truffa contro i rom – sette miliardi di fondi europei svaniti nel nulla

nomadi

la mega truffa dei fondi europei per l’inclusione

“svaniti nel nulla”

a Castel Romano 70 casi scabbia, leptospirosi, epatiti e lecumeni da luglio ad oggi

Nomadi, la mega truffa dei fondi europei per l'inclusione. “Svaniti nel nulla”

sette miliardi di euro di fondi europei in sei anni destinati all’inclusione al sostegno dei rom che sono in Italia: ma ad oggi nessun programma è stato realizzato e nei campi nomadi è emergenza sanitaria. Al Campo di Castel Romano da giugno ad oggi si contano 70 casi tra scabbia, leptospirosi, epatiti e leucemie

Non un solo contratto di lavoro o affitto di una casa è stato attivato. La denuncia arriva dall’Associazione Nazione Rom secondo la quale la Procura ha aperto un fascicolo di inchiesta affidato ai Procuratori Alberto Pioletti e Letizia Golfieri.

“In Italia è in atto una truffa sui Fondi Sociali Europei destinati all’inclusione sociale dei Rom, Sinti, Caminanti (RSC)”, sostiene Marcello Zuinisi che ha denunciato il Sottosegretario di Stato Maria Elena Boschi, responsabile politico istituzionale di UNAR Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali e il Sindaco di Roma Virginia Raggi.

L’Associazione spiega:

“L’Italia ha varato una Strategia Nazionale di Inclusione per RSC rispondendo a precisi impegni presi in sede di Commissione Europei. La “governance” che doveva nascere dall’applicazione di questa Strategia è attualmente gravemente violata. A Roma Capitale è nato un tavolo di inclusione RSC dal quale sono esclusi i diretti interessati. E’ il “capolavoro” di Virginia Raggi con la complicità del Sottosegretario di Stato Maria Elena Boschi, responsabile dell’applicazione e monitoraggio della Strategia e degli Accordi Eu”.
Secondo l’Associazione dalla Commissione Europea sono arrivati stanziamenti di denaro pubblico per garantire l’inclusione di RSC. In particolare i terreni di applicazione sono quattro: casa, lavoro, scuola e salute. “Il Ministero del Lavoro, attraverso un programma denominato PON INCLUSIONE 2014 – 2010, ha dato al Sottosegretario di Stato Boschi ed al suo Dipartimento, la cifra economica di 14 milioni e 400.000 euro per garantire la prevenzione sanitaria nei campi Rom di tutta Italia. 
Da giugno, solo a Castel Romano, è emergenza sanitaria: conclamati 70 casi di scabbia, leptospirosi, epatiti e leucemie. Negli ultimi 5 anni sono morte 63 persone. Un’intera comunità privata dell’acqua e dell’energia elettrica. Gli impianti fognari costruiti da Roma Capitale erano abusivi e sono stati messi sotto sequestro dalla stessa Procura. Ad oggi nessun programma di prevenzione sanitario è stato messo in atto nonostante gli ingenti mezzi finanziari messi nelle mani del Governo e degli amministratori.
Grazie ad un’interrogazione parlamentare, presentata dagli Onorevoli Stefano Fassina e Giulio Marcon, è iniziata ad emergere la verità. Il Ministro della Salute Beatrice Lorenzin ha recentemente firmato (10 novembre 2017) gli atti predisposti dall’Ufficio Legislativo del Ministero della Salute diretto dall’Avvocato Maurizio Borgo. Gli atti sono stati spediti al legale rappresentante ANR. Oggi la consegna degli stessi alla Guardia di Finanza.

I programmi non realizzati

“I Fondi Sociali Europei ricevuti dall’Italia per il periodo 2014 – 2020 sono sette miliardi di euro. Servono per l’inclusione di RSC e dei senza fissa dimora, dei poveri. Con questi fondi, il Governo e le Città Metropolitane sono riusciti a mettere in piedi, progetti di inclusione scolastica per ben “settantotto” studenti RSC. Dovrebbero essere studenti che abitano nei Campi di Roma Capitale, del Camping River, di Salone, di Castel Romano. Nessun bambino di questi campi ha visto realizzarsi un solo progetto. Provate a chiedere agli operatori della Cooperativa Isola Verde al Camping River. Nessuna ha mai visto un solo euro o un solo progetto finanziato con i fondi europei.
RSC sono inoltre esclusi dai comitati di sorveglianza dei fondi europei. Ad oggi, dei 62 Comitati di Sorveglianza istituiti, ai sensi del regolamento Eu 1303/2013, relativi ai Fondi Strutturali, PON Inclusione 2014 – 2020, PON Metro 2014 – 2020, ed ai Regionali FES, FESR, FEASR, soltanto il programma FEASR 2014 – 2020 della Regione Valle d’Aosta è rispettoso delle leggi europee, avendo compreso la legittima rappresentanza di RSC al suo interno.
Abbiamo denunciato l’ennesimo tentativo, messo in atto dal Sottosegretario di Stato Boschi, di aggirare la corretta applicazione della Strategia, istituendo una Platform per RSC: uno pseudo tavolo di inclusione che in realtà non decide niente. Per sostenerlo la stessa ha messo a bando uno stanziamento di 475.000 euro + IVA. ANR si è rivolta ad ANAC Autorità Nazionale Anticorruzione di Raffaele Cantone ed alla Procura di Roma chiedendone il blocco.
Il Pon Inclusione è stato usato per finanziare il programma SIA (Servizio di Inclusione Attiva) destinato a RSC, senza fissa dimora, poveri.
Nel mentre, al Camping River, le famiglie destinatarie dei famosi 10.000 euro, stanziati dal Sindaco di Roma, attraverso i Fondi Europei, per affittare una casa, non hanno visto nessun sostegno concreto. L’Ufficio Speciale RSC di Roma Capitale sta ora offrendo alle stesse famiglie percorsi di sostegno all’affitto per un periodo di massimo tre mesi.
Ad oggi, in Italia, RSC non hanno visto attivato un solo contratto di lavoro o di affitto di una casa. E’ in atto una autentica truffa nazionale ed europea. Il Governo, le Regioni, i Comuni potrebbero veder azzerati i finanziamenti concessi, in base a quanto prevedono i regolamenti europei”.

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intervista al teologo J. Moltmann: mi comprendo come un cristiano evangelico cattolico: in questo senso sono in comunione con i cristiani romani cattolici”

Jürgen Moltmann

la chiesa esiste solo al singolare


dal 25 al 28 ottobre 2017, il teologo riformato Jürgen Moltmann (fecondo autore tra gli altri di Teologia della speranza, Il Dio crocifisso, La Chiesa nella forza dello Spirito…) è stato presente a Bose in occasione del seminario su «La Riforma in prospettiva ecumenica» organizzato congiuntamente dall’Istituto biblico teologico Sant’Andrea di Mosca e dal Monastero di Bose. In margine a quell’incontro, Finestra ecumenica ha intervistato il grande pensatore tedesco di Tübingen, novantunenne, sul cammino verso l’unità tra le chiese.

 
Professor Moltmann, l’ecumenismo per lei non è solo un’idea, ma un’esperienza attiva. Ricordiamo in particolare la sua ventennale partecipazione alla commissione Fede & Costituzione del Consiglio ecumenico delle chiese, o la sua lunga collaborazione nel direttivo della rivista Concilium. Sulla base di queste esperienze, come descriverebbe l’ecumenismo? Che definizione ne dà?
 
Si tratta dell’unità visibile della chiesa! L’unità invisibile è già istituita, attraverso la preghiera sacerdotale di Gesù: «Che tutti siano uno» (Gv 17,21). Sono convinto che Dio ha esaudito la preghiera di Cristo: l’unità invisibile è dunque già realizzata. Per questo sono del tutto tranquillo e non spingo per l’unità visibile: ci verrà regalata un giorno.
 
Parla dell’unità della chiesa, e non dell’unità delle chiese o dei cristiani.
 
Sì, l’unità della chiesa, perché la chiesa esiste solo al singolare. «Credo la chiesa una, santa, cattolica e apostolica»: è quanto affermiamo nel Simbolo di Nicea. Le chiese locali sono una manifestazione di questa chiesa una.
 
Anche le diverse chiese confessionali allora sono da intendere come espressioni diversificate di quest’unica chiesa, dell’Una Sancta?
 
Certamente. Io stesso mi comprendo come un cristiano evangelico cattolico. In questo senso sono in comunione con i cristiani romani cattolici. Si tratta di un’unità invisibile, di un’unità nello Spirito. Abbiamo una comunione attraverso il battesimo, nel riconoscimento del battesimo amministrato nelle diverse chiese, e la comunione eucaristica ci sta ancora davanti, ma è vicina. Secondo me, in realtà, è già stata affermata nella dichiarazione di Lima su Battesimo, eucaristia, ministero (1982), del Consiglio ecumenico delle chiese, ma ugualmente nella Concordia di Leuenberg (1973), che unisce le chiese evangeliche europee e che anche dei teologi cattolici possono sottoscrivere. Un punto tuttavia rimane aperto: quello che riguarda il ministero, il servizio nella chiesa. Anche questo nodo potrebbe essere sciolto.
 
Che cosa manca per arrivarci?
 
La pazienza e una fede salda!
 
Suggerisce di realizzare l’intercomunione, cioè condividere la comunione eucaristica, e di discutere solo in un secondo tempo delle cose che ci dividono?
 
Sì, la comunità di fede appare quando le persone sentono l’invito di Cristo: «Siate riconciliati con Dio», e vengono insieme alla tavola dell’altare dove Cristo le aspetta. È Cristo che invita e dà il proprio corpo e il proprio sangue: non celebriamo nel nostro nome proprio o nel nome di una chiesa, ma nel nome di Gesù Cristo. La Cena del Signore è inseparabile da quanto è avvenuto sulla croce, sul Golgota. Lì, cattolici, protestanti, ortodossi non sono divisi: lì i peccatori sono perdonati, le vittime ritrovano i loro diritti, gli afflitti sono consolati e i disperati trovano nuova speranza. Come possiamo mantenere le separazioni gli uni dagli altri se insieme siamo riconciliati con Dio? La mia proposta è allora che dopo avere condiviso la comunione in comune, dovremmo rimanere insieme e discutere di quanto ci è successo nell’eucaristia, di quello che vi abbiamo vissuto. La comprensione viene dopo l’esperienza. La pratica è prima, la teologia seconda. In fondo, è come nella vita quotidiana: dopo avere mangiato e bevuto insieme, si è più distesi e più disposti al dialogo…
 
Ha scritto che il concetto di «diversità riconciliata» elaborato dalle chiese luterane è «il sonnifero dell’ecumenismo». Ci può spiegare cosa intende?
 
Nell’«ecumenismo ginevrino», portato avanti dal Consiglio ecumenico delle chiese, avevamo insistito sul rinnovamento delle chiese e l’unità della chiesa. La nozione di «diversità riconciliata» proviene dalla Federazione luterana mondiale, la quale non prevede più il rinnovamento delle chiese. Si finisce per addormentarsi, ammettendo la diversità senza più prendere atto dei cambiamenti, delle riforme, che sono esigiti in vista della visibilità dell’unità. La massima dell’ecumenismo che mi ha sempre convinto recita: «Più ci avviciniamo a Cristo, più ci avviciniamo gli uni agli altri». E questo movimento in avanti, verso Cristo, non è più presente nel concetto della diversità riconciliata, perché tutto vi rimane statico, il movimento è escluso.
 
Quale riforma nella chiesa è necessaria oggi, a cinquecento anni dall’inizio della Riforma protestante, per concretizzare un tale rinnovamento?
 
La Riforma del XVI secolo si proponeva di essere una riforma dell’unica chiesa, per questo la Riforma è imperfetta e incompiuta finché durerà la separazione tra le chiese evangeliche e la chiesa cattolica.
 
Nel XVI secolo sono stati soprattutto gli interventi dei poteri politici a intralciare questa riforma. Anche oggi i fattori politici ritardano o impediscono il cammino verso l’unità. Una «riforma per l’unità» che cosa dovrebbe dire o rispondere oggi alla comunità politica più ampia?
 
L’unità della chiesa, di ogni chiesa, non è fine a se stessa, ma è un fermento per l’unità di tutto il genere umano. E questa umanità unificata dovrebbe saper ascoltare il grido della terra… Se noi non pensiamo l’unità cristiana nell’orizzonte più ampio dell’unità e della cura del mondo in cui viviamo, cadiamo nella trappola della religione civile, dei nazionalismi, dell’alleanza con il potere, che anche oggi – lo vediamo bene – ostacolano l’unità tra i cristiani. Ogni chiesa dovrebbe manifestare l’universalità del cristianesimo che è presente in ogni tradizione, e mostrare come questa sua cattolicità sia al servizio dell’umanità intera.
 
La complementarietà tra «unità» e «cattolicità» dovrebbe essere maggiormente presa in considerazione?
 
