il capitalismo è una bestia feroce

la bestia

e amare Dio significa combattere la bestia

sulle croci che piegano la dignità di milioni di persone occorrerebbe scrivere: vittima del sistema economico. È una struttura di peccato che uccide in molti modi: con sfruttamento, precarietà, disoccupazione, mancanza di sicurezza, inquinamento

Per comprendere il funzionamento del capitalismo è sufficiente leggere l’Esodo:

«In quel giorno il faraone diede questi ordini ai sorveglianti del popolo e ai suoi scribi: “Non darete più la paglia al popolo per fabbricare i mattoni come facevate prima. Si procureranno da sé la paglia. Però voi dovete esigere il numero di mattoni che facevano prima, senza ridurlo. Perché sono fannulloni; per questo protestano”» (Esodo 5, 6-8).

Su molte tombe occorrerebbe scrivere: vittima del sistema economico (1). E lo stesso sulle croci che piegano la dignità di milioni di persone. È una struttura di peccato che uccide in molti modi: con lo sfruttamento, con la precarietà, con la disoccupazione, con la mancanza di sicurezza, con l’inquinamento. Intanto la propaganda, a servizio del Capitale, rasserena il gregge, iniettando parole manipolate: morti bianche, fatalità, esigenze del mercato. Poi con l’appropriazione indebita (ma garantita dal c.d. Stato) dei mezzi di produzione, pochi privilegiati, dopo essersi assicurati le nostre braccia, gambe e menti, si comprano pure l’anima convincendoci ad aderire alle loro deviazioni etiche/esistenziali/umane. Sfruttati, ci manifestiamo riconoscenti di essere lasciati (a differenza di altri) ancora per un po’ in vita. Sfruttati, ci godiamo l’opportunità di essere inseriti nella mission aziendale (comprese: costruzioni di armi, produzioni contaminanti, servizi indegni come il business dell’azzardo etc.). È un grande privilegio, infatti si deve superare una dura selezione per poter contribuire, con il proprio sangue, a gonfiare i profitti dei professionisti dell’iniquità.

«hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali; essi che calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri» (Amos 2,6-7)

Così acquistati, a saldo, dal capitalismo, e marchiati dall’incertezza, ci dirigiamo, comunque, alle catene di montaggio meccaniche (fabbriche), telefoniche (call center), e altre varianti (logistica, edilizia, agricoltura etc) con la magliettina del campione milionario, venduta dalla società modello: quella che all’aumentare degli utili diminuisce i posti di lavoro. Intanto rinunciamo alla genitorialità, oppure la rinviamo al momento della pensione. Se, invece, in un momento di protesta nei confronti del regime, abbiamo concepito dei figli possiamo assicurargli, nei casi più fortunati, la sopravvivenza ma non la formazione. Possiamo comprare cose, finanziare studi e sport ma non possiamo dargli l’esempio. Non abbiamo tempo: l’ha comprato il capitalista. Per gli anziani discorso chiuso: c.d. badanti (signore iper laureate che, per lavoro, ‘abbandonano’ i familiari ed accudiscono anziani, a loro volta, ‘abbandonati’, per lavoro, dai familiari) o c.d. case di riposo (parcheggi di umani davanti alla TV, cioè al nulla). Il capitalismo divide, distrugge, deforma. Non è sufficiente protestare, denunciare. I suoi sostenitori non hanno né cuore, né orecchie: rimangono loro, appena, i sentimenti di un portafoglio e la solidarietà di una carta di credito. Fino a quando non negheremo la nostra collaborazione alle logiche di morte non vedremo «nuovi cieli e una terra nuova» (2). Fino a quando non immagineremo e costruiremo una diversa umanità, delle relazioni fraterne, libere e senza soprusi non potremo ascoltare quelle cose inaudite che Dio ha preparato per coloro che lo amano (3). E amare Dio significa combattere la bestia.

(1) Cfr. «Questa economia uccide» (Papa Francesco, Evangelii Gaudium 53)

(2) 2Pietro 3,13

(3) 1Corinzi 2,9

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anche i vescovi italiani temono l’imbarbarimento

l’accusa della Cei

sui migranti salvare la nostra stessa umanità dall’imbarbarimento

dura nota della Conferenza episcopale: ci sentiamo responsabili di questo esercito di poveri, vittime di guerre e fame, di deserti e torture

Madre e bambino morti portati a bordo della Open Arms

madre e bambino morti portati a bordo della Open Arms

Da una parte la cultura dell’odio, dello sfruttamento. Del razzismo. Dall’altra una società – anche se ultimamente messa un po’ all’angolo – che non arretra all’avanzare dell’intolleranza:

“Avvertiamo in maniera inequivocabile che la via per salvare la nostra stessa umanità dalla volgarità e dall’imbarbarimento passa dall’impegno a custodire la vita. Ogni vita. A partire da quella più esposta, umiliata e calpestata”.

Lo ha detto la Cei in una dichiarazione sulla questione dei migranti.

