il commento al vangelo della domenica


📖 La potenza del seme del Regno 
17 giugno 2018 
XI domenica del tempo Ordinario 
Commento al Vangelo 
di ENZO BIANCHI 

Mc 4,26-34

In quel tempo  Gesù Diceva ai suoi discepoli : «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; 29e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura». Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra». Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

Nel vangelo secondo Marco Gesù pronuncia un lungo discorso in parabole, come insegnamento rivolto ai discepoli che ha chiamato alla sua sequela e alle folle che ascoltano la sua predicazione del Regno veniente (cf. Mc 4,1-34). Le parabole sono un linguaggio enigmatico che diventa però “mistero” (Mc 4,11) per chi segue Gesù e in qualche modo entra nella sua intimità, fino a trovarsi in uno spazio che può essere definito da Gesù stesso éso, “dentro”, contrapposto a quello éxo, “fuori” (cf. Mc 3,31-32; 4,11).

Nello stesso tempo, le parabole sono da lui dette in modo che gli ascoltatori cambino il loro modo di pensare. Esse, infatti, contengono sempre un messaggio di contro-cultura, correggono ciò che tutti pensano o sono portati a pensare, e di conseguenza sono annuncio di qualcosa di nuovo: una novità apportata da Gesù non a livello di idee, ma come qualcosa che cambia il modo di vivere, di sentire, di giudicare e di operare. Gesù era un uomo che innanzitutto sapeva vedere: vedeva, osservava, contemplava tutto ciò che gli era intorno e tutti quelli che gli si avvicinavano e che egli avvicinava a sé. In lui la consapevolezza e l’adesione alla realtà erano sempre in esercizio, sicché poteva poi pensare. Di più, potremmo dire che il suo pensare davanti al Padre e alla sua volontà era un pregare che gli permetteva di immaginare racconti e situazioni, da comunicare ai discepoli attraverso la narrazione di molte parabole.

Nella nostra pericope Gesù, dopo aver pronunciato la parabola del seminatore, spiegata in seguito ai soli discepoli come semina della parola di Dio (cf. Mc 4,1-20), e i due brevi detti sulla lampada “che viene” per essere vista e sulla misura dell’ascolto (cf. Mc 4,21-25), narra due ultime parabole, quelle offerteci dalla liturgia odierna, che vogliono attestare l’efficacia della Parola seminata. La prima, presente solo in Marco, afferma che “così è, viene il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa”. Gesù ci parla ancora del seme, un elemento che lo intrigava e sul quale aveva molto meditato. Il seme è sempre qualcosa che resta dal raccolto precedente, è il frutto di una pianta che, raccolto, secca e sembra morto. Ma se il seme cade, se è gettato sotto terra, allora nella terra intrisa di acqua marcisce, visibilmente si disfa e scompare; in realtà, però, genera vita, che diventa un germoglio, poi una pianta, e che apparirà infine addirittura come una moltiplicazione e una trasformazione del seme stesso, attraverso frutti abbondanti. Il seme è adatto per rappresentare la dinamica dell’enigma che diventa mistero, ed è per questo che Gesù ricorre più volte a questa immagine, la più presente nelle parabole da lui create.

La venuta del regno di Dio, il suo apparire, è dunque paragonato al processo agricolo che ogni contadino conosce bene, anzi che vive con attenzione e premura: semina, nascita del grano, crescita, formazione della spiga e maturazione. Di fronte a tale sviluppo, occorre meravigliarsi, guardando alla potenza, alla forza presente in quel piccolo seme secco, che sembra addirittura morto. Così è il regno di Dio: piccola realtà, ma che ha in sé una potenza misteriosa, silenziosa, irresistibile ed efficace, che si dilata senza che noi facciamo nulla. Di fronte a questa realtà, il contadino non può fare davvero nulla: deve solo seminare il seme nella terra, ma poi sia che lui dorma sia che si alzi di notte per controllare ciò che accade, la crescita non dipende più da lui. Anzi, se il contadino volesse misurare la crescita e andasse a verificare cosa accade al seme sotto terra, minaccerebbe fortemente la nascita e la vita del germoglio.

Ecco allora l’insegnamento di Gesù: occorre meravigliarsi del Regno che si dilata sempre di più, anche quando noi non ce ne accorgiamo, e di conseguenza occorre avere fiducia nel seme e nella sua forza. E il seme è la parola che, seminata dal predicatore, darà frutto anche se lui non se ne accorge né può verificare il processo: di questo deve essere certo! Nessuna ansia pastorale, ma solo sollecitudine e attesa; nessuna angoscia di essere sterili nel predicare: se il seme è buono, se la parola predicata è parola di Dio e non del predicatore, essa darà frutto in modo anche invisibile. Questa la certezza del “seminatore” credente e consapevole di ciò che opera: la speranza della mietitura e del raccolto non può essere messa in discussione.

Segue un’altra parabola, sempre sul seme, ma questa volta su un seme di senape. Gesù è veramente un uomo esercitato all’attenzione, discernere, al pensare, e quale rabbi sapiente esprime con poche parole la dinamica del Regno, da lui annunciato attraverso la semina e la crescita del granello di sé. Il chicco di senape è tra i semi più minuscoli, non più grande di un granello di sale, eppure anch’esso, se seminato in terra, cresce e diventa il più grande degli arbusti. Sembra impossibile che da un seme così minuscolo possa derivare una pianta tanto rigogliosa: anche qui c’è dunque da stupirsi, da meravigliarsi! Eppure proprio ciò che ai nostri occhi è piccolo, può avere una forza impensabile per noi umani… Ecco, infatti, che il seme di senape sotto terra marcisce, germoglia, poi spunta e cresce fino a essere un arbusto sulle cui fronde gli uccelli possono fare il nido. Qui Gesù allude certamente a quell’albero intravisto da Daniele, simbolo del regno universale di Dio (cf. Dn 4,6-9.17-19). Sì, anche questa parabola vuole comunicarci qualcosa di decisivo: la parola di Dio che ci è stata donata può sembrare piccola cosa, rivestita com’è di parola umana, fragile e debole, messa in bocca a uomini e donne poveri, non intellettuali, non saggi secondo il mondo (cf. 1Cor 1,26). Eppure quando essa è seminata e predicata da loro, proprio perché è parola di Dio contenuta in parole umane, è feconda e può crescere come un albero capace di accogliere tante creature. E non solo la parola di Dio, ma anche l’inizio del Regno, l’inizio della comunità del Signore può apparire una realtà, insignificante; eppure in seguito crescerà, diventerà una realtà inattesa, impensabile per molti, ma veramente significativa e capace di accogliere chi vuole trovare ristoro alla sua ombra.