Quando si parla di «unità», si ha in mente l’unità interna della chiesa. La nozione di «cattolicità» porta a vedere l’orizzonte esterno. Ora è il Regno di Dio a essere cattolico. E la chiesa è un’anticipazione del Regno di Dio nella storia di questo mondo. La cattolicità è una qualità derivata della chiesa. Per questo, la chiesa riconosce Israele come prima anticipazione del Regno di Dio e spera nella redenzione di Israele allo spuntare del Regno di Dio. Invito così a una riforma della speranza, in cui le chiese non si identifichino con il Regno, né lo riconoscano nei poteri del mondo, ma insieme tra loro e con il popolo della prima alleanza sperino e attendano la venuta di Cristo.
 
Nel suo lavoro teologico, si rifà volentieri alla «pericoresi» delle tre persone della Trinità. Quest’idea della comunione relazionale tra Padre, Figlio e Spirito santo si può anche applicare alla comunione tra le chiese?
 
L’unità della Trinità è il fondamento per l’unità della chiesa. Cipriano l’aveva già riconosciuto nel III secolo. Questo implica di riconoscere la Trinità come una Trinità sociale, e non come una Trinità psicologica. La chiesa, la comunione dei credenti, è l’immagine della Trinità. Un teologo russo ha affermato: «La Trinità è il nostro programma sociale». Lo ritengo corretto: infatti la piena unità del Dio trino è l’archetipo della comunione della creazione. Non solo degli umani, ma anche della comunione di tutto il creato.
 
Tornando alla collaborazione che ha avuto per lunghi decenni con cristiani di diverse confessioni, ci può dire cosa le ha insegnato?
 
Mi ha infinitamente arricchito. Ho riconosciuto una comunione nello Spirito santo o in Cristo con tutte le chiese, sia nell’ortodossia, sia nel mondo cattolico, ma anche nelle chiese pentecostali. In tutte le chiese ho ritrovato l’opposizione tra tradizionalismo e innovazione, rinnovamento. Ci sono dei fondamentalisti nelle chiese protestanti, dei tradizionalisti nella chiesa cattolica; le chiese pentecostali conoscono il contrasto tra coloro che trovano ispirazione nella fede e quelli che spingono per la missione. Le controversie oggi non si svolgono più lungo i confini confessionali. Solo raramente, ormai, le posizioni teologiche divergenti hanno qualche cosa in comune con quei confini. Ma con una nuova teologia possono nascere nuove forme di comunione.
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i lager libici e lo choc dell’orrore – testimonianze di crudeltà umana

 
viaggio nei campi di sterminio dei migranti in Libia
ecco la testimonianza choc dell’orrore che non vogliamo vedere

sono stati sequestrati, torturati, imprigionati, guardati a vista da squadracce multietniche armate. Sono arrivati in Italia e hanno reso testimonianze preziose per ricostruire la storia del tormento libico. Perché nessuno possa dimenticare o girarsi dall’altra parte. Testimonianze viventi della crudeltà umana

[L’esclusiva] Viaggio nei campi di sterminio dei migranti in Libia. Ecco la testimonianza choc dell’orrore che non vogliamo vedere

Sembrano racconti del secolo scorso. Dei sopravvissuti ai campi di detenzione delle guerre etniche, razziste, di sterminio. Ma invece sono storie attuali, testimonianze di una moderna umanità sofferente che ricordano i giorni terribili vissuti in Libia, nei mesi scorsi. Sono stati sequestrati, torturati, imprigionati, guardati a vista da squadracce multietniche armate. Sono arrivati in Italia e hanno reso testimonianze preziose per ricostruire la storia del tormento libico. Perché nessuno possa dimenticare o girarsi dall’altra parte.

Testimonianze viventi della crudeltà umana. Ma anche simboli del coraggio delle vittime e della lealtà e dell’impegno di preziosi investigatori italiani che hanno riscritto la moderna Spoon River dei migranti schiavi delle mafie etniche.
Legga attentamente queste testimonianze chi attacca il governo italiano per biechi calcoli politici o per stomachevoli ipocrisie di presunti sbandieratori del rispetto dei diritti umani. L’Italia sarebbe complice dei torturatori libici mentre presta soccorso e accoglienza, e nello stesso tempo lavora per un governo dei flussi migratori? I nostri calunniatori sperano forse che tutto rimanga come prima? A loro, la lettura delle testimonianze dei sopravvissuti all’inferno libico svelerà che il nostro Paese, l’Italia, è in prima fila (temiamo da sola) nel contrasto ai trafficanti di uomini e donne. Perché queste testimonianze, come altre centinaia raccolte in questi anni, sono servite, servono e serviranno a far condannare nei nostri tribunali i trafficanti di esseri umani.

Quelle che si raccontano sono le vite di migranti vissuti in due dei tanti campi di detenzione in Libia. Uno si trova in prossimità dell’oasi di Kufra, all’estremità del sud della Libia che confina con l’Egitto, il Sudan e il Ciad. Ed è quello dove vengono reclusi e torturati i migranti del Corno d’Africa. L’altro si trova invece alle porte della capitale del Fezzan, Sebha. E qui vengono reclusi e seviziati tra gli altri i nigeriani, i nigerini, gli ivoriani, i ghanesi, i senegalesi.
Questi racconti fanno parte di fascicoli giudiziari aperti da alcune Procure della repubblica. Le indagini non sono ancora arrivate a definire processi con imputati condannati. Ma siamo a buon punto.

Prima testimonianza  –  «Ci hanno trasportati in un carcere che sorge in una zona agricola dedicata alla coltivazione dei datteri e che si erge tra Kufra ed Hedeyafa. In tale struttura costantemente vigilata da diversi uomini armati sono rimasto con il mio compagno di viaggio per un mese e otto giorni. In tale lasso di tempo io, come tutti gli altri migranti reclusi in questa struttura, sono stato più volte torturato anche da un sudanese che oggi si trova in questo centro (di accoglienza italiano, ndr), torturato per il denaro».
«Spesso mi costringevano a contattare telefonicamente i miei parenti e durante le comunicazioni venivo colpito ripetutamente con dei tubi di gomma. Disgraziatamente mio padre è un povero agricoltore perché nella nostra zona è in corso una carestia. Per tali motivi i miei familiari non erano in grado di pagare il riscatto preteso dall’organizzazione criminale, che inizialmente consisteva in 5.000 dollari. In seguito, comprendendo le precarie condizioni della mia famiglia, abbassarono le pretese a 3000 dollari. Ma mio padre non fu in grado di pagare lo stesso. Alla fine, dopo oltre un mese di torture e sevizie sono stato trasferito in un altro struttura, insieme ad altri migranti reclusi».
«Il carcere sorge in una zona agricola vicino ad una piantagione di datteri. Il carcere assomiglia a un grande capannone con un unico ingresso. Vi erano delle finestre, ma troppo alte per essere raggiunte. La struttura ospitava diverse centinaia di migranti ed era costantemente vigilata da una decina di uomini anche armati. Il capo era un sudanese e i sottoposti erano diversi uomini sudanesi e somali. Alcuni avevano dei fucili».
«Mi colpivano ripetutamente con un tubo di gomma. Ma mi reputo fortunato perché non sono mai stato percosso a petto nudo ma indossavo sempre un giubbino che riusciva a mitigare la violenza dei colpi subiti. Altri sono stati meno fortunati. Sono disposto a fare vedere e fotografare le mie cicatrici ma non credo di averne perché non sono mai stato percosso a petto nudo». Questo testimone somalo, come altri nigeriani, svelano ai nostri investigatori che nei centri di accoglienza dove si trovano in Italia, hanno riconosciuto diversi torturatori. E le loro accuse hanno già portato in alcuni casi al fermo degli aguzzini.
«In questo campo c’è Mohamed che ha fatto la traversata con noi. Mi ha picchiato almeno una decina di volte. Quando sono arrivato nel carcere, Mohamed il somalo era già nella struttura. Lui faceva parte della squadraccia dei picchiatori, di quelli che ti torturavano per costringere i tuoi congiunti a pagare. Ma le torture inflitte non si limitavano alle telefonate ma si protraevano per intimorire i reclusi».

Seconda testimonianza – «Sono partito dalla mia regione il 17 febbraio del 2017 per raggiungere l’Europa. Con mezzi pubblici abbiamo raggiunto Adis Abeba dove ci siamo uniti ad altri emigranti che avevano la nostra stessa intenzione. Quindi abbiamo conosciuto i trafficanti etiopi i quali ci assicurarono che erano nelle condizioni di poterci fare arrivare in Europa. Non ci chiesero soldi in cambio perché erano ben consapevoli che noi eravamo dei rifugiati. Ci fecero salire a bordo di un minubus e ci condussero al confine con il Sudan, dove ad attenderci trovammo i facilitatori sudanesi. Noi fummo ceduti a loro che, prima di farci salire a bordo di mezzi, ci perquisirono. Erano armati di fucili. A me presero l’equivalente di 60/70 dollari. Agli altri tolsero tutto, dai denari al cellulare ai preziosi, orologi e anelli».
«Ci fecero salire su due grossi camion. E dopo aver attraversato il deserto arrivammo al confine libico dove fummo ceduti ai facilitatori libici armati di pistole. Salimmo a bordo di una ventina di Pi-kup. E arrivammo all’interno di una struttura recintata con dei grossi e alti muri. Questa struttura era a Kufra, circondata da una piantagione di datteri. All’interno vi erano due grossi capannoni. Uno per gli eritrei, l’altro per i somali».
«Questo accampamento era chiamato Hedeyfa. Da lì non si poteva uscire se non dopo l’avvenuto pagamento. Ho visto che ogni tanto all’interno di quella prigione arrivavano i libici armati di fucili e pistole. La prigione è gestita da un sudanese». «Molti migranti hanno dovuto pagare circa 5.250 dollari. Io non ho pagato perché i miei familiari, malgrado contattati, non erano in grado di pagare. Dopo un mese fui trasferito vicino al mare. E per imbarcarmi per l’Italia ho dovuto pagare 2.500 dollari attraverso la Hawala Hargheisa (sistema informale di trasferimento di valori, ndr)».

Terza testimonianza – «I Pi-Kup su cui viaggiavamo si sono divisi in diversi gruppi. Io e altri 30 circa siamo stati condotti in una sorta di carcere dove siamo stati rinchiusi. Ricordo che sono stato catturato nel marzo 2017 e che sono stato lì rinchiuso per circa 40 giorni. Giunto in questo carcere, abbiamo capito che eravamo stati venduti a una organizzazione criminale. Infatti  iniziarono subito a torturarci per costringerci a contattare i nostri familiari affinché pagassero il riscatto. Alla mia famiglia chiesero un totale di 5.000 dollari. Mia madre non disponeva di tale somma per cui effettuò più pagamenti». «Il carcere sorge vicino a una piantagione di datteri, a Kufra. E faceva riferimento a un militare libico di nome (omissis) di circa 30 anni che veniva saltuariamente, sempre in divisa e sempre armato. La gestione giornaliera era affidata a un sudanese che si avvaleva della collaborazione di cinque somali e un sudanese».
«Sono stato torturato durante tutta la permanenza in questo carcere. Ricordo che durante il primo periodo di reclusione non riuscii a mettermi in contatto con i miei familiari per un problema di linee telefoniche. Ma nonostante questo, continuarono a seviziarmi e lo fecero anche quando arrivò l’ultima quota del riscatto che giunse otto giorni prima della mia liberazione».

Quarta testimonianza – «In cinque giorni siamo arrivati al confine tra la Somalia e il Sudan e in loco circa venti persone si sono aggregate al nostro gruppo. A bordo di un grosso camion abbiamo attraversato il deserto e siamo giunti in una sorta di prigione che si trova vicino la città di Kufra. Qui c’erano almeno duecento segregati e diverse guardie somale e sudanesi. Ma la struttura faceva capo a dei libici. Sono rimasto in questa prigione per circa un mese».

Quinta testimonianza – Questa è la storia di un campo di prigionia alle porte di Sebha. La capitale del Fezzan, del sud della Libia. Qui c’era un personaggio chiamato Rambo, nigeriano. Questa prigione nel deserto è chiamata il “Ghetto di Alī il libico”. «Sono partito dal mio paese, la Costa d’Avorio e ho attraversato il Burkina Faso per arrivare ad Agades, in Niger. Due settimane di traversata del deserto. Il Ghetto di Alì era una grande struttura recintata con dei grossi e alti muri in pietra, vigilata da diverse etnie. Tutti armati di fucili e pistole. La struttura era divisa in tre blocchi. Nel mio eravamo orientativamente duecento, di varie etnie. Mio cugino si ritrovò in un altro blocco. Il mio era vigilato da un guineiano e due ghanesi feroci, Abdulharran  e Patrick. Abdulharran era uno che spesso, in modo inaudito e sistematico, picchiava e torturava noi migranti. Dopo circa cinque mesi di lunga prigionia, e quindi di sistematiche violenze subite, mio fratello fece arrivare i soldi e mi liberarono».

