al di là dello ‘ius soli’ – una cittadinanza ampia come il mondo

la cittadinanza globale

 

“Il riconoscimento dello ius soli non è che il primo passo (per alcuni addirittura superato) di un processo, già in atto nei fatti, di universalizzazione della cittadinanza. I cittadini del terzo millennio hanno infatti una percezione dell’appartenenza che ha come orizzonte il mondo”

di Giannino Piana
in “Rocca” n. 21 del 1 novembre 2017

Il dibattito che si è sviluppato nel nostro Paese, in questi ultimi mesi, attorno allo ius soli ha visto la presenza di una serie variegata di opinioni, che vanno dal suo pregiudiziale respingimento alla richiesta di clausole mortificanti che tendono a limitarne di molto la possibile applicazione, fino alla sua piena ammissione, da parte di un numero, purtroppo non molto ampio, di forze politiche e di cittadini. Rifiuto e diffidenza ascrivibili a motivazioni di ordine diverso – dai rigurgiti xenofobi e razzisti a paure indotte dal confronto con la diversità, dall’incremento della malavita e dalla minaccia sempre incombente del terrorismo – manifestano l’esistenza di uno stato di disagio diffuso, che non può essere sottaciuto. Sono comprensibili alcune delle ragioni di tale disagio, ma non si può negare che la reazione negativa nei confronti dell’approvazione dello ius soli costituisce una forma di grave anacronismo; rivela, in altri termini, la presenza di un atteggiamento miope, l’incapacità di comprendere i cambiamenti in atto sullo scenario mondiale e di fare i conti con l’inarrestabilità dei processi in corso. Il fenomeno della globalizzazione, che procede con ritmo accelerato, e la caduta delle distanze fisico-geografiche, dovute ai nuovi mezzi di locomozione, favoriscono rapidi trasferimenti di intere popolazioni, soprattutto dal Sud del mondo, e danno luogo a veri e propri esodi dovuti a situazioni di guerra o a condizioni di estrema povertà. contraddizioni e dati preoccupanti L’area dell’interscambio sociale e culturale si è dunque sempre più dilatata fino a raggiungere dimensioni mondiali, sia per l’avanzare di un unico mercato sia per l’affermarsi di un sistema informativo che, grazie alle reti telematiche e al web, dà origine a una società multietnica e multiculturale. Non può pertanto che sorprendere la crescita di forme esasperate di particolarismo e di provincialismo, di settarismo e di nazionalismo, che coinvolgono una parte consistente della popolazione italiana, spesso influenzata dagli interventi scandalistici dei media, che indulgono nella descrizione di episodi incresciosi, alimentando le paure e suscitando atteggiamenti e comportamenti ispirati a una forma di chiusura corporativa e caratterizzati dal respingimento di ogni diversità. Un ruolo particolare riveste, in questo quadro, la politica, che non esita a cavalcare gli istinti meno nobili della gente, in vista della ricerca del consenso. L’attuale periodo preelettorale costituisce un’occasione propizia per il perseguimento di questo obiettivo. Questo spiega la volgarità delle prese di posizione di alcuni partiti – la Lega in particolare (ma, in certa misura, l’intero centrodestra) – nei confronti dello ius soli. I toni apocalittici adottati da uomini politici – Salvini in primis – che insistono sulle ricadute catastrofiche dell’approvazione della legge in questione risentono di questo clima; sono dettate cioè da fini elettoralistici. La scorrettezza morale di questo comportamento è evidente: in gioco vi è la stessa credibilità della politica, già fortemente minata da episodi scandalistici (e non solo), che ne hanno gravemente compromessa l’immagine. La violenza con cui in alcuni strati della popolazione si è reagito (e si reagisce) alla proposta di riconoscimento dello ius soli non è esente, d’altronde, da evidenti contraddizioni. Non sono pochi coloro che danno personalmente scarso rilievo alla cittadinanza, non riconoscendone l’importanza e non assumendosi soprattutto doveri e responsabilità che da essa derivano, e si oppongono, nello stesso tempo, alla condivisione di questo diritto, rifiutando di estenderlo ad altri cittadini nati nella stessa nazione. l’importanza della cittadinanza L’acquisizione del diritto di cittadinanza riveste una grande importanza per la vita della persona: si tratta infatti della dimensione politica della vita personale. Chi non è riconosciuto come cittadino, nei suoi diritti e nei suoi doveri, dalla comunità in cui vive è come se non esistesse nello spazio pubblico. A subentrare è dunque una condizione di marginalità, che, oltre ad impedire ogni forma di partecipazione civile per l’impossibilità di esercitare alcuni fondamentali diritti – in primo luogo quello di voto – genera uno stato di disagio esistenziale, che si traduce nel rifiuto di ogni forma di integrazione e può talora sfociare in forme di violenza. Al di là delle motivazioni di ordine morale, che hanno senz’altro il primato – il diritto di