La rivelazione dell’efficacia della parola di Dio è decisiva per noi cristiani. Questa Parola, infatti, è “potenza di Dio” (Rm 1,16), è seme di vita immortale (cf. 1Pt 1,23) e ha in sé una potenzialità che noi non possiamo prevedere. Proprio come afferma il profeta Isaia a nome del Signore: “La Parola uscita dalla mia bocca non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (Is 55,11). Certo, l’efficacia della Parola ha una modalità propria di operare in forme molto diverse, non prevedibili, che possono anche contraddire il nostro modo di pensarla e discernerla. È un’efficacia non mondana, non misurabile in termini quantitativi, perché la parola del Signore è anche “parola della croce” (1Cor 1,18). Quando è seminata nei cuori degli ascoltatori, la parola di Dio deve essere accolta, interiorizzata e custodita, deve essere discreta rispetto alle altre parole e quindi essere realizzata, in modo che appaiano i suoi frutti: frutti quasi mai percepiti e visti dal discepolo, perché “come la Parola cresca in lui, egli non lo sa”.
Queste parabole ci interrogano dunque sulla nostra consapevolezza della parola di Dio che ci è data e che noi dobbiamo seminare, sulla nostra visione del Regno come realtà di piccoli e di poveri, realtà di un “piccolo gregge” (Lc 12,32), che può divenire una raccolta delle genti del mondo intero, in cammino verso il regno di Dio veniente per tutti. Ma riflettiamo: chi pronunciava queste parabole era un oscuro figlio di Israele di Galilea, un “ebreo marginale”, non un sacerdote e neppure un rabbino formatosi in qualche scuola riconosciuta a Gerusalemme o lungo il lago di Galilea. E con lui c’era una comunità itinerante che lo seguiva: una dozzina di uomini e poche donne senza appartenenza all’elite culturale o religiosa giudaica: una realtà piccola e oscura, eppure significativa.

Allora, perché avere timore di essere noi cristiani una minoranza oggi nel mondo? Basta che siamo significativi, cioè che crediamo alla potenza della parola di Dio, che la seminiamo con umiltà e molta pace, senza angoscia né frenetica attesa di vedere i risultati… Occorre saper attendere, occorre pazienza e soprattutto fede nella parola di Dio: se il seme è buono, spunterà e darà il suo frutto. Il disegno di Dio si compie sempre, ben al di là delle nostre previsioni e della nostra impazienza.




messaggio di papa Francesco per la giornata mondiale del povero

papa Francesco a pranzo insieme alle persone povere nell’Aula Paolo VI 

“I poveri ci evangelizzano”

messaggio per la II Giornata Mondiale dei Poveri

Messaggio del Santo Padre

 di seguito il testo del Messaggio del Santo Padre Francesco per la II Giornata Mondiale dei Poveri che si celebrerà la XXXIII Domenica del Tempo Ordinario – quest’anno il 18 novembre 2018 – sul tema Questo povero grida e il Signore lo ascolta:

1. «Questo povero grida e il Signore lo ascolta» (Sal 34,7). Le parole del Salmista diventano anche le nostre nel momento in cui siamo chiamati a incontrare le diverse condizioni di sofferenza ed emarginazione in cui vivono tanti fratelli e sorelle che siamo abituati a designare con il termine generico di “poveri”.

Chi scrive quelle parole non è estraneo a questa condizione, al contrario. Egli fa esperienza diretta della povertà e, tuttavia, la trasforma in un canto di lode e di ringraziamento al Signore. Questo Salmo permette oggi anche a noi, immersi in tante forme di povertà, di comprendere chi sono i veri poveri verso cui siamo chiamati a rivolgere lo sguardo per ascoltare il loro grido e riconoscere le loro necessità. Ci viene detto, anzitutto, che il Signore ascolta i poveri che gridano a Lui ed è buono con quelli che cercano rifugio in Lui con il cuore spezzato dalla tristezza, dalla solitudine e dall’esclusione. Ascolta quanti vengono calpestati nella loro dignità e, nonostante questo, hanno la forza di innalzare lo sguardo verso l’alto per ricevere luce e conforto. Ascolta coloro che vengono perseguitati in nome di una falsa giustizia, oppressi da politiche indegne di questo nome e intimoriti dalla violenza; eppure sanno di avere in Dio il loro Salvatore. Ciò che emerge da questa preghiera è anzitutto il sentimento di abbandono e fiducia in un Padre che ascolta e accoglie.

Sulla lunghezza d’onda di queste parole possiamo comprendere più a fondo quanto Gesù ha proclamato con la beatitudine «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3). In forza di questa esperienza unica e, per molti versi, immeritata e impossibile da esprimere appieno, si sente comunque il desiderio di comunicarla ad altri, prima di tutto a quanti sono, come il Salmista, poveri, rifiutati ed emarginati. Nessuno, infatti, può sentirsi escluso dall’amore del Padre, specialmente in un mondo che eleva spesso la ricchezza a primo obiettivo e rende chiusi in sé stessi.