Sesta testimonianza – «Sono salito su un bus per raggiungere Agades, in Niger, dalla Costa d’Avorio. Dove arrivammo dopo due giorni di viaggio. Un facilitatore del Mali propose di portarci a Tripoli. Eravamo un centinaio in un capannone dove aspettammo cinque giorni prima di salire su sette camioncini guidati da autisti del Ghana. In quattro giorni arrivammo a Sebha dove fummo imprigionati, spogliati e perquisiti». «In questo carcere c’era un muro in pietra alto tre metri. Dentro, quattro container, tre destinati agli uomini, uno alle donne. In tutto, 800 migranti. Il carcere era vigilato da guardie con fucili mitragliatori e pistole. Erano guardiani nigerini, ghanesi, del Ciad e del Gambia. È durata cinque mesi la permanenza in questo carcere».

Settima testimonianza «Ogni volta che dovevo telefonare a casa, Abdulharram mi legava e mi faceva sdraiare per terra con i piedi in sospensione. E così immobilizzato, mi colpiva ripetutamente con un tubo di gomma in tutte le parti del corpo e in particolare sotto le piante dei piedi tanto da rendermi quasi impossibile poter camminare. Ho anche assistito ad analoghe torture fatte sempre da lui ad altri migranti». «Ho inoltre visto trattamenti anche peggiori come le torture mediante l’utilizzo di cavi alimentati con la  corrente elettrica. Tale trattamento veniva però riservato ad emigranti ritenuti ribelli». «Durante la mia permanenza in quel ghetto dove era impossibile uscire, ho sentito anche che Rambo aveva ucciso un migrante».

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un “paradigma post-religionale” per un “secondo tempo assiale” – a 500 anni dalla ‘riforma protestante’

 

Il tempo di una rottura radicale

il tempo di una rottura radicale

 Se gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo hanno rappresentato un'”epoca di cambiamenti”, ciò che abbiamo vissuto in questi ultimi decenni è stato un “cambiamento d’epoca”: è da tempo che siamo entrati nella nuova epoca, e ora stiamo già vivendo il “cambiamento continuo e accelerato” in cui questa nuova epoca consiste
 da: Adista Documenti n° 40 del 25/11/2017

 

Ricordo bene come, negli anni ’80, alcuni pastori protestanti miei amici mi confidassero il loro sconcerto di fronte ai cambiamenti registrati all’interno della Chiesa cattolica grazie al Concilio Vaticano II, perché avevano visto cadere critiche importanti da parte della Riforma Protestante verso la Chiesa cattolica (sui santi, sulle immagini, sulla “mariolatria”, sull’ignoranza rispetto alla Bibbia, ecc.). L’essenza di ciò che essi presentavano ai cattolici come “buona novella” della Riforma protestante era stata assimilata con entusiasmo dalla base della Chiesa cattolica, come stabilito direttamente dallo stesso Concilio Vaticano II. Non aveva più senso insistere su quella critica, mi dicevano. Ed effettivamente, riguardo a molto di ciò che prima ci divideva, ora eravamo d’accordo! Ma ci domandavamo: cos’è che poteva continuare a tenerci separati?

La risposta a cui arrivammo era che, in effetti, erano le nostre istituzioni ecclesiali a essere divise ed erano le nostre teologie tradizionali, le nostre celebrazioni, i nostri riti a continuare a percorrere strade separate, ma che, nella nostra condivisione quotidiana nel Centro Ecumenico Antonio Valdivieso di Managua, dove lavoravamo come una quasi-comunità ecumenica, tale separazione non esisteva: c’erano solo differenze in termini di teologia e di spiritualità che rispondevano alla ricchezza delle nostre distinte tradizioni, ma che non andavano considerate come una divisione o una separazione, bensì come una positiva diversità. La polemica tra Riforma e Controriforma era stata da noi superata.

Da allora, i nuovi dibattiti teologici si delineavano in termini positivi, come contributi che ciascuna delle nostre differenti tradizioni poteva offrire. Dal Concilio Vaticano II, così come dai movimenti riformisti paralleli vissuti nel seno delle Chiese protestanti, come Uppsala 68 o il movimento “Chiesa e Società” del Consiglio Mondiale delle Chiese, era derivato un cambiamento di paradigma grazie a cui erano cadute, come “per implosione”, considerazioni teologiche di rottura e di separazione che erano rimaste valide per più di 400 anni. Dovemmo reinventarci dinanzi alla nuova congiuntura e, di certo, in quegli anni ebbe inizio in tutta l’America Latina un nuovo ciclo di ecumenismo, un “nuovo ecumenismo liberatore”.

Ma dal Concilio Vaticano II sono passati più di 50 anni e, in questo lasso di tempo,  si è registrata – si sta registrando – quella che è forse la trasformazione religiosa di maggiori dimensioni degli ultimi millenni (sì, millenni, a partire dal famoso «tempo assiale» di cui parlò Karl Jaspers).

Se gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo hanno rappresentato un'”epoca di cambiamenti”, ciò che abbiamo vissuto in questi ultimi decenni è stato un “cambiamento d’epoca”: è da tempo che siamo entrati nella nuova epoca, e ora stiamo già vivendo il “cambiamento continuo e accelerato” in cui questa nuova epoca consiste.

Cambiamenti d’epoca e tempo assiale

È facile parlare di “cambiamenti d’epoca”: tutto dipende dal livello a partire dal quale decidiamo che un cambiamento debba essere considerato “d’epoca”. Per esempio, ogni decennio può segnare un’epoca (gli anni ’40, gli anni ’50…). Ma nella storia conosciamo anche cambiamenti che hanno segnato un discrimine tra epoche durate migliaia di anni.

Abbiamo appena menzionato il «tempo assiale», reso celebre dagli studi di Karl Jaspers: un tempo che ha segnato un prima e un dopo, come una radicale linea divisoria nella storia dell’umanità. In effetti, in questo tempo la coscienza dell’umanità si è trasformata a un punto tale da permetterci l’accesso a un nuovo livello di coscienza spirituale. Di fatto, secondo Jaspers, ancora alla fine dello scorso millennio stavamo vivendo in questo stesso livello di coscienza.

La dimensione di cambiamento a cui l’espressione “tempo assiale” si riferisce non è data dallo sviluppo delle tecniche di lavorazione della pietra o dei metalli, ma dallo sviluppo della coscienza spirituale. È (…) a questa dimensione spirituale che si riferiscono i molti studiosi secondo cui attualmente ci troveremmo in un secondo tempo assiale.

300 anni fa è apparso nel mondo un movimento nuovo che abbiamo chiamato modernità, il quale, in maniera costante e crescente, sta trasformando la società umana, penetrando a poco a poco nella maggior parte delle società del pianeta, a partire dalle più sviluppate. Sta emergendo una trasformazione della coscienza umana, degli stessi atteggiamenti spirituali che la costituiscono, una trasformazione provocata soprattutto dall’ampliamento vertiginoso della conoscenza (una rivoluzione scientifica che estende la sua portata già da vari secoli) e dalla trasformazione radicale dell’epistemologia (dai miti alla scienza, dagli argomenti di autorità al metodo scientifico sperimentale), il tutto accompagnato da tecnologie potentissime. Tale trasformazione spirituale dell’essere umano ancora in corso risulta assai profonda, e sta provocando e diffondendo un fenomeno significativo: la crisi delle religioni. In intere regioni del pianeta la pratica religiosa e le stesse istituzioni religiose sono entrate in un grave processo involutivo; in alcuni luoghi si potrebbe dire che sono vicine al collasso.

A questo riguardo, diversi osservatori parlano dell’apparizione di un “paradigma post-religionale”.

Cosa resta di quel dibattito cattolico-protestante?

È in questa attuale situazione di trasformazione e di tempo assiale che vogliamo porre in maniera seria la domanda sul senso attuale del dibattito – che ora ha compiuto 500 anni – tra la Riforma e quella che possiamo definire Cattolicità. Malgrado Lutero sia stato una di quelle figure in anticipo sui tempi e in grado di cogliere precisamente lo spirito della modernità, il sospetto è che il pieno sviluppo raggiunto dalla modernità (includendo in essa ciò che siamo soliti definire come postmodernità) abbia posto le cose in un contesto nuovo in cui tutto ha acquistato un altro senso e un altro significato. È quella sensazione di perplessità che esprimiamo dicendo che, “quando già avevamo la risposte, ci hanno cambiato le domande”. Dal XVI secolo ad oggi si è registrato un cambiamento globale così profondo che i problemi di allora, a cui si è cercato di dare risposta, oggi non esistono più: nel nuovo contesto religioso attuale scompaiono, perché sono diventati inintelligibili; e molte delle proposte e controproposte presentate e contropresentate appartengono a un immaginario e a un mondo concettuale che sopravvivono esclusivamente tra gli specialisti e i rappresentanti delle Chiese che ne hanno fatto il loro modus vivendi. I dibattiti precedenti all’attuale “nuovo tempo assiale” sono rimasti fuori dal contesto storico e, con ciò, privati di significato, inutili, inintelligibili e in definitiva impraticabili.

Applicandolo più concretamente al nostro caso, cosa rimane ancora di attualmente intelligibile, per un teologo o una teologa che abbiano come interlocutore l’uomo o la donna comuni, nel dibattito cattolico-protestante sulla sola Gratia, sulla sola Scriptura, sulla sola Fides o sul solus Christus o i dibattiti intorno alla Redenzione, alla Teologia della Croce o alle conseguenze del peccato originale in un mondo culturale in cui per buona parte delle cosiddette società sviluppate (società dell’informazione o della conoscenza, o come si voglia chiamarle) tutti questi concetti non godono più non solo di plausibilità, ma anche di intelligibilità?

Che accoglienza possono suscitare nell’attuale società emancipata le dimensioni profonde dell’esperienza religiosa di Lutero che hanno dato origine alla Riforma, quando oggi ci appaiono chiaramente riconducibili a un insieme di timori, pregiudizi acritici, concetti superati e credenze mitiche medievali premoderne che ci suscita più una comprensione compassionevole che interesse e ammirazione? Che senso può avere il dibattito “teologico” cattolico-protestante nell’attuale mondo culturale laico, quando in questo non è ormai più plausibile il concetto stesso di “teologia” come “scienza sacra che studia e medita i dati della Rivelazione divina”? Che senso hanno i vecchi dibattiti tra “confessioni cristiane” quando è ora qualcosa di più essenziale, la stessa opzione religionale, a dover essere dibattuta?

La nostra tesi – o, più modestamente, “ipotesi”, che stiamo umilmente ponendo alla considerazione del mondo teologico ecumenico – è che, a questo stadio dell’evoluzione umana (e del pianeta insieme a noi), sono rimasti senza una base e senza senso – per chi sia capace di coglierlo, logicamente – quei dibattiti intra-confessionali che ancora restano racchiusi entro le coordinate ormai superate dallo stato attuale non solo delle conoscenze umane, ma anche e soprattutto della coscienza spirituale umana che si addentra in questo “secondo tempo assiale”. A 500 anni dalla Riforma di Lutero, non ha più senso portare avanti un dibattito teologico che è saltato in aria e fatto a pezzi con la trasformazione radicale che la spiritualità umana ha sperimentato –  e continua a farlo – in questo nuovo tempo assiale. Almeno per chi abbia colto che il pallone è passato in un altro campo di gioco e che quella partita è terminata.

Entrare o meno nel nuovo paradigma

In questo senso, sono cosciente che tale posizione possa risultare strana e persino incomprensibile a chi parta dal presupposto che “in realtà non è successo nulla” e che le grandi questioni restano sul tappeto perché sono eterne, e che possiamo andare avanti con lo stesso tipo di risposte a partire dai presupposti di sempre (…).

Tutti noi che oggi ci collochiamo nella radicalità del cambiamento del nuovo tempo assiale, lo abbiamo scoperto da così poco tempo che ci risulta noto e comprensibile un modo di pensare che ignora la rottura che l’assialità implica.

Per chi guarda all’attuale realtà mondiale nei termini di una trasformazione profonda, con regioni intere – come dicevamo – che in appena qualche decennio hanno concretamente abbandonato la religione cristiana, il futuro del cristianesimo come religione è legato a un’unica soluzione: “Non più Riforma – né tantomeno Controriforma –, ma un’altra cosa: mutazione”. Nella mia umile opinione, l’unica soluzione è la “mutazione genetica” religiosa e spirituale che questo nuovo tempo assiale esige dall’umanità in questo passaggio storico-evolutivo.

Non accettare questa sfida – o, forse, semplicemente non coglierla – avrà come conseguenza l’estinzione di quelle realtà incapaci di adeguarsi alla nuova situazione. Gli osservatori stanno dicendo che le religioni, come nuova forma di configurazione della dimensione spirituale permanente dell’essere umano, sono apparse recentemente, con l’epoca neolitica. E che, con la grande trasformazione legata a questo nuovo tempo assiale, tale configurazione neolitica della spiritualità umana (le religioni appunto) sta volgendo al tramonto, nella misura in cui sta giungendo a termine lo stesso neolitico, superato dall’apparizione e dalla diffusione delle “società della conoscenza”. Alcune religioni – dicono gli analisti – possono ancora godere di un tempo residuale, in alcuni luoghi della terra, ma il loro kairós sembra che sia decisamente passato o che sia sul punto di farlo.

