G. Gutierrez: il vangelo è “ontologicamente” sovversivo

 se il Vangelo non scuote le coscienze non è colpa del messaggio contenuto ma dell’interpretazione

Il contenuto infatti è radicalmente incompatibile con le strutture che realizzano e mantengono l’ingiustizia. Solo la manipolazione può contribuire invece a stabilizzarle e garantirle. Il Vangelo è “ontologicamente” sovversivo: o Dio o mammona. Su questo non c’è compromesso né mediazione. Bisogna schierarsi, il Vangelo non tollera sistemi oppressivi. Sopravvive quietamente solo in comunità solidali. 

 Gustavo Gutierrez:

“…non si può dimenticare che la bibbia è stata letta e comunicata a partire dai settori e dalle classi dominanti (è ciò che capita con buona parte dell’esegesi considerata scientifica). Si è fatto svolgere all’elemento «cristiano» un certo ruolo all’interno dell’ideologia imperante che sostiene e dà coesione a una società divisa in classi […] Per questa ragione, la comunicazione del messaggio riletto dal punto di vista del povero e dell’oppresso, e capito a partire dalla solidarietà attiva con le loro lotte, avrà una funzione smascheratrice di ogni tentativo di utilizzare il Vangelo per giustificare una situazione contraria «alla giustizia e al diritto», come afferma la bibbia.”

(Gustavo Gutiérrez, La forza storica dei poveri, trad. C. Delpero, Queriniana, Brescia, 1979, p. 24)

pubblicato da altranarrazione

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i nostri giovani sono attratti sempre di più dall’estrema destra

l’estrema destra avanza tra i giovani

(e non stiamo facendo abbastanza per impedirlo)

‘Azione studentesca’ è un movimento attivo fra gli studenti delle scuole superiori, che si sta facendo strada a forza di slogan che ricordano il ventennio. E qual è la risposta degli istituti?

 

Sulla loro pagina Facebook campeggia la scritta: «Tutto per la patria. Il futuro si conquista combattendo». Occorre «ribellarsi», dicono, e «difendere la Patria», dove oggi «imperano il multiculturalismo e la mescolanza» e dove assistiamo alla «invasione migratoria che alimenta il business dell’accoglienza, che ci espone ai rischi del terrorismo». Sembra di sentir parlare Matteo Salvini o CasaPound. E invece sono stralci del manifesto di Azione Studentesca, il movimento dichiaratamente di destra attivo tra gli studenti delle scuole superiori che negli ultimi mesi che, come dice a Linkiesta il suo coordinatore nazionale Anthony La Mantia, «è cresciuto a livelli esponenziali».

Solo nell’ultimo mese Azione Studentesca è sbarcata a Modena, Montecatini, Arezzo, Lecce, Rovigo, Cassino. E poi manifestazioni e volantinaggio in ogni parte d’Italia, dalla Sicilia alla Lombardia, passando per Puglia, Lazio e Campania. Ma il risultato più eclatante, ottenuto in questi giorni, è arrivato nella roccaforte del Pd, a Firenze. Dopo i casi di Pistoia e Prato, infatti, anche nella città gigliata le elezioni della Consulta provinciale degli studenti sono state un trionfo della destra. I numeri parlano chiaro: 18mila voti ottenuti e 32 eletti su 58, con la presidenza finita appunto a un ragazzo di Azione Studentesca. «La nostra forza è il programma», dice La Mantia, che ci tiene a riconoscere come il movimento sia indipendente da partiti e forze politiche, «anche se collaboriamo attivamente in diverse realtà con Gioventù Nazionale, il movimento giovanile di Fratelli d’Italia».

Insomma, a suon di slogan che ricordano il ventennio, tanti studenti non ancora maggiorenni o appena sbarcati nella maggiore età virano verso la destra nazionalista e identitaria. Il responsabile fiorentino di Azione Studentesca, Dario Bordoni, lo dice senza giri di parole: «Il fascismo? Noi la vediamo come un’esperienza da non rinnegare». Fa niente se la nostra Costituzione, che pur si dovrebbe studiare a scuola, si fondi su principi antifascisti. Ma la lettura di La Mantia è lucida anche su quest’aspetto: «Riconosco che la componente identitaria ha giocato un ruolo importante. Prendiamo Firenze: in una città fondamentalmente di sinistra, essere di destra oggi è un’alternativa, un’alternativa valida». Una visione, questa, che coincide con quella del vicepresidente di CasaPound, Simone Di Stefano: «C’è un cambiamento in atto – dice a Linkiesta – La sinistra rappresenta il potere costituito: si è schiacciata sul pensiero unico che è quello che vige nella comunicazione del globalismo. E i giovani vanno dall’altra direzione». D’altronde, continua Di Stefano, «se le battaglie all’interno delle scuole devono essere per i bagni per i transessuali, dall’altra parte c’è più concretezza quando si riesce a parlare di valori, di lavoro, di patria».  

 

«Credo che il problema di fondo – dice interpellata sul punto da Linkiesta – sia quello di far conoscere ai giovani la nostra storia nazionale affinché comprendano che il nostro oggi poggia sulle spalle di altri giovani come loro che non avevano nessun diritto, che furono mandati in una guerra terribile e feroce ma che seppero conquistare ogni giorno, con la lotta della Resistenza, un mondo diverso».

Carla Nespolo

Che qualcosa sia venuto meno è riconosciuto anche da Alice Da Boit, rappresentante della Rete degli Studenti Medi, organizzazione studentesca di sinistra, che sarà vicepresidente della Consulta fiorentina. «Quanto accaduto qui – dice – non è una cosa da poco. È il segno di un cambiamento, dovuto a due ragioni: da una parte gli slogan populisti della destra che colpiscono alla pancia, dall’altra il disinteressamento da parte degli studenti per la vita politica studentesca». Di chi la colpa? Una lucida risposta arriva dalla neopresidente Anpi, Carla Nespolo: «Credo che il problema di fondo – dice interpellata sul punto da Linkiesta – sia quello di far conoscere ai giovani la nostra storia nazionale affinché comprendano che il nostro oggi poggia sulle spalle di altri giovani come loro che non avevano nessun diritto, che furono mandati in una guerra terribile e feroce ma che seppero conquistare ogni giorno, con la lotta della Resistenza, un mondo diverso».

Valori e ideali, forse, andati perduti. Perché, sottolineano ancora dalla Rete degli Studenti Medi, la vittoria di Azione Studentesca non nasce dal nulla. Nonostante La Mantia sottolinei che «noi non siamo razzisti», nell’ultimo periodo negli istituti fiorentini ci sono stati casi di ragazzi senegalesi pesantemente insultati per il colore della pelle, mentre una ragazza omosessuale è stata costretta a cambiare scuola per le violente accuse e minacce che le venivano rivolte. E i dirigenti in tutto questo? «La ragazza in questione – ci spiega Alice – era andata anche a parlare con la preside, ma poi la questione è morta lì». Non è un caso che la stessa Nespolo sottolinei come «molto resta da fare, sul piano politico e civile. Per il lavoro, l’ambiente, la salute e soprattutto per la pace. Ma partiamo da quello che i partigiani hanno conquistato per noi. Per proporre ai giovani e prima di tutto agli studenti questo ragionamento: in questo occorre un ruolo attivo della scuola, ma anche dell’informazione, della famiglia e di ogni forma di associazionismo».

Progetti importanti. Ma che per ora si scontrano con l’avanzata esponenziale di Azione Studentesca che rispediscono al mittente ogni tipo di accusa, convinti che si debba cambiare modo di intendere la società attuale e la storia passata. Ragazzi e ragazze che il 25 aprile, dicono, preferiscono andare al cimitero di Trespiano a commemorare i repubblichini di Salò. Per poi pubblicare video e foto della loro iniziativa sui social. E poi slogan e striscioni con tanto di font littoriano. E citazioni. «Tra mille infamie e mille tradimenti, passi sicuri, passi pesanti e lenti», si legge in un post. Così recitava l’inno di Terza Posizione, la formazione eversiva di destra attiva negli anni di piombo.

Nonostante La Mantia sottolinei che «noi non siamo razzisti», nell’ultimo periodo negli istituti fiorentini ci sono stati casi di ragazzi senegalesi pesantemente insultati per il colore della pelle, mentre una ragazza omosessuale è stata costretta a cambiare scuola per le violente accuse e minacce che le venivano rivolte.