2. Il Salmo caratterizza con tre verbi l’atteggiamento del povero e il suo rapporto con Dio. Anzitutto, “gridare”. La condizione di povertà non si esaurisce in una parola, ma diventa un grido che attraversa i cieli e raggiunge Dio. Che cosa esprime il grido del povero se non la sua sofferenza e solitudine, la sua delusione e speranza? Possiamo chiederci: come mai questo grido, che sale fino al cospetto di Dio, non riesce ad arrivare alle nostre orecchie e ci lascia indifferenti e impassibili? In una Giornata come questa, siamo chiamati a un serio esame di coscienza per capire se siamo davvero capaci di ascoltare i poveri. E’ il silenzio dell’ascolto ciò di cui abbiamo bisogno per riconoscere la loro voce. Se parliamo troppo noi, non riusciremo ad ascoltare loro. Spesso, ho timore che tante iniziative pur meritevoli e necessarie, siano rivolte più a compiacere noi stessi che a recepire davvero il grido del povero. In tal caso, nel momento in cui i poveri fanno udire il loro grido, la reazione non è coerente, non è in grado di entrare in sintonia con la loro condizione. Si è talmente intrappolati in una cultura che obbliga a guardarsi allo specchio e ad accudire oltremisura sé stessi, da ritenere che un gesto di altruismo possa bastare a rendere soddisfatti, senza lasciarsi compromettere direttamente.

3. Un secondo verbo è “rispondere”. Il Signore, dice il Salmista, non solo ascolta il grido del povero, ma risponde. La sua risposta, come viene attestato in tutta la storia della salvezza, è una partecipazione piena d’amore alla condizione del povero. E’ stato così quando Abramo esprimeva a Dio il suo desiderio di avere una discendenza, nonostante lui e la moglie Sara, ormai anziani, non avessero figli (cfr Gen 15,1-6). E’ accaduto quando Mosè, attraverso il fuoco di un roveto che bruciava intatto, ha ricevuto la rivelazione del nome divino e la missione di far uscire il popolo dall’Egitto (cfr Es 3,1-15). E questa risposta si è confermata lungo tutto il cammino del popolo nel deserto: quando sentiva i morsi della fame e della sete (cfr Es 16,1-16; 17,1-7), e quando cadeva nella miseria peggiore, cioè l’infedeltà all’alleanza e l’idolatria (cfr Es 32,1-14). La risposta di Dio al povero è sempre un intervento di salvezza per curare le ferite dell’anima e del corpo, per restituire giustizia e per aiutare a riprendere la vita con dignità. La risposta di Dio è anche un appello affinché chiunque crede in Lui possa fare altrettanto nei limiti dell’umano.

La Giornata Mondiale dei Poveri intende essere una piccola risposta che dalla Chiesa intera, sparsa per tutto il mondo, si rivolge ai poveri di ogni tipo e di ogni terra perché non pensino che il loro grido sia caduto nel vuoto. Probabilmente, è come una goccia d’acqua nel deserto della povertà; e tuttavia può essere un segno di condivisione per quanti sono nel bisogno, per sentire la presenza attiva di un fratello e di una sorella. Non è un atto di delega ciò di cui i poveri hanno bisogno, ma il coinvolgimento personale di quanti ascoltano il loro grido. La sollecitudine dei credenti non può limitarsi a una forma di assistenza – pur necessaria e provvidenziale in un primo momento –, ma richiede quella «attenzione d’amore» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 199) che onora l’altro in quanto persona e cerca il suo bene.

4. Un terzo verbo è “liberare”. Il povero della Bibbia vive con la certezza che Dio interviene a suo favore per restituirgli dignità. La povertà non è cercata, ma creata dall’egoismo, dalla superbia, dall’avidità e dall’ingiustizia. Mali antichi quanto l’uomo, ma pur sempre peccati che coinvolgono tanti innocenti, portando a conseguenze sociali drammatiche. L’azione con la quale il Signore libera è un atto di salvezza per quanti hanno manifestato a Lui la propria tristezza e angoscia. La prigionia della povertà viene spezzata dalla potenza dell’intervento di Dio. Tanti Salmi narrano e celebrano questa storia della salvezza che trova riscontro nella vita personale del povero: «Egli non ha disprezzato né disdegnato l’afflizione del povero, il proprio volto non gli ha nascosto ma ha ascoltato il suo grido di aiuto» (Sal 22,25). Poter contemplare il volto di Dio è segno della sua amicizia, della sua vicinanza, della sua salvezza. «Hai guardato alla mia miseria, hai conosciute le angosce della mia vita; […] hai posto i miei piedi in un luogo spazioso» (Sal 31,8-9). Offrire al povero un “luogo spazioso” equivale a liberarlo dal “laccio del predatore” (cfr Sal 91,3), a toglierlo dalla trappola tesa sul suo cammino, perché possa camminare spedito e guardare la vita con occhi sereni. La salvezza di Dio prende la forma di una mano tesa verso il povero, che offre accoglienza, protegge e permette di sentire l’amicizia di cui ha bisogno. E’ a partire da questa vicinanza concreta e tangibile che prende avvio un genuino percorso di liberazione: «Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società; questo suppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il grido del povero e soccorrerlo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 187).

5. E’ per me motivo di commozione sapere che tanti poveri si sono identificati con Bartimeo, del quale parla l’evangelista Marco (cfr 10,46-52). Il cieco Bartimeo «sedeva lungo la strada a mendicare» (v. 46), e avendo sentito che passava Gesù «cominciò a gridare» e a invocare il «Figlio di Davide» perché avesse pietà di lui (cfr v. 47). «Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte» (v. 48). Il Figlio di Dio ascoltò il suo grido: «“Che cosa vuoi che io faccia per te?”. E il cieco gli rispose: “Rabbunì, che io veda di nuovo!”» (v. 51). Questa pagina del Vangelo rende visibile quanto il Salmo annunciava come promessa. Bartimeo è un povero che si ritrova privo di capacità fondamentali, quali il vedere e il lavorare. Quanti percorsi anche oggi conducono a forme di precarietà! La mancanza di mezzi basilari di sussistenza, la marginalità quando non si è più nel pieno delle proprie forze lavorative, le diverse forme di schiavitù sociale, malgrado i progressi compiuti dall’umanità… Come Bartimeo, quanti poveri sono oggi al bordo della strada e cercano un senso alla loro condizione!