Cogliere questa dimensione profonda del tempo assiale in corso illumina la comprensione dell’attuale momento dell’evoluzione religioso-spirituale dell’umanità: non si tratta, ora, di “tirare calci al vento”, o di camminare in direzione contraria alla storia e alla bio-evoluzione, ma di lasciarsi portare, di cogliere la migliore direzione del vento e di affidarsi a questo, lasciando che germogli il nuovo e che muoia ciò che ha già compiuto la sua missione.

Richiamando un’altra immagine meno bio-evolutiva e più prosaica, dopo lo scontro con l’iceberg, il Titanic è già condannato e si inabisserà; possono volerci “due ore e mezza” o forse vari secoli, ma è ferito a morte e senza capacità di recupero, anche se noi possiamo negare la realtà e restare sulla poppa con l’orchestra insieme a coloro che non si sentono capaci di rompere con un passato che sprofonda e di intraprendere una nuova avventura, la quale si rivela precisamente come l’unica possibilità di continuare a vivere.

Soffermandoci sul tema dei presupposti profondi

So che questa tesi, nella sua gravità, non è facile da accettare per chi non si sia già confrontato qualche volta con questo tipo di ragionamento. È quasi impossibile accettare tale visione già a una prima lettura. Per questo si impone la necessità di spiegare meglio, soffermandosi sul tema dei presupposti profondi.

Per quanto sembri il contrario, le religioni sono in una continua evoluzione e trasformazione. Il susseguirsi di riforme le porta ad adeguarsi ai cambiamenti culturali legati all’evoluzione dei loro tempi. Cos’è una riforma religiosa? È una proposta di ricollocamento degli elementi che costituiscono una concreta fede religiosa, per darle una “nuova forma” (riforma) più praticabile. Quando la riforma è radicale, quando non si limita a ridefinire gli elementi della superficie, ma cambia i presupposti di fondo, i presupposti identitari, si sta producendo una “rottura”. (…).

Ebbene, come abbiamo detto, i cambiamenti sperimentati dalla nostra specie umana in questo nuovo tempo assiale che stiamo vivendo sono così profondi che molti dei presupposti fondamentali millenari originari delle religioni non trovano più posto nel quadro culturale della nuova società. (…).

Tutti gli elementi fondamentali più antichi della religione giudaico-cristiana, per esempio, datano la loro origine nella seconda metà del secondo millennio prima della nostra era, ma ciò che denominiamo come base “antropo-teo-cosmica” (la concezione delle relazioni tra Dio, la natura e l’umanità) era stata già stabilita nei tre millenni precedenti, in seguito, a quanto pare, alle violente invasioni dei popoli euroasiatici: kurgan, ari, dori… e anche dei semiti nel sud, un fenomeno oggi relativamente ben documentato da punto di vista archeologico. (…).

L’ebraismo e tutte le religioni del Levante, della terra di Canaan e della Mesopotamia, sorte in questi tre millenni, condividono lo stesso presupposto antropoteocosmico, bevono dallo stesso fiume spirituale (…). La Bibbia stessa, sorta piuttosto tardi, è cresciuta all’interno di questo stesso humus antropoteocosmico preesistente; è figlia di questo tempo religioso-culturale, del suo immaginario e del suo paradigma religioso, il quale è restato in piedi fino ad oggi. Gli sviluppi e le trasformazioni religiose che hanno avuto luogo nella storia in questi millenni hanno riguardato solo livelli più superficiali: nessuno di essi ha messo in discussione l’essenziale, il nucleo antropoteocosmico.

Al contrario, è questo nucleo così profondo il principale fattore della trasformazione in corso nell’attuale tempo assiale: il post-teismo, l’oikocentrismo, la critica alla desacralizzazione della natura, al dualismo cielo/terra, alla maschilità profonda di Dio, alla sua transcendenza… (…). Nei secoli precedenti nessuno ha messo in discussione ciò che sembrava ovvio, ossia i millenari presupposti antropoteocosmici. Attualmente, anche le persone comuni si sentono a disagio dinanzi a quelle “evidenze millenarie” che oggi hanno smesso di essere ovvie non solo per i filosofi, ma anche per il sentire comune, per lo “spirito del tempo”.

In questo contesto culturale e in questa situazione attuale, l’adeguamento delle religioni alla nuova epoca culturale e spirituale che si apre le obbliga ad assumere un cambiamento dei presupposti profondi che non si configura più come “riforma”, perché implica una rottura più grande rispetto a un paradigma in vigore per più di 5mila anni (e non 500). Per addentrarsi in questa nuova epoca inaugurata dall’attuale tempo assiale, le riforme, per quanto possano essere importanti, non bastano più.

Ciò che si richiede non sono “proposte nuove a partire dai presupposti di sempre”, bensì “proposte nuove, sì, ma a partire da presupposti anch’essi nuovi”.

Quanto stiamo qui esponendo è una questione molto seria, perché si tratta di un cambiamento di paradigma, che abbiamo denominato post-religionale. La tesi è quella a cui si è già fatto riferimento: le religioni, questo modo di configurare la spiritualità umana che è sorto con il neolitico e con la rivoluzione agricola e urbana, hanno reso un grande servizio all’Umanità – non esente da grandi contraddizioni e sofferenze –, ma forse hanno ormai esaurito il loro ruolo. La trasformazione culturale attuale è così profonda che la struttura basilare antropologica delle religioni (non della religiosità umana, bensì proprio delle religioni, della dimensione “religionale”) e gli stessi presupposti antropoteocosmici della spiritualità tradizionale non risultano più intelligibili nel quadro della nuova sensibilità spirituale a cui l’umanità sta accedendo.

Elementi essenziali della forma storica della “religione” e presupposti antropoteocosmici della spiritualità stessa non hanno più corso legale in grandi settori dell’umanità che hanno sperimentato tale trasformazione culturale-spirituale. A causa di un nuovo tempo assiale, l’umanità sta accedendo a un nuovo stadio bio-evolutivo, in cui la dimensione più profonda della sua coscienza non si esprime più in forma “religionale”. Da qui l’abbandono di massa che si è registrato e continua a registrarsi in questi settori dell’umanità.

La Riforma in un nuovo tempo assiale

Benché vi siano molti elementi di incertezza legati all’attesa di nuove scoperte che ci permettano di comprendere meglio il passato spirituale-evolutivo di cui siamo il frutto, se tutto ciò che abbiamo appena detto è globalmente valido, dobbiamo concludere che ci troviamo in un tempo e in un contesto totalmente differenti da quelli che hanno fornito il quadro al dibattito di 500 anni sulla Riforma. Nuove questioni sono emerse e vecchie preoccupazioni sono svanite, ancora prima di trovare una soluzione. “Quando ormai ci sembrava di conoscere le risposte, ci hanno cambiato le domande”. Non sarebbe realistico continuare a dibattere o a dialogare sulla Riforma negli stessi termini teologici e spirituali e con le stesse categorie di mezzo millennio fa, come se nulla fosse successo, come se effettivamente continuassimo a vivere in quel vecchio mondo che ormai non esiste più.

Bisogna domandarsi se si diano oggi le necessarie condizioni di senso per poter continuare quel dibattito di 500 anni fa su Dio, l’anima, la Grazia, il peccato, la Redenzione, la Croce… o se le questioni attualmente importanti siano altre (…).

Bisogna domandarsi se abbia senso continuare a portare avanti una polemica interna al cristianesimo, in un momento e in una società che stanno dando massicciamente le spalle al cristianesimo occidentale storico. Più concretamente:

Come ridefinire il senso del dibattito sulla Sola Scriptura, in una società della conoscenza che non accetta le credenze mitiche, né l’argomento dell’autorità della tradizione, né la divisione tra questo mondo e l’altro, né rivelazioni provenienti da un secondo piano, da un cielo che teniamo separato dalla natura da circa cinque millenni? Forse è meglio superare una volta per tutte ogni dualismo e tornare a unire ciò che è stato indebitamente diviso millenni fa, rinunciare a ogni “secondo piano” e vedere se nel nuovo contesto si possa continuare a parlare di rivelazione e in quale senso.

Come ridefinire la polemica sulla Sola Fides in una società avanzata che non crede più che Dio sia un Signore là sopra, là fuori, che si nasconde e che impone di credere in lui, in una società che pensa che non si tratti più di credere, di sottomettersi e di offrire il sacrificio ragionevole della fede?

Che senso può avere oggi la polemica sul Solus Christus in una società che pensa alle religioni al di là dell’esclusivismo e in Chiese in cui sempre più credenti superano l’inclusivismo cristocentrico, ritenendo sempre più ovvia l’uguaglianza fondamentale di tutti i cammini religiosi?

Che significa il dibattito sulla salvezza attraverso fede dovuta alla Sola Gratia, quando ciò che è in discussione non è più l’alternativa di una salvezza attraverso le opere, ma la natura stessa della salvezza?

Che cos’è la salvezza? Salvezza da che? I presupposti in base a cui si muovevano domande e risposte di questo dibattito cristiano in questi 500 anni sono crollati, trascinando con sé le domande e le risposte, nello tsunami dell’attuale tempo assiale.

È assai probabile che buona parte del discorso celebrativo dei 500 anni della Riforma offra il suo contributo sulla base degli stessi presupposti di sempre, millenari, ignorando il fatto che ci si trovi in un nuovo tempo assiale e che non si tratti più di riforme ma di una rottura globale. Finché rimaniamo all’interno del vecchio paradigma, il dibattito potrà continuare in aeternum. Il semplice ingresso, sincero, nel nuovo paradigma farà sì che sfumino le vecchie domande e i dibattiti a esse legati, e che si possano porre realmente le domande cariche di futuro.

John Shelby Spong, vescovo episcopale emerito di Newark, negli Stati Uniti, è uno degli autori cristiani riformati che più coscienza hanno della necessità di profonde rotture teologiche e spirituali, e che per questo ha esortato a una “Nuova Riforma”, le cui tesi ha “affisso” simbolicamente in internet, come le nuove porte della cattedrale di Wittemberg. Scrittore prolifico, ha insistito ripetutamente sul fatto che la sfida culturale-religiosa del nostro tempo è tale da esigere dal cristianesimo una Riforma molto più profonda di quella di Lutero, una Riforma che «farà sembrare piccola quella del XVI secolo, simile a un gioco di bambini». Non è più il tempo per riforme antiche; è l’urgenza di una Nuova Riforma a imporsi, quella di una differente, radicale, autentica “mutazione genetica spirituale” all’altezza della grande transformazione bio-evolutiva che il pianeta e il cosmo stanno vivendo in noi.

(…). Dopo 500 anni, resteremo seduti al tavolo dell’antica discussione, cercando risposte a domande scomparse dall’orizzonte di buona parte della società e sostituite da altre domande, attuali, in attesa di essere affrontate? Non basteranno 500 anni di divisione? Non sarebbe meglio unirci nel nuovo dibattito, quello del futuro?

* Foto di Sailko, tratta da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza

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il papa del futuro

 

 

Un altro papato per il XXI secolo

un altro papato per il XXI secolo

 
 da: Adista Documenti n° 40 del 25/11/2017

 

Nel 1995, Giovanni Paolo II, nell’enciclica Ut unum sint, espresse la volontà di cercare un nuovo modo di esercitare il primato del vescovo di Roma come ministero di comunione di tutte le Chiese. La proposta suscitò grande interesse, ma ben presto venne dimenticata.

Nelle pagine che seguono indicherò gli elementi centrali del documento e ne analizzerò criticamente i presupposti teologici. Non appaiono forse troppo radicati nel passato? Nell’Ut unum sint il vescovo di Roma non appare ancora prigionero del papato? La tesi è semplice: per avanzare – «Tu seguimi» (Gv 21,22) – verso una comunione delle Chiese nel XXI secolo è imprescindibile riformare interamente l’immaginario e il quadro concettuale e istituzionale della Chiesa e dei ministeri. E così reimmaginare un altro “ministero di Pietro”, liberato dall’“ordine sacro”, dalla “successione” e da Roma.

1. La novità e l’ambiguità della vita

Ut unum sint (Perché siano uno) è un’enciclica sull’“impegno ecumenico” e si presenta come un commento sul Decreto del Concilio Vaticano II Unitatis redintegratio (1964), da cui è ripresa quasi la metà delle 162 citazioni. Il suo interesse, tuttavia, è centrato sul passato, il maggiore problema dell’ecumenismo.

Il ministero del vescovo di Roma, riconosce l’enciclica, «costituisce una difficoltà per la maggior parte degli altri cristiani, la cui memoria è segnata da certi ricordi dolorosi» (UUS 88). Bisognerebbe piuttosto dire “la” difficoltà, come affermò apertamente Paolo VI nel 1967: «Il papa, lo sappiamo, è senza dubbio l’ostacolo più grave sul cammino dell’ecumenismo».