cittadinanza è conseguenza diretta (e necessaria) dal riconoscimento della uguaglianza e della pari dignità di ogni persona umana e riveste dunque il carattere di un vero imperativo etico – esistono pertanto anche ragioni di opportunità politica che non vanno sottovalutate, se si considera, ad esempio, che molti degli autori delle recenti stragi di matrice islamica sono emigrati di seconda generazione, che, nonostante siano nati nei vari Paesi europei, sperimentano una situazione di estraneità, la quale favorisce la coltivazione di sentimenti di ostilità e di odio nei confronti della nazione, in cui si sono trovati, fin dall’inizio della loro esistenza, inseriti. verso una cittadinanza universale Il riconoscimento dello ius soli non è, d’altronde, che il primo passo (per alcuni addirittura superato) di un processo, già in atto nei fatti, di universalizzazione della cittadinanza. I cittadini del terzo millennio hanno infatti una percezione dell’appartenenza che ha come orizzonte il mondo. La sfida da affrontare è dunque la costruzione di una nuova democrazia cosmopolitica, nella quale prenda forma una cittadinanza, che separi il popolo (demos) dall’etnia di appartenenza (ethnos); che sappia, in altri termini, coniugare popolo multietnico e cittadinanza globale. Le resistenze sono, in proposito, molte e di grande entità. La causa principale è costituita dal persistere del concetto di Stato-nazione, che provoca una situazione di chiusura astorica, non soltanto negativa ma anche inefficace. Negativa, perché l’assolutismo nazionalista preclude la possibilità di uno scambio allargato tra i vari ambiti della vita sociale e lo sviluppo di un confronto arricchente tra culture diverse. Inefficace, perché in realtà i processi in atto, tanto in campo economico che informativo e culturale, scavalcano ampiamente le frontiere delle singole nazioni e rendono del tutto impotenti gli interventi da esse assunti per regolarne il flusso. l’esempio negativo dell’Europa A riprova di questa situazione è sufficiente richiamare qui la condizione di stallo in cui versa oggi l’Europa. La difficoltà a creare condizioni di effettiva convergenza sul terreno sociopolitico è dovuta all’assenza della volontà da parte degli Stati che compongono l’Unione di identificare una piattaforma di obiettivi comuni e di rinunciare a parte del loro potere per consegnarlo a una autorità superiore – quella europea – e fare fronte insieme ai numerosi e complessi problemi emergenti che esigono prese di posizione allargate, le sole in grado di incidere sul tessuto internazionale e mondiale. Non si può che condividere, al riguardo, il giudizio di Donald Sassoon, il quale non manca di segnalare il paradosso che caratterizza l’atteggiamento di molti nei confronti del progetto europeo. «Al momento – egli scrive – lo Stato-nazione è ancora il riferimento principale in materia di identità politica per la maggior parte degli europei, anche se esiste un rigetto crescente verso i politici nazionali. Il paradosso è che sarebbe legittimo aspettarsi che gli europei, delusi della politica nazionale, guardino all’Unione Europea; invece succede che la collera contro la classe politica si trasforma in opposizione contro l’Europa e in sostegno alle destre nazionaliste» (Stati-nazione d’Europa, Il Sole 24 ore, 19 marzo 2017, p. 29). L’assenza di un patriottismo europeo e la scarsa attenzione delle istituzioni europee alla dimensione sociale, con l’inevitabile accentuarsi delle diseguaglianze tra le nazioni, sono fattori che spiegano senza dubbio in parte questa diffidenza, ma non si può negare che, accanto ad essi, sussistano forme pericolose di particolarismo e di provincialismo, che denunciano l’incapacità di prendere consapevolezza di quanto già succede e di guardare, con lungimiranza e coraggio, in avanti. Ben venga, dunque (senza troppe restrizioni) lo ius soli, «l’offerta di cittadinanza – come ha ricordato di recente papa Francesco – slegata da requisiti economici e linguistici». È un primo importante passo dal quale non si può, nella situazione attuale del nostro Paese, prescindere. Ma l’obiettivo a cui tendere, e che appare sempre più necessario, stante la presenza indiscussa di un universalismo inarrestabile, è l’affermarsi di un «orizzonte postnazionale» – come lo definisce Habermas – che ha quale sbocco la realizzazione di una cittadinanza globale volta a garantire a tutti gli uomini e a tutti i popoli una positiva convivenza in una società mondiale solidale e pacifica.




