la giornata della memoria per farsi responsabili del passato

27 gennaio

una giornata della memoria che non sia solo passato

 

Massimo Recalcati

 

fare memoria è importante perché “la memoria non è un’istantanea sul passato, non è passiva, ma costruttiva. Nel momento stesso in cui ricorda, infatti, costruisce, seleziona, sceglie, trasforma, ricerca, in una parola ‘fa storia’ e apre la continuità del futuro …” (Umberto Galimberti)

 

Proviamo a distinguere tre versioni possibili della memoria.

La prima è quella della memoria-archivio. Essa appare come un contenitore dove alloggiano i nostri ricordi. È la memoria-baule, la memoria-soffitta o, più sofisticatamente, la memoria come notes magico cerebrale che trattiene le tracce del nostro passato. Questa memoria è archeologica: definisce il luogo dove il passato si è depositato, non è più tra noi, è diventato nulla, si è dissolto, può esistere solo nell’immagine vivida o illanguidita del ricordo. Lo schema di questa memoria è quello topologicamente ingenuo di un contenitore (memoria) e del suo contenuto (ricordi).

Poi Freud ha mostrato che la memoria non trattiene solo cose già trascorse, passate, morte, ma cose vive che insistono nell’affacciarsi prepotentemente alla nostra mente. Si tratta della seconda versione della memoria: la memoria spettrale. Il suo modello è quello del trauma: quello che è accaduto nel passato non cessa di accadere, ma insegue la vita, l’accerchia, l’incalza, la tormenta. La memoria spettrale è costituita da un passato che non passa. È l’esperienza che affligge i soggetti o i popoli che hanno vissuto esperienze drammatiche, impossibili da dimenticare. Il passato è come uno spettro, morto e vivo insieme.

La terza versione della memoria è forse la più importante e la più paradossale. È la memoria come attributo del futuro. È l’invito che Nietzsche ci rivolge: la memoria non deve ridursi a essere il culto passivo del passato, non genera solo venerazione o orrore, busti e monumenti. Dovremmo invece imparare ad usarla per creare attivamente il nostro avvenire. Il che significa farsi responsabili della memoria. La memoria non è un contenitore di ricordi, né il ritorno degli spettri provenienti dal passato, ma si costituisce solo a partire dal futuro. Il passato non è alle nostre spalle come un peso inerte o come un incubo che non riusciamo a cancellare, ma può assumere forme e significati diversi a partire da come viene ripreso attivamente dalla vita mentre essa si sta muovendo verso il proprio avvenire. La memoria non deve semplicemente conservare quello che è già stato, ma deve servire la generatività della vita. Non deve restare impigliata in una paralisi melanconica che non riesce a non guardare se non all’indietro, ma sapersi gettare in un movimento proteso in avanti. Custodire questa memoria – la memoria come attributo del futuro -, evitando i danni della “memoria corta”, significa farsi davvero responsabili del nostro passato.

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non solo ebrei … l’altro olocausto di cui non si parla

l’altro Olocausto

200 mila persone con disabilità uccise con “Aktion T4”

l’operazione fu condotta sotto la guida di medici all’insegna del principio della “igiene razziale” e portò allo sterminio di circa 200 mila persone

Disabili internati

disabili internati

Vite indegne di essere vissute, nel delirante piano di Hitler e dei gerarchi nazisti. Tra le tante, quelle delle persone disabili. Storpi, ciechi, sordi, soprattutto i folli: tutti destinati all’annientamento, in quella operazione che fu chiamata “Aktion T4”: un programma di eugenetica con il quale si stima che si siano soppresse tra le 100mila e le 200mila persone. Si sterilizzavano le persone con disabilità e si uccideva in primis – sotto l’attenta supervisione medica – chi aveva malattie genetiche, i malati inguaribili e i disabili mentali.

