il commento al vangelo della domenica

i lupi sono più numerosi degli agnelli, ma non più forti
il commento di E. Ronchi al vangelo della quarta domenica di pasqua (21 aprile 2018):
 

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In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. […]

Io sono il Pastore buono è il titolo più disarmato e disarmante che Gesù abbia dato a se stesso. Eppure questa immagine, così amata e rassicurante, non è solo consolatoria, non ha nulla di romantico: Gesù è il pastore autentico, il vero, forte e combattivo, che non fugge a differenza dei mercenari, che ha il coraggio per lottare e difendere dai lupi il suo gregge.
Io sono il Pastore bello dice letteralmente il testo evangelico, e noi capiamo che la bellezza del pastore non sta nel suo aspetto esteriore, ma che il suo fascino e la sua forza di attrazione vengono dal suo coraggio e dalla sua generosità.
La bellezza sta in un gesto ribadito cinque volte oggi nel Vangelo: io offro! Io non domando, io dono. Io non pretendo, io regalo. Ma non per avere in cambio qualcosa, non per un mio vantaggio. Bello è ogni atto d’amore.
Io offro la vita è molto di più che il semplice prendersi cura del gregge.
Siamo davanti al filo d’oro che lega insieme tutta intera l’opera di Dio, il lavoro di Dio è da sempre e per sempre offrire vita. E non so immaginare per noi avventura migliore: Gesù non è venuto a portare un sistema di pensiero o di regole, ma a portare più vita (Gv 10,10); a offrire incremento, accrescimento, fioritura della vita in tutte le sue forme.
Cerchiamo di capire di più. Con le parole Io offro la vita Gesù non intende il suo morire, quel venerdì, per tutti. Lui continuamente, incessantemente dona vita; è l’attività propria e perenne di un Dio inteso al modo delle madri, inteso al modo della vite che dà linfa al tralci, della sorgente che dà acqua viva.
Pietro definiva Gesù «l’autore della vita» (At 3,15): inventore, artigiano, costruttore, datore di vita. Lo ripete la Chiesa, nella terza preghiera eucaristica: tu che fai vivere e santifichi l’universo.

Linfa divina che ci fa vivere, che respira in ogni nostro respiro, nostro pane che ci fa quotidianamente dipendenti dal cielo.
Io offro la vita significa: vi consegno il mio modo di amare e di lottare, perché solo così potrete battere coloro che amano la morte, i lupi di oggi.
Gesù contrappone la figura del pastore vero a quella del mercenario, che vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge perché non gli importa delle pecore. Invece al pastore buono ogni pecora importa e ogni agnello, a Dio le creature stanno a cuore. Tutte. Ed è come se a ciascuno di noi ripetesse: tu sei importante per me. E io mi prenderò cura della tua felicità.
Ci sono i lupi, sì, ma non vinceranno. Forse sono più numerosi degli agnelli, ma non sono più forti. Perché gli agnelli vengono, ma non da soli, portano un pezzetto di Dio in sé, sono forti della sua forza, vivi della sua vita.

 

il commento di ‘altranarrazione’

aprile 16, 2018

il buon pastore

Custodisce testimoniando la compassione di Dio e la sua preferenza per gli ultimi, non erogando servizi agli adulatori allo scopo di mantenerne il consenso.

Non guarda ai risultati, alle convenienze, agli opportunismi, ma ai bisogni e alle fragilità. Si occupa del malato, dell’emarginato, del reietto prima che dei gruppi organizzati.

Lascia chi cammina per raggiungere chi si è perso.

Lascia il popolo dei devoti per raggiungere quello dei crocifissi dal potere e dalla storia.

Lascia la moltitudine autonoma per il singolo che ha bisogno. Anche se appare inutile.

Cerca l’umanità ferita, smarrita, piegata prima di organizzare intrattenimenti più o meno spirituali per benpensanti e di conseguenza benestanti.

Non svuota la liturgia e i sacramenti separandoli dalla missione. Esce dalla chiesa per soccorrere e non per tornare a casa o ai propri divertimenti.

Prega nella quiete dello spirito per scoprire e rafforzare le istanze profetiche a difesa degli orfani e delle vedove di tutti i tempi. Sa che la contemplazione porta al dono di sé stessi, spezzando le catene che tengono l’uomo a servizio dell’inautenticità, mentre l’intimismo porta al dono per sé, conservando l’impassibilità davanti alle sofferenze degli altri.

Rifiuta e capovolge il paradigma elaborato dalle élite ed assorbito anche dalle classi popolari durante il non ancora interrotto sonno delle coscienze.

Parte dal basso, frequenta le  retrovie, le ultime file. Restituisce con l’attenzione la dignità che la logica competitiva infanga senza remore.

Ama ciò che non è amato.

Valorizza ciò che viene dimenticato.

Si allea con gli sconfitti e costruisce la salvezza con i condannati.