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anche a Parigi i rom sono di ‘serie b’ rispetto alla legge

smantellato un accampamento Rom nella periferia di Parigi

scoppia la polemica

non concessa la sospensione dello sgombero, prevista dalla legge, perché hanno occupato con la forza il terreno dopo hanno realizzato l’insediamento

La baraccopoli Rom smantellata a Parigi

la baraccopoli Rom smantellata a Parigi

globalist 28 novembre 2017

La polizia ha smantellato, oggi, un accampamento Rom nella periferia nord di Parigi. All’operazione sono state interessate un centinaio di persone, che sono state ospitate altrove. Si tratta della quarta evacuazione dal 2015 attuato nella zona di Parigi.

Lo smantellamento dell’accampamento di Poissonniers, fatto di capanne di legno, a poca distanza da un tratto ferroviario in disuso, è cominciata intorno alle 7,30 quando un piccolo gruppo di donne e bambini è stato fatto salire su un bus.
“Centotredici persone tra cui 55 bambini (…) sono stati riprotetti”, ha detto, in una nota, la prefettura dell’Ile-de-France. Non ci sono stati problemi durante l’evacuazione, garantina da un centinaio di poliziotti.
In precedenza, circa 250-300 persone, dopo le procedure di identificazione, erano già partite e sistemate in strutture alberghiere o alloggi d’emegenza, cercando di non allontanare i nuclei familiari dalle scuole frequentate dai figli.
Una sistemazione abitativa sarà offerta principalmente a persone vulnerabili, genitori di bambini in età scolare e persone in un processo di integrazione, secondo le linee anticipate dalla prefettura regionale, ricordando che una analisi sociale era stata fatta sulla baraccopoli e la sua composizione.
In previsione dello sgombero, era stato concesso un termine – fino al 10 novembre – per lasciare l’area. Ma da parte delle associazioni che tutelano i diritti umani sono state sollevate perplessità perchè la legge sull’uguaglianza e la cittadinanza, approvata all’inizio di quest’anno, prevede l’estensione anche agli abitanti delle baraccopoli della sospensione degli sgomberi in questo periodo dell’anno. Ma un tribunale deciso che la sospensione non vale per gli abitanti della baraccopoli di Poissonniers, che hanno occupato con la forza il terreno su cui hanno costruito i loro alloggi.

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caro Dio … non sappiamo a chi rivolgerci

lettera aperta a Dio

non sappiamo a chi rivolgerci …

(in un momento storico difficile, soprattutto in mezzo agli ‘invisibili’, ai ‘condannati per reato esistenziale’)

da: ‘altranarrazione’

noi vorremmo fare come te. Ma siamo soli, c’è un clima diffuso di torpore che ostacola. Sono rarissime le voci che rompono il compromesso tra benestanti con il problema della noia e i loro assistenti spirituali. Il professionista che porta soldi e prestigio viene ossequiato, il povero che chiede soldi e disturba le “funzioni” fa anticamera, o peggio, allontanato. Ci fanno sentire eretici quando diciamo che Tu sei presente nei diseredati come nel tabernacolo”

Non sappiamo a chi rivolgerci. Sentiamo che ci chiami negli abissi della terra, in mezzo agli invisibili, ai condannati per reato esistenziale. Ma gli esperti, quelli che dicono di aver lasciato tutto per Te, Signore, ci ammoniscono di non esagerare. Ci spiegano che i poveri non sono solo i mendicanti (di solito li chiamano barboni) e la povertà non è solo materiale, ma anche spirituale: carrierismo, infedeltà coniugali, ed altri disagi tipicamente borghesi. Altri ci scherniscono domandandoci, con un ghigno di circostanza, se vogliamo andare anche noi nelle baracche. Altri ci scoraggiano dicendo che aiutiamo ubriaconi, parassiti, e comunque persone che non si meritano nulla (secondo il loro amorevole giudizio). Ma soprattutto che la nostra attività è totalmente inutile. Allora, noi, ci mettiamo alla ricerca, ma nel Vangelo l’utilità non è contemplata.

Ci dicono che occorre interpretare Matteo 25, e che non va preso alla lettera, a differenza dei c.d. 10 comandamenti (soprattutto il sesto). Allora noi, tra questi, ci mettiamo alla ricerca ma nella lista delle priorità riportata dall’evangelista di genitori/fratelli/amici delusi per il mancato premio aziendale, nervosi per il traffico o per aver litigato con i condòmini non c’è traccia. Piuttosto si fa riferimento ai lontani, gli sconosciuti, e proprio a quelli che hanno sbagliato. Infatti si tratta del Vangelo, non del manuale del bravo cittadino. Non lo comprendono, è la Tua logica “al contrario” a risultare indigesta. Ti vedono come uno che premia l’impegno e lo sforzo e si aspettano il salario. Rivendicano il contraccambio e così fanno nelle relazioni sociali. Ma tu sei il Dio degli operai dell’ultima ora, che viene per condividere e non per retribuire. E noi vorremmo fare come te. Ma siamo soli, c’è un clima diffuso di torpore che ostacola. Sono rarissime le voci che rompono il compromesso tra benestanti con il problema della noia e i loro assistenti spirituali. Il professionista che porta soldi e prestigio viene ossequiato, il povero che chiede soldi e disturba le “funzioni” fa anticamera, o peggio, allontanato. Ci fanno sentire eretici quando diciamo che Tu sei presente nei diseredati come nel tabernacolo.

Per recuperare qualche testimonianza che ci possa incoraggiare andiamo nelle biblioteche a disseppellire dalla polvere i testi che parlano dell’opzione preferenziale per i poveri. E se non ci fossero state le parole di questi “martiri” autentici forse ci saremmo arresi. Ma questi “scandali” ci hanno anche insegnato una cosa fondamentale: per collaborare alla costruzione del tuo Regno si deve prendere l’iniziativa (“Primerear”* come direbbe Papa Francesco). E questa, oggi, è la nostra gioia più grande: renderci disponibili al Tuo progetto ritirando tutte le deleghe.

*”prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi” (Papa Francesco, Evangelii Gaudium, 24)

 

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contro papa Francesco quelli che gli erano più vicini – il messaggio sibillino del card. Müller

il cardinale Müller

«mi vogliono guida di un gruppo contro il papa»

 «si rischia una separazione che potrebbe sfociare in uno scisma. Io resto con Bergoglio, ma chi reclama va ascoltato»

Gerhard Müller (LaPresse) Gerhard Müller

«C’è un fronte dei gruppi tradizionalisti, così come dei progressisti, che vorrebbe vedermi a capo di un movimento contro il Papa. Ma io non lo farò mai. Ho servito con amore la Chiesa per 40 anni da prete, 16 anni da cattedratico della teologia dogmatica e 10 anni da vescovo diocesano. Credo nell’unità della Chiesa e non concedo a nessuno di strumentalizzare le mie esperienze negative degli ultimi mesi. Le autorità della Chiesa, però, devono ascoltare chi ha delle domande serie o dei reclami giusti; non ignorarlo o, peggio, umiliarlo. Altrimenti, senza volerlo, può aumentare il rischio di una lenta separazione che potrebbe sfociare in uno scisma di una parte del mondo cattolico, disorientato e deluso. La storia dello scisma protestante di Martin Lutero di cinquecento anni fa dovrebbe insegnarci soprattutto quali sbagli evitare».

Il cardinale Gerhard Müller parla con voce piana e un marcato accento tedesco. Siamo nell’appartamento di Piazza della Città Leonina che in passato aveva occupato Joseph Ratzinger prima di diventare Benedetto XVI, in un palazzo abitato da alti prelati.

 

Müller, forse il più rispettato teologo cattolico, è l’ex prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, sostituito a sorpresa nel luglio scorso da Jorge Mario Bergoglio. «Il Papa mi confidò: “Alcuni mi hanno detto anonimamente che lei è mio nemico” senza spiegare in qual punto», racconta affranto. «Dopo quarant’anni al servizio della Chiesa, mi sono sentito dire questo: un’assurdità preparata da chiacchieroni che invece di instillare inquietudine nel Papa farebbero meglio a visitare uno strizzacervelli. Un vescovo cattolico e cardinale di Santa Romana Chiesa è per natura con il Santo Padre. Ma credo che, come diceva il teologo del Cinquecento, Melchior Cano, i veri amici non sono coloro che adulano il Papa ma quelli che lo aiutano con la verità e la competenza teologica ed umana. In tutte le organizzazioni del mondo i delatori di questa specie servono solo se stessi».

Parole dure, risentite, di chi sente di avere subito un torto immeritato. Il cardinale esclude, come sostengono alcune voci allarmistiche, che qualcuno stia ordendo complotti contro Francesco, in polemica con alcune prese di posizione ritenute troppo progressiste: lo considera «un’assoluta esagerazione». Ma ammette che la Chiesa è percorsa da tensioni profonde. «Le tensioni nascono dalla contrapposizione tra un fronte tradizionalista estremista su alcuni siti web, e un fronte progressista ugualmente esagerato, che oggi cerca di accreditarsi come superpapista», secondo Müller. Si tratta di minoranze, ma agguerrite.