“Rispetto a quanto accade non intendiamo né volgere lo sguardo altrove, né far nostre parole sprezzanti e atteggiamenti aggressivi. Non possiamo lasciare che inquietudini e paure condizionino le nostre scelte, determino le nostre risposte, alimentino un clima di diffidenza e disprezzo, di rabbia e rifiuto”.

La Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana ha aggiunto:

“Gli occhi sbarrati e lo sguardo vitreo di chi si vede sottratto in extremis all’abisso che ha inghiottito altre vite umane sono solo l’ultima immagine di una tragedia alla quale non ci è dato di assuefarci. Ci sentiamo responsabili di questo esercito di poveri, vittime di guerre e fame, di deserti e torture. È la storia sofferta di uomini e donne e bambini che – mentre impedisce di chiudere frontiere e alzare barriere – ci chiede di osare la solidarietà, la giustizia e la pace”.
“Come Pastori della Chiesa non pretendiamo di offrire soluzioni a buon mercato. Rispetto a quanto accade non intendiamo, però, né volgere lo sguardo altrove, né far nostre parole sprezzanti e atteggiamenti aggressivi”, sottolineano i vescovi

“Animati dal Vangelo di Gesù Cristo continuiamo a prestare la nostra voce a chi ne è privo. Camminiamo con le nostre comunità cristiane, coinvolgendoci in un’accoglienza diffusa e capace di autentica fraternità. Guardiamo con gratitudine a quanti – accanto e insieme a noi – con la loro disponibilità sono segno di compassione, lungimiranza e coraggio, costruttori di una cultura inclusiva, capace di proteggere, promuovere e integrare. Avvertiamo in maniera inequivocabile che la via per salvare la nostra stessa umanità dalla volgarità e dall’imbarbarimento passa dall’impegno a custodire la vita”, conclude la nota.

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il commento al vangelo della domenica


📖 La tenerezza del pastore
 
il commento al vangelo della sedicesima domenica del tempo ordinario (22 luglio 2018) di E. Bianchi:
In quel tempo 30Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. 31Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. 32Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. 33Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. 34Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.

I discepoli ritornati dalla missione meritano di essere chiamati “inviati”, “missionari”, per questo Marco li definisce “apostoli” (apóstoloi): discepoli di Gesù diventati suoi inviati.

Tornano dunque da Gesù, colui che li aveva inviati e abilitati alla missione, tornano alla fonte, tornano a colui che li aveva chiamati “perché stessero con lui”, oltre che “per mandarli a predicare” (Mc 3,14). Essi “raccontano a Gesù tutto quello che avevano fatto e insegnato”: azioni e parole che erano state comandate da Gesù, ma che soprattutto gli apostoli avevano imparato ad assumere stando con lui, coinvolti nella sua vita, vivendo con lui, il loro rabbi, maestro e profeta. Sappiamo di che cosa era fatto questo loro servizio: l’annuncio del Regno di Dio veniente, della necessaria conversione, e una prassi di umanità autentica che si manifestava nell’incontrare le persone, nell’accoglierle, nel dare loro fiducia risvegliando la loro fede, nello sperare insieme a loro, nel liberarle, per quanto possibile, da oppressioni diverse dovute alla presenza del Male operante nel mondo. Marco non dice che gli inviati hanno fatto cose straordinarie, miracoli, perché ciò che era sufficiente l’hanno eseguito in obbedienza al mandato di Gesù.

Ecco dunque i discepoli-apostoli riuniti intorno a Gesù, che da autentico pastore della sua comunità ascolta ciò che essi hanno vissuto e sperimentato nella missione. Vi è un vero dialogo tra Gesù e gli inviati (descritto più diffusamente in Lc 10,17-20), nel quale vengono evidenziate fatiche e gioie, risultati e fallimenti di quella missione in Galilea anticipatrice della missione a tutte le genti da parte di coloro che Gesù risorto invierà.

Gli apostoli sono stanchi, e Gesù, che è stato raggiunto dalla notizia della decapitazione di Giovanni, il suo rabbi, nella sua tristezza decide di prendere le distanze dalla predicazione che lo impegnava e lo affaticava. Dice dunque ai Dodici: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto (kat’ idian eis éremon tópon), e riposatevi un po’”. Gesù li chiama ancora una volta a seguirlo, a “stare con lui”, per condividere con lui la preghiera al Padre, per approfondire la vocazione e la missione, per riposarsi. È un invito pieno di tenerezza, di sollecitudine per i discepoli, ma anche per Gesù è una necessità: egli deve fare discernimento sulla sua missione, soprattutto ora che Giovanni il Battista, con la morte violenta subita, diventa precursore anche del suo futuro.