(…). Negli anni ’90 del XX secolo, dopo tre decenni post-conciliari di impegno più o meno ottimistico, tutti gli sforzi ecumenici si erano ripetutamente incagliati sulla “roccia di Pietro”, o, meglio, sulla roccia del papato vaticano. Le commissioni teologiche interecclesiali arrivavano senza grosse difficoltà ad accordi basilari rispetto ai grandi dibattiti che ci avevano diviso in passato: il Filioque, la giustificazione, i sacramenti, Maria… Bastavano la buona volontà e la lettura critica dei testi fondanti del cristianesimo, soprattutto del Nuovo Testamento. Neppure un certo primato simbolico del vescovo di Roma appariva come un ostacolo insormontabile: le Chiese ortodosse non hanno mai avuto alcun problema ad accettarlo, purché non consistesse in un primato giurisdizionale, e qualcosa di simile si potrebbe dire anche della Chiesa luterana. Ma il dialogo falliva nel momento in cui Roma rivendicava un primato inteso come potere giurisdizionale sulle altre Chiese. Lì non era più possibile andare avanti. Il problema è il papato.

In maniera inattesa, lo stesso Giovanni Paolo II, il papa conservatore e inflessibile, arrivò infine a riconoscerlo nell’enciclica. Dopo aver evidenziato insistentemente il ruolo vitale e insostituibile del vescovo di Roma nella vera comunione di tutte le Chiese, egli afferma: «Sono convinto di avere a questo riguardo una responsabilità particolare, soprattutto nel constatare l’aspirazione ecumenica della maggior parte delle Comunità cristiane e ascoltando la domanda che mi è rivolta di trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova» (UUS 95).

È per questa frase che si cita e si continuerà a citare l’enciclica. La sorpresa e l’interesse suscitati da queste parole furono considerevoli. Un papa di radicate posizioni tradizionaliste rivendicava la necessità di ripensare la figura del vescovo di Roma, la sua funzione nella Chiesa. Questa frase constituisce la principale o unica novità dell’enciclica, l’unico passo avanti in relazione alla Costituzione conciliare Lumen gentium sulla Chiesa e al Decreto conciliare Unitatis redintegratio sull’ecumenismo.

Ma in che consiste propriamente “l’essenziale” del primato o della missione del vescovo di Roma? È questo il nodo della questione che l’enciclica lascia praticamente intatto. La sezione dedicata alla funzione del papa nel cammino ecumenico verso la comunione si apre con questa frase: «La Chiesa cattolica è consapevole di aver conservato il ministero del Successore dell’apostolo Pietro, il Vescovo di Roma, che Dio ha costituito quale “perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità”» (UUS 88).

I termini impiegati sono quanto mai ambigui e confusi tanto dal punto di vista storico quanto da quello teologico, ma l’enciclica non li chiarisce né li giustifica; li dà per scontati come se sapessimo cosa significano. Li stabilisce come fondamento senza fondarli.

Si capisce bene come tutti i tentativi portati avanti da allora per proporre una nuova forma di esercizio del “primato” romano siano falliti (…). Tutto si limitava a vaghe promesse intorno alla sinodalità e a disquisizioni senza fine su ciò che significano il primato e l’infallibilità.

E si comprende come, dieci anni dopo la Ut unum sint, il cardinal Kasper facesse propria l’espressione utilizzata da Paolo VI nel 1967, tornando a riconoscere che il papato è il «maggior ostacolo per la piena comunione ecumenica». Oggi, 21 anni dopo l’enciclica, constatiamo che non si è mosso alcun passo avanti per rendere effettiva la volontà di «trovare una forma di esercizio del primato che… si apra ad una situazione nuova».

È come se non si sapesse verso dove avanzare. Ma l’enciclica indica una direzione: il passato. È la direzione corretta?

2. È sufficiente tornare al primo millennio?

Ut unum sint propone come modello da seguire la relazione tra le Chiese di Oriente e di Occidente durante il primo millennio, prima della divisione del 1054, dando per scontato che tutte le Chiese in questo arco di tempo riconoscessero il vescovo di Roma como garante ultimo della piena comunione: «Il cammino della Chiesa è iniziato a Gerusalemme il giorno di Pentecoste e tutto il suo originale sviluppo nell’oikoumene di allora si concentrava attorno a Pietro e agli Undici (cfr. At 2,14). Le strutture della Chiesa in Oriente e in Occidente si formavano dunque in riferimento a quel patrimonio apostolico. La sua unità, entro i limiti del primo millennio, si manteneva in quelle stesse strutture mediante i Vescovi, successori degli Apostoli, in comunione con il Vescovo di Roma. Se oggi noi cerchiamo, al termine del secondo millennio, di ristabilire la piena comunione, è a questa unità così strutturata che dobbiamo riferirci» (UUS 55).

Bisogna riconoscere la carica innovativa legata al fatto di proporre il primo millennio come modello per l’esercizio attuale del primato romano. Nel primo millennio non esistevano ancora i dogmi del primato di giurisdizione e dell’infallibilità, che furono definiti dal Concilio Vaticano I nel 1870! Il papa stava pensando forse di revocarli? Sarebbe stato inimmaginabile per qualunque papa e, se possibile, ancora di più per Giovanni Paolo II. Più ragionevole pensare che si riferisse al primato e all’infallibilità secondo il modello del primo millennio, ma «senza rinunciare all’essenziale».

E qui torniamo all’impasse di sempre: in cosa consiste l’essenziale di questi dogmi? È possibile trovare nel primo millennio una qualche “struttura” unanimemente accettata dalle Chiese assimilabile al primato di giurisdizione e all’infallibilità?

(…). Lasciamo, allora, parlare la storia (…):

– fino agli ultimi decenni del II secolo, la Chiesa di Roma, formata da diverse chiese o comunità, non era retta da alcun “vescovo”, ma da un “collegio di presbiteri”;

– godeva tra tutte le Chiese di prestigio e di autorità morale particolari, a causa del fatto che lì si conservavano la tomba e la memoria di Pietro e di Paolo (morti a Roma probabilmente durante la persecuzione di Nerone dell’anno 64) e della generosità di cui dava prova nel sostenere economicamente altre Chiese più povere (…), oltre, senza dubbio, al fatto che Roma era la capitale dell’Impero  (“città eterna” e “caput mundi”);

– verso la fine del II secolo, Ireneo di Lione (…) riconosceva alla Chiesa di Roma il “primato”, ma non la potestà di intervenire in altre Chiese e la stessa cosa insegnerà San Cipriano, vescovo di Cartagine, alla fine del III secolo;

– dalla fine del II secolo, i vescovi di Roma cominciarono a intervenire, ma risulta che tale intervento spesso non venisse accettato (…);

– a partire dal III secolo, si scatenò una grande lotta per il potere tra le grandi metropoli dell’impero (…);

– il prestigio e l’autorità di Roma aumentarono sensibilmente con la cristianizzazione dell’intera città, e ancora di più allorché il vescovo, dopo l’abbandono di Roma da parte dell’imperatore e il suo trasferimento a Ravenna, assunse in qualche modo il ruolo e gli attributi dell’imperatore, come pontifex maximus; (…) benché vescovi come San Basilio e Sant’Ambrogio non ammettessero la volontà di controllo di Roma sui vescovi;

– il Concilio di Calcedonia (451), lo stesso che definì la dottrina di Cristo come una persona con due nature, riconobbe al vescovo di Costantinopoli l’uguaglianza di diritti con il vescovo di Roma, ma tale canone non venne riconosciuto da Leone Magno, vescovo di Roma tra il 440 e il 461, che può essere definito come il “primo papa”: il primo a chiamarsi “vicario di Pietro”, a elaborare la dottrina della “successione di Pietro” e a rivendicare la “pienezza del potere” per intervenire in tutte le Chiese e in tutte le questioni  (…).

Il problema è che la UUS si appella alla storia, ma questa non avalla le affermazioni generiche sull’esistenza, fin dal principio, di una struttura di comunione di tutte le Chiese intorno al vescovo di Roma. (…).

Richiama l’attenzione, inoltre, e ci mette in guardia, il fatto che UUS 55, che si riferisce esplicitamente a Unitatis redintegratio n. 14, non citi la frase iniziale di questo paragrafo: «Le Chiese d’Oriente e d’Occidente hanno seguito per molti secoli una propria via, unite però dalla fraterna comunione nella fede e nella vita sacramentale, sotto la direzione della Sede romana di comune consenso accettata, qualora fra loro fossero sorti dissensi circa la fede o la disciplina». Una frase che menziona due degli elementi storici indiscutibili della relazione tra le diverse Chiese: la loro diversità («hanno seguito per molti secoli una propria via») e il «comune consenso» nel ricorrere all’arbitrato della Chiesa di Roma. Ut unum sint fa un passo indietro rispetto all’Unitatis redintegratio.

Ma (…) anche nell’ipotetico caso in cui il vescovo di Roma avesse esercitato fin dal principio una reale potestà su tutte le altre Chiese e questa fosse stata effettivamente riconosciuta da tutte, saremmo per questo obbligati a riprodurre oggi le strutture di un passato remoto? Non possiamo ignorare o relegare il passato al momento di ricostruire la comunione delle Chiese nel presente, ma la fedeltà al passato non consiste nel riprodurlo servilmente, bensì nel lasciarsene ispirare per avanzare creativamente verso un’altra Chiesa, altri ministeri, un altro modello di comunione.

(…). Essere fedeli allo Spirito che ha guidato le Chiese dell’antichità significa continuare ad andare avanti, aprendo cammini inediti come hanno fatto quelle.

3. E cosa dire della «volontà di Cristo»?

Noi cristiani torniamo a Gesù – a ciò che egli ha detto, fatto, voluto – per orientare le nostre vite, per costruire il futuro giusto e libero da lui atteso, annunciato, anticipato. La storia di Gesù, trasformatrice della storia, è il criterio della nostra prassi personale ed ecclesiale. Ci riferiamo alla sua storia per costruire la nostra. Dove, per “storia di Gesù”, intendo la sua vita umana mossa dallo Spirito trasformatore, creatore di nuova storia, di un nuovo mondo. (…).

Ut unum sint rimanda a Gesù per porre le basi di un nuovo modo di esercitare il primato di Pietro. Al numero 95, troviamo l’affermazione che «la funzione del Vescovo di Roma risponde alla volontà di Cristo»: «è per il desiderio di obbedire veramente alla volontà di Cristo che io mi riconosco chiamato, come Vescovo di Roma, a esercitare tale ministero». Al numero 96 il papa si chiede: «La comunione reale, sebbene imperfetta, che esiste tra tutti noi, non potrebbe indurre i responsabili ecclesiali e i loro teologi ad instaurare con me e su questo argomento un dialogo fraterno, paziente, nel quale potremmo ascoltarci al di là di sterili polemiche, avendo a mente soltanto la volontà di Cristo per la sua Chiesa, lasciandoci trafiggere dal suo grido “siano anch’essi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21)?».

E al numero 90 afferma: «Nel Nuovo Testamento, la persona di Pietro ha un posto eminente. (…) Il posto assegnato a Pietro è fondato sulle parole stesse di Cristo, così come esse sono ricordate nelle tradizioni evangeliche». (…).

L’enciclica non dice “volontà di Gesù”, ma “volontà di Cristo”, come è abituale nei documenti del magistero gerarchico. Ci rimanda non tanto al Gesù storico, ma alla figura di “Cristo” reinterpretata e “ricostruita” dalle comunità cristiane ed espressa nei testi evangelici. Ebbene, il Gesù della storia è il primo criterio al momento di riformare la Chiesa e i suoi ministeri o di ridefinire le relazioni ecumeniche nella “nuova situazione” che viviamo, se non vogliamo correre il rischio di fondarci, senza esserne consapevoli, sui nostri stessi pregiudizi proiettati su Gesù o il rischio di definire “volontà di Cristo” quelle che sono mere credenze e di utilizzare come argomento teologico quelle che sono mere convinzioni. (…).

È necessario, allora, (…) tenere conto dei dati che, in relazione alla figura di Pietro molti bravi esegeti considerano storicamente sicuri. Eccone un breve riassunto:

– benché non tutte le notizie che il Nuovo Testamento offre su Pietro siano storiche, nessuno mette in dubbio il fatto che egli occupasse un ruolo rilevante tra i discepoli, che Gesù gli avesse conferito un ruolo speciale nel compito di annunciare il Regno e di riunire il disperso Israele, e che la sua figura fosse  legata in particolate ad alcune Chiese, come la Chiesa di Matteo (Antiochia?) o di Roma, dove egli morì;

– è assai probabile che, dopo la morte di Gesù e la dispersione (se ci fu) dei discepoli/e, Pietro abbia guidato la loro riunificazione intorno alla confessione che egli era stato risuscitato o esaltato da Dio; così bisognerebbe intendere il fatto che sia stato “il primo” a cui Gesù risorto era apparso (1 Cor 15,5; Lc 24,34), per quanto abbia ben potuto condividere tale ruolo con Maria di Magdala, sempre che non sia a lei che spetti il protagonismo della confessione pasquale;

– c’è un ampio consenso sul fatto che il testo di Mt 16,17-19 sia una creazione postpasquale propria di Matteo o della tradizione che egli raccoglie; potrebbe avere come scopo quello di rivendicare il posto o l’autorità della stessa Chiesa (forse Antiochia, dove probabilmente scrive Matteo, o un’altra vicina) in quanto fondata da Pietro, rispetto ad altre Chiese che si richiamavano a Paolo o al “Discepolo Amato”; il potere di “legare e sciogliere”, che qui si attribuisce a Pietro, si applicò prima ai discepoli in generale (Mt 18,18) o ai Dodici (Gv 20,23) (…);

– vale la pena segnalare il fatto che anche Paolo riconobbe la preminenza di Pietro (Gal 1,18; 2,1-10), ma che ciò non gli impedì di scontrarsi con lui duramente in Antiochia (Gal 2,11-14), e persino di rompere con lui definitivamente, poiché a partire da questo episodio (anno 49?) non abbiamo notizia che abbiano avuto altri contatti. (…);

– per il resto, le Chiese neotestamentarie si organizzarono internamente in modi molto diversi; basta guardare alle comunità di Gerusalemme, Antiochia, Corinto e Roma.

