dagli anni pre-crisi ad oggi, c’è stato un aumento del 182 per cento dei poveri assoluti. Pesa la mancanza di istruzione e non solo tra i giovani

La povertà è triplicata in Italia. L'allarme della Caritas: un povero su due ha meno di 34 anni

globalist 17 ottobre 2018www.redattoresociale.it

La povertà assoluta in Italia è quasi triplicata dagli anni pre-crisi ad oggi: negli ultimi dieci anni è aumentata del 182 per cento, “un dato che dà il senso dello stravolgimento avvenuto per effetto della recessione economica”. È il nuovo rapporto 2018 di Caritas Italiana sulla povertà e sulle politiche di contrasto presentato oggi a Roma a dare le dimensioni di un fenomeno che anno dopo anno, nonostante le misure introdotte ad oggi, non fa che crescere. “In Italia il numero dei poveri assoluti continua ad aumentare – spiega la Caritas -, passando da 4 milioni e 700 mila del 2016 a 5 milioni e 58 mila del 2017, nonostante i timidi segnali di ripresa sul fronte economico e occupazionale”.

Sempre più poveri tra minori e giovani. Sono soprattutto i giovani a soffrirne negli anni successivi alla crisi economia e finanziaria che ha colpito l’intero occidente negli anni scorsi. “Da circa un lustro la povertà tende ad aumentare al diminuire dell’età – spiega la Caritas -, decretando i minori e i giovani come le categorie più svantaggiate (nel 2007 il trend era esattamente l’opposto). Tra gli individui in povertà assoluta i minorenni sono 1 milione e 208 mila (il 12,1 per cento del totale) e i giovani nella fascia 18-34 anni 1 milione e 112 mila (il 10,4 per cento): oggi quasi un povero su due è minore o giovane”. Per quanto riguarda la cittadinanza, aggiunge il rapporto, la povertà assoluta si mantiene al di sotto della media tra le famiglie di soli italiani (5,1 per cento), “sebbene in leggero aumento rispetto allo scorso anno”, precisa la Caritas. Livelli molto elevati di povertà, invece, si riscontrano tra i nuclei con soli componenti stranieri (29,2 per cento). “Lo svantaggio degli immigrati non costituisce un elemento di novità e nel 2017 sembra rafforzarsi ulteriormente – spiega la Caritas -. Volendo semplificare, tra i nostri connazionali risulta povera una famiglia su venti, tra gli stranieri quasi una su tre”.

L’istruzione continua ad essere tra i fattori che più influiscono (oggi più di ieri) sulla condizione di povertà, spiega la Caritas. I dati nazionali dei centri di ascolto, infatti, dimostrano anche una associazione tra livelli di istruzione e cronicità della povertà. “Esiste uno zoccolo duro di disagio che assume connotati molto simili a quelli esistenti prima della recessione – spiega Francesco Soddu, direttore di Caritas Italiana -, con la sola differenza che oggi il fenomeno è sicuramente esteso a più soggetti. Si tratta, dunque, di un esercito di poveri in attesa, che non sembra trovare risposte e le cui storie si connotano per una cronicizzazione e multidimensionalità dei bisogni davvero pericolose”. Secondo il rapporto, infatti, dal 2016 al 2017 si aggravano le condizioni delle famiglie in cui la persona di riferimento ha conseguito al massimo la licenza elementare (passando dal 8,2 per cento al 10,7 per cento). Al contrario i nuclei dove il “capofamiglia” ha almeno un titolo di scuola superiore registrano valori di incidenza della povertà molto più contenuti (3,6 per cento). Particolarmente accentuato, nel nostro paese, anche il legame tra povertà educativa minorile e povertà. Per Soddu, si tratta di un “fenomeno principalmente ereditario  – spiega -, che a sua volta favorisce la trasmissione intergenerazionale della povertà economica”. Il dossier della Caritas, infatti, evidenzia situazioni di maggior svantaggio “proprio nelle regioni del Mezzogiorno che registrano i più alti livelli di povertà assoluta – si legge nel rapporto -. Al Sud e nelle Isole c’è una minore copertura di asili nido, di scuole primarie e secondarie con tempo pieno, una percentuale più bassa di bambini che fruiscono di offerte culturali e/o sportive e al contempo una maggiore incidenza dell’abbandono scolastico”.