disarmare il mondo non può essere un miraggio utopico

papa Francesco

il disarmo integrale non è un’utopia

non utopia, ma sano realismo

cl

Le armi nucleari producono “catastrofiche conseguenze umanitarie e ambientali”, e sono la conseguenza della “logica di paura” che affligge il pianeta. È il grido d’allarme di Papa Francesco, che ricevendo oggi (10 novembre) in udienza i partecipanti al Simposio internazionale sul disarmo, promosso dal Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, sul tema: “Prospettive per un mondo libero dalle armi nucleari e per un disarmo integrale”, ha condannato con fermezza la minaccia dell’uso delle armi nucleari – ormai diffuso anche via Internet – ma ha anche esortato a mettere da parte il “fosco pessimismo” a favore di un “sano realismo”. Come quello che ha portato alla recente “storica votazione” all’Onu sulle armi nucleari come illegittimo strumento di guerra. A 50 anni dalla Populorum progressio, “lo sviluppo integrale è la strada del bene che la famiglia umana è chiamata a percorrere”. E il disarmo integrale, auspicato da Giovanni XXIII nella Pacem in terris, attende ancora di essere realizzato. Al Simposio, in corso fino a domani in Vaticano, partecipano 11 premi Nobel per la pace, vertici di Onu e Nato, diplomatici rappresentanti degli Stati tra cui Russia, Stati Uniti, Corea del Sud, Iran, nonché massimi esperti nel campo degli armamenti ed esponenti delle fondazioni, organizzazioni e società civile impegnate attivamente sul tema. Presenti, inoltre, rappresentanti delle Conferenze episcopali e delle Chiese, a livello ecumenico e di altre fedi, e delle delegazioni di docenti e studenti provenienti dalle Università di Stati Uniti, Russia e Unione europea.

Anche considerando il rischio di una detonazione accidentale di tali armi per un errore di qualsiasi genere – l’esordio di Francesco – è da condannare con fermezza la minaccia del loro uso, nonché il loro stesso possesso, proprio perché la loro esistenza è funzionale a una logica di paura che non riguarda solo le parti in conflitto, ma l’intero genere umano”.

La spirale della corsa agli armamenti non conosce sosta, così come i costi di ammodernamento e sviluppo delle armi – non solo nucleari – che rappresentano una voce di spesa considerevole per le nazioni, al punto da mettere in secondo piano temi come la lotta contro la povertà, la promozione della pace, la realizzazione di progetti educativi, ecologici e sanitari e lo sviluppo dei diritti umani.

“Non possiamo non provare un vivo senso di inquietudine se consideriamo le catastrofiche conseguenze umanitarie e ambientali che derivano da qualsiasi utilizzo degli ordigni nucleari”, il grido d’allarme del Papa: “Le relazioni internazionali non possono essere dominate dalla forza militare, dalle intimidazioni reciproche, dall’ostentazione degli arsenali bellici”.

Le armi di distruzione di massa, in particolare quelle atomiche, generano un ingannevole senso di sicurezza. Se non vogliamo compromettere il futuro dell’umanità, dobbiamo imparare dalla testimonianza degli “hibakusha”, cioè delle persone colpite dalle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki: “Che la loro voce profetica sia un monito soprattutto per le nuove generazioni!”. Le tecnologie nucleari si diffondono ormai anche attraverso la Rete, e neanche gli strumenti di diritto internazionale hanno impedito che nuovi Stati si aggiungessero alla cerchia dei possessori di armi atomiche. Il Papa parla di “scenari angoscianti”, che nello scacchiere geopolitico si affiancano a quelli del terrorismo o dei conflitti asimmetrici.

Eppure, nonostante il “fosco pessimismo” di cui potremmo cadere vittime, “un sano realismo non cessa di accendere sul nostro mondo disordinato le luci della speranza”. Francesco cita la recente votazione Onu sulle armi nucleari come illegittimo strumento di guerra, che colma un vuoto giuridico importante e si unisce alla messa al bando, già proibita attraverso Convenzioni internazionali, delle armi chimiche, quelle biologiche, le mine antiuomo e le bombe a grappolo. Risultati, questi, dovuti principalmente

“a una iniziativa umanitaria promossa da una valida alleanza tra società civile, Stati, organizzazioni internazionali, Chiese, accademie e gruppi di esperti”.

In questo contesto si colloca anche il documento consegnato al Papa dagli 11 premi Nobel per la pace presenti al simposio internazionale, per il quale Francesco ha espresso il suo “grato apprezzamento”.

Francesco ha poi menzionato il 50° anniversario della Populorum progressio, “memorabile e attualissimo documento in cui Paolo VI ha coniato la definizione di “sviluppo umano integrale”, cioè “volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo”.

“Occorre dunque innanzitutto rigettare la cultura dello scarto e avere cura delle persone e dei popoli che soffrono le più dolorose disuguaglianze, attraverso un’opera che sappia privilegiare con pazienza i processi solidali rispetto all’egoismo degli interessi contingenti”. Si è concluso con questo invito il discorso del Papa, secondo il quale soltanto

“un progresso effettivo e inclusivo può rendere attuabile l’utopia di un mondo privo di micidiali strumenti di offesa, nonostante la critica di coloro che ritengono idealistici i processi di smantellamento degli arsenali”.

In questa prospettiva, resta sempre valido il magistero di Giovanni XXIII, che ha indicato con chiarezza l’obiettivo di un disarmo integrale, e quello di Paolo VI, a 50 anni dalla Populorum progressio.