Quanti si interrogano sul perché sono arrivati in fondo a questo abisso e su come ne possono uscire! Attendono che qualcuno si avvicini loro e dica: «Coraggio! Alzati, ti chiama!» (v. 49). Purtroppo si verifica spesso che, al contrario, le voci che si sentono sono quelle del rimprovero e dell’invito a tacere e a subire. Sono voci stonate, spesso determinate da una fobia per i poveri, considerati non solo come persone indigenti, ma anche come gente portatrice di insicurezza, instabilità, disorientamento dalle abitudini quotidiane e, pertanto, da respingere e tenere lontani. Si tende a creare distanza tra sé e loro e non ci si rende conto che in questo modo ci si rende distanti dal Signore Gesù, che non li respinge ma li chiama a sé e li consola.

Come risuonano appropriate in questo caso le parole del profeta sullo stile di vita del credente: «sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo […] dividere il pane con l’affamato, […] introdurre in casa i miseri, senza tetto, […] vestire uno che vedi nudo» (Is 58,6-7). Questo modo di agire permette che il peccato sia perdonato (cfr 1 Pt 4,8), che la giustizia percorra la sua strada e che, quando saremo noi a gridare verso il Signore, allora Egli risponderà e dirà: eccomi! (cfr Is 58,9).

6. I poveri sono i primi abilitati a riconoscere la presenza di Dio e a dare testimonianza della sua vicinanza nella loro vita. Dio rimane fedele alla sua promessa, e anche nel buio della notte non fa mancare il calore del suo amore e della sua consolazione. Tuttavia, per superare l’opprimente condizione di povertà, è necessario che essi percepiscano la presenza dei fratelli e delle sorelle che si preoccupano di loro e che, aprendo la porta del cuore e della vita, li fanno sentire amici e famigliari. Solo in questo modo possiamo scoprire «la forza salvifica delle loro esistenze» e «porle al centro della vita della Chiesa» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 198).

In questa Giornata Mondiale siamo invitati a dare concretezza alle parole del Salmo: «I poveri mangeranno e saranno saziati» (Sal 22,27). Sappiamo che nel tempio di Gerusalemme, dopo il rito del sacrificio, avveniva il banchetto. In molte Diocesi, questa è stata un’esperienza che, lo scorso anno, ha arricchito la celebrazione della prima Giornata Mondiale dei Poveri. Molti hanno trovato il calore di una casa, la gioia di un pasto festivo e la solidarietà di quanti hanno voluto condividere la mensa in maniera semplice e fraterna. Vorrei che anche quest’anno e in avvenire questa Giornata fosse celebrata all’insegna della gioia per la ritrovata capacità di stare insieme. Pregare insieme in comunità e condividere il pasto nel giorno della domenica.

Un’esperienza che ci riporta alla prima comunità cristiana, che l’evangelista Luca descrive in tutta la sua originalità e semplicità: «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. […] Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (At 2,42.44-45).

7. Sono innumerevoli le iniziative che ogni giorno la comunità cristiana intraprende per dare un segno di vicinanza e di sollievo alle tante forme di povertà che sono sotto i nostri occhi. Spesso la collaborazione con altre realtà, che sono mosse non dalla fede ma dalla solidarietà umana, riesce a portare un aiuto che da soli non potremmo realizzare. Riconoscere che, nell’immenso mondo della povertà, anche il nostro intervento è limitato, debole e insufficiente conduce a tendere le mani verso altri, perché la collaborazione reciproca possa raggiungere l’obiettivo in maniera più efficace. Siamo mossi dalla fede e dall’imperativo della carità, ma sappiamo riconoscere altre forme di aiuto e solidarietà che si prefiggono in parte gli stessi obiettivi; purché non trascuriamo quello che ci è proprio, cioè condurre tutti a Dio e alla santità.

Il dialogo tra le diverse esperienze e l’umiltà di prestare la nostra collaborazione, senza protagonismi di sorta, è una risposta adeguata e pienamente evangelica che possiamo realizzare. Davanti ai poveri non si tratta di giocare per avere il primato di intervento, ma possiamo riconoscere umilmente che è lo Spirito a suscitare gesti che siano segno della risposta e della vicinanza di Dio. Quando troviamo il modo per avvicinarci ai poveri, sappiamo che il primato spetta a Lui, che ha aperto i nostri occhi e il nostro cuore alla conversione. Non è di protagonismo che i poveri hanno bisogno, ma di amore che sa nascondersi e dimenticare il bene fatto. I veri protagonisti sono il Signore e i poveri. Chi si pone al servizio è strumento nelle mani di Dio per far riconoscere la sua presenza e la sua salvezza. Lo ricorda San Paolo scrivendo ai cristiani di Corinto, che gareggiavano tra loro nei carismi ricercando i più prestigiosi: «Non può l’occhio dire alla mano: “Non ho bisogno di te”; oppure la testa ai piedi: “Non ho bisogno di voi”» (1 Cor 12,21).

L’Apostolo fa una considerazione importante osservando che le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie (cfr v. 22); e che quelle che «riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno» (vv. 23-24). Mentre dà un insegnamento fondamentale sui carismi, Paolo educa anche la comunità all’atteggiamento evangelico nei confronti dei suoi membri più deboli e bisognosi. Lungi dai discepoli di Cristo sentimenti di disprezzo e di pietismo verso di essi; piuttosto sono chiamati a rendere loro onore, a dare loro la precedenza, convinti che sono una presenza reale di Gesù in mezzo a noi. «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).

8. Qui si comprende quanto sia distante il nostro modo di vivere da quello del mondo, che loda, insegue e imita coloro che hanno potere e ricchezza, mentre emargina i poveri e li considera uno scarto e una vergogna.

Le parole dell’Apostolo sono un invito a dare pienezza evangelica alla solidarietà con le membra più deboli e meno dotate del corpo di Cristo: «Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui» (1 Cor 12,26). Alla stessa stregua, nella Lettera ai Romani ci esorta: «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia; piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non nutrite desideri di grandezza; volgetevi piuttosto a ciò che è umile» (12,15-16). Questa è la vocazione del discepolo di Cristo; l’ideale a cui tendere con costanza è assimilare sempre più in noi i «sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5). 9. Una parola di speranza diventa l’epilogo naturale a cui la fede indirizza. Spesso sono proprio i poveri a mettere in crisi la nostra indifferenza, figlia di una visione della vita troppo immanente e legata al presente. Il grido del povero è anche un grido di speranza con cui manifesta la certezza di essere liberato. La speranza fondata sull’amore di Dio che non abbandona chi si affida a Lui (cfr Rm 8,31-39).