La povertà educativa colpisce anche gli adulti. Ad approfondire il tema, un’indagine sperimentale condotta sull’utenza Caritas in Germania, Grecia, Italia e Portogallo. “Limitando l’analisi ai tre Paesi che condividono una comune classificazione dei livelli scolastici (Grecia, Italia e Portogallo) si conferma una situazione di forte debolezza scolastica degli utenti Caritas – continua il rapporto -: in media, l’11,4 per cento è analfabeta o non possiede nessun titolo scolastico. Solo una esigua minoranza del campione (10,2 per cento) è in possesso di un titolo di scuola media superiore. Il titolo di studi più diffuso in tutti i Paesi esaminati tuttavia è la licenza media inferiore (38,1 per cento)”. L’analisi mostra una forte correlazione tra l’assenza di titoli di studio e situazione reddituale della famiglia. “Se nel campione complessivo quasi la metà delle persone risulta privo di una fonte stabile di entrate economiche, l’assenza totale di reddito appare più preoccupante nel caso delle persone che hanno un capitale formativo molto basso: si giunge infatti a sfiorare l’ottanta percento delle persone senza titoli di studio che, allo stesso tempo, non possono godere di nessun tipo di entrata economica”. Secondo la Caritas, si tratta di una popolazione di elevata marginalità sociale, in quanto all’assenza di lavoro si somma la quasi totale insufficienza del capitale formativo. “In termini assoluti, questo tipo di utenti, in evidente situazione di esclusione sociale, è pari al 4 per cento dell’intero campione – spiega il rapporto -. Si tratta quindi di un piccolo gruppo di persone per le quali è tuttavia necessario un duplice intervento, per favorire la ricerca di un lavoro e al tempo stesso il raggiungimento di un livello formativo idoneo”.

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Oscar Romero il santo degli ultimi

san Oscar Romero

fratello nostro

da Altranarrazione

Proprio nel cuore dell’Impero occidentale, culla della civiltà secondo i dominatori, tomba dell’umanità secondo gli oppressi, risuona forte, intrattenibile, liberatorio, l’urlo del popolo: San Oscar Romero, fratello nostro.

È il santo degli ultimi, nessuna gerarchia potrà mai appropriarsene o ricordarlo senza imbarazzo.

È il santo della denuncia profetica, voce di contraddizione di tutte le logiche di sfruttamento, di conquista territoriale, di sopraffazione culturale ed economica.

È il santo che ha posto il suo corpo a difesa delle speranza dei diseredati, contro le menzogne e la repressione del Potere.

È il santo dell’opzione preferenziale per i poveri, ucciso non per questioni di appartenenza religiosa, ma per essersi schierato dalla loro parte.

Con testimoni come San Oscar Romero, il Vangelo continua a sovvertire la storia che i Padroni vogliono imporre, scrivendola sulla pelle dei calpestati. E di questo gioiamo pienamente.

San Oscar Romero, difendici.

San Oscar Romero, ispiraci.

San Oscar Romero, aiutaci, finalmente, a sollevarci.

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la chiesa di Gesù non può essere che la chiesa dei poveri

la chiesa che nasce dai poveri

dagli scritti di Gustavo Gutierrez

 

Il Vangelo è un elemento di contraddizione dove c’è oppressione e sfruttamento.

Promuove la giusta indignazione, non addormenta le coscienze.

Il Vangelo è il libro della liberazione e non legittima nessun schiacciamento  dell’uomo sull’uomo.

Quando la chiesa-istituzione appoggia le classi dominanti significa che c’è qualcosa che non funziona.