Per questo il cardinale trasmette un messaggio di unità ma anche di preoccupazione. «Attenzione: se passa la percezione di un’ingiustizia da parte della Curia romana, quasi per forza di inerzia si potrebbe mettere in moto una dinamica scismatica, difficile poi da recuperare. Credo che i cardinali che hanno espresso dei dubbi sull’Amoris Laetitia, o i 62 firmatari di una lettera di critiche anche eccessive al Papa vadano ascoltati, non liquidati come “farisei” o persone brontolone. L’unico modo per uscire da questa situazione è un dialogo chiaro e schietto. Invece ho l’impressione che nel “cerchio magico” del Papa ci sia chi si preoccupa soprattutto di fare la spia su presunti avversari, così impedendo una discussione aperta ed equilibrata. Classificare tutti i cattolici secondo le categorie di “amico” o “nemico” del Papa, è il danno più grave che causano alla Chiesa. Uno rimane perplesso se un giornalista ben noto, da ateo si vanta di essere amico del Papa; e in parallelo un vescovo cattolico e cardinale come me viene diffamato come oppositore del Santo Padre. Non credo che queste persone possano impartirmi lezioni di teologia sul primato del Romano Pontefice».

Müller non vede una Chiesa più divisa di quanto fosse negli anni di Benedetto XVI. «Però la vedo più debole. Fatichiamo ad analizzare i problemi. I sacerdoti scarseggiano e diamo risposte più organizzative, politiche e diplomatiche che teologiche e spirituali. La Chiesa non è un partito politico con le sue lotte per il potere. Dobbiamo discutere sulle domande esistenziali, sulla vita e la morte, sulla famiglia e le vocazioni religiose, e non permanentemente sulla politica ecclesiastica. Papa Francesco è molto popolare, e questo è un bene. Ma la gente non partecipa più ai Sacramenti. E la sua popolarità tra i non cattolici che lo citano con entusiasmo, non cambia purtroppo le loro false convinzioni. Emma Bonino, per esempio, loda il Papa ma resta ferma sulle sue posizioni in tema di aborto che il Papa condanna. Dobbiamo stare attenti a non confondere la grande popolarità di Francesco, che pure è un enorme patrimonio per il mondo cattolico, con una vera ripresa della fede: anche se tutti sosteniamo il Papa nella sua missione».

Nell’ottica del cardinale Müller, dopo quasi cinque anni di pontificato una fase si è chiusa: quella della Chiesa intesa come «ospedale da campo», definizione felice che Francesco affidò alla Civiltà Cattolica nel 2013, poco dopo l’elezione. «Fu una grande intuizione del Papa. Ma forse ora bisogna andare oltre l’ospedale da campo, e archiviare la guerra contro il bene naturale e soprannaturale degli uomini di oggi che lo ha reso necessario», sostiene. «Oggi avremmo bisogno più di una Silicon Valley della Chiesa. Dovremmo essere gli Steve Jobs della fede, e trasmettere una visione forte in termini di valori morali e culturali e di verità spirituali e teologiche». Non basta, aggiunge, «la teologia popolare di alcuni monsignori né la teologia troppo giornalistica di altri. Abbiamo bisogno anche della teologia a livello accademico».

Dalle sue parole si intuisce che le critiche sono rivolte soprattutto ad alcuni collaboratori di Francesco. «Va bene la divulgazione. Francesco tende giustamente a sottolineare la superbia degli intellettuali. A volte, tuttavia, i superbi non sono solo loro. Il vizio della superbia è una impronta del carattere e non dell’intelletto. Io penso alla umiltà di San Tommaso, il più grande intellettuale cattolico. La fede e la ragione sono amiche».Nell’ottica del cardinale, il modello di papato che tende a emergere a intermittenza, «più come sovrano dello Stato del Vaticano che come supremo insegnante della fede», può suscitare qualche riserva.

«Ho la sensazione che Francesco voglia ascoltare e integrare tutti. Ma gli argomenti delle decisioni devono essere discussi prima. Giovanni Paolo II era più filosofo che teologo, ma si faceva assistere e consigliare dal cardinale Ratzinger nella preparazione dei documenti del magistero. Il rapporto fra il Papa e la Congregazione per la dottrina della fede era e sarà sempre la chiave per un proficuo pontificato. E ricordo anche a me stesso che i vescovi sono in comunione con il Papa: fratelli e non delegati del Papa, come ci ricordava il Concilio Vaticano II». Müller non ha ancora smaltito «la ferita», la chiama così, dei suoi tre collaboratori licenziati poco prima della sua sostituzione. «Sono stati dei preti buoni e competenti che lavoravano per la Chiesa con dedizione esemplare», è il suo giudizio. «Le persone non possono essere mandate via ad libitum, senza prove né processo, solo perché qualcuno ha denunciato anonimamente vaghe critiche al Papa mosse da parte di uno di loro…».

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l’ira di papa Francesco – gli imprenditori della paura sono violenti e razzisti

migranti

l’ira di Papa Francesco

“fomentare la paura semina violenza razzista”

Migranti, l'ira di Papa Francesco: "Fomentare la paura semina violenza razzista"

il messaggio per la 51.ma Giornata Mondiale della Pace

“Combattere quanti favoriscono il timore nei confronti dei migranti a fini politici”

di PAOLO RODARI

“Spingere le politiche di accoglienza fino al massimo dei limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso” e combattere “quanti fomentano la paura nei confronti dei migranti a fini politici”.

Il tutto arrivando entro il 2018 “alla definizione e all’approvazione da parte delle Nazioni Unite di due patti globali, uno per migrazioni sicure, ordinate e regolari, l’altro riguardo ai rifugiati”.

È quanto chiede Papa Francesco nel suo Messaggio per la 51.ma Giornata Mondiale della Pace, che si celebra il 1° gennaio 2018 sul tema: Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace.

Francesco, che fin dal suo primo viaggio a Lampedusa, nel luglio del 2013, ha mostrato di avere particolarmente a cuore “gli oltre 250 milioni di migranti nel mondo, dei quali 22 milioni e mezzo sono rifugiati”, ha denunciato il fatto che “in molti Paesi di destinazione si è largamente diffusa una retorica che enfatizza i rischi per la sicurezza nazionale o l’onere dell’accoglienza dei nuovi arrivati, disprezzando così la dignità umana che si deve riconoscere a tutti, in quanto figli e figlie di Dio”.

Questa retorica, largamente diffusa anche in Italia, non piace a papa Bergoglio che anzi ha ricordato che quanti fomentano la paura a fini politici “anziché costruire la pace, seminano violenza, discriminazione razziale e xenofobia, che sono fonte di grande preoccupazione per tutti coloro che hanno a cuore la tutela di ogni essere umano”.

E ancora: “Tutti gli elementi di cui dispone la comunità internazionale indicano che le migrazioni globali continueranno a segnare il nostro futuro. Alcuni le considerano una minaccia. Io, invece, vi invito a guardarle con uno sguardo carico di fiducia, come opportunità per costruire un futuro di pace”. 

La maggior parte dei migranti non cerca altro che un luogo in cui poter vivere in pace. Per trovarlo, molti di loro, ha detto il Papa, “sono disposti a rischiare la vita in un viaggio che in gran parte dei casi è lungo e pericoloso, a subire fatiche e sofferenze, ad affrontare reticolati e muri innalzati per tenerli lontani dalla meta”. Il motivo per il quale lasciano la loro terra è principalmente uno: “Fuggono dalla guerra e dalla fame o sono costretti a lasciare le loro terre a causa di discriminazioni, persecuzioni, povertà e degrado ambientale”. 

Francesco chiede azioni di accoglienza concrete, chiamando in causa anzitutto i governanti che “praticando la virtù della prudenza sapranno accogliere, promuovere, proteggere e integrare, stabilendo misure pratiche, nei limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso, per permettere l’inserimento”. 

Sono loro ad avere una “precisa responsabilità”. Dopo “l’interminabile e orrenda sequela di guerre, di conflitti, di genocidi, di pulizie etniche che hanno segnato il XX secolo” ci sono oggi altri motivi che spingono le persone a migrare: “I conflitti armati e le altre forme di violenza organizzata continuano a provocare spostamenti di popolazione all’interno dei confini nazionali e oltre”. E poi, come detto, il desiderio di una vita migliore. 