In conclusione, secondo i dati esegetici di cui disponiamo, Gesù non pensava a una Chiesa futura provvista di determinate strutture organizzative (annunciò piuttosto l’arrivo di una trasformazione profonda del mondo che chiamava “Regno di Dio”, e comportava l’eliminazione di tutte le malattie e le ingiustizie, e la cui realizzazione era imminente).

Non affidò a Pietro nessuna missione da lasciare in eredità, per il futuro, a un “successore”, né costituì il gruppo dei Dodici perché guidassero la Chiesa o le Chiese, bensì per simboleggiare e promuovere la riunificazione finale degli ebrei della Diaspora. Di fatto, sembra certo che la maggior parte dei Dodici non guidò alcuna Chiesa e che, al contrario, alcuni che non rientravano tra i Dodici lo fecero: è il caso di Giacomo, il fratello di Gesù, a Gerusalemme, e il caso del Discepolo Amato che fu la figura di riferimento di importanti comunità; è il caso, in particolare, di Paolo, che fondò e “governò” numerose Chiese. Né nella mente di Gesù né nelle comunità del Nuovo Testamento incontriamo qualcosa che assomigli a un vescovo di Roma come “successore di Pietro”, e tanto meno a un “primato di giurisdizione” nel senso che sembra attribuirgli la Ut unum sint.

Ma (…) anche nel caso in cui il Gesù storico avesse conferito espressamente a Pietro la potestà di presiedere alla Chiesa in generale, per essere il fondamento e la garanzia della sua comunione, per pronunciare l’ultima parola in tutte le questioni di dottrina e di morale, saremmo per questo oggi, duemila anni dopo, vincolati a tale pratica e obbligati a mantenerla in quanto tale? Non significherebbe questo negare (…) l’“incarnazione” umana e storica di Dio in lui? Non ci condanneremmo a bloccare così l’azione dello Spirito e la trasformazione della nostra Chiesa e della storia?

4. Che modello di unità, di comunione e di ecumenismo?

“Che tutti siano uno”. Il titolo dell’enciclica riprende la preghiera di Gesù, citata sei volte nel testo (…). I termini “unità” o “unione” si ripetono circa 200 volte e altre 130 il termine “comunione”.

La domanda cruciale è: che modello di unione? È necessaria un’unità istituzionale organica e centralizzata? Un solo gregge sotto un solo pastore? Ut unum sint riconosce la necessità di superare il modello ecumenico impostosi durante il secondo millennio, centrato sulla figura di un papa plenipotenziario, ma resta legata a un modello eccessivamente romanocentrico e papista. (…).

La Chiesa romana continua a considerarsi il centro e la base. Seguendo la Lumen gentium e l’Unitatis redintegratio del Concilio Vaticano II, l’enciclica afferma che la Chiesa cattolica romana è quella in cui è custodita la pienezza della verità e, pertanto, la garanzia della piena comunione: «La Costituzione Lumen gentium in una sua affermazione fondamentale che il Decreto Unitatis redintegratio riecheggia, scrive che l’unica Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica. Il Decreto sull’ecumenismo sottolinea la presenza in essa della pienezza (plenitudo) degli strumenti di salvezza. La piena unità si realizzerà quando tutti parteciperanno alla pienezza dei mezzi di salvezza che Cristo ha affidato alla sua Chiesa (UUS 86).

Sono note le discussioni conciliari sfociate nella scelta del termine subsistit invece di est, volendo evitare la mera identificazione dell’unica Chiesa con la Chiesa cattolica romana. Lo fa anche la Ut unum sint, ma insistendo sul fatto che solo in essa si trova presente la pienezza salvifica. (…). Di più: «La Chiesa cattolica (…) sostiene che la comunione delle Chiese particolari con la Chiesa di Roma, e dei loro Vescovi con il Vescovo di Roma, è un requisito essenziale – nel disegno di Dio – della comunione piena e visibile» (UUS 97). Il Decreto Unitatis redintegratio non si esprimeva in questi termini così netti; lo avrebbe fatto di lì a poco la Dominus Jesus (2000).

(…). L’enciclica invita a rivedere il modo di esercitare il ministero papale, ma non contempla alcun cambiamento di modello di tale ministero né alcuna riduzione sostanziale dei poteri che i dogmi cattolici gli hanno attribuito nel secondo millennio: il primato e l’infallibilità. (…).

È così allora che il vescovo di Roma mantiene l’ultima parola: «L’autorità docente ha la responsabilità di esprimere il giudizio definitivo» (UUS 81). E rimane ben chiaro che il “Successore di Pietro” è l’unico abilitato, in ultima istanza, a «dichiarare ex cathedra che una dottrina appartiene al deposito della fede», per insegnare la verità.

(…). È un’enciclica sulla vera unità, sull’unione nella verità. Ma qui (…) le questioni si complicano. Che cos’è la verità? Chi la conosce? Può essere espressa una volta per tutte? Si afferma che «l’espressione della verità può essere multiforme», ma si aggiunge subito dopo che le nuove forme di espresssione devono presentare «il messaggio evangelico nel suo immutabile significato» (UUS 19). Un significato immutabile? Si tratta di una grave contraddizione, se, come è giusto, chiamiamo “significato” il senso (sempre parziale, culturale, storico) espresso in una o in tutte le parole. L’immutabile – ma esiste? È Dio stesso immutabile nel senso che diamo a questo termine? – sarebbe piuttosto, in ogni caso, il “referente”, il “senso sconosciuto e inesprimibile” a cui si riferiscono tutte le parole e che sempre le trascende. Il significato è ciò che dice la parola; il referente è ciò che la parola non riesce mai a dire del tutto. Il referente è la “verità”, il Mistero indicibile che nessuna parola umana è in grado di esprimere.

Qui tocchiamo il decisivo punto debole dell’enciclica sulla comunione. La quale dà per scontato che il significato immutabile possa identificarsi con la verità in sé, immutabile, e che il vescovo di Roma, e solo lui, possieda la facoltà di esprimerla in maniera piena. (…).

L’enciclica mantiene intatto il paradigma tradizionale, piramidale, gerarchico. Il potere sacro proviene dall’alto e si trasmette per successione gerarchica. È questo paradigma di fondo (…) a rendere il papato  – e, al di là di esso, ogni sistema ministeriale e ogni modello istituzionale cattolico e cristiano nel suo insieme – anacronistico e insostenibile. Non si tratta di applicare alcuni aggiustamenti e attualizzazioni al modo di esercitare il ministero, ma di concepirlo secondo un modello radicalmente distinto. (…).

5. Immaginiamo che papa Francesco…

Quattro anni e mezzo fa è stato eletto papa un vescovo “venuto da lontano”, argentino e gesuita, che ha voluto chiamarsi Francesco, che cammina con un altro portamento, parla con un altro garbo e un’altra freschezza, diffonde nel mondo di oggi un messaggio dagli accenti assai diversi da quelli a cui ci avevano abituato i due ultimi papi.

Certamente, muove passi nella giusta direzione con la sua freschezza e la sua libertà francescana, con il suo invito a essere «Chiesa in uscita», in esodo e in pellegrinaggio, in cammino di liberazione, «Chiesa che incontra cammini nuovi», «Chiesa povera, per i poveri e a partire dai poveri», «ospedale da campo» per qualunque ferito si presenti e non dogana religiosa, dottrinale o morale («chi sono io per giudicare?»); con la sua denuncia di un’«economia assassina» e il suo appello a una «rivoluzione della tenerezza» e al tempo stesso a una «coraggiosa rivoluzione culturale» (…); con la sua rinuncia al palazzo vaticano, al protocollo e al fasto; con la sua voluta autodenominazione come “vescovo di Roma” e la sua affermazione che non «si debba attendere dal magistero papale una parola definitiva o completa su tutte le questioni che riguardano la Chiesa e il mondo» e che «non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori» (Evangelii gaudium 16).

Non si è ancora concretizzata, tuttavia, alcuna riforma del ministero papale e di tutti i ministeri, del vecchio paradigma che li sostiene. Non sappiamo dove egli arriverà. Neppure sappiamo se realmente vorrà avanzare molto più in là di una reforma della Curia e del suo funzionamento, fino alla riforma effettiva e radicale del “ministero petrino”, fino a partorire un altro papato conforme all’attuale società democratica e alla Chiesa che sogniamo, profetica e vicina. E, nel caso volesse arrivare fin dove è necessario, non sappiamo se glielo permetterebbero i poteri e i timori, gli interessi inconfessati, le congiure occulte, i fronti di resistenza.

Il mio sogno è che un giorno, durante l’eucarestia quotidiana a Santa Marta, dopo aver proclamato il vangelo dell’invio dei dodici apostoli (Mt 10,5-13), papa Francesco si alzi e parli così:

“Che la pace sia con voi, sorelle, fratelli della Chiesa cattolica e di tutte le Chiese! Gesù ci ha inviato ad annunciare la pace e a curare, come pellegrini del mondo, senza bisaccia né bastone. Ci ha chiamato a essere Chiesa di sorelle e fratelli, Chiesa fraterna e compagna di tutti i poveri e i feriti lungo la strada.

Io non sono che il più piccolo dei vostri fratelli, ma la grazia del caso ha voluto pormi qui, come vescovo di Roma e come papa, carico di indumenti e di poteri eccessivi. È arrivato il momento di prendere una grossa decisione, arrischiata e tranquilla. Ci anima lo Spirito di Gesù, di Maria di Magdala e di Simon Pietro, di Francesco e di Chiara di Assisi. Siamo chiamati a essere semplici e coraggiosi, a muovere un passo che avremmo già dovuto compiere da secoli. È arrivato il momento di sciogliere la zavorra storica che ci impedisce di essere discepole/i di Gesù, profeti sognatori e sovversivi come lo è stato lui. Non voglio più parlarvi come un personaggio infallibile investito di poteri sacri, creazioni umane spurie. Prendete le mie parole come volete. Vi propongo, insieme e in pace, di reinventare o di ribaltare tutte le strutture che impediscono alla Chiesa di essere povera, libera e fraterna, senza dimenticare il passato né legarci ad esso, senza legarci neppure alle nostre sacre Scritture, bensì lasciandoci ispirare e spingere da queste. È il momento che la Chiesa sia totalmente democratica, attui la separazione dei poteri e sia governata da un sistema più rappresentativo della volontà della gente dei sistemi democratici vigenti, ostaggi del sistema finanziario.

E voglio che cominciamo dal papato, come sognò Giovanni Paolo I, come chiese Giovanni Paolo II in una frase dimenticata di un’enciclica, come rivendicò Benedetto XVI quando era un semplice teologo. Ritengo che i dogmi del primato giurisdizionale e dell’infallibilità papale, definiti dal Concilio Vaticano I, oggi non abbiano più senso e che non dobbiamo perderci in sottili disquisizioni per far loro dire il contrario di ciò che dicono alle orecchie di chiunque; ritengo che neppure sia necessario derogarli solennemente, ma riconoscerli semplicemente come schemi linguistici e produzioni umane di altri tempi, oggi inservibili, e lasciarli da parte con la stessa facilità con cui lo facciamo con immagini e idee che hanno smessi di esserci utili. E andare avanti.

E per andare avanti per una nuova strada, voglio rinunciare e rinuncio a tutti i titoli che il sogno di grandezza è andato attribuendo al vescovo di Roma: Sommo Pontefice, Vicario di Cristo, Successore di Pietro, Santo Padre, Papa. Voglio spogliarmi di ogni fasto e orpello vaticano, povere spoglie umane della storia, la nostra storia istituzionale spesso così poco evangelica. E in nessun modo voglio più essere il presidente di uno Stato con tutto l’apparato di nunzi e ambasciatori e relazioni di potere.

Voglio che nessuno sia vescovo per designazione del vescovo di Roma, e che ogni vescovo o vescova non sia altro che il o la rappresentante della sua comunità cristiana, e che questa lo o la scelga in un modo che dobbiamo concretizzare e definire tutti insieme e che lo sia solo per un certo tempo.

Voglio che il vescovo o la vescova di Roma sia, come il vescovo di qualunque altra diocesi, scelto/a dai cristiani e dalle cristiane di Roma, e che non torni più ad avere potere sugli altri vescovi della Chiesa che chiamiamo cattolica, e tanto meno sulle altre Chiese che chiamiamo “sorelle separate” e che dobbiamo chiamare “sorelle” e basta.