Il nome di questa specifica operazione di sterminio, T4, è l’abbreviazione di “Tiergartenstrasse 4”, la via di Berlino dove era situato il quartier generale dell’ente pubblico nazista per la salute e l’assistenza sociale. La designazione Aktion T4 non è nei documenti dell’epoca ma, secondo alcune fonti letterarie, i nazisti usavano il nome in codice Eu-Aktion o E-Aktion. E “Programma di eutanasia” è la denominazione utilizzata dai giudici durante il processo di Norimberga. Nel Mein Kampf (scritto mentre il futuro dittatore era in carcere per il fallito tentativo di colpo di Stato a Monaco di Baviera nel 1923) Hitler esprime chiaramente i suoi obiettivi di “selezione”: “Chi non è sano e degno di corpo e di spirito, non ha diritto di perpetuare le sue sofferenze nel corpo del suo bambino. Qui lo Stato nazionale deve fornire un enorme lavoro educativo, che un giorno apparirà quale un’opera grandiosa, più grandiosa delle più vittoriose guerre della nostra epoca borghese”.

Il massacro dei bambini e degli adulti disabili, portato avanti da medici, è passato alla storia per essere stato l’unico crimine che il regime decise di sospendere sotto le pressioni dell’opinione pubblica. Sospensione più di facciata che effettiva, visto che, come ricorda l’attendibile voce Aktion T4 della versione italiana di Wikipedia, l’ultimo bimbo soppresso fu Richard Jenne, 4 anni, ucciso il 29 maggio 1945, 21 giorni dopo la fine della guerra in Europa. Tuttavia il processo venne, se non fermato, sicuramente rallentato dalle pressioni della Chiesa cattolica e dalla protesta che montava nel popolo tedesco per la strage degli innocenti.

L’Aktion T4 portò dunque alle estreme conseguenze i concetti di igiene razziale, eutanasia ed eugenetica che tra le due guerre non furono affatto una prerogativa della sola Germania. Come fa notare Ian Kershaw, il principale biografo di Hitler, nel saggio ‘All’inferno e ritorno’ pubblicato in Italia da Laterza, l’eugenetica derivava dal darwinismo sociale ed era considerata una scienza progressista ben prima della Grande Guerra, con estimatori del calibro dell’economista John Maynard Keynes, degli scrittori H.G. Wells e D.H Lawrence e del commediografo George Bernard Shaw. Si pensava che, selezionando gli esemplari di razza umana, si sarebbero eliminate, scrive Kershaw, “le caratteristiche che producevano la criminalità, l’alcolismo, la prostituzione e le altre forme di comportamento deviante”. Come ricordano Silvia Morosi e Paolo Rastelli sul blog Poche storie, “quando l’eugenetica che auspicava l’eliminazione degli ‘inadatti’ si incrociò con il razzismo e la ‘purezza di sangue’ predicate dal nazismo, si creò una miscela esplosiva in cui maturarono i peggiori eccessi”.

Due furono gli elementi nuovi che contribuirono portare all’estremo la situazione. Prima di tutto le enormi perdite di uomini giovani e vigorosi durante la Grande guerra, (mentre i deboli e i malati erano più o meno sopravvissuti) fecero temere un peggioramento genetico della popolazione cui era considerato indispensabile porre rimedio. E poi la Grande depressione degli Anni Trenta, che ridusse di molto le risorse pubbliche da destinare all’assistenza dei disabili. Così – come messo in luce da Morosi e Rastelli -, uno dei primi atti del nazismo trionfante, mentre si procedeva alla demolizione della democrazia e alla persecuzione ed eliminazione degli avversari politici, fu la decisione di migliorare la razza attraverso la sterilizzazione coatta di tutti i disabili psichici. La prima legge in proposito, promulgata nel luglio del 1933, riguardava “le persone affette da una serie di malattie ereditarie – o supposte tali – tra le quali schizofrenia, epilessia, cecità, sordità, corea di Huntington e ritardo mentale”, nonché gli alcolisti cronici e numerose prostitute. Nel periodo di vigore pieno della legge, più o meno fino al 1939, si calcola siano state sterilizzate tra le 200 mila (secondo Robert Jay Lifton, autore del libro ‘I medici nazisti’) e le 350 mila persone. Il processo prevedeva il censimento, chiesto a ospedali, case d’infanzia, case di riposo per anziani e sanatori, di “tutti i pazienti istituzionalizzati da cinque o più anni, i “pazzi criminali”, i “non-ariani” e coloro ai quali era stata diagnosticata una qualsiasi malattia riportata in un’apposita lista”. “Vite indegne di vita” come Hitler li chiamava. Questa lista comprendeva schizofrenia, epilessia, corea di Huntington, gravi forme di sifilide, demenza senile, paralisi, encefalite e, in generale, “condizioni neurologiche terminali”. Lo sterminio, attuato prima con iniezioni letali e poi con il sistema più veloce dell’avvelenamento con monossido di carbonio , fece un numero di vittime stimato tra le 75 e le 100 mila fino all’agosto del 1941, quando venne ufficialmente sospeso (la cifra non comprende i disabili non tedeschi uccisi nei territori occupati dai tedeschi nel corso della guerra). Tuttavia le uccisioni continuarono – come si ricorda su ‘Poche storie’ – e andarono poi a confluire nel più grande programma di sterminio razziale degli ebrei e degli altri “esseri inferiori”, al quale venne anche applicata l’esperienza maturata con l’uso del gas asfissiante.