I migranti “non arrivano a mani vuote: portano un carico di coraggio, capacità, energie e aspirazioni, oltre ai tesori delle loro culture native, e in questo modo arricchiscono la vita delle nazioni che li accolgono”. Ma offrire a richiedenti asilo, rifugiati, migranti e vittime di tratta una possibilità di trovare quella pace che stanno cercando, “richiede una strategia che combini quattro azioni: accogliere, proteggere, promuovere e integrare”.

 

Francesco, quindi, auspica “che lungo il 2018” si possa arrivare “alla definizione e all’approvazione da parte delle Nazioni Unite di due patti globali, uno per migrazioni sicure, ordinate e regolari, l’altro riguardo ai rifugiati. In quanto accordi condivisi a livello globale, questi patti rappresenteranno un quadro di riferimento per proposte politiche e misure pratiche”.

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il ‘pizzino’ del card. Mueller contro papa Francesco contiene gravi affermazioni

le gravi affermazioni del card. Mueller contro papa Francesco

di Andrea Grillo

in “Come se non” http://www.cittadellaeditrice.com/munera/come-se-non/ – del 27 novembre 2017

Se “per natura” dice di essere con il Santo Padre, non dimostra affatto di esserlo per cultura. La minaccia di scisma è la coda di paglia di chi non ha argomenti teologici e spirituali da contrapporre alla svolta conciliare di papa Francesco. Il sintomo più grave di questa lettura deficitaria è la esigenza di “superare la definizione di Chiesa come ospedale da campo”. Se c’è un papa che ha recuperato, non solo nell’immaginario collettivo, ma nel cuore stesso della Chiesa, la qualità “paterna e fraterna”, è proprio Francesco

Le accuse che il card. Mueller ha rivolto ieri al papa, direttamente o indirettamente, sono molto gravi e meritano di essere accuratamente identificate

in appendice, il testo integrale della intervista

Presentato da Massimo Franco come “forse il teologo cattolico più rispettato” – espressione davvero ambigua e senza fondamento – nel corso della intervista dimostra proprio di essere debole sul versante squisitamente teologico intorno alle questioni affrontate. Ma andiamo per ordine:

a) la richiesta di “leadership ostile” e la fedeltà

Massimo Franco le definisce “parole dure e risentite”: come un Giobbe offeso, Mueller chiede conto al Papa della ingiustizia subita e dei consiglieri satanici…un quadro a dir poco paradossale e davvero privo di temperanza. Un uomo di Chiesa, che voglia salvaguardare la comunione, in questi casi tace, o parla con discrezione e misura. Se invece parla accusando apertamente il papa di ingiustizia, si chiama fuori dalla Chiesa, si isola su una turris eburnea molto isolata e non poco autoreferenziale. E la sua ribadita fedeltà al Romano Pontefice è puramente formale, astratta. In concreto continua a lottare contro il pontificato, in modo vistosamente sleale. Se “per natura” dice di essere con il Santo Padre, non dimostra affatto di esserlo per cultura.

b) la minaccia di scisma

Se passa il messaggio di una “ingiustizia da parte della Curia romana”… ma che cosa sta facendo Mueller da 5 anni se non continuamente insistere su questa ingiustizia? In un certo senso Mueller mette in guardia la Chiesa da se stesso. Fin dall’inizio ha interpretato se stesso, come Prefetto, come “correttore del papa”. E ora pretende di parlare “super partes”? Come se fosse un osservatore romano disinteressato? Come se non fossero state proprio le sue parole ad alimentare la fronda nostalgica e tradizionalista? La minaccia di scisma è la coda di paglia di chi non ha argomenti teologici e spirituali da contrapporre alla svolta conciliare di papa Francesco. Dare credito ai “dubia” di 4 cardinali e alla lettera di accuse di 62 cattolici poco competenti è un errore irrimediabile del suo approccio.

c) la presunta debolezza teologica e spirituale

Molto grave, ma non nuova, è la affermazione secondo cui oggi la Chiesa di Francesco sarebbe più debole teologicamente e spiritualmente. Questo è davvero il colmo. Mueller identifica nella autoreferenzialità teologica degli ultimi 30 anni il modello teologico e spirituale che “conserva lo status quo”. Per Mueller questo è l’orizzonte: quieta non movere et mota quietare. Non riconosce affatto né la grande dinamica spirituale introdotta dal pontificato di Francesco, né il grande approfondimento teologico, che ha ripreso lo slancio della fase conciliare di riflessione nella Chiesa. Il sintomo più grave di questa lettura deficitaria è la esigenza di “superare la definizione di Chiesa come ospedale da campo”. Quella affermazione è lo specchio di una profonda e forse irrimediabile estraneità di L. Mueller alla Chiesa conciliare, ripensata 50 anni dopo in modo dinamico e capace di “prendere la iniziativa”. Egli legge come “cedimento alla immanenza” la logica della incarnazione. E questo compromette tutto. Applica al papato di Francesco schemi antimodernistici e resta giocato dalla sua teologia non aggiornata. Un deficit teologico sta alla radice del disagio.

d) La domanda di “teologia accademica” e il ruolo della Congregazione

Bisogna infine sottolineare l’esito ultimo di questo approccio distorto al pontificato: la percezione, che Mueller ripete più volte, secondo cui Francesco sarebbe più un sovrano che un “padre nella fede”. Questo è davvero difficile da capire. Se c’è un papa che ha recuperato, non solo nell’immaginario collettivo, ma nel cuore stesso della Chiesa, la qualità “paterna e fraterna”, è proprio Francesco. E questo è dovuto non anzitutto al suo “personaggio mediatico”, ma alla sua spiritualità e alla sua teologia. Su questo punto Mueller sembra aver vissuto, in questi 5 anni, in un altro mondo, in un’altra storia, con altre prospettive e preoccupazioni. Anche la domanda di “teologia accademica” mi sembra paradossale. Proprio in questi 5 anni abbiamo avuto una ripresa e un rilancio del pensiero teologico, che ha riscoperto profondamente il prezioso tesoro della sua immaginazione, della sua incompletezza e della sua inquietudine nel restituire il “depositum fidei” con nuova forza e con efficace eleganza. Le “tre i” con cui Francesco ha identificato il “lavoro teologico” sembrano totalmente estranee alla cultura di L. Mueller. Che un teologo tanto sordo alle prospettive teologiche e spirituali di Francesco e tanto preoccupato di dover condizionare come Prefetto un papato davvero proficuo avesse la pretesa di restare in carica e di condizionare così pesantemente il pontificato, risulta difficile da comprendere.

appendice

la Intervista integrale del Card Mueller al Corriere della sera di ieri (26/11/2017)

di Massimo Franco

«C’è un fronte dei gruppi tradizionalisti, così come dei progressisti, che vorrebbe vedermi a capo di un movimento contro il Papa. Ma io non lo farò mai. Ho servito con amore la Chiesa per 40 anni da prete, 16 anni da cattedratico della teologia dogmatica e 10 anni da vescovo diocesano. Credo nell’unità della Chiesa e non concedo a nessuno di strumentalizzare le mie esperienze negative degli ultimi mesi. Le autorità della Chiesa, però, devono ascoltare chi ha delle domande serie o dei reclami giusti; non ignorarlo o, peggio, umiliarlo. Altrimenti, senza volerlo, può aumentare il rischio di una lenta separazione che potrebbe sfociare in uno scisma di una parte del mondo cattolico, disorientato e deluso. La storia dello scisma protestante di Martin Lutero di cinquecento anni fa dovrebbe insegnarci soprattutto quali sbagli evitare».

Il cardinale Gerhard Müller parla con voce piana e un marcato accento tedesco. Siamo nell’appartamento di Piazza della Città Leonina che in passato aveva occupato Joseph Ratzinger prima di diventare Benedetto XVI, in un palazzo abitato da alti prelati. Müller, forse il più rispettato teologo cattolico, è l’ex prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, sostituito a sorpresa nel luglio scorso da Jorge Mario Bergoglio.

«Il Papa mi confidò: “Alcuni mi hanno detto anonimamente che lei è mio nemico” senza spiegare in qual punto»,

racconta affranto.

«Dopo quarant’anni al servizio della Chiesa, mi sono sentito dire questo: un’assurdità preparata da chiacchieroni che invece di instillare inquietudine nel Papa farebbero meglio a visitare uno strizzacervelli. Un vescovo cattolico e cardinale di Santa Romana Chiesa è per natura con il Santo Padre. Ma credo che, come diceva il teologo del Cinquecento, Melchior Cano, i veri amici non sono coloro che adulano il Papa ma quelli che lo aiutano con la verità e la competenza teologica ed umana. In tutte le organizzazioni del mondo i delatori di questa specie servono solo se stessi».