Cercare o mantenere una posizione di rendita vuol dire porsi fuori dalla testimonianza evangelica.

La Chiesa, per vocazione, deve disturbare socialmente sia i governi che adottano politiche inique sia le classi sociali che ne traggono beneficio.

Se si toglie l’aspetto profetico rimane solo la burocrazia: e gli effetti di tale deformazione sono noti.

testo di Gustavo Gutierrez

“Il Vangelo letto a partire dal povero, dalle classi sfruttate e dalla solidarietà attiva con le sue lotte per la liberazione, porta alla convocazione di una Chiesa popolare; porta ad una Chiesa che nasce dai poveri, dall’emarginazione […] che nasce dal popolo, da un popolo che strappa il Vangelo dalle mani dei dominatori, che impedisce la sua utilizzazione come elemento giustificante di una situazione contraria alla volontà del Dio liberatore….”. L’Evangelizzazione sarà realmente liberatrice quando gli stessi poveri saranno i suoi portatori. Allora sì annunciare il Vangelo sarà pietra di scandalo, sarà un Vangelo non «presentabile in società» si esprimerà in modo poco raffinato, puzzerà….”.

Gustavo Gutiérrez, La forza storica dei poveri, trad. C. Delpero, Queriniana, Brescia, 1979, p. 27-28

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la chiesa del grembiule che lascia in sagrestia i segni del potere

don Tonino Bello

il grembiule del sacerdote

da Altranarrazione 

 carissimo fratello sacerdote,

lascia in sacrestia non solo tutti i segni del potere e del lusso ma direi anche del ruolo (che pensi di svolgere).

Sono sicuro: Dio è allergico all’oro e rischiamo di metterlo seriamente in imbarazzo.

A lui piace il legno, soprattutto perché gli ricorda il momento in cui ha amato di più. Pensare a Lui nudo sulla croce e poi vederti con quei tessuti così finemente ricamati stona e scandalizza.

Il nostro Dio ha conosciuto un altro tipo di polvere: non quella dei riti ma quella della strada.

Il nostro Dio si è stancato, la sua missione l’ha sfinito.

Pregava, ma non credo avesse tempo per andare dal barbiere o in palestra.

Il nostro Dio non assomigliava ad un funzionario e neanche ad uno che conta socialmente. Ecco perché mi piacerebbe vederti ai semafori a parlare con i poveri più che presenziare alle inaugurazioni insieme alle c.d. autorità.

Informati sulle sofferenze che vivono disoccupati e precari, partecipa alle loro lotte di rivendicazione così sarai credibile quando parlerai del mistero e della straordinaria bellezza del matrimonio.

Sostieni concretamente le donne in difficoltà spirituale o materiale,  così sarai credibile quando parlerai in difesa della vita nascente.

Coinvolgiti in ogni sofferenza che esiste e separati solo per pregare.

Non stare rintanato nelle tue strutture mentali e non.

Fuori ti aspetta il Regno di Dio. Da costruire. Tutti insieme.

Con affetto ti auguro buon cammino.

testi di don Tonino Bello

“Forse a qualcuno può sembrare un’espressione irriverente, e l’accostamento della stola col grembiule può suggerire il sospetto di un piccolo sacrilegio. Sì, perché, di solito, la stola richiama l’armadio della sacrestia, dove, con tutti gli altri paramenti sacri, profumata d’incenso, fa bella mostra di sé, con la sua seta e i suoi colori, con i suoi simboli e i suoi ricami. Non c’è novello sacerdote che non abbia in dono dalle buone suore del suo paese, per la prima messa solenne, una stola preziosa. Il grembiule, invece, ben che vada, se non proprio gli accessori di un lavatoio, richiama la credenza della cucina, dove, intriso di intingoli e chiazzato di macchie, è sempre a portata di mano della buona massaia. Ordinariamente, non è articolo da regalo: tanto meno da parte delle suore per un giovane prete. Eppure è l’unico paramento sacerdotale citato nel Vangelo. Il quale Vangelo, per la messa solenne celebrata da Gesù della notte del giovedì santo, non parla né di casule né di amitti, né di stole né di piviali. Parla solo di questo panno rozzo che il Maestro si cinse ai fianchi con un gesto tipicamente sacerdotale. Chi sa che non sia il caso di completare il guardaroba delle nostre sacrestie con l’aggiunta di un grembiule tra le dalmatiche di raso e le pianete di samice d’oro, tra i veli omerali di broccato e le stole a lamine d’argento”.

