anche l’ “humanae vitae” deve cambiare – parola di mons. Bettazzi

mons. Bettazzi

anche per l’ “Humanae vitae” è ora di attuare il Concilio


“la decisione di Paolo VI fu tormentata”
“temeva di non essere compreso e scelse il rigore
Anche per Humanae vitae è ora di attuare il Concilio
 
Luciano Moia

Mezzo secolo dopo è forse arrivato il momento di ripensare alle conclusioni indicate da Paolo VI nell’Humanae vitae e di “scongelare”, come sta tentano di fare papa Francesco, l’eredità del Vaticano II. Lo afferma il vescovo emerito di Ivrea, Luigi Bettazzi, 94 anni il prossimo novembre, ultimo testimone del Concilio:

Che rapporto c’è tra la teologia di Humanae vitae e quella espressa dal Vaticano II?
Era uno dei temi che Paolo VI si era riservato. Al Concilio non fu possibile parlare di contraccezione. Com’è noto della questione si occupò una commissione. Il Papa ne allargò la partecipazione e poi sposò la tesi della minoranza.

Perché questa scelta?
Pensava che forse, lasciando la possibilità di discutere il tema al Concilio, sarebbe uscita una linea che non condivideva. Sul piano provvidenziale non riteneva che fosse opportuno aprire modifiche alla teologia consolidata. Ora, cinquant’anni dopo, può darsi invece che sia arrivato il momento di ripensare la questione. Ma affermare questo oggi, non vuol dire concludere che allora la decisione di Paolo Vi non fu chiara.

Fu comunque tormentata. La stessa scelta di aprire un supplemento di indagini dopo l’esito della commissione, non dimostra che il Papa stesso soppesò a lungo la questione?
Non poteva che essere così. Sapeva che sia la maggioranza dei padri conciliari, sia della commissione di esperti, propendeva per un parere più sfumato rispetto al “no” che poi sarebbe arrivato nell’Humanae vitae. Per questo venne contestato sia da molti teologi sia da tante conferenze episcopali.

Da dove nascevano le sue incertezze?
Temeva di non essere compreso. La Chiesa non ama i balzi in avanti. Nella storia è sempre stato così. Nell’Ottocento si aveva paura della democrazia. Cinquant’anni fa Paolo VI si convinse di non poter venire meno al rigore dottrinale sui temi della generazione. Oggi forse è arrivato il momento di ascoltare Giovanni XXIII: non è il Vangelo che cambia, siamo noi che con il trascorrere degli anni, riusciamo a capirlo sempre meglio. E quindi non sono le dottrine a cambiare, siamo noi che riusciamo a comprenderne sempre meglio il significato leggendole alla luce dei segni dei tempi.

Oggi la situazione sociale è profondamente diversa e anche la riflessione teologica è andata molto avanti. Amoris laetitia esprime questo cambio di prospettive.
Sì, perché riprende il Vaticano II. Non era facile a quei tempi affermare che nel matrimonio quello che conta è l’amore degli sposi e poi c’è la procreazione. Non che non sia importante. Ma al primo posto c’è l’amore coniugale. Era una posizione molto avanzata.

Quando pesarono in quella scelta i pareri di chi consigliava Paolo VI di non staccarsi dalla tradizione?
L’enciclica venne firmata da lui e quindi dobbiamo pensare che la decisione fu sua. Forse non vedeva chiaramente gli esiti di una decisione diversa. Forse arrivarono pressioni importanti. Ma non possiamo mettere in discussione il fatto che fu lui a decidere. Certo, i tormenti ci furono. E anche le sollecitazioni. La posizione rigorosa del cardinale Ottaviani e dell’allora Sant’Uffizio non è un mistero.

È vero che di fronte al dilagare delle proteste, Paolo VI avrebbe voluto tornare sulla questione?
Questo non saprei dirlo. Certo, l’attuazione del Concilio era un tema che lo preoccupava molto. In un senso e nell’altro. Ci teneva, ma lo portava avanti con molta prudenza. Tanto che il vescovo brasiliano Helder Camara scrisse in un suo libro di aver sollecitato più volte Paolo VI perché istituisse una commissione per l’attuazione del Concilio.