Parole dure, risentite, di chi sente di avere subito un torto immeritato. Il cardinale esclude, come sostengono alcune voci allarmistiche, che qualcuno stia ordendo complotti contro Francesco, in polemica con alcune prese di posizione ritenute troppo progressiste: lo considera «un’assoluta esagerazione». Ma ammette che la Chiesa è percorsa da tensioni profonde.

«Le tensioni nascono dalla contrapposizione tra un fronte tradizionalista estremista su alcuni siti web, e un fronte progressista ugualmente esagerato, che oggi cerca di accreditarsi come superpapista»,

secondo Müller. Si tratta di minoranze, ma agguerrite. Per questo il cardinale trasmette un messaggio di unità ma anche di preoccupazione.

«Attenzione: se passa la percezione di un’ingiustizia da parte della Curia romana, quasi per forza di inerzia si potrebbe mettere in moto una dinamica scismatica, difficile poi da recuperare. Credo che i cardinali che hanno espresso dei dubbi sull’Amoris Laetitia, o i 62 firmatari di una lettera di critiche anche eccessive al Papa vadano ascoltati, non liquidati come “farisei” o persone brontolone. L’unico modo per uscire da questa situazione è un dialogo chiaro e schietto. Invece ho l’impressione che nel “cerchio magico” del Papa ci sia chi si preoccupa soprattutto di fare la spia su presunti avversari, così impedendo una discussione aperta ed equilibrata. Classificare tutti i cattolici secondo le categorie di “amico” o “nemico” del Papa, è il danno più grave che causano alla Chiesa. Uno rimane perplesso se un giornalista ben noto, da ateo si vanta di essere amico del Papa; e in parallelo un vescovo cattolico e cardinale come me viene diffamato come oppositore del Santo Padre. Non credo che queste persone possano impartirmi lezioni di teologia sul primato del Romano Pontefice».

Müller non vede una Chiesa più divisa di quanto fosse negli anni di Benedetto XVI.

«Però la vedo più debole. Fatichiamo ad analizzare i problemi. I sacerdoti scarseggiano e diamo risposte più organizzative, politiche e diplomatiche che teologiche e spirituali. La Chiesa non è un partito politico con le sue lotte per il potere. Dobbiamo discutere sulle domande esistenziali, sulla vita e la morte, sulla famiglia e le vocazioni religiose, e non permanentemente sulla politica ecclesiastica. Papa Francesco è molto popolare, e questo è un bene. Ma la gente non partecipa più ai Sacramenti. E la sua popolarità tra i non cattolici che lo citano con entusiasmo, non cambia purtroppo le loro false convinzioni. Emma Bonino, per esempio, loda il Papa ma resta ferma sulle sue posizioni in tema di aborto che il Papa condanna. Dobbiamo stare attenti a non confondere la grande popolarità di Francesco, che pure è un enorme patrimonio per il mondo cattolico, con una vera ripresa della fede: anche se tutti sosteniamo il Papa nella sua missione».

Nell’ottica del cardinale Müller, dopo quasi cinque anni di pontificato una fase si è chiusa: quella della Chiesa intesa come «ospedale da campo», definizione felice che Francesco affidò alla Civiltà Cattolica nel 2013, poco dopo l’elezione.

«Fu una grande intuizione del Papa. Ma forse ora bisogna andare oltre l’ospedale da campo, e archiviare la guerra contro il bene naturale e soprannaturale degli uomini di oggi che lo ha reso necessario»,

sostiene.

«Oggi avremmo bisogno più di una Silicon Valley della Chiesa. Dovremmo essere gli Steve Jobs della fede, e trasmettere una visione forte in termini di valori morali e culturali e di verità spirituali e teologiche».

Non basta, aggiunge,

«la teologia popolare di alcuni monsignori né la teologia troppo giornalistica di altri. Abbiamo bisogno anche della teologia a livello accademico».

Dalle sue parole si intuisce che le critiche sono rivolte soprattutto ad alcuni collaboratori di Francesco.

«Va bene la divulgazione. Francesco tende giustamente a sottolineare la superbia degli intellettuali. A volte, tuttavia, i superbi non sono solo loro. Il vizio della superbia è una impronta del carattere e non dell’intelletto. Io penso alla umiltà di San Tommaso, il più grande intellettuale cattolico. La fede e la ragione sono amiche».

Nell’ottica del cardinale, il modello di papato che tende a emergere a intermittenza,

«più come sovrano dello Stato del Vaticano che come supremo insegnante della fede»,

può suscitare qualche riserva.

«Ho la sensazione che Francesco voglia ascoltare e integrare tutti. Ma gli argomenti delle decisioni devono essere discussi prima. Giovanni Paolo II era più filosofo che teologo, ma si faceva assistere e consigliare dal cardinale Ratzinger nella preparazione dei documenti del magistero. Il rapporto fra il Papa e la Congregazione per la dottrina della fede era e sarà sempre la chiave per un proficuo pontificato. E ricordo anche a me stesso che i vescovi sono in comunione con il Papa: fratelli e non delegati del Papa, come ci ricordava il Concilio Vaticano II».

Müller non ha ancora smaltito «la ferita», la chiama così, dei suoi tre collaboratori licenziati poco prima della sua sostituzione. «Sono stati dei preti buoni e competenti che lavoravano per la Chiesa con dedizione esemplare»,

è il suo giudizio.

«Le persone non possono essere mandate via ad libitum, senza prove né processo, solo perché qualcuno ha denunciato anonimamente vaghe critiche al Papa mosse da parte di uno di loro…».

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contro papa Francesco senza tregua – la nuova destra europea in difesa dell’Occidente cristiano

Cristianesimo e Nuova Destra in Europa

di: Hans Schelkshorn

Il supplemento del Quaderno n. 204 di Cristianisme i Justicia (giugno 2017), del noto Centro dei gesuiti di Barcellona, dove è assai attivo il teologo José Ignacio Gonzalez Faus, riporta un articolo di Hans Schelkshorn, presidente dell’Istituto di filosofia cristiana della Facoltà cattolica dell’Università di Vienna

Difesa dell’Occidente cristiano? L’ideologia della nuova destra in Europa

In numerosi stati i partiti della nuova destra (ND) determinano in maniera crescente l’avvenire politico. I movimenti di Le Pen, il blocco fiammingo, il FPO austriaco e, più recentemente, la AFD tedesca mettono in discussione la democrazia liberale e il progetto di pace dell’Unione Europea.

Questi partiti non sono sorti dal nulla, ma dal vuoto morale che l’ideologia neoliberale ha lasciato dietro di sé negli ultimi trent’anni. In questo periodo si è svuotata la sostanza morale tanto della socialdemocrazia come dei partiti della democrazia cristiana. In sintesi: come il fascismo fu una reazione al liberalismo sfrenato, così la ND è una risposta al neoliberalismo.

A questo si è aggiunto il massiccio arrivo di rifugiati, che fuggono dalla caduta del Vicino e Medio Oriente e dall’instabilità di numerosi stati africani, ciò che ha alimentato ancor più l’ascesa di partiti della ND, alcuni dei quali sono stati i più votati nei loro paesi.

L’ideologia dei movimenti della ND

Tanto l’opinione pubblica come la scienza politica li qualificano con disprezzo come populisti. Una denominazione che, benché bene azzeccata, la considero tuttavia problematica. In effetti, la parola populismo suggerisce una politica ampiamente priva di ideologia, che si adatta alle opinioni mutevoli del popolo. In altre parole, l’ideologia del populismo consiste nel non avere nessuna ideologia stabile. Ora credo che una tale analisi sia una pericolosa minimizzazione di ciò che questi partiti rappresentano.

Molti analizzano il fenomeno alla luce di categorie psicologiche (risentimento nei confronti degli stranieri e dei partiti “consolidati”, paura della decadenza della classe media ecc.) Di tanto in tanto, sono percepiti come correttivi delle strutture bloccate dei partiti consolidati nella democrazia, in maniera che, come movimenti di protesta, non avrebbero ambizioni di governo. Benché non siano analisi false, sottovalutano la visione ideologica che hanno del mondo.

D’accordo con Jan-Werner Muller, percepisco nella ND una determinata ideologia, certamente flessibile, ma che mina pericolosamente i principi e i valori delle democrazie dello stato di diritto, così come si sono costruite in Europa dopo la seconda guerra mondiale.

La concezione fondamentale dell’ideologia della ND è sorta in Francia, nell’ambito del movimento presieduto da Le Pen. È stato soprattutto Alain de Benoist, uno degli ideologi della Nouvelle Droite, incaricato a formularla: una concezione che differenzia strettamente la ND dal vecchio fascismo tra le due guerre che si costruì su due pilastri. In primo luogo, essi erano apertamente anti-democratici. Avevano per scopo di abbattere la democrazia, ricorrendo alla violenza qualora fosse necessario. In secondo luogo, erano basati sul razzismo.