Marco annota anche che quanti cercavano Gesù e venivano da lui erano talmente numerosi che i discepoli, impegnati nell’organizzare questi incontri personali con Gesù, non avevano neppure il tempo di preparare da mangiare e di mangiare. Sì, anche per Gesù, come per ciascuno di noi, occorre a volte avere il coraggio e la forza di prendere le distanze da ciò che si fa, occorre uscire dall’agitazione delle moltitudini, dal rumore delle folle, da quel turbinio di occupazioni che rischiano di travolgerci. Lavorare, impegnarsi seriamente con tutta la propria persona è necessario ed è umano, ma lo è altrettanto la dimensione della solitudine, del silenzio, della quiete. Se noi sentissimo nel nostro cuore questa chiamata: “Fuggi, fa’ silenzio, cerca quiete” (Detti dei padri del deserto, Serie alfabetica, Arsenio 2), saremmo certamente più disponibili a trovare un “luogo deserto”, uno spazio solitario in cui pensare, meditare, ascoltando il silenzio, il nostro cuore, la voce di Dio che cerca di parlarci nel nostro intimo più profondo. Senza ottemperare a questa esigenza, si cade nella superficialità, ci si disperde, si finisce per vivere senza sapere dove si va.

Ma questo tentativo di sfuggire alla folla e di trovare solitudine e riposo fallisce: la folla che da giorni segue Gesù prevede le sue mosse e a piedi raggiunge prima di lui quella riva deserta del lago. Gesù allora, sbarcando, la vede e la osserva con attenzione: non è preso dalla soddisfazione del successo, del fatto che tanta gente lo cerca e lo trova, ma è mosso a viscerale compassione (verbo splanchnízo). Le sue viscere si commuovono come quelle di Dio nei confronti del suo popolo oppresso (cf. Os 11,8); egli si commuove e soffre con un fremito causato solo dall’amore verso quella gente. Sì, è gente incredula, che cerca Gesù con ambiguità e interessi non trasparenti, ma per Gesù merita compassione. Sono “pecore senza pastore”, non hanno nessuno che dia loro da mangiare cibo, nessuno che si prenda cura di loro, nessuno che rivolga loro la parola per sostenerli nel duro mestiere di vivere e nessuno che li sostenga nei loro dubbi e contraddizioni. Gesù si intenerisce e rivive la compassione di Mosè quando vede il suo popolo senza pastore (cf. Nm 27,17) e la compassione dei profeti che soffrono al vedere il popolo di Dio disperso e oppresso dai cattivi pastori (cf. 1Re 22,17; Ez 34,5; Zc 10,3-12).

Non resta dunque a Gesù che farsi “pastore buono ” (Gv 10,11.14) di quella folla: obbedisce puntualmente e fa ciò che Dio, il Padre suo, vuole che lui faccia a suo nome, quale Figlio inviato nel mondo. Gesù dunque legge la fame di quella gente, fame di cui forse non sono pienamente coscienti, fame della Parola: vogliono che Gesù insegni, cioè “parli loro la Parola”, come Marco dice altrove (cf. Mc 2,2; 4,33). Ciò che è decisivo è che Gesù sia presente e parli, perché lui è la Parola di Dio (cf. Gv 1,1.14). Gesù lo fa lungamente, come stando sotto un giogo: il giogo della misericordia che lo spinge a questa compassione, a questa fatica, a questa parola indirizzata a quanti suscitano in lui sentimenti di tenerezza. Aveva avuto misericordia degli apostoli ritornati stanchi e li aveva chiamati al riposo, e ora ha misericordia delle folle e interrompe il proprio riposo. Solo la compassione misericordiosa lo guidava e ne determinava il comportamento e le azioni durante la sua itineranza. La folla che impedisce a Gesù di realizzare il suo progetto buono e urgente di riposo necessario non causa in lui fastidio, reazioni di impazienza, ma gli fornisce un’occasione per partecipare ai sentimenti di Dio che ha compassione del suo popolo privo di pastori.

Questo è un grande insegnamento per noi: su ogni nostra decisione, su ogni nostra scelta necessaria e buona, ciò che deve avere il primato è la misericordia. Se ogni nostra scelta e ogni nostra azione non obbediscono innanzitutto alla misericordia, non sono conformi ai “sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5): sentimenti umani ma in profondità sentimenti di Dio, colui che è Santo e mostra la sua santità in mezzo al suo popolo con la compassione, scegliendo che nel suo cuore la misericordia regni sulla giustizia (cf. Os 11,7-9). Soprattutto i pastori di comunità dovrebbero molto interrogarsi su questa disponibilità a dare la precedenza alle domande della comunità rispetto alle loro scelte e alle loro pur buone iniziative. Dovrebbero chiedersi se in loro la misericordia, cioè l’amore viscerale di compassione, è sempre immanente al “compiere ogni giustizia” (cf. Mt 3,15). Non lo si dimentichi: nel cristianesimo non si danno compimento della giustizia e misericordia, ma solo misericordia nel compimento della giustizia o compimento della giustizia nella misericordia.

Prima di dare il pane Gesù dà la Parola, per saziare gli uomini e le donne che lo seguono. Ma presto darà anche il pane, perché la sua tenerezza non riguarda solo la loro sete di Parola ma anche la loro fame di pane.

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