Scriveva santa Teresa d’Avila nel suo Cammino di perfezione: «La povertà è un bene che racchiude in sé tutti i beni del mondo; ci assicura un gran dominio, intendo dire che ci rende padroni di tutti i beni terreni, dal momento che ce li fa disprezzare» (2, 5). E’ nella misura in cui siamo capaci di discernere il vero bene che diventiamo ricchi davanti a Dio e saggi davanti a noi stessi e agli altri. E’ proprio così: nella misura in cui si riesce a dare il giusto e vero senso alla ricchezza, si cresce in umanità e si diventa capaci di condivisione.

10. Invito i confratelli vescovi, i sacerdoti e in particolare i diaconi, a cui sono state imposte le mani per il servizio ai poveri (cfr At 6,1-7), insieme alle persone consacrate e ai tanti laici e laiche che nelle parrocchie, nelle associazioni e nei movimenti rendono tangibile la risposta della Chiesa al grido dei poveri, a vivere questa Giornata Mondiale come un momento privilegiato di nuova evangelizzazione. I poveri ci evangelizzano, aiutandoci a scoprire ogni giorno la bellezza del Vangelo. Non lasciamo cadere nel vuoto questa opportunità di grazia. Sentiamoci tutti, in questo giorno, debitori nei loro confronti, perché tendendo reciprocamente le mani l’uno verso l’altro, si realizzi l’incontro salvifico che sostiene la fede, rende fattiva la carità e abilita la speranza a proseguire sicura nel cammino verso il Signore che viene.

Dal Vaticano, 13 giugno 2018
FRANCESCO




una parabola attualissima

il fariseo e il pubblicano

In quel tempo, Gesù disse questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:

«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era cattolico benpensante e l’altro era Rom, divorziato risposato, gay. Il cattolico benpensante, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come questo Rom, divorziato risposato, gay. Prego due volte alla settimana il rosario, la domenica vado a Messa e destino l’8 per mille alla Chiesa”. Il Rom, divorziato risposato, gay, invece, temendo il giudizio degli altri, non osava nemmeno avvicinarsi, ma incrociando le mani diceva: “Signore, so che almeno tu mi accogli”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, sperando nella Misericordia di Dio ha compreso cos’è il Regno di Dio».

vangelo di Luca 18,9-14
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
da ‘altranarrazione’



ode alla vita

contro una morte lenta

 

Lentamente muore
chi diventa schiavo dell’abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente
chi fa della televisione il suo guru.
Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco
e i puntini sulle “i”
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti all’errore e ai sentimenti.

Lentamente muore
chi non capovolge il tavolo
quando è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l’incertezza
per inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta nella vita,
di fuggire ai consigli sensati.

Lentamente muore
chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in sé stesso.

Muore lentamente
chi distrugge l’amor proprio,
chi non si lascia aiutare
chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore
chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce o non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.

Soltanto l’ardente pazienza
porterà al raggiungimento di una splendida felicità.




insensibili alle grida dei disperati?

 

La cultura del benessere ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, che porta alla globalizzazione dell’indifferenza.

(#PapaFrancesco)

Fermiamoci, chiudiamo gli occhi, ma per guardare meglio, cioè per analizzare, riflettere, decidere.

Abbiamo bisogno di rivedere i protocolli sanitari per ridurre al minimo il contagio con il capitalismo, pericoloso virus deformante.

Individuiamo i focolai dentro di noi, studiamo i sintomi fisici come il senso di alienazione per l’eccesso di fatica ed i sintomi spirituali come l’egoismo e il desiderio di prevalere sull’altro.

Cambiamo abitudini, rimettiamo in discussione ciò che è stato assorbito come presupposto ineludibile, modifichiamo i parametri.

Sottoponiamo ad un rigoroso vaglio critico la nostra eredità culturale.

Liberiamoci del senso di superiorità, deponiamo le armi sia fisiche che ideologiche e rinunciamo ad ogni forma di conquista e di sfruttamento.

Convertiamoci dall’eurocentrismo, chiediamo scusa e consideriamo preziosa ogni diversità (o meglio alterità).

Interrompiamo la propaganda ed iniziamo un lungo tirocinio dedicato all’ascolto.

Ricominciamo da capo, anche se non ci siamo mai riusciti e questo ci spaventa.

Evitiamo l’isolamento e la costruzione di oasi felici ma non condivise, sentiamoci coinvolti perché non esiste sofferenza che non ci riguardi o di cui non siamo responsabili.

Ascoltiamo il grido degli oppressi e non il sibilo dei tanti Lucignolo in giacca e cravatta, arruolati dal Potere.

Riscopriamo la bellezza delle relazioni gratuite e disertiamo le gare di braccio di ferro.

Rientriamo in contatto con le nostre profondità e leggiamo la Scrittura per guarire le ferite, illuminare le tenebre e continuare a sperare contro ogni speranza

(1). In una parola: preghiamo.

(1) Cfr. Lettera ai Romani 4,18

da ‘altranarrazione’




togliere il vangelo dalla naftalina

chiesa migrante e dei migranti

«La teologia non è neutrale: o serve esplicitamente l’oppresso o è quantomeno,  implicitamente, teologia  del dominio»

E. Dussel

 

Occorre un rapido aggiornamento del linguaggio, delle sensibilità, delle opzioni e delle prassi conseguenti. Dobbiamo farci migranti, cioè itineranti, lasciando le posizioni acquisite che ci rendono immobili ed egoisti. Ed è arrivato pure il momento di togliere dalla naftalina la Buona Notizia che non è: «Ecco per te una dottrina da imparare o una religione a cui aderire», ma: «Dio sta dalla parte degli ultimi e sostiene il loro riscatto».