Voglio che si dia un grande passo avanti nel cammino verso l’ecumenismo in cui ci troviamo incagliati da un secolo. È un piccolo semplice passo. Basta che tutte le Chiese, a cominciare dalla “Chiesa cattolica”, si riconoscano reciprocamente come vere Chiese di Gesù, senza esigere che cambino le particolarità di ciascuna. Che si riconoscano in profonda comunione spirituale ed evangelica benché siano diverse le loro dottrine e le loro istituzioni. E che preghino tutti i giorni per chiedere, alimentare, accogliere tra loro la massima unità nella maggiore diversità. E che, dal mutuo riconoscimento fraterno e sororale, le Chiese creino le nuove strutture di “comunione”, di rappresentanza e di coordinamento che sembrino loro più convenienti. E con questo basta, sorelle, fratelli. Torniamo a Gesù. Cominciamo da capo. Nel nome di Gesù. Amen”.

Cristo in maestà tra gli evangelisti, Presbiterio della Chiesa di Santa Maria del Castello (Giornico – CH), immagine originale e licenza

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altri nemici per papa Francesco per le sue parole contro l’ accanimento terapeutico

‘fine vita’

l’apertura procura a Francesco nuovi nemici

“è di sinistra ed eretico”

Fine vita, l’apertura procura a Francesco nuovi nemici: “È di sinistra ed eretico”
Reazioni contrapposte nei sacri palazzi, tra chi prova a depotenziare le parole del pontefice e chi lo attacca. Dopo 5 anni di pontificato è sempre più evidente la frattura tra Bergoglio e una parte consistente della Curia. “Ci fa soffrire questo volerci separare da lui – getta acqua sul fuoco monsignor Becciu, sostituto della Segreteria di Stato – dispiace che l’esprimersi liberamente sia interpretato come un esprimersi in contrasto”
In Vaticano Papa Francesco non ha per nulla vita facile. Le sue parole sul fine vita, pronunciate proprio mentre al Senato è bloccato da tempo il ddl sul Biotestamento, hanno suscitato reazioni contrapposte tra gli inquilini dei sacri palazzi, aumentando la fronda, già ben consistente, dei suoi nemici. Da un lato ci sono coloro che vogliono depotenziare la portata storica delle aperture fatte da Bergoglio. “Il Papa si è limitato a ribadire la dottrina della Chiesa. Stop. Non c’è nulla di nuovo. Sono i media che continuano a costruire il ritratto di un Pontefice comunista”, si lascia scappare un alto prelato della Curia romana esperto di bioetica.Dall’altro lato c’è chi, proprio in Vaticano, non sembra per nulla essere della stessa opinione. “Oltre che di sinistra, è pure eretico. Ma questa – sottolinea un arcivescovo coetaneo di Bergoglio – non è una scoperta di oggi. Ai ‘dubia’ sulle aperture ai divorziati risposati il Papa non ha risposto e ora, dopo più di un anno, il cardinale Burke è tornato alla carica chiedendo con forza al Papa di rispondere”. Prova a gettare acqua su fuoco, invece, il sostituto della Segreteria di Stato, ovvero il “ministro dell’Interno” vaticano, monsignor Giovanni Angelo Becciu, precisando che dopo le affermazioni di Francesco sul fine vita “non cambia niente, il rifiuto dell’accanimento terapeutico era già previsto da Pio XII”.Il presule, però, ammette che “le parole del Papa avranno un peso in Italia, ma quando interviene Francesco non può sempre avere di mira l’Italia e i suoi momenti politici. È un discorso a tutto il mondo e questa assemblea dei medici era prevista da tanto tempo, non da quando hanno deciso di progettare la discussione sul fine vita nel Parlamento italiano. La tabella del Papa non si può misurare con i programmi della politica italiana”. Sarà, eppure proprio nella Curia romana c’è chi fa notare che quello sul fine vita non è stato un discorso pronunciato, magari a braccio, da Francesco, bensì un messaggio che si è avuto tutto il tempo di vagliare con cura ed era molto prevedibile la ricaduta politica che ci sarebbe stata soprattutto in Italia.Così come non manca, sempre in Vaticano, chi pone l’accento sullo stridente contrasto tra la bocciatura netta che aveva fatto la Conferenza Episcopale Italiana al ddl sul Biotestamento e le aperture del Papa. Era stato proprio il segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino, a tuonare: “Una legge che riguarda l’eutanasia, che riguardi questo ambito particolare, la dichiarazione di fine vita, una legge che attribuisce tutto il potere all’autodeterminazione della persona, evidentemente non può essere accettata. Una legge che smonta quella sorta di alleanza tra paziente, medico e famigliari finisce per essere soltanto il trionfo, ancora una volta, dell’individualismo su questa realtà”.  In cinque anni di pontificato è ormai sempre più evidente la frattura tra Bergoglio e una parte consistente della Curia romana. “Un po’ ci fa soffrire questo volerci separare dal Papa, – afferma Becciu – quando noi invece siamo lì a dare la nostra vita per lui. È chiaro che in Curia possiamo esprimere idee diverse, ma è un contributo per rendere la Chiesa migliore. È normale che ci si esprima. Però ho notato che c’è obbedienza totale. Dispiace che l’esprimersi liberamente sia interpretato come un esprimersi in contrasto con il Papa. Ma c’è unità piena in Curia”. Anche se poi aggiunge: “Mi fa male sentire che il Papa è eretico. Non so che cosa sta succedendo ad alcuni”.

Un invito a “considerare la reale portata del messaggio di Francesco” arriva da padre Carmine Arice, superiore generale della Società dei Sacerdoti del Cottolengo e per cinque anni direttore dell’Ufficio Nazionale per la pastorale della salute della Cei. “Il Papa – afferma il sacerdote nominato dal Segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, membro della Pontificia Commissione per le attività del settore sanitario – conferma il magistero della Chiesa in materia di fine vita, sia quello suo che dei suoi predecessori con una sottolineatura importante: tenere conto dell’apporto dei mezzi tecnico scientifici che la medicina ha acquisito e dunque non abusare in modo sproporzionato di essi. Inoltre, Francesco dà al paziente la vera centralità nel processo decisionale in dialogo con i medici e con quanti lo assistono anche per quello che riguarda le scelte terapeutiche opportune”. Per Arice, inoltre, è “chiara anche la condanna dell’eutanasia che è, come ha sottolineato il Papa, interruzione della vita procurando la morte”.

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la povertà dei giovani – i figli stanno peggio dei genitori e i nipoti peggio dei nonni

più sei giovane, più sei povero

di Roberto Ciccarelli
in “il manifesto” del 18 novembre 2017

I figli stanno peggio dei genitori e i nipoti peggio dei nonni. Ad ogni passaggio di testimone tra le generazioni la disuguaglianza aumenta, mentre la povertà cresce al diminuire dell’età. Più sei giovane, più sei precario

Negli anni corrispondenti alle politiche dell’austerità – gli ultimi cinque – questo dato strutturale prodotto dalla crisi finanziaria è esploso, colpendo più i giovani tra i 15 e i 34 anni rispetto agli over 65. Lo sostiene il rapporto su povertà giovanile ed esclusione sociale 2017 «Futuro anteriore», presentato ieri al circolo della Stampa Estera di Roma dalla Caritas italiana.

Un giovane su dieci vive in uno stato di povertà assoluta in Italia. Nel 2007 la proporzione era completamente diversa: era solo uno su cinquanta. Nei dieci anni successivi sono diminuiti i poveri tra gli over 65 (da 4,8% a 3,9%). Tornando indietro nel tempo, rispetto al 1995 il divario di ricchezza tra giovani e anziani si è ampliato: la ricchezza media delle famiglie con capofamiglia di 18-34 anni oggi è meno della metà, mentre quella delle famiglie con capofamiglia con almeno 65 anni è aumentata di circa il 60%. Si presuppone allora che il capofamiglia ultra-sessantenne sia il padre, o comunque un parente, di quello con meno di 34 anni. Questo significa che il primo sostiene il secondo, condividendo risorse e rendite necessarie per proteggere il nucleo ostaggio dei ricatti della precarietà: dall’affitto alla rata dell’asilo, dal sostegno economico in caso di lavori intermittenti o di spese per la nascita di un figlio. È il «welfare parentale» che sostituisce quello «sociale» esploso a causa delle riforme, dei tagli e della negazione dei diritti universali. L’Italia del 2017, in poche parole.

La Caritas osserva la situazione dai «Centri di ascolto in rete». Nel 2016 sono state 205.090 le persone che hanno chiesto qui ciò che non trovano sul «mercato» e non ottengono dallo Stato: un reddito e una tutela. Il 22,7% ha meno di 34 anni. Le richieste sono maggiori a Nord (46%), dove vivono più stranieri, il 33,7% nel Centro, il 20,2% al Sud. Oltre il 43% si è rivolto ai centri per la prima volta. La crisi per loro non è finita, moltiplica silenziosamente i suoi effetti mentre ai piani alti continuano a parlare di una «crescita» che non produce né occupazione fissa, né un’oncia di redistribuzione.

Lo status familiare degli under 34 va compreso meglio. Per la Caritas prevalgono le famiglie «tradizionali» con coniugi e figli (35%), seguite da quelle «uni-personali» (25,7%), in netto aumento rispetto al 2015. Formula macchinosa, e involontariamente parodistica, che significa: persona sola, single, disaffiliato. Persona che potrebbe vivere in coppia, ma si presenta come un individuo e non rientra nel welfare statale, né nelle statistiche. È ragionevole pensare che questa condizione – di «apolide» – sia quella più ricorrente in un paese come il nostro dove non si ha il coraggio di considerare il «precario» come soggetto di diritto, preferendo identificarlo con la «famiglia». Per queste «famiglie di se stessi» non è previsto un sostegno. Nemmeno il miserabile «reddito di inclusione» che il ministro del lavoro Poletti si è affrettato a garantire dal primo dicembre. Stando ai dati della Caritas non andrà nemmeno a gran parte delle famiglie «tradizionali», salvo che non abbiano fino a cinque figli e siano povere «assolute»

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“vi chiedo scusa” – papa Francesco chiede perdono ai poveri

papa Francesco

le scuse ai poveri

 Se Dio è venuto a capovolgere le gerarchie e le priorità dell’uomo, la Chiesa è se stessa solo se sta dalla parte dei poveri e ne condivide le sofferenze. Scandalizza sia quando si disinteressa di loro mentre rende onori ai potenti in cambio di sovvenzioni e privilegi fiscali sia quando organizza servizi assistenziali dall’alto e dal di fuori. Il paternalismo rende il cibo molto amaro. Il grande dramma della chiesa è che si crede nel giusto imitando le tecniche di sopravvivenza proprie delle classi agiate. Ha introiettato la sua sottocultura e la sua antievangelica visione antropologica.

 Con i poveri sembra trovarsi in imbarazzo. Si infastidisce più per le loro pretese che per la corruzione di un amministratore pubblico. Non si fa problemi a stringere la mano di dittatori o guerrafondai democratici, mentre evita quella dei senzanome che si trovano appena fuori dalla porta. Accetta doni e riconoscimenti da imprenditori senza scrupoli mentre si tiene ben lontano dalle proteste di licenziati e precari. La vediamo continuamente protesa in uno sforzo di compatibilità con il potere nonostante la sua devastante perfidia sociale. Preferisce l’accordo con i potenti al sostegno delle rivendicazioni dei poveri.  Continua ad attribuire all’esterno la colpa della perdita di credibilità non accorgendosi che il problema sta nella imbarazzante contraddizione della sua vocazione. Siamo costretti a cercare testimoni credibili e facciamo fatica a trovarli. È un duro lavoro perché occorre far riemergere dalla polvere e dal pregiudizio i loro testi e poter così riascoltare la loro voce profetica spesso zittita a suo tempo dalla gerarchia. E torniamo così a respirare. Altre volte capita invece che a distanza di anni o secoli, la Chiesa si riappropri di un messaggio che aveva prima ostacolato. Di solito succede quando non può più incidere nella realtà oltre la sala convegni dove viene celebrata la tardiva e inutile riabilitazione.

 

Testo di Papa Francesco

“E vi chiedo scusa se vi posso aver qualche volta offeso con le mie parole o per non aver detto le cose che avrei dovuto dire. Vi chiedo perdono a nome dei cristiani che non leggono il Vangelo trovando la povertà al centro. Vi chiedo perdono per tutte le volte che noi cristiani davanti a una persona povera o a una situazione di povertà guardiamo dall’altra parte. Scusate.

Il vostro perdono per uomini e donne di Chiesa che non  vogliono guardarvi o non hanno voluto guardarvi, è acqua benedetta per noi; è  pulizia per noi; è aiutarci a tornare a credere che al cuore del Vangelo c’è la povertà come grande messaggio, e che noi – i cattolici, i cristiani, tutti – dobbiamo formare una Chiesa povera per i poveri; e che ogni uomo e donna di qualsiasi religione deve vedere in ogni povero il messaggio di Dio che si avvicina e si fa povero per accompagnarci nella vita”.