Perché questa esigenza?
Ma è chiaro. Camara, e tanti vescovi con lui, si chiedevano come sarebbe stato possibile lasciare l’attuazione del Concilio in mano a quelli che non l’avevano voluto…

E invece andò proprio così…
Purtroppo sì. Poi arrivò la rivoluzione del ’68, la Chiesa si spaventò ancora di più. E prevalsero i nemici del Concilio. Non che non ci fossero esagerazioni postconciliari da correggere. Ma invece di correggere, abbiamo congelato tutto. Con l’acqua sporca abbiamo buttato via anche il bambino.

Adesso però papa Francesco sta tentato l’operazione “scongelamento del Concilio”. Ci riuscirà?
Sì, ma deve farlo con prudenza. Perché come già aveva intuito Paolo VI, non bisogna sgomentare i fedeli più semplici. E anche quella parte della Chiesa dove la situazione sociale è diversa rispetto all’Occidente. Non è un caso che le resistenze più forti ad Amoris laetitia siano arrivate dall’Africa e dall’Europa dell’Est. E poi ci sono i tradizionalisti. Ma questo dura fin dai tempi del Vangelo. Gli oppositori di Gesù provenivano dall’area più intransigente, da coloro che guardavano alla lettera della religione, scribi e farisei. Oggi come allora, cambiare significa rinunciare a determinate posizioni, a una fetta del proprio potere, quello politico e quello ideologico. Pensarla diversamente è normale e anche giusto, ma il confronto deve avvenire nella carità, nel rispetto reciproco.

Gli attacchi che oggi vengono rivolti al Papa non sembrano proprio nel segno della carità…
No, infatti. Mi ha molto amareggiato l’uscita dei quattro cardinali con i Dubia. Si sono giustificati dicendo che inizialmente avevano scritto in privato. Ma nel momento in cui si esce pubblicamente, si tratta quasi di una sovrapposizione al potere del Papa. Certa gente è papista finché pensa che il Papa sia dalla loro parte.

Anche dopo Humanae vitae si visse questo clima di attacco al papa?
Sicuramente sì. Nella sostanza l’opposizione, anche da parte di intere conferenze episcopali, fu molto netta. Si pronunciarono per un’applicazione estensiva di Humanae vitae più di 40 conferenze episcopali. Ma in modo rispettoso, non come gli attacchi che abbiamo visto in questi mesi contro Francesco. Allora la preoccupazione dei vescovi era di tipo interpretativo. Non volevano che i divieti mettessero in secondo piano il tema dell’amore nella coppia, che anche il Concilio aveva indicato come punto di svolta.

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In Vaticano un convegno sul disarmo nucleare

In Vaticano un convegno sul disarmo nucleare

il 10-11 novembre

atteso il segretario generale delle Nazioni Unite e alcuni premi Nobel. Il portavoce della Santa Sede Greg Burke precisa: non è una mediazione tra Stati Uniti e Corea

iacopo scaramuzzi

Il dicastero vaticano per la Promozione umana integrale organizza il 10 e 11 novembre un convegno sul disarmo e, tra l’altro, sul disarmo nucleare.

 

Il programma non è ancora ufficiale ma è attesa la partecipazione del segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, dell’alto rappresentante per gli affari esteri dell’Ue Federica Mogherini, e del cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin, nonché un intervento del Papa. È prevista la partecipazione di numerosi premi Nobel.

Il congresso «non è una mediazione» tra Stati Uniti e Corea del Nord, ha precisato il direttore della Sala stampa vaticana Greg Burke, ma un «convegno di alto livello»: «Il Santo Padre – ha dichiarato – lavora con determinazione per promuovere le condizioni necessarie per un mondo senza armi nucleari, come lui stesso ha ribadito lo scorso mese di marzo in un messaggio indirizzato all’Onu riunita a tale scopo. Proprio per questo ci sarà un importante convegno la prossima settimana, “Perspectives for a World Free from Nuclear Weapons and for Integral Development”, organizzato dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale. Ma è falso parlare di una mediazione da parte della Santa Sede».