La ND prescinde da questi due principi fondamentali del fascismo e adotta i diritti civili e la democrazia. Rinuncia, quindi, alla presa del potere ricorrendo all’uso della violenza e accetta i risultati delle elezioni democratiche. Inoltre, sostituisce il “vecchio” razzismo con un “etno-pluralismo”, promuovendo il riconoscimento delle diverse etnie e culture, ciascuna nel proprio territorio. Un concetto chiave della ND è la preservazione dell’“unione etnica” di una nazione. Dal 1986, insieme al movimento di Le Pen, il FPO austriaco è diventato uno dei più importanti protagonisti della ND europea. Jorg Haider, il leader, espresse in maniera precisa il nucleo di questo pensiero: «se la politica non si costruisce su principi etnici, all’umanità non le rimane nessun futuro».

Ciò nonostante, tra gli stessi partiti che difendono i principi sopra ricordati, la questione di come si determina la etnia dal punto di vista concettuale è ancora oggetto di controversia. De Benoist, per esempio, rappresenta un punto di vista anticristiano, decisamente “pagano”, della nazione francese. Mentre altri, tra questi il FPO, si sono accostati al cristianesimo, erigendosi a difensori dell’Occidente cristiano nella lotta contro l’islam.

Il pericolo delle imposizioni della ND consiste nel fatto che l’interpretazione etnica di “nazione” o di “popolo” è prioritaria, e viene posta al di sopra dei diritti umani. De Benoist parla appunto dell’«ideologia dei diritti umani», criticandola come secolarizzazione della morale cristiana. L’ideale di fraternità, che insieme a quello di libertà e di uguaglianza, è una delle tre colonne della Rivoluzione francese, deve limitarsi, a suo parere, alla nazione. Per questo i partiti della ND mettono in discussione i diritti umani.

Più ancora, considerano che l’interpretazione etnica di “popolo” o di “nazione” sia il fondamento dello Stato e quindi vada tutelata con mezzi statali. Proprio per questo, il FPO ha messo transitoriamente nel suo programma elettorale un “diritto alla patria”, che dovrebbe aggiungersi alla lista dei diritti umani. Così si apre di colpo uno spiraglio ad una politica autoritaria.

Tuttavia, il “diritto alla patria” non è un diritto umano che si debba imporre allo Stato né che possa essere rivendicato giudizialmente. In una democrazia pluralista, i concetti di “patria” o di “identità nazionale” sono piuttosto oggetto di dibattito pubblico e si basano su determinati diritti umani, soprattutto sul diritto alla libertà di opinione e di riunione. Nel “diritto umano alla patria”, che sembra così inoffensivo, si nasconde una carica esplosiva estremamente pericolosa che, a lungo termine, mina le democrazie dello stato di diritto, trasformandole in sistemi autoritari. Di fatto, Jorg Haider rivendicò l’ instaurazione di una “terza repubblica”.

È chiaro che le democrazie liberali si fondano sul principio universale dei diritti umani, ma anche su un determinato consenso sull’“identità nazionale”. Anche Habermas, che sostiene solo la legittimità di un patriottismo costituzionale, mette in rapporto l’universalità dei diritti umani con tutto il sistema democratico di diritto, tenendo conto di determinate concezioni della conservazione dell’identità nazionale.

Il punto caldo della ND consiste nel diluire in maniera unilaterale, a favore della nazione, la tensione tra diritti umani considerati da un punto di vista universale e concezioni particolari di identità nazionale. Per questo, sono partiti che cercano di controllare i media in nome di una ideologia popolare che debilita la separazione di poteri, specialmente l’indipendenza della giustizia e, soprattutto, la giustizia del tribunale costituzionale, creato in molti paesi dopo la seconda guerra mondiale, come conseguenza del fascismo. Il tribunale costituzionale è un’istituzione di grande importanza per la protezione delle democrazie dello stato di diritto.

Cosicché i partiti della ND non sono populisti per il fatto di adattarsi alle mutevoli opinioni del popolo. Al contrario, sanno da sempre quale deve essere “la volontà del popolo”, e soprattutto chi appartiene al popolo. Zingari, giudei, atei, socialisti e artisti di avanguardia non ne fanno parte, di regola.

Viktor Orbán, protagonista cristiano della ND

Queste ideologie non sono patrimonio esclusivo dei partiti della ND, ma vengono adottate da altri, soprattutto nella democrazia cristiana. Un esempio è proprio il democristiano ungherese Viktor Orbán, che è diventato uno dei dirigenti più potenti. Orbán difende pubblicamente l’idea di uno stato “a-liberale”, che ha tutti gli elementi sopra ricordati. Di più: appoggiato da una maggioranza di due terzi, sulla base di un 53% di votanti, Orbán, con la nuova costituzione, per la prima volta ha costruito in Europa uno stato che si basa su questi principi, realizzando il sogno di Haider di instaurare la “terza repubblica”.

In una intervista a Weltwoche (n. 46, dicembre 2015) Orbán espresse con tutta chiarezza la priorità della nazione sui diritti umani: «La mia impressione personale è che, quando si tratta di questioni spirituali, le élites europee dibattono soltanto temi superficiali e secondari. Belle parole su diritti umani, progresso, pace, apertura, tolleranza. Nel dibattito pubblico non si parla mai di temi fondamentali, cioè, da dove procedono di fatto queste cose così simpatiche. Non parliamo della libertà, non parliamo del cristianesimo, non parliamo della nazione, non parliamo dell’orgoglio. Detto brutalmente: ciò che oggi impera nell’opinione pubblica europea è soltanto un “bla-bla-bla” europeo e liberale su tempi simpatici ma secondari».

Questo spirito è stato trasferito in particolare alla costituzione ungherese. Nel suo preambolo, si presenta l’Ungheria come una nazione cristiana. Chiaro che nei preamboli di molte costituzioni a volte si presenta in maniera idealizzata la storia della nazione. Però, a differenza di altre costituzioni occidentali, il tribunale costituzionale ungherese è obbligato a prendere le sue decisioni alla luce di questo preambolo, cioè, alla luce della concezione dell’Ungheria come nazione cristiana.

Inoltre, la questione attuale dei rifugiati proietta ancor più luce sulla ideologia neo-destrista di Orbán. Le democrazie dello stato di diritto insistono sul fatto che esiste una unità tra i diritti umani e le idee dell’identità nazionale. Per questo, gli stati dell’Unione Europea discutono vivacemente la questione di quanti rifugiati possano essere accolti e dove si mette il limite dell’accoglienza. Nonostante tutte le obbligazioni del diritto dei popoli, vi è un ampio campo per considerare legittimi i pro e i contro.

Le ideologie della ND risolvono, tuttavia, la tensione tra identità azionale e diritti umani unilateralmente ed esigono che si metta fine all’accoglienza di rifugiati. Posto che si debba preservare la purezza etnica della “nazione cristiana”, secondo Orbán, non è accettabile neppure una quota minima di 1.300 rifugiati.

Contro l’autodefinizione di “difensore dell’Occidente cristiano”

I nuovi difensori dell’Occidente cristiano tradiscono per questo i successi dello stato democratico di diritto e il contenuto universalista della morale cristiana. Su questo sfondo, è un paradosso storico che sia papa Francesco, che viene dall’America Latina e nel quale si avverte lo spirito della teologia della liberazione, che debba ricordarci sia i fondamenti delle democrazie europee, basati sui diritti umani, come il contenuto centrale della morale cristiana. Il suo discorso a Lampedusa e il recente appello alle parrocchie e monasteri ad accogliere come minimo una famiglia di rifugiati sono stati colti intuitivamente, da parte di settori dell’Europa secolare, come una testimonianza originariamente cristiana. Al contrario, coloro che, di destra, si definiscono i nuovi difensori dell’Occidente cristiano, insultano pubblicamente il papa e persino lo condannano come traditore.

Le Chiese cristiane si portano ancora dietro la passata eredità delle loro alleanze con i sistemi fascisti del secolo XX. Una rinnovata complicità con le ideologie della ND all’inizio del secolo XXI le precipiterebbe in una nuova crisi di credibilità, le cui ombre oscurerebbero per secoli la vita dei cristiani e delle cristiane di tutta Europa.