Allontanati dal centro della città per non disturbare la compulsione al consumo dell’inciviltà occidentale, i migranti vengono segregati, come lebbrosi, in luoghi invisibili, anche se per il momento, nel caso dovesse avvicinarsi qualcuno, pare non debbano agitare campanelli e gridare: «Clandestino impuro! Clandestino impuro!».

I migranti annegati nel Mediterraneo rappresentano la risposta, nel concreto, all’asfittico dibattito sulle eventuali radici cristiane dell’Europa. Quei morti sono un macigno sulle nostre coscienze e scandalizzeranno le generazioni future. Il capitalismo con le sue velenose esigenze, ci ha deformato a tal punto che non riconosciamo più storie, ferite, ingiustizie ma solo provenienze, colore della pelle ed utilità. Accogliamo manodopera mica persone. Per gli schiavi un posto si trova sempre, per chi ha bisogno no. «Là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore», dice Gesù. Il cuore dell’europeo sta vicino alla sua casetta (in Italia con il mutuo incorporato), alla macchina (in Italia con le rate del prestito incorporate), ed al divertimento (in Italia: calcio, vacanze, TV) .

Se da piccoli avevamo amici immaginari e parlavamo da soli, da grandi abbiamo nemici immaginari e parliamo secondo le indicazioni dei manipolatori di professione. Ma la vita, che abbiamo defraudato ai migranti, grida e le proteste dei migranti sono giunte alle orecchie del Signore. E se non le ascoltiamo nella storia potremmo correre il rischio di doverle ascoltare, in eterno, nell’aldilà. Abbiamo accumulato ingiustizie, adesso siamo costretti a difenderle con la violenza di una legge o di accordi stipulati con Stati che non assicurano i diritti più elementari. Se poi non risulta sufficiente abbiamo a disposizione soldati pronti ad obbedire e armi rigorosamente made in Italy. Tutto questo per garantire un benessere che produce ansia, che è capace però di attrarre, corrompere e contaminare.




un ‘credo’ non di comodo …

credo profetico

«L’oligarchia cerca, attraverso pressioni economiche e politiche, e anche con la violenza, di mantenere l’attuale struttura palesemente ingiusta e ormai intollerabile»

O. Romero

aprile 02, 2018

 

Rinunci all’accumulo di ricchezze, allo sfruttamento degli altri e all’inquinamento ambientale?

Rinuncio.

-Rinunci a tutte le opere che generano iniquità e oppressione?

Rinuncio.

Rinunci a tutte le seduzioni del consumismo?

Rinuncio.

-Credi in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, Padre degli orfani, difensore delle vedove e liberatore degli oppressi?

Credo.

-Credi in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, che nacque da Maria Vergine, si è identificato con i poveri, i forestieri, i malati, i carcerati, morì e fu sepolto, è risuscitato dai morti e siede alla destra del Padre?

Credo.

-Credi nello Spirito Santo che ha parlato per mezzo dei profeti, la santa Chiesa Cattolica Povera e dei Poveri, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne e la vita eterna?

Credo.




il commento al vangelo della domenica


📖 La nuova famiglia di Gesù 
10 giugno 2018 
X domenica del tempo Ordinario 
commento al Vangelo 
di ENZO BIANCHI 


Mc 3,20-35

In quel tempo  Gesù entrò in una casa e di nuovo si radunò una folla, tanto che non potevano neppure mangiare. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: «È fuori di sé».
Gli scribi, che erano scesi da Gerusalemme, dicevano: «Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del capo dei demòni». Ma egli li chiamò e con parabole diceva loro: «Come può Satana scacciare Satana? Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non potrà restare in piedi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non potrà restare in piedi. Anche Satana, se si ribella contro se stesso ed è diviso, non può restare in piedi, ma è finito. Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni, se prima non lo lega. Soltanto allora potrà saccheggiargli la casa. In verità io vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna». Poiché dicevano: «È posseduto da uno spirito impuro».
Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo. Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: «Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano». Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre».
Riprendiamo la lettura quasi cursiva del vangelo secondo Marco in questo tempo per annum e cerchiamo di essere molto attenti alla specificità del messaggio di questo vangelo.
Gesù è ormai riconosciuto come maestro affidabile, da alcuni come un profeta che continua la missione di Giovanni il Battista. Ma Gesù non abita nel deserto, non vive in solitudine e attorno a sé ha radunato una comunità di discepoli e discepole, tra i quali ne emergono dodici per la vita vissuta insieme a lui e per la partecipazione all’annuncio della venuta del regno di Dio. La parola autorevole di Gesù e la sua attività di cura e guarigione dei malati attivano molta gente, che vuole ascoltarlo e vederlo. Questo successo della sua predicazione talvolta impedisce di fatto a lui e alla sua comunità anche solo di saziarsi con un po’ di pane: non c’è tempo…

Quando Gesù è in casa a Cafarnao, la gente, sapendo dove si trova, viene a cercarlo e così questa fama desta preoccupazione nella famiglia di provenienza di Gesù e anche nella sua comunità religiosa. Marco osa ancora attestare questa diffidenza ostile a Gesù da parte dei “suoi”, i familiari che, venuti dal loro villaggio, cercano di mettere le mani su di lui, di prenderlo e portarlo via, giudicandolo “fuori di sé”, esaltato, impazzito. Gesù aveva operato scelte di vita che ai suoi familiari potevano sembrare stoltezza e follia. Aveva infatti abbandonato la famiglia, si era dato a una vita itinerante, viveva la condizione del celibe, del non coniugato, infamante per la cultura del tempo, e con il suo successo si era inimicato le stesse autorità religiose.