don Tonino Bello, Chiesa, Stola e Grembiule, Edizioni Messaggero Padova, Padova 2006, p. 46-47

“Il problema delle nostre chiese locali è quello di passare da tende di parcheggio e di protezione per chi da sempre vi sta dentro, ad accampamenti di speranza e di salvezza per chi da tempo o da sempre ne sta fuori.”

don Tonino Bello, Chiesa, Stola e Grembiule, Edizioni Messaggero Padova, Padova 2006, p. 38

“Si tratta di fare affidamento su di loro, pensando che la salvezza del mondo Dio la opera per mezzo dei poveri. Si tratta di accettare che, come Gesù, pur essendo Dio, non ha disdegnato di farsi uomo e assumere la condizione del servo, così la chiesa, se vuole essere segno di epifania del Cristo, deve scegliere la strada dello svuotamento, della povertà. Si tratta in ultima analisi, di scegliere la strada battuta dagli ultimi come il luogo da dove parte la liberazione operata dal Signore”.

don Tonino Bello, Chiesa, Stola e Grembiule, Edizioni Messaggero Padova, Padova 2006, p.65

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Raniero La Valle e la santificazione di Oscar Romero

san Romero d’America, pastore e martire nostro

di Raniero La Valle
in “www.chiesadituttichiesadeipoveri.it” del 12 ottobre 2018

Care amiche ed amici, domenica 14 ottobre insieme a Paolo VI e a cinque altri nuovi santi, viene canonizzato da papa Francesco il vescovo di San Salvador Oscar Arnulfo Romero. Di Paolo VI tutto si sa, ma Romero lo ricordano in pochi anche se la sua morte per mano di un potere omicida attraversò come una folgore il mondo e accese molti cuori e molte fedi. Ma la Chiesa romana che l’aveva redarguito in vita, lo aveva dimenticato in morte, tanto che David Maria Turoldo poté cantare così:

«“In nome di Dio vi prego, vi scongiuro,// vi ordino: non uccidere!//Soldati, gettate le armi…” Chi ti ricorda ancora, //fratello Romero?//Ucciso infinite volte//dal loro piombo e dal nostro silenzio. Ucciso per tutti gli uccisi,//neppure uomo,//sacerdozio che tutte le vittime//riassumi e consacri. Ucciso perché fatto popolo//ucciso perché facevi//”cascare le braccia//ai poveri armati”,//più poveri degli stessi uccisi://per questo ancora e sempre ucciso. Romero, tu sarai sempre ucciso,//e mai ci sarà un Etiope//che supplichi qualcuno//ad avere pietà. Non ci sarà un potente, mai//che abbia pietà//di queste turbe, Signore?//nessuno che non venga ucciso? Sarà sempre così, Signore?»

E il poeta e vescovo del Brasile Pedro Casaldaliga cantò così:

«……Siamo nuovamente in piedi per dare testimonianza, San Romero d’America, pastore e martire nostro! Romero della pace quasi impossibile, in questa terra di guerra. Romero, rosso fiore della incolume Speranza di tutto il Continente. Povero glorioso pastore, assassinato a pagamento, a dollari, in valuta pregiata. Come Gesù, per ordine dell’Impero. Povero glorioso pastore, abbandonato dai suoi stessi fratelli di Pastorale e di Tavola (le curie non potevano comprendere Cristo). Ma era con te la massa dei poveri, in disperazione fedele, pascolo e anche gregge della tua profetica missione. Il popolo ti ha fatto santo. L’ora del tuo popolo ti ha consacrato nel Kairόs. I poveri ti hanno insegnato a leggere il vangelo….»