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il commento al vangelo della domenica

venite benedetti …

commento al vangelo della trentaquattresima domenica (26 novembre 2017) del tempo ordinario:

Mt 25, 31-46

 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: « Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria.  Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre,  e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.  Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo,  perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto,  nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi».  Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere?  Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito?  Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?».  E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me».  Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli,  perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere,  ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato».  Anch’essi allora risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?».  Allora egli risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me».  E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».
il commento di p. E. Bianchi:

 

Siamo giunti all’ultima domenica dell’anno liturgico, la quale nei tempi recenti (per l’esattezza dal 1925, ad opera di Pio XI) è stata istituita come “Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo”: festa di colui che reintesterà in sé tutte le realtà create, che si mostrerà “Re dei re e Signore dei signori” (Ap 19,16) e che nel giudizio finale emetterà la parola ultima sul bene e sul male della storia, inaugurando “cieli nuovi e terra nuova” (Is 65,17; 66,22; 2Pt 3,13; Ap 21,1).

L’ordo liturgico prevede un brano del Vangelo secondo Matteo, la conclusione del discorso escatologico (cf. Mt 24-25), pronunciato da Gesù a Gerusalemme nei giorni precedenti la sua passione e morte. Al cuore del lungo discorso riguardante la fine dei tempi, Gesù ha annunciato la venuta del Figlio dell’uomo, la sua parusia gloriosa: prima comparirà nel cielo il segno del Figlio dell’uomo, la croce, poi tutti vedranno lo stesso Figlio dell’uomo veniente nella potenza e nella gloria sulle nubi del cielo, attorniato da angeli inviati a radunare gli eletti da tutti confini della terra. Sarà un avvento di dimensione cosmica, un evento che s’imporrà a tutto l’universo e che provocherà nelle genti della terra un sentimento di accusa verso di sé per il male compiuto, fino a battersi il petto. Ognuno contemplerà questo Veniente nella gloria, trafitto, perché egli attirerà a se gli occhi di tutti (cf. Gv 19,37; Ap 1,7).

Dopo questo annuncio (cf. Mt 24,4-44), Gesù consegna un ammonimento (cf. Mt 24,37-44) e tre parabole sulla vigilanza e sulla responsabilità da assumere di fronte alla sua venuta gloriosa (cf. Mt 24,45-25,30). Infine, chiude il discorso con il brano che oggi meditiamo, testo difficilmente catalogabile all’interno dei generi letterari: è un racconto che sembra una parabola, ma non lo è pienamente; non è neppure un’allegoria; è piuttosto un racconto esemplare, la descrizione profetica di un quadro apocalittico. Aprendo il cuore e chiedendo allo Spirito santo di operare nella nostra intelligenza, cerchiamo ora di cogliere in queste parole di Gesù dove stia per noi, qui e ora, il Vangelo, la buona notizia.

“Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui…”. Sì, all’orizzonte della storia c’è la venuta del Figlio dell’uomo, il Veniente da Dio, preesistente alla creazione del mondo presso Dio, che nell’umiltà è venuto nel mondo e ha annunciato il Regno in azioni e parole, che ora va verso la passione e morte, ma che verrà nella gloria alla fine della storia per un decreto estrinseco alla storia stessa, in obbedienza alla volontà del Padre, Signore e Creatore del cielo e della terra. Quando verrà nella gloria, apparirà con tutti i suoi angeli, creature a noi invisibili. Così avveniva, secondo l’Antico Testamento, la manifestazione, l’epifania del Dio vivente: quando Dio appare, è attorniato dalle sue schiere di messaggeri (cf. Dt 33,2) e dai suoi santi (cf. Zc 14,5). È lo jom ’Adonaj, “il giorno del Signore” (cf. Am 5,18.20; Is 2,12; Sof 1,7, ecc.) preannunciato dai profeti, nel quale si manifesterà il Veniente, incaricato di emettere il giudizio su tutta la storia. Egli ha le sembianze di un “umano” (ben enosh, hyiòs toû anthrópou), ed essendo giudice va a sedersi sul trono della gloria, il trono sul quale il Signore regna (cf. Sal 9,5.8; 11,4, ecc.).

La visione è grandiosa: davanti a lui saranno riunite tutte le genti della terra, di ogni luogo e di ogni tempo, tutta l’umanità! Si tratterà innanzitutto di operare una separazione, di fare un discernimento tra gli umani, allo stesso modo con cui un pastore deve separare le pecore dalle capre. Se la zizzania era cresciuta insieme al grano, ora la si deve separare da esso (cf. Mt 13,24-30.36-43); se la rete aveva catturato pesci buoni e pesci cattivi, è venuto il momento di fare la cernita, trattenendo quelli buoni e gettando nel mare i cattivi (cf. Mt 13,47-50). Questa operazione che il Figlio dell’uomo farà come pastore, è sempre stata annunciata ed è necessaria affinché l’ultima parola sul male e sul bene operato dagli umani nella storia sia di Dio: parola definitiva, parola di giustizia, che contiene in sé la misericordia ma che è nel contempo un giudizio. Guai se il cristiano dimenticasse questa realtà che lo attende, d’altronde confessata nel Credo: “Di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare (venturus est … iudicare) i vivi e i morti e il suo Regno non avrà fine”.

Davanti a questo Re universale, che ammette o esclude dal suo regno, vi è l’oikouméne, il mondo intero, l’umanità, i cristiani e i figli di Israele: tutti, veramente tutti! Nello stesso tempo, si avverte che il giudizio è dato a ogni persona, uomo e donna, perché il Re “renderà a ciascuno secondo le sue azioni” (Mt 16,27; cf. Sal 62,13). Ecco allora la seconda scena, quella del giudizio vero e proprio, costituita da un dittico che presenta elementi paralleli: una doppia sentenza emessa sull’umanità, la prima positiva, la seconda negativa. Che cosa considera il Re seduto sul trono della gloria, per formulare il giudizio? Ciò è molto interessante, e credo che poco ci si sia interrogati sulla scelta dei capi di approvazione o di accusa scelti e proclamati da Gesù. Non si tratta di questioni che riguardano la fragilità degli umani, il loro aver compiuto il male in quanto attratti da passioni umane. Non che questi non siano stati peccati, ma in vista della salvezza o della perdizione non appaiono come cause di vita o di morte eterna. Non sono neppure elencati i peccati contro Dio, quali la bestemmia o la mancata osservanza del sabato (di tradizioni religiose). Le colpe che causano l’esclusione o l’ingresso nel Regno sono invece quelle concernenti i rapporti, le relazioni tra gli umani, in particolare in riferimento alla situazione di bisogno o di disgrazia: la fame, la sete, l’emarginazione dello straniero, la nudità, la malattia, la prigionia. Rispetto a queste situazioni, come si sono comportati gli umani? Sulla risposta a tale interrogativo si fonda la benedizione o la maledizione.

Questo Re dell’universo può dunque dire: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Qui si gioca la salvezza: nella relazione concreta con ogni altro essere umano. Sulla terra avviene già il “processo”, quando di fronte a chi è nel bisogno facciamo qualcosa, quello che possiamo e sappiamo fare, oppure non facciamo nulla, perché passiamo oltre ignorando il suo grido di aiuto. Alla fine, nel giudizio, ci sarà solo la sentenza. Non nel culto, non nella liturgia ci si salva, ma nella relazione tra corpi, nel volto contro volto, mano nella mano, carne che tocca la carne… L’amore che Gesù richiede non è astratto, non è fatto di intenzioni e sentimenti, non è solo “preghiera per”: è azione, comportamento, concreta responsabilità. Se la liturgia, la preghiera e i sacramenti non ci conducono a questo, allora sono sterili e inutili, in quanto sono finalizzati all’amore, al vivere nell’amore, all’amare persino il nemico, il non amabile (cf. Mt 5,43-48).

Ma questa sentenza del Re, stupisce e meraviglia coloro ai quali viene rivolta. Per questo essi reagiscono con una domanda: “Quando mai, Signore, abbiamo fatto questo e quest’altro?”. Lo stupore dei giusti è altamente significativo: questi benedetti non sanno di essere stati misericordiosi anche verso Gesù! Ed è fondamentale non saperlo, perché Gesù, come Dio, è presenza nascosta, elusiva: se non lo si riconosce, si compie l’azione in piena gratuità, senza pensare di aver fatto un’opera meritoria che Dio ricompenserà in quanto rivolta al Figlio dell’uomo. La malvagità o la bontà dell’azione compiuta nascono dal modo in cui si vive la relazione con il fratello o la sorella, e non in riferimento al Dio che non si vede. Su ciò sono sempre istruttive le parole della Prima lettera di Giovanni: “Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è compiuto in noi … Se uno dice: ‘Io amo Dio’ e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,12.20). Sì, tra queste persone davanti al Re ve ne sono alcuni che non conoscono Gesù, che mai hanno sentito parlare di lui: sia i suoi discepoli, sia quanti sono estranei al cristianesimo, tutti sono giudicati in base alla relazione con i più piccoli (oi eláchistoi), fratelli e sorelle di Gesù, il piccolo e il povero per eccellenza.