E i bambini? Tra i bambini, le vittime furono circa 5 mila tra il 1938 e il 1941, anche in questo caso con il sistema dell’iniezione letale. Gli ospedali ricevettero l’ordine di segnalare i piccoli “di età inferiore ai tre anni nei quali sia sospetta una delle seguenti gravi malattie ereditarie: idiozia e sindrome di Down (specialmente se associato a cecità o sordità); macrocefalia; idrocefalia; malformazioni di ogni genere specialmente agli arti, la testa e la colonna vertebrale; inoltre le paralisi, incluse le condizioni spastiche”. I piccoli venivano sottratti ai genitori con la scusa del trasferimento in “centri pediatrici speciali” dove avrebbero ricevuto cure migliori e dove invece venivano uccisi, sezionati a scopo “scientifico” e poi cremati. La causa ufficiale della morte era “polmonite”.

La preparazione culturale del terreno. Tutti questi programmi di sterminio erano stati preceduti, nel periodo prima della guerra, da un’intensa opera di propaganda nelle scuole e nelle organizzazioni giovanili del partito nazista, nonché tramite la diffusione di film, poster, libri e opuscoli tesi a suggerire la necessità della selezione genetica e dell’eliminazione dei disabili per evitare loro altre sofferenze e risparmiare denaro a beneficio del resto della popolazione. (ep)

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dieci libri per non dimenticare l’olocausto

la dura memoria della Shoah

10 libri per ricordare

Gli ebrei e la Repubblica sociale italiana – Il Diario di Anna Frank tradotto in simboli – Le testimonianze della Shoah e il naufragio dell’Occidente – Antisemitismo e anticiviltà – La lingua del lager – Gli Internati Militari Italiani

La dura memoria della Shoah: 10 libri per ricordare

Dieci libri per conoscere l’evento più drammatico della storia del Ventesimo secolo, selezionati in occasione della Giornata della Memoria, ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di ogni anno. Letture “per non dimenticare” le milioni di vittime dell’Olocausto.

“Il 30 novembre 1943, con un’ordinanza di polizia, il governo della Repubblica sociale italiana decise di arrestare e rinchiudere in campo di concentramento tutti gli ebrei che vivevano in Italia. Agenti di polizia e carabinieri, quasi fosse ‘ordinaria amministrazione’, eseguirono con prontezza gli ordini ricevuti”. Gli ebrei e la Repubblica sociale italiana raccontati nel libro di Matteo Stefanori (Laterza, 2017)

Il famosissimo “Diario di Anna Frank” diventa accessibile grazie alla casa editrice La Meridiana che lo ha tradotto in simboli. Una traduzione adatta a chi non associa il suono alla parola ma all’immagine, pensata e realizzata per tutte quelle persone con disabilità linguistiche o cognitive che si approcciano con difficoltà ai testi tradizionali. Il libro permetterà loro di leggere una delle più grandi testimonianze sulla Shoah. I venti capitoli riprendono le date del diario della Frank e le sue parole “pur necessariamente ridotte, conservano anche in questa traduzione la loro freschezza e forza”. “Primo Levi” è invece un graphic novel, dedicato al noto scrittore, realizzato da Matteo Mastragostino e Alessandro Ranghiasci per la Becco Giallo edizioni (2017).