Giudicato “eversivo”, andava dunque fermato. Ma non era stato questo il destino dei profeti? Con il suo modo di vivere e di parlare, infatti, il profeta disturba, perciò si preferisce farlo tacere, giudicandolo pazzo, delirante, fino a pensare di eliminarlo fisicamente (cf. Os 9,7). Ma all’ostilità dei familiari si aggiunge quella delle legittime autorità giudaiche. Gli scribi, discesi da Gerusalemme in Galilea, sono preoccupati dell’ascolto di Gesù da parte delle folle. Se per i suoi familiari Gesù è pazzo, gli esperti delle sante Scritture lo ritengono posseduto da Beelzebul, il capo dei demoni, che – costoro affermano – opera in lui fino a scacciare dalle persone i demoni inferiori. Si faccia attenzione: costoro non negano che Gesù compia un’opera di liberazione, di guarigione delle persone che egli incontra e cura. Pensano che Gesù scacci i demoni che tengono in schiavitù uomini e donne, ma lo faccia da indemoniato: in lui agisce il capo dei demoni, Beelzebul (alla lettera: il signore dello sterco)! Questa l’insinuazione e il giudizio di quelli che contano, delle autorità della comunità religiosa cui Gesù appartiene.

Gesù però li chiama a sé, li smaschera e si rivolge a loro con linguaggio parabolico, mediante una domanda seguita da alcune affermazioni: “Come può Satana scacciare Satana? Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non potrà restare in piedi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non potrà restare in piedi. Anche Satana, se si ribella contro se stesso ed è diviso, non può restare in piedi, ma è finito”. Il concetto espresso da Gesù è chiaro: se fosse vero ciò che dicono gli scribi, se Satana, attraverso le sue azioni, insorgesse contro se stesso, ciò significherebbe che il suo potere sta andando in rovina, che non è più vincitore ma vinto. Per questo Gesù aggiunge, in modo decisamente convincente e non contestabile: “Nessuno può penetrare nella casa di un uomo forte e saccheggiarla, se prima non lo ha reso inoffensivo legandolo. Soltanto allora potrà saccheggiargli la casa”. Dunque Gesù può scacciare Satana perché lo ha legato, perché ha reso impotente colui che è forte, fin dalla sua immersione nel Giordano (cf. Mc 1,9-11) e dalla sua lotta contro Satana nel deserto (cf. Mc 1,12-13). Gesù d’altronde era stato annunciato da Giovanni il Battista come “il più forte” (Mc 1,7), colui che, munito della forza di Dio, ha “autorità” (exousía: Mc 1,22) e può comandare ai demoni che gli obbediscono (cf. Mc 1,27).

Ma la risposta di Gesù diventa anche un avvertimento grave e minaccioso, introdotto da un solenne “Amen”: “Amen, in verità vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie, per quante ne abbiano dette; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito santo non avrà mai perdono, sarà colpevole di una colpa definitiva”. Parole dure, che devono però essere accolte senza indulgere a fantasie o immaginazioni circa questo peccato contro lo Spirito santo. In realtà è un peccato banale, come è banale il male; è un peccato che non richiede particolare malvagità ma è semplicemente consumato da chi vede e discerne il bene che viene fatto eppure, piuttosto che riconoscere questa verità, preferisce chiamarlo male, attribuendolo a Satana. È il peccato che procede dall’invidia, dal non sopportare che un altro abbia fatto o faccia il bene, perché si vorrebbe solo se stessi come soggetti del bene; e non volendo riconoscere in un altro quel bene che viene da Dio, si preferisce attribuirlo al demonio. Quegli scribi vedevano il bene operato da Gesù ma, piuttosto che riconoscerlo come opera ispiratagli da Dio, sceglievano deliberatamente di imputarlo a Satana. Non riconoscere l’opera di Dio, non riconoscere l’azione dello Spirito santo, fino a stravolgere lo sguardo e il giudizio, attribuendo il bene operato a Satana, è davvero il peccato imperdonabile, dice Gesù! E questo – lo si ricordi – è un peccato spesso consumato dalle persone religiose, ancora oggi nella chiesa!

A complemento del giudizio negativo su Gesù da parte dei suoi e degli scribi, Marco racconta anche che la madre e i fratelli di Gesù giungono presso la casa dove egli dimora e, stando fuori, mandano a chiamarlo. Si tratta dei suoi familiari, di quanti erano usciti per portarlo via giudicandolo pazzo, oppure Marco si riferisce a un altro episodio in cui è soprattutto messa in rilievo la madre di Gesù? In ogni caso, l’evangelista sembra sottolineare che proprio i familiari che avevano dichiarato Gesù fuori di sé (exéste) in realtà restano fuori (éxo), fuori dallo spazio di Gesù. Egli viene avvertito: “Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano”. Vogliono incontrarlo ma restano fuori dal suo spazio. Gesù, da parte sua, non si muove verso di loro, resta al suo posto, tra i suoi discepoli, in mezzo alla comunità riunita in cerchio attorno a lui, e volgendo lo sguardo su questo gruppo dice con forza: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre”.

In tal modo egli dichiara di conoscere e vivere i legami di una nuova famiglia, la comunità dei discepoli, legami che non nascono dalla carne o dal sangue, cioè dalla storia familiare, ma dal fare la volontà di Dio. La prossimità a Gesù non è decisa dal vincolo parentale ma si basa sull’ascolto della parola di Dio, sul realizzare la sua volontà, sul vivere la fraternità nel vincolo dell’amore quale figli e figlie di un unico Padre: Dio. Dopo questa dichiarazione di Gesù dobbiamo dunque chiederci: chi è veramente fuori e chi è dentro lo spazio di relazione e comunione con lui?

Certo, questa pagina evangelica appare dura e noi ci chiediamo anche come la madre di Gesù, Maria, abbia vissuto questo incontro mancato. Possiamo rispondere che lo abbia vissuto nella fede perché queste parole di Gesù, apparentemente dure, in realtà attestano la sua grandezza: Maria ha compiuto pienamente la volontà di Dio, per questo è stata per Gesù madre, degna di essere madre nella sua carne.
La lettura di questo brano avverte in ogni caso i discepoli e le discepole di Gesù in ogni tempo: anche loro conosceranno diffidenza e inimicizia da parte della famiglia di provenienza, conosceranno l’opposizione da parte delle autorità religiose, dovranno sempre interrogarsi sulla loro prossimità a Gesù, sperimentabile solo nel compiere la volontà di Dio, nel realizzare la sua parola e nell’accogliere l’aiuto preveniente e gratuito della sua misericordia.