Proprio questa mattina, peraltro, il Papa si è recato in visita al Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale, oltre che al Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita.  

La posizione della Santa Sede sul tema, del resto, è nota. Lo scorso 26 settembre, in occasione della Giornata internazionale dell’Onu per la totale eliminazione delle armi nucleari, il Papa aveva scritto su Twitter: «Impegniamoci per un mondo senza armi nucleari, applicando il Trattato di non proliferazione per abolire questi strumenti di morte».   

Pochi giorni prima l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, Segretario della Santa Sede per i Rapporti con gli Stati, ha firmato a settembre il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari, adottato il 7 luglio 2017 al termine della Conferenza delle Nazioni Unite. Alle crescenti tensioni legate al programma nucleare della Corea del Nord – ha sottolineato in quell’occasione il «ministro degli Esteri» vaticano – si deve rispondere cercando di rilanciare i negoziati. Si devono in particolare superare – ha sottolineato monsignor Gallagher in occasione della decima Conferenza per facilitare l’entrata in vigore del Trattato – la minaccia nucleare, la superiorità militare, l’ideologia e l’unilateralismo che ricordano la logica della guerra fredda.   

Sempre in quell’occasione Gallagher ha anche ricordato quanto indicato da papa Francesco nel messaggio dello scorso 23 marzo incentrato sul tema delle armi nucleari: «La comunità internazionale – ha scritto il Papa – è chiamata ad adottare strategie lungimiranti per promuovere l’obiettivo della pace e della stabilità ed evitare approcci miopi ai problemi di sicurezza nazionale e internazionale».  

Quanto allo specifico scenario coreano, il Papa di ritorno dal recente viaggio in Colombia aveva risposto tra l’altro a una domanda circa la corsa agli armamenti da parte di Pyongyang, affermando: «Mi viene in mente una frase dell’Antico Testamento: l’uomo è uno stupido, è un testardo che non vede. L’unico animale del creato che mette la gamba nella stessa buca, è l’uomo. Il cavallo e gli altri no, non lo fanno. C’è la superbia, la presunzione di dire: “No, ma non sarà così”. E poi c’è il “dio Tasca”, no? Non solo riguardo al creato: tante cose, tante decisioni, tante contraddizioni e alcune di queste dipendono dai soldi». E ancora: «L’uomo è uno stupido, diceva la Bibbia. E così, quando non si vuol vedere, non si vede. Si guarda soltanto da una parte».   

Quanto alla Corea del Nord, «ti dico la verità – diceva il Papa al giornalista che aveva posto la domanda – io non capisco, davvero. Perché davvero non capisco quel mondo della geopolitica, è molto forte per me. Ma credo che, per quello che vedo, lì c’è una lotta di interessi che mi sfuggono, non posso spiegare davvero». In una recente intervista a La Civiltà Cattolica, poi, Hyginus Kim Hee-Joong, arcivescovo cattolico di Gwangju e presidente della Conferenza episcopale coreana , confermava, tra l’altro, di essere stato inviato in Vaticano a maggio dal nuovo presidente della Repubblica coreana, Moon Jae-in, subito dopo la sua elezione, con l’incarico di consegnare al Pontefice una lettera personale: «In quel momento – riferiva l’arcivescovo Hyginus – c’era la minaccia di guerra nella Penisola coreana a causa del conflitto tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord. Il nuovo presidente della Corea del Sud voleva spiegare la sua posizione per la pace della Penisola coreana e chiedere la preghiera e l’aiuto di Papa Francesco, prima che egli desse udienza al presidente Trump (udienza concessa il 24 maggio, ndr). Penso che la mia missione sia stata positiva, grazie anche all’aiuto del Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin. Il nuovo presidente, Moon Jae-in, il cui nome di battesimo è “Timoteo” – aggiunge l’Arcivescovo coreano in merito a quell’episodio – ha ringraziato il Pontefice e tutti coloro che ci hanno aiutato».

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