“Auschwitz è il luogo, simbolico e materiale, in cui si compie l’ultimo atto della modernità europea. Auschwitz, in questo senso, divide la storia in un ‘prima’ e un ‘dopo’ tra cui non c’è più nessuna comunicazione, dando vita a una vera e propria frattura che mette fine ai miti e alle illusioni di quella stessa modernità”. Le testimonianze della Shoah e il naufragio dell’Occidente in “L’anticiviltà” di Sibilla Destefani (Mimesis edizioni 2017). Composto da tre sezioni “La dura memoria della Shoah” a cura di Carmelo Botta e Francesca Lo Nigro (Navarra Editore, 2017) si rivolge a studenti e docenti, ma anche a tutti gli appassionati di storia e a chi desidera conoscere la dura realtà dei campi di concentramento nazisti dalla voce di chi ha subito quel tragico destino in prima persona. Un approccio nuovo alla storia della Shoah, costruito con anni di studi specifici e di esperienza didattica dedicata all’argomento.

Due i testi editi Il Mulino. Il primo “L’antisemitismo” di Steven Beller  (2017) racconta il fenomeno e il rischio attuale di un suo ritorno “che sta nella ripresa dei nazionalismi esclusivisti, che non tollerano e negano le differenze”. L’altro, ripropone una riflessione di Hans Mommsen (studioso della Germania di Weimar e del Terzo Reich) su come arrivò la Germania nazista alla “soluzione finale del problema ebraico”. Da una parte c’è la lingua tedesca dei sorveglianti, dall’altra la lingua franca dei prigionieri, costituita da lingue diverse (tedesco, russo, polacco, francese, spagnolo e italiano). A Mauthausen, Auschwitz, Ravensbrück, Dachau e in altri campi, la “Lagersprache” la lingua del lager, è per le deportate e i deportati un mezzo imprescindibile per comprendere gli ordini espressi solo in tedesco, per comunicare tra loro, per interpretare la realtà che li circonda, per evitare i pericoli, e per resistere. Colma un vuoto della ricerca linguistica, Rocco Marzulli elaborando un repertorio fondato su un’ampia ricognizione delle parole e delle memorie dei deportati italiani. Il testo è edito Donzelli (2017).

Come stelle nel cielo” di Silvia Pascale (Ciesse Edizioni, 2017) ripropone attraverso una vicenda individuale, la scelta difficile e sofferta degli IMI (Internati Militari Italiani), “la loro fu una scelta di Resistenza non armata, uno dei molteplici aspetti di opposizione al nazifascismo che non ha avuto adeguata valorizzazione. Nonostante abbia coinvolto un numero altissimo di famiglie italiane, è rimasta confinata per lo più nelle memorie personali”. Nella primavera del 1961 Hannah Arendt viene inviata dal settimanale “New Yorker” a seguire il processo ad Adolf Eichmann, in quella circostanza diviene amica di Leni Yahil, storica di origine tedesca e studiosa della Shoah. Inizia così una corrispondenza che alterna questioni personali, filosofiche e politiche. Queste lettere, scritte originariamente in tedesco e inglese, e rimaste a lungo private, sono ora disponibili in italiano  grazie a “L’Amicizia e la Shoah” (EDB-Edizioni Dehoniane Bologna, 2017).

Leggi tutte le edizioni della rubrica ”10 libri sociali

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un pò di ‘giornata della memoria’ anche per i rom?

 una fondazione europea per il ‘porajmos’, l’olocausto dei rom
 
Benjamin Abtan]]
Presto, l’allevamento di maiali costruito sul sito dell’ex campo di concentramento di Lety sarà distrutto. L’odore fetido che avvolge inevitabilmente i visitatori sarà scomparso. La stele collocata sulle fosse comuni verrà spostata. Sarà costruito un memoriale.
Più di settant’anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il sito dell’ex campo per i Rom a Lety, nella Repubblica ceca, sarà finalmente trattato con la dignità che merita.
 