Al termine di questo ascolto, mi ardono gli orecchi, perché in quanto ascoltatore e lettore sono costretto a constatare quante volte ho compiuto omissioni, cioè non ho fatto il bene: i peccati di omissione sono i capi di accusa contro di noi nel giorno del giudizio. Benedizione per chi ha saputo prendersi cura, con la sua carne, della carne dei fratelli e delle sorelle; maledizione per chi è passato oltre, magari bisbigliando preghiere, ma non vedendo, non riconoscendo, non avvicinandosi all’altro che era nel bisogno. Questa pagina è un grande insegnamento per chi pensa di poter amare il Dio che non si vede senza amare il bisognoso che si vede… Eppure noi cristiani – confessiamolo – non siamo tra i benedetti: c’è chi ha fame all’entrata dei supermercati, e noi gli diamo solo le monete che appesantiscono le nostre tasche; c’è chi è straniero, e noi pensiamo a lui dando qualcosa di superfluo alla Caritas, magari per il pasto di Natale, ma mai lo invitiamo alla nostra tavola, a casa nostra, perché questo ci provoca troppo disagio; c’è chi è nudo, e tutt’al più gli diamo un abito da noi consumato, che riteniamo indegno di stare nei nostri armadi pieni; c’è chi è in carcere, e noi neanche ci sogniamo di andarlo a trovare, perché non lo conosciamo e perché pensiamo che se l’è meritata. Quanto siamo ipocriti! Il giudizio del Re lo mostrerà.

di seguito il video del commento di p. Maggi:

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il peccato di ‘omissione’ come ‘infifferenza globalizzata’

Il grande peccato dell’indifferenza

di papa Francesco
in “L’Osservatore Romano” del 20-21 novembre 2017

Abbiamo la gioia di spezzare il pane della Parola, e tra poco di spezzare e ricevere il Pane eucaristico, nutrimenti per il cammino della vita. Ne abbiamo bisogno tutti, nessuno escluso, perché tutti siamo mendicanti dell’essenziale, dell’amore di Dio, che ci dà il senso della vita e una vita senza fine. Perciò anche oggi tendiamo la mano a Lui per ricevere i suoi doni. Proprio di doni parla la parabola del Vangelo. Ci dice che noi siamo destinatari dei talenti di Dio, «secondo le capacità di ciascuno» (Mt 25,15). Prima di tutto riconosciamo questo: abbiamo dei talenti, siamo “talentuosi” agli occhi di Dio. Perciò nessuno può ritenersi inutile, nessuno può dirsi così povero da non poter donare qualcosa agli altri. Siamo eletti e benedetti da Dio, che desidera colmarci dei suoi doni, più di quanto un papà e una mamma desiderino dare ai loro figli. E Dio, ai cui occhi nessun figlio può essere scartato, affida a ciascuno una missione. Infatti, da Padre amorevole ed esigente qual è, ci responsabilizza. Vediamo che, nella parabola, a ogni servo vengono dati dei talenti da moltiplicare. Ma, mentre i primi due realizzano la missione, il terzo servo non fa fruttare i talenti; restituisce solo quello che aveva ricevuto: «Ho avuto paura – dice – e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo» (v. 25). Questo servo riceve in cambio parole dure: «malvagio e pigro» (v. 26). Che cosa non è piaciuto al Signore di lui? In una parola, forse andata un po’ in disuso eppure molto attuale, direi: l’omissione. Il suo male è stato quello di non fare il bene. Anche noi spesso siamo dell’idea di non aver fatto nulla di male e per questo ci accontentiamo, presumendo di essere buoni e giusti. Così, però, rischiamo di comportarci come il servo malvagio: anche lui non ha fatto nulla di male, non ha rovinato il talento, anzi l’ha ben conservato sotto terra. Ma non fare nulla di male non basta. Perché Dio non è un controllore in cerca di biglietti non timbrati, è un Padre alla ricerca di figli, cui affidare i suoi beni e i suoi progetti (cfr v. 14). Ed è triste quando il Padre dell’amore non riceve una risposta generosa di amore dai figli, che si limitano a rispettare le regole, ad adempiere i comandamenti, come salariati nella casa del Padre (cfr Lc 15,17). Il servo malvagio, nonostante il talento ricevuto dal Signore, che ama condividere e moltiplicare i doni, l’ha custodito gelosamente, si è accontentato di preservarlo. Ma non è fedele a Dio chi si preoccupa solo di conservare, di mantenere i tesori del passato. Invece, dice la parabola,

colui che aggiunge talenti nuovi è veramente «fedele» (vv. 21.23), perché ha la stessa mentalità di Dio e non sta immobile: rischia per amore, mette in gioco la vita per gli altri, non accetta di lasciare tutto com’è. Solo una cosa tralascia: il proprio utile. Questa è l’unica omissione giusta. L’omissione è anche il grande peccato nei confronti dei poveri. Qui assume un nome preciso: indifferenza. È dire: “Non mi riguarda, non è affar mio, è colpa della società”. È girarsi dall’altra parte quando il fratello è nel bisogno, è cambiare canale appena una questione seria ci infastidisce, è anche sdegnarsi di fronte al male senza far nulla. Dio, però, non ci chiederà se avremo avuto giusto sdegno, ma se avremo fatto del bene. Come, concretamente, possiamo allora piacere a Dio? Quando si vuole far piacere a una persona cara, ad esempio facendole un regalo, bisogna prima conoscerne i gusti, per evitare che il dono sia più gradito a chi lo fa che a chi lo riceve. Quando vogliamo offrire qualcosa al Signore, troviamo i suoi gusti nel Vangelo.

Subito dopo il brano che abbiamo ascoltato oggi, Egli dice: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Questi fratelli più piccoli, da Lui prediletti, sono l’affamato e l’ammalato, il forestiero e il carcerato, il povero e l’abbandonato, il sofferente senza aiuto e il bisognoso scartato. Sui loro volti possiamo immaginare impresso il suo volto; sulle loro labbra, anche se chiuse dal dolore, le sue parole:
«Questo è il mio corpo» (Mt 26,26). Nel povero Gesù bussa al nostro cuore e, assetato, ci domanda amore. Quando vinciamo l’indifferenza e nel nome di Gesù ci spendiamo per i suoi fratelli più piccoli, siamo suoi amici buoni e fedeli, con cui Egli ama intrattenersi. Dio lo apprezza tanto, apprezza l’atteggiamento che abbiamo ascoltato nella prima Lettura, quello della «donna forte» che «apre le sue palme al misero, stende la mano al povero» (Pr 31,10.20). Questa è la vera fortezza: non pugni chiusi e braccia conserte, ma mani operose e tese verso i poveri, verso la carne ferita del Signore. Lì, nei poveri, si manifesta la presenza di Gesù, che da ricco si è fatto povero (cfr 2 Cor 8,9). Per questo in loro, nella loro debolezza, c’è una “forza salvifica”. E se agli occhi del mondo hanno poco valore, sono loro che ci aprono la via al cielo, sono il nostro “passaporto per il paradiso”. Per noi è dovere evangelico prenderci cura di loro, che sono la nostra vera ricchezza, e farlo non solo dando pane, ma anche spezzando con loro il pane della Parola, di cui essi sono i più naturali destinatari. Amare il povero significa lottare contro tutte le povertà, spirituali e materiali. E ci farà bene: accostare chi è più povero di noi toccherà la nostra vita. Ci ricorderà quel che veramente conta: amare Dio e il prossimo. Solo questo dura per sempre, tutto il resto passa; perciò quel che investiamo in amore rimane, il resto svanisce. Oggi possiamo chiederci: “Che cosa conta per me nella vita, dove investo?” Nella ricchezza che passa, di cui il mondo non è mai sazio, o nella ricchezza di Dio, che dà la vita eterna? Questa scelta è davanti a noi: vivere per avere in terra oppure dare per guadagnare il cielo. Perché per il cielo non vale ciò che si ha, ma ciò che si dà, e «chi accumula tesori per sé non si arricchisce presso Dio» (Lc 12,21). Non cerchiamo allora il superfluo per noi, ma il bene per gli altri, e nulla di prezioso ci mancherà. Il Signore, che ha compassione delle nostre povertà e ci riveste dei suoi talenti, ci doni la sapienza di cercare ciò che conta e il coraggio di amare, non a parole ma coi fatti.

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