Per ricordare Romero pubblichiamo nel sito dei testi da due Veglie che nella Chiesa italiana furono da lui ispirate. La prima è la veglia pasquale del 4 aprile 2015 tenutasi a Caravaggio (Bergamo), nella piccola chiesa di San Bernardino, veglia che rievocava Oscar Romero e la sua rilettura pasquale degli eventi salvadoregni, assistito, come era stato, dalle amicizie liberatrici di Rutilio Grande e di Marianella Garcia Villas, martiri anch’essi della repressione nel Salvador. La seconda, su testi di padre David Maria Turoldo, fu tenuta nel 1982 presso l’aeroporto di Comiso in occasione di un Convegno nazionale della rivista “Bozze 82” sul tema: “Invece dei missili”, e fu ripetuta nel 2007 sul ciglio dell’aeroporto Dal Molin di Vicenza dove avrebbero dovuto avere la loro base gli aerei per la deterrenza e la ritorsione nucleare. Nella sezione “convegni e assemblee” diamo notizia di una “memoria” che la comunità di San Paolo farà nel prossimo novembre dell’eredità di Giovanni Franzoni, “storia e profezia

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un grande urgente problema delle chiese cristiane

la teologa Cristina Simonelli e il ponte da costruire tra le Chiese e le persone Lgbt

“per amore civile e politico – evangelico” (Ls 231)

(intervento tenuto dalla teologa Cristina Simonelli* alla tavola rotonda tenuta al V Forum dei Cristiani LGBT (Albano Laziale, 5-7 ottobre 2018) il 6 ottobre 2018)

 Cristina Simonelli
in “www.gionata.org” del 13 ottobre 2018

Vi ringrazio dell’opportunità di essere oggi qui, insieme a voi. Porto me stessa, dunque con molti limiti e con un’esperienza parziale del tema, importante tuttavia per la mia stessa vita – e da qui inizierò. Porto anche inevitabilmente il mio ruolo, almeno uno dei miei ruoli attuali, quello di Presidente del Coordinamento delle Teologhe Italiane. Se servisse un titolo – in una Tavola rotonda non è del resto necessario – suggerirei “per amore civile e politico”: attraverso questa espressione che raccoglie una sezione di Laudato sì (nn.228232) vorrei infatti anche richiamare un breve articolo pubblicato per Munera[1] con lo stesso titolo, a indicare che quanto posso dire non lo esprimo solo oggi perché mi trovo qui, ma, nel suo limite, l’ho comunque già altrove e pubblicamente sostenuto. Civile e politico, ma anche più largamente personale ed evangelico. Trovo giusto richiamare qui anche l’appello che Francesca Carboni ha recentemente condiviso via change.org, intitolato “per amore”. In esso, ricordando un duplice episodio di violenza a Verona, chiedeva maggior rigore contro l’omofobia. Svolgerò la mia riflessione attorno ad alcuni punti.