Il «LOCOCIDIO» – il crimine contro i luoghi – di Lety sarà finalmente fermato. Ottenere questo risultato è stato tutt’altro che semplice: è stato solo grazie ad una mobilitazione eccezionale della società civile europea, di Rom e non Rom insieme, che le autorità ceche ed i proprietari hanno finalmente concluso un accordo per l’acquisto dell’allevamento suino, in vista poi della sua distruzione.
Nonostante questo successo costituisca una vittoria storica, le problematiche che hanno reso Lety un simbolo europeo persistono tuttora in tutto il continente: la mancanza di conoscenza e di ricerca sull’Olocausto dei Rom (o Samudaripen, o Porajmos); il razzismo e la discriminazione che sono sotto molti aspetti la continuazione delle persecuzioni; l’emarginazione sociale che continua da decenni; l’ignoranza riguardo alla diversità delle culture e delle storie rom. Come dimostra il caso Lety, è solo attraverso un impegno risoluto e deciso da parte della società civile e delle istituzioni che si può mettere fine la storia della persecuzione del popolo rom, persecuzione perpetrata tutt’oggi e di cui il genocidio è il punto culminante.
Per questo motivo chiediamo la creazione di una Fondazione europea per la memoria dell’Olocausto dei Rom!
In primo luogo, la fondazione dovrà promuovere la ricerca storica. Il finanziamento e la pubblicazione di ricerche, la raccolta di testimonianze, la costituzione di archivi e l’organizzazione di simposi scientifici permetteranno di comprendere meglio questa storia. La fondazione dovrà egualmente focalizzarsi su una trasmissione efficace di questa storia, per illuminare le coscienze di oggi. Questo obiettivo sarà realizzato attraverso un lavoro di commemorazione – costruzione di memoriali, creazione di mostre, organizzazione di commemorazioni e non solo – così come attraverso un investimento nell’istruzione, con l’inclusione di questo argomento nei programmi scolastici e nella formazione degli insegnanti.
Inoltre, la fondazione darà un importante contributo alla lotta contro il razzismo, la discriminazione e l’esclusione sociale, fenomeni affatto sconnessi dalle persecuzioni del passato. In questo contesto, il sostegno della società civile sarà fondamentale per cambiare gli atteggiamenti, svolgere attività di sensibilizzazione, guidare la mobilitazione per il rispetto di pari diritti e dignità e per costruire coalizioni per la solidarietà.
Un tassello fondamentale di questo progetto è che la Fondazione dovrà essere veramente europea e non divisa, ad esempio, in più fondazioni nazionali. In ogni parte d’Europa, infatti, i Rom si trovano oggi ad affrontare le stesse problematiche, proprio come è in tutto il continente che il genocidio è stato perpetrato contro di loro. Inoltre, il rafforzamento dell’Europa e della democrazia è l’unica prospettiva di speranza per affrontare questi problemi. Pertanto, grazie alla sua natura europea, la Fondazione sarà una delle istituzioni in grado di contribuire a questo rafforzamento democratico.
La dimensione e la provenienza del budget della fondazione rappresentano un elemento chiave. Il meccanismo che proponiamo è semplice e già testato. Tutte le vittime dovrebbero ottenere riparazioni. Tuttavia, le riparazioni non sono state finora fornite in modo adeguato. Le società e gli stati europei interessati dovranno affrontare le loro responsabilità e fornire riparazioni alle vittime o ai loro discendenti. Numerose vittime sono state uccise durante l’Olocausto dei Rom. Inoltre, poiché molti anni sono ormai trascorsi da questo evento, molti tra i sopravvissuti sono venuti a mancare.
Gli importi che non saranno forniti alle vittime o ai loro discendenti non torneranno ai bilanci degli Stati, ma costituiranno il capitale iniziale della Fondazione. Il budget annuale della Fondazione sarà costituito dagli interessi annuali di questo capitale, che non sarà speso. Affinché la vittoria storica di Lety sia seguita da altri successi, per mettere fine alla persecuzione ed alla discriminazione, per lasciarci alle spalle una storia di persecuzioni e discriminazione, per proiettarci infine verso un futuro in cui la dignità diviene nodo fondante delle nostre società, bisogna creare la Fondazione europea per la memoria dell’Olocausto dei Rom.
* Benjamin Abtan è Presidente dello European Grassroots Antiracist Movement – Egam; Coordinator of the Elie Wiesel Network of Parliamentarians of Europe
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