(Papa FrancescoDiscorso aipartecipanti al Giubileo delle persone socialmente escluse, 11/11/2016)

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il commento al vangelo della domenica

SEI STATO FEDELE NEL POCO, PRENDI PARTE ALLA GIOIA DEL TUO PADRONE! 

commento al vangelo della trentatreesima domenica del tempo ordinario (19 novembre 2017) di p. E. Bianchi:

Mt 25,14-30

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talent, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi part.
Subito colui che aveva ricevuto cinque talent andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevut due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro.
Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talent e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talent; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, t darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talent e disse: “Signore, mi hai consegnato due talent; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, t darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”.
Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto afdare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritrato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talent. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutle getatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di dent”».

 

La parabola dei talenti proposta dalla liturgia odierna è una parabola che, secondo il mio povero parere, oggi è pericolosa: pericolosa, perché più volte l’ho sentita commentare in un modo che, anziché spingere i cristiani a conversione, pare confermarli nel loro attuale comportamento tra gli altri uomini e donne, nel mondo e nella chiesa. Dunque forse sarebbe meglio non leggere questo testo, piuttosto che leggerlo male…

In verità questa parabola non è un’esaltazione, un applauso all’efficienza, non è un’apologia di chi sa guadagnare profitti, non è un inno alla meritocrazia, ma è una vera e propria contestazione verso il cristiano che sovente è tiepido, senza iniziativa, contento di quello che fa e opera, pauroso di fronte al cambiamento richiesto da nuove sfide o dalle mutate condizioni culturali della società. La parabola non conferma neppure “l’attivismo pastorale” di cui sono preda molte comunità cristiane, molti “operatori pastorali” che non sanno leggere la sterilità di tutto il loro darsi da fare, ma chiede alla comunità cristiana consapevolezza, responsabilità, laboriosità, audacia e soprattutto creatività. Non la quantità del fare, delle opere, né il guadagnare proseliti rendono cristiana una comunità, ma la sua obbedienza alla parola del Signore che la spinge verso nuove frontiere, verso nuovi lidi, su strade non percorse, lungo le quali la bussola che orienta il cammino è solo il Vangelo, unito al grido degli uomini e delle donne di oggi quando balbettano: “Vogliamo vedere Gesù!” (Gv 12,21).

Leggiamo allora con intelligenza questa parabola la cui prospettiva – lo ripeto – non è economica né finanziaria; essa non è un invito all’attivismo ma alla vigilanza che resta in attesa, non contenta del presente ma tutta protesa verso la venuta del Signore. Egli non è più tra di noi, sulla terra, è come partito per un viaggio e ha affidato ai suoi servi, ai suoi discepoli un compito: moltiplicare i doni da lui fatti a ciascuno. Nella parabola, a due servi il Signore ha lasciato molto, una somma cospicua – cinque lingotti di argento a uno, due a un altro –, affinché la facciano fruttificare; a un terzo servo ha lasciato un solo lingotto, che comunque non è poco. In tutti egli ha messo la sua fiducia senza limiti, confidando loro i suoi beni. Spetta dunque ai servi non tradire la grande fiducia del padrone e operare una sapiente gestione dei beni, non di loro proprietà ma del padrone, il quale al suo ritorno darà loro la ricompensa. A ciascuno il padrone da in funzione della sua capacità, e il suo dono è anche un compito: custodire e far fruttificare.

Al di là dell’immagine dei talenti, che cos’è questo dono, in definitiva? Secondo Ireneo di Lione è la vita accordata da Dio a ogni persona. La vita è un dono che non va assolutamente sprecato, ignorato o dissipato. Purtroppo – dobbiamo constatarlo – per alcuni la vita non ha alcun valore: non la vivono, anzi la sprecano e la sciupano “fino a farne una stucchevole estranea” (Konstantinos Kavafis), e così si lasciano vivere. Eppure si vive una volta sola e il farlo con consapevolezza e responsabilità è decisivo al fine di salvare una vita o perderla! Secondo altri padri orientali, i talenti sono le parole del Signore affidate ai discepoli perché le custodiscano, certo, ma soprattutto le rendano fruttuose nella loro vita, le mettano in pratica fino a seminarle copiosamente nella terra che è il mondo. Di nuovo, è questione di vita, di “scegliere la vita” (cf. Dt 30,19).

“Dopo molto tempo” – allusione al ritardo della parusia, della venuta gloriosa del Signore (cf. Mt 24,48; 25,5) – il padrone ritorna e chiede conto della fiducia da lui riposta nei suoi servi, i quali devono mostrare la loro capacità di essere responsabili, in grado cioè di rispondere della fiducia ricevuta. Eccoli dunque presentarsi tutti davanti a lui. Colui che aveva ricevuto cinque talenti si è mostrato operoso, intraprendente, capace di rischiare, si è impegnato affinché i doni ricevuti non fossero diminuiti, sprecati o inutilizzati; per questo, all’atto di consegnare al padrone dieci talenti, riceve da lui l’elogio: “Bene, servo buono e fedele, … entra nella gioia del tuo Signore”. Lo stesso avviene per il secondo servo, anche lui in grado di raddoppiare i talenti ricevuti. Per questi due servi la ricompensa è proporzionalmente uguale, anche se le somme affidate erano diverse, perché entrambi hanno agito secondo le loro capacità.

Viene infine colui che aveva ricevuto un solo talento, il quale mette subito le mani avanti, manifestando il pensiero che lo ha paralizzato: “Da quando mi hai dato il talento, io sapevo che sei un uomo duro, esigente, arbitrario, che fa ciò che vuole, raccogliendo anche dove non ha seminato”. Con queste sue parole (“dalle tue parole ti giudico”, si legge nel testo parallelo di Lc 19,22) il servo confessa di essersi fabbricato un’immagine distorta del Signore, un’immagine plasmata dalla sua paura e dalla sua incapacità di avere fiducia nell’altro: egli considera il padrone come qualcuno che gli fa paura, che chiede una scrupolosa osservanza di ciò che ordina, che agisce in modo arbitrario. Avendo questa immagine in sé, ha scelto di non correre rischi: ha messo al sicuro, sotto terra, il denaro ricevuto, e ora lo restituisce tale e quale. Così rende al padrone ciò che è suo e non ruba, non fa peccato… Ma ecco che il Signore va in collera e gli risponde: “Sei un servo malvagio (ponerós) e pigro (oknerós). Malvagio perché hai obbedito all’immagine perversa del Signore che ti sei fatta, e così hai vissuto un rapporto di amore servile, di amore ‘costretto’. Per questo sei stato pigro, inaffidabile, non hai avuto né il cuore né la capacità di operare secondo la fiducia che ti avevo accordato. Non hai fatto neanche lo sforzo di mettere il talento in banca, dove sarebbe stato fruttuoso, dandomi interessi. Non hai avuto cura del mio bene affidato a te”.

Sì, lo sappiamo: è più facile seppellire i doni che Dio ci ha dato, piuttosto che condividerli; è più facile conservare le posizioni, i tesori del passato, che andarne a scoprire di nuovi; è più facile diffidare dell’altro che ci ha fatto del bene, piuttosto che rispondere consapevolmente, nella libertà e per amore. Ecco dunque la lode per chi rischia e il biasimo per chi si accontenta di ciò che ha, rinchiudendosi nel suo “io minimo”. Questo servo non ha fatto il male; peggio ancora, non ha fatto niente! Dunque davanti a Dio nel giorno del giudizio compariranno due tipi di persone:

chi ha ricevuto e ha fatto fruttificare il dono,
chi lo ha ricevuto e non ha fatto niente.

I servi fedeli entreranno nella gioia del Signore; chi invece è stato “buono a nulla” (achreîos) sarà spogliato anche dei meriti che pensava di poter vantare!

Ma a me piacerebbe che la parabola si concludesse altrimenti: così sarebbe più chiaro il cuore del padrone, mentre il cuore del discepolo sarebbe quello che il padrone desidera. Oso dunque proporre questa conclusione “apocrifa”:

Venne il terzo servo, al quale il padrone aveva confidato un solo talento, e gli disse: “Signore, io ho guadagnato un solo talento, raddoppiando ciò che mi hai consegnato, ma durante il viaggio ho perso tutto il denaro. So però che tu sei buono e comprendi la mia disgrazia. Non ti porto nulla, ma so che sei misericordioso”. E il padrone, al quale più del denaro importava che quel servo avesse una vera immagine di lui, gli disse: “Bene, servo buono e fedele, anche se non hai niente, entra pure tu nella gioia del tuo padrone, perché hai avuto fiducia in me”.

Anche così la parabola sarebbe buona notizia!

 

di seguito il commento in video di p. Maggi:

 

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l’accordo con la Libia va cancellato

basta finanziare gli aguzzini

cancellare l’accordo

di Francesca Chiavacci e Filippo Miraglia
in “il manifesto” del 16 novembre 2017

Nelle ultime ore gli effetti dell’accordo del nostro governo con la Libia si sono materializzati davanti a tutto il mondo. Prima i 50 morti provocati dal comportamento della guardia costiera libica. Che cerca di impedire alla nave della Ong Sea Watch di prestare soccorso. Poi la denuncia del Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite che accusa esplicitamente il governo e l’Unione Europea di essere corresponsabili dei crimini che vengono commessi nei lager libici. E ancora, le terribili immagini dei migranti venduti come schiavi, probabilmente dalle stesse milizie con cui ha trattato il ministro Minniti. Da ultimo, la denuncia alla Corte Internazionale dell’Aja per crimini contro l’umanità del generale Khalifa Haftar, uno degli autorevoli interlocutori del ministro.

Un quadro terribile, che conferma la sistematica violazione dei diritti umani nel paese che l’Italia ha rifornito di armamenti e soldi per fermare i flussi migratori. Salvare i migranti da quell’inferno, interrompere i finanziamenti – trovati attingendo ai fondi per la cooperazione – è ormai un imperativo. Non ci si può dire preoccupati per le sorti di chi viene ricacciato in Libia e allo stesso tempo finanziarne gli aguzzini. In questi giorni il nostro Parlamento discute la legge di bilancio, che prevede risorse per la cooperazione allo sviluppo che in realtà vengono utilizzate per tutt’altri fini. In particolare, il Maeci (Ministero affari esteri, Cooperazione internazionale) ha istituito un fondo straordinario per l’Africa per il 2017, con una dotazione di 200 milioni di euro, volto a finanziare interventi di cooperazione allo sviluppo e di controllo e prevenzione dei flussi di migranti irregolari. Fondi che sono stati in parte finalizzati a progetti specifici nei principali paesi interessati dalla rotta del Mediterraneo Centrale – Niger, Libia e Tunisia in particolare – in parte sono invece transitati per il contenitore europeo dei Fondi Fiduciari per poi arrivare direttamente nelle casse dei Paesi africani coinvolti. Un sistema di vasi comunicanti – sia tra Italia e Europa, che tra il Maeci e il Ministero degli Interni – che rende ancora più difficile il monitoraggio del loro utilizzo. È però evidente che l’utilizzo reale del Fondo per l’Africa ha poco a che vedere con l’obiettivo dello sviluppo previsto dalla legge. Le risorse più ingenti sono infatti quelle stanziate per il contrasto all’immigrazione e il controllo delle frontiere. L’esempio più esplicito del sistema di vasi comunicanti è il fondo allocato per il Niger, con cui questo paese s’impegna a creare nuove unità specializzate necessarie al controllo dei confini. Una militarizzazione delle frontiere che obbliga i migranti a uscire dalle rotte abituali, aumentandone i rischi e trasformando così il deserto, come già il Mediterraneo, in un cimitero a cielo aperto. Il fondo per l’Africa è dunque diventato lo strumento centrale per l’esternalizzazione delle frontiere, affidando a paesi che violano sistematicamente i diritti umani l’intercettazione dei migranti per deportarli in luoghi dove sono esposti a trattamenti violenti e disumani.

L’esempio più lampante, come riportano le tante denunce documentate, è quello della Libia, per la quale il Maeci stanzia dieci milioni, gestiti dal Ministero degli Interni italiano, che si aggiungono agli altri due milioni e 500mila euro forniti per la riparazione di quattro motovedette assegnate alla guardia costiera libica perché svolga la sua violenta opera di intercettamento e respingimento. Con gli stessi obiettivi, dodici milioni sono stati destinati al governo tunisino per il pattugliamento delle zone costiere e delle frontiere terrestri. Con questo utilizzo dei fondi l’Italia viola le Convenzioni Internazionali, affidando ad altri Paesi i respingimenti sistematici di cittadini stranieri, potenziali richiedenti protezione internazionale.
Chiediamo che sia cancellato l’accordo con la Libia e che le risorse previste per la cooperazione vengano destinate all’aiuto allo sviluppo, come prevede la legge, e non utilizzate per finanziare strumenti di controllo e di militarizzazione delle frontiere africane.

* Francesca Chiavacci è presidente nazionale Arci

* * Filippo Miraglia è presidente Arcs

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