1 Inizio da me: al di là di care amicizie, ad esempio quella con una mia carissima amica fin dall’infanzia e tuttora vicinissima, che è lesbica e con la quale parliamo con grande libertà da decenni, sono stata tirata dentro alla questione lgbt in maniera brusca ma importante. A seguito della questione gender – al momento un po’ sopita, mi pare – mi sono trovata – ricordo una prima volta a Torino – spostata da quello che intende il Coordinamento delle Teologhe Italiane (anche nello statuto associativo) con prospettiva di genere, a un discorso che riguardava unicamente l’omosessualità (nel discorso pubblico antigender resa comunque caricaturale). Al di là di questa vicenda ormai “compiuta” (difficile cambiare il percorso delle parole…), quello che secondo me era un difetto di comprensione, la resa parziale e distorta di un orizzonte più vasto (che non coincide con l’orientamento sessuale, anche se lo comprende), la violenza verbale che si è scatenata mi ha fatto capire moltissimo: se si scatena una reazione omofoba così forte, è qui che si deve lavorare, anzi questo è un orizzonte che deve essere assolutamente considerato e assunto. Quell’ira, quella violenza mi hanno fatto capire molto, mi hanno fatto incontrare persone nuove e persone che già conoscevo sotto altra luce. Da allora e in particolare dopo l’accrescersi dei toni in modo che nell’intenzione voleva essere offensivo dopo la presentazione a Vicenza del libro di Beatrice Brogliato e Damiano Migliorini, L’amore omosessuale, ho deciso che nel mio, nel nostro “paniere” debba stare sempre anche il tema dell’orientamento sessuale e del rigetto dell’omofobia. E questo anche se ritengo ancora che lo schiacciamento dell’orizzonte di genere in questo senso e, qualora ce ne sia il caso, la dissoluzione di un soggetto/donna non è utile per nessuno/a. A questo proposito, osservo che oggi in questa assemblea c’è una schiacciante maggioranza maschile[2]: anche questo aspetto, al di là dell’orientamento, sarebbe degno di un approfondimento.

2. Purificazione della memoria Il Giubileo del 2000 è stato contrassegnato anche da una cosa non frequente nella Chiesa cattolica, la Purificazione della memoria, ossia la richiesta di perdono collettivo, a nome di tutta la chiesa. E’ adesso il momento di riprenderla e ampliarla: certo comprendeva aspetti importantissimi, dalla imposizione della propria verità, alla discriminazione delle donne, alla discriminazione razziale, compresa quella dei Rom (questioni oggi più che mai urgenti). Oggi c’è la necessità non solo che la richiesta di perdono e il proposito di uscire da quel peccato diventino vie di concreta conversione, ma anche che le questioni siano allargate: serve una richiesta di perdono per l’omofobia, per come tante persone sono state disprezzate ed estromesse e anche costrette a mimetizzarsi.

3. Il ruolo svolto dalla teologia (come riflessione critica sulla fede, dunque nell’angolo visuale che mi compete, in relazione alla pastorale, ma con essa non coincidente) dovrebbe essere discusso in analogia con quello svolto/non svolto rispetto alla violenza domestica e contro le donne: anche il disinteresse, anche l’omissione e la tiepidezza rispetto al tema sono già colpevoli, quasi quanto la esplicita avversione, nel caso dell’orizzonte lgbt, o l’affermazione della necessaria sottomissione delle donne, nell’altro caso. Non mi riferisco solo all’ambito della teologia morale, che certamente ha mostrato e mostra un arco grande di posizioni, e in cui il dibattito è aperto. Mi riferisco trasversalmente a tutte le prospettive teologiche. Sembrano discorsi molto distanti dalla pastorale, a qualcuno danno addirittura l’impressione di essere astratti, avulsi dalla realtà, ma al di là dei metodi e dei linguaggi, interagiscono sempre con le pratiche, in quello che suggeriscono e in quello che recepiscono. E’ importante dunque che ne accolgano le istanze, che si lascino attraversare dalle domande, perché l’assenza corrisponde alla rimozione, alla cancellazione. Con la domanda aperta, si dovrebbe riattraversare costantemente l’insieme delle scienze teologiche. Per fare un esempio legato alle scienze bibliche, ci troviamo spesso davanti a un’esegesi che passa dal letteralismo più rigido alla allegoria più spinta, secondo… i casi. Così ad esempio si può dire dei codici familiari, nei quali si parla di sottomissione della donna e in cui compaiono anche prese di distanza dall’omoaffettività da una parte e, dall’altra, delle indicazioni evangeliche sul porgere l’altra guancia, su non poter servire due padroni: come ha più volte segnalato un’esegesi attenta ai procedimenti di genere, i codici vengono presi alla lettera, senza attenzione al contesto che li ha generati e indirizzati, mentre le indicazioni su non violenza e sobrietà passano velocemente a un registro simbolico e metaforico. Nello stesso modo, in Genesi 2,18 l’ezer kenegdo, la creazione dell’uomo e della donna che si guardano in volto reciprocamente (=aiuto che corrisponda), viene assunto in maniera letterale, ad escludere la sua interpretazione più larga come alterità che si guardano in volto comunque sia, quindi anche fra persone dello stesso sesso, ma non viene assunto nella stessa forma stretta “l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna” (v. 24), per vietare il celibato. In termini più generali devo dire che fino a tempi molto recenti non avevo misurato l’uso restrittivo dei molti passi evangelici che invitano all’accoglienza, al riconoscimento reciproco, alla pienezza della Legge riconoscibile nell’agape, alla benedizione, e infine alla potenza, anche in questo senso, dell’affresco escatologico del capitolo 25 di Matteo: «L’avete fatto a Me». Devo alla riflessione e alla pastorale lgbt il suggerimento di una lettura inclusiva di questi e di molti altri passi. Cose abbastanza simili si possono dire rispetto alla tradizione, che oltre ad essere concetto largo che contiene al suo interno diversi livelli, viene a volte esibita come macigno – perpetue servanda! – altre volte approda nell’idea del suo progresso, con disinvoltura degna di miglior causa.