Dio è sempre altrove …

notizie di Dio


“Molte volte quel che per gli uomini è vittoria, per Dio è sconfitta”

Oscar Romero

 

Ti cerchiamo dentro i confini asfittici della nostra ragione. Tu stai oltre le frontiere di ogni pensiero creato.

Ti rinchiudiamo dentro una scatola, ti vogliamo fermo, immobile, sotto controllo. Tu corri in missione rinunciando al riposo del Cielo per vivere la fatica e l’abbandono dell’esilio.

Ti cerchiamo nei nostri meriti e successi per ricevere il compenso. Tu ci attendi nelle nostre fragilità per abbracciarle.

Ti cerchiamo nella luce, negli adempimenti, nelle forme. Tu ci riscatti dalle tenebre che ci turbano, dal peccato che ci ferisce, dalla fuga e dal rifiuto della tua grazia. E ci attendi trepidante come ogni innamorato respinto.

Ti cerchiamo nel consenso e nell’approvazione degli altri. Tu preferisci la profezia della verità agli inganni degli idoli.

Ti cerchiamo nelle nostre previsioni, organizzazioni, strutture. Tu alimenti e susciti carismi e intuizioni ed in essi ti manifesti.

Ti cerchiamo nella coerenza, nelle spiegazioni. Tu scendi nel nulla per donarci l’esistenza di continuo.

Ti cerchiamo nel programmabile. Tu sei sorpresa.

Ti cerchiamo nell’immaginabile. Tu sei meraviglia.

Ti cerchiamo nelle verità assolute-universali-dogmatiche elaborate in stretta collaborazione con i nostri limiti. Tu condividi la sofferenza delle persone.

Ti cerchiamo nelle elaborazioni sofisticate degli esperti. Tu ci guidi con la sapienza dei semplici e dei piccoli.

Ti cerchiamo nelle teorie. Tu sei esperienza.

Ti cerchiamo nelle nostre formule ripetitive. Tu sei dialogo.

Ti cerchiamo nelle nostre maschere. Tu sei relazione.

Ti cerchiamo nelle autorità e nelle gerarchie. Tu subisci l’oppressione insieme agli emarginati e agli ultimi.

Ti cerchiamo tra gli affreschi e gli oggetti preziosi. Tu passi la notte in un sacco a pelo appena fuori il tempio. 

Ti cerchiamo ma poi scopriamo che Tu arrivi sempre prima e che in realtà siamo cercati. A modo tuo, senza schemi, senza rigidità con la tua libertà infinita. La stessa che ci vuoi insegnare e donare.

da ‘altranarrazione’




Dio non è così …

l’alterità di Dio

«Dio viene respinto e brutalmente eliminato con la croce quando si avvicina troppo a noi e non ci è più possibile farcene un’immagine che ci convenga e che possiamo forgiare a nostro piacimento»

(D. Schellong)

 

Da tempo, forse da sempre, assistiamo al tentativo, della teologia dominante e dell’uomo religioso (nel senso di ossequioso), di ricondurre Dio nei nostri schemi razionali, invece di trascenderli per aprirsi alla sua creatività e alterità. In definitiva, si cerca solo un garante delle nostre tesi, non Qualcuno da incontrare e da cogliere nella sua totale alternatività valoriale ed esistenziale. Si confondono le elaborazioni soggettive – o comunitarie -, spesso poi successivamente corrette o smentite, con ciò che è stato rivelato da Cristo. Si preferiscono le ipotesi asfittiche, proprie dell’uomo, all’immaginazione sorprendente ed infinita di Dio. D’altronde, si tratta di costruire un Dio razionale per renderlo innocuo ed impedirgli di sovvertire l’ordine instaurato: così perfetto e così idolatrico. Si relega Dio nelle forme e nelle espressioni più o meno solenni, senza nessuna incidenza sulle decisioni della vita reale. Si riflette su Dio teorizzando la gratuità, la libertà e la compassione, mentre si fa esperienza di mercificazione, di sfruttamento, di competizione a cui ci si adegua giustificandosi con l’inevitabilità.
Ma si può essere seguaci di Cristo stando in pace di fronte all’oppressione?
Si trovano dei cristiani nei luoghi di assistenza, è vero, ma si registra una spaventosa latitanza nella critica dei responsabili dell’iniquità, come nei processi e nei conflitti per la liberazione degli ultimi. Si preferiscono i rapporti di buon vicinato con il Potere, invece dei gesti di solidarietà con gli oppressi. Dio, intanto, non si stanca dell’uomo e continua ad immaginare una convivenza diversa dall’attuale. Ci ha donato il mondo immaginandolo come un giardino, noi l’abbiamo trasformato in discarica. Ci ha donato i beni necessari e l’intelligenza per sopperire alle esigenze di tutti, noi, rinunciando alla collaborazione, abbiamo distribuito violentemente le risorse in modo diseguale. E non serve costruire un Paradiso come luogo di ricompensa, magari degli sforzi dell’ascetica muscolare, visto che troveremo un luogo di condivisione in cui continueremo a vivere la carità che abbiamo iniziato a praticare qui.

Testo di Pedro Casaldáliga

«Credo che oggi si possa vivere soltanto da ribelli. E credo che si possa essere cristiani solo se si è rivoluzionari perché non basta più pretendere di ‘riformare’ il mondo. I provvidenzialismi disincarnati, i neoliberalismi e i neocapitalismi e certe democrazie e altri cauti riformismi che mentono o si ingannano da sé –cinici o stupidi- servono unicamente a salvare il privilegio dei pochi privilegiati alle spalle della produttiva sottomissione dei molti morti di fame. E, per ciò stesso, mi sembrano oggettivamente iniqui»

(Pedro Casaldáliga, Credo nella giustizia e nella speranza, Quaderni Asal 27, Associazione per gli Studi e la documentazione dei problemi socio-religiosi dell’America Latina, Roma 1976, p. 197)

 

da ‘altranarrazione’