4. Qualche parola a partire da P. Martin, nel libro (Un Ponte da costruire. Una relazione nuova tra la Chiesa e le persone LGBT, Marcianum Press, 2018) e nel video che abbiamo visto e ascoltato. Con grande apprezzamento per la sua chiarezza e determinazione, che non nascono oggi ma hanno il fondamento di una pratica pluriennale, mi permetto di fare una osservazione, per lo meno alla traduzione italiana. Martin legge le tre parole del catechismo della chiesa cattolica: rispetto, compassione, sensibilità. Ha come orizzonte di lettura un testo, autorevole certo, ma la cui autorevolezza non andrebbe esagerata. A parte il fatto che sia stato molto criticato a suo tempo anche come “operazione” negli ambienti della catechesi (in effetti è un’altra cosa!), è comunque una sintesi datata, non certo eterna o intangibile: a dimostrazione, è stata tolta la liceità della pena di morte, può essere tolto anche il “disordine oggettivo”!. Si tratta dunque di un documento che merita rispetto, sì, ma anche comprensione storica, critica, teologica e dunque dibattito.
Tornando dunque alle tre espressioni, rispetto è certo fondamentale, importantissimo. Ma compassione … in italiano “compassione”, al di là della etimologia suona proprio male…. Le parole non vivono solo di etimologia, hanno anche un uso corrente che ne modifica l’intenzione… Sim/patia, che ha la stessa etimologia, in italiano ha tutta un’altra eco. Mi sembra meglio rispetto e simpatia, e dunque anche sensibilità suonerebbe diversamente. E un’altra piccola integrazione al video, alla lettura di Gv 4, l’incontro di Gesù al pozzo con la donna di Samaria: le prime parole di Gesù sono una richiesta, “Dammi da bere”. Non strategia, non “furbizia pastorale”. Ho bisogno, ho bisogno di te, ho bisogno dell’acqua che puoi darmi tu, tu sei un dono per me e come tale ti riconosco, ti onoro, ti chiedo di non privarmene.

5. Un convitato di pietra: la sessualità. In molti discorsi ecclesiali aleggia un non detto, che è un problema serio, ed è un disagio nei confronti della sessualità Non è poi così passata la costruzione – sessuofobica, senza dubbio – secondo cui tutto ciò che riguarda il sesto comandamento è… materia grave!!! Mi permetto di fare il paragone fra la affettività che si esprime anche nella sessualità nelle coppie lgbt e nelle coppie che vivono una seconda unione dopo il divorzio. Da che fantasmi può nascere l’indicazione, parlo dei divorziati risposati, di vivere come fratello e sorella? Da quali sfondi può provenire un’indicazione del genere? Lo stesso vale per le coppie lgbt: affettività e non sessualità, perché? In questo senso ci sono molti esami di coscienza da fare. E ci sono compiti di riflessione, che non vanno nella direzione di “tutto è lo stesso”. Non tutto è lo stesso, piuttosto astinenza imposta e occasionalità sistematica sono forse due facce di una stessa medaglia, che fatica a confrontarsi con il rispetto e la fedeltà nella relazione. A questo proposito, molto importante la riflessione di Migliorini sulla castità, verso la fine del libro: il termine ha di per sé molte accezioni, può significare anche non avere rapporti sessuali – ed è una modalità che se scelta è importante e degna di rispetto! – ma significa anche rispetto nell’amore, significa quello che viene espresso nel consenso matrimoniale “prometto di amarti e onorarti”. Onorarti è molto importante, questa è castità! Farei riferimento anche al contributo del vescovo di orano, Mons. Vesco (Ogni vero amore è indissolubile) in vista del Sinodo sulle famiglie. Ripensando la tradizione teologica e morale, con acribia, viene a dire che anche nella seconda unione ci sono le caratteristiche di purezza, di grandezza, di serietà e fedeltà. Credo che anche in questo caso la riflessione si possa estendere in un orizzonte lgbt (denominazione un po’ faticosa, con acronimo in continua estensione.. iq.. ). Si potrebbe ricordare la recente canzone di Luca Carboni, “Io non voglio”: non voglio fare l’amore, voglio un miracolo… cioè voglio’ di più, non di meno! 6. Rechobot: in Genesi, si apre a un certo punto uno spazio sui pozzi (26,15-25), ce ne sono diversi (si pensi a quello “della visione” che sarebbe il pozzo di Agar) e spesso per essi le persone litigano. Poi per un pozzo non litigano, e lo chiamano Rechobot (plurale di Rahab) spazi liberi, perché dicono Il Signore ci ha dato spazio. In un mondo (e la chiesa in esso) tanto connesso quanto pieno di muri (cfr. Tim Marshall, I muri che ci dividono… ) Janet Napolitano scrive, riferendosi al confine fra Messico e Usa, Mostratemi un muro alto 15 metri e io vi mostrerò una scala di 15 metri e mezzo… Con una scala così o, come suggerisce Ef 2, abbattendo in noi e nei nostri corpi i muri che si frappongono, ci affidiamo a chi non perde neanche uno iota, neanche una briciola di pane, neanche un passerotto e affidiamo noi stessi anche le nostre comunità: Sappiamo infatti quello che siamo, non ancora quello che saremo, ma saremo simili al suo Volto, che guarderemo di faccia (cfr 1 Gv 3,1-2).

* Cristina Simonelli è nata a Firenze il 24 maggio 1956. Dal 1976 al 2012 ha vissuto in un accampamento Rom, prima in Toscana, poi a Verona. Figura di spicco del mondo femminile ecclesiale italiano e internazionale, è dal 2013 la Presidente del Coordinamento delle Teologhe Italiane. È docente di teologia patristica a Verona (San Zeno, San Bernardino, San Pietro Martire) e presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (Milano). Ha commentato per Piemme l’Enciclica di papa Francesco Laudato si’. Sulla cura della casa comune (2015).
[1] Munera 2/2017, 25-35. Questo il passo dell’enciclica: L’amore […] è anche civile e politico, e si manifesta in tutte le azioni che cercano di costruire un mondo migliore. L’amore per la società e l’impegno per il bene comune sono una forma eminente di carità, che riguarda non solo le relazioni tra gli individui, ma anche «macro-relazioni, rapporti sociali, economici, politici» (LS 231) [2] Mi permetto di suggerire la lettura, per me recentissima, di Anna Segre, 100 punti di lesbicità (secondo me), Ellint, Roma 2018

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