la vergogna del nostro parlamento con le mani sporche di sangue

un parlamento con le mani insanguinate

 

Tonio Dell’Olio

in Mosaico dei giorni

 

 

301 voti contrari e 120 a favore. La Camera dei Deputati ha respinto le richieste rivolte al Governo per bloccare la vendita di armi a Paesi in guerra o responsabili di violazioni dei diritti umani come peraltro disposto dalla legge 185/1990 e dal Trattato internazionale sul commercio delle armi.

http://www.mosaicodipace.it/mosaico/i/3053.html

 




il possibile dialogo

IL DIALOGO FRA CULTURE E RELIGIONI

di Carlo Molari

Nel giugno 2016 si è svolto a Parigi un Congresso di teologia organizzato dalla rivista internazionale di teologia «Concilium», insieme con l’Istituto di scienze e di teologia delle religioni (Istr), con la Facoltà di teologia e scienze religiose dell’Istituto cattolico di Parigi (Theologicum) e con la partecipazione dei Domenicani, nel quadro delle celebrazioni dell’ottavo centenario della loro fondazione. Il problema affrontato nel Congresso, Come praticare il dialogo fra culture e religioni, viene messo a fuoco da alcuni interventi, successivamente pubblicati nel n. 1/2017 della rivista «Concilium» (a cura di T.-M. Courau e C. Mendoza Alvarez). Gli Atti del Congresso parigino saranno pubblicati dall’editrice Cerf (Parigi).

 

Ipotesi interessante

Il Congresso e il quaderno di «Concilium» partono dall’ipotesi «che il riconoscimento della singolarità culturale e religiosa di un mondo, con i suoi aspetti irriducibili ad altri mondi, non è un problema o un ostacolo ad un dialogo autentico. Al contrario, prendere coscienza della singolarità altrui è uno degli atteggiamenti decisivi per avanzare in una conoscenza più adeguata di sé e per la costruzione di un progetto comune di società» (ib., Editoriale, pp. 12).
Nella pratica di dialogo e nella riflessione che l’ha accompagnata in questi decenni si proponeva come punto di partenza gli elementi comuni ai dialoganti. Per questo l’ipotesi proposta e sviluppata viene considerata «come un vero cambiamento di paradigma» (ib., Editoriale, p. 13).
Il motivo per cui nella storia il proprio punto di vista culturale è stato considerato assoluto e il dialogo risultava difficile risiede nella considerazione che il linguaggio è stato istintivamente pensato come riproduzione della realtà o addirittura riflesso delle idee divine, in quanto insegnato da Dio. Ma da quando il linguaggio è stato scoperto e interpretato come una invenzione umana se ne sono individuati limiti e condizionamenti. Ma soprattutto non è stato più possibile partire dal linguaggio per descrivere la realtà.
È stato necessario ricercare un dato precedente, l’esperienza vitale, e rassegnarsi al dialogo per una ricerca comune. In questa prospettiva la verità è un traguardo da raggiungere insieme partendo dalle caratteristiche proprie delle diverse culture.
La nuova acquisizione ha consentito una convergenza di riflessioni; in particolare vi è stato un accordo nell’uso del termine razionalità, come è stata proposta nell’elenco degli argomenti del Congresso di Parigi. Essa indica «una visione, un approccio, una percezione razionale singolare della realtà» ed è «compresa come un insieme di grammatiche intessute fra di loro, di strutture mentali acquisite per apprendere e rendere conto di ciò che si sperimenta e si viene a conoscere» (ib., p. 12).
Sono quattro le tappe del cammino compiuto durante il Congresso e riflesso negli interventi del numero di «Concilium»:pensare le diverse razionalità culturali e religiose (per precisare i concetti di riferimento); a contatto delle realtà sul campo (la messa in questione dell’ipotesi nell’esame dei fatti concreti); sulla verità e l’universale (le opportunità concettuali offerte dal nuovo paradigma); e infine la proposta di alcune prospettive teologiche (piste indicate per un concreto lavoro teologico fecondo). (cfr. ib., p. 13).

Un esempio emblematico

Fra i molti articoli mi limito a presentare la relazione di Felix Wilfred, l’attuale direttore di «Concilium»,che propone uno sguardo asiatico sul problema, ma con occhi allenati allo sguardo universale già dagli studi teologici iniziati a Roma (Università Urbaniana) e proseguiti con molteplici esperienze di insegnamento universitario in varie parti del mondo. La sua relazione ha una parte generale che riprende il tema di fondo del Congresso parigino con una breve applicazione al mondo indiano: Fede cristiana e razionalità socio-culturali. Riflessioni dall’Asia (pp. 119-130).
L’esempio da cui parte è già indicativo della problematica: nel monastero adiacente la Cattedrale di Bressanone esiste la pittura di «un grande e potente cavallo con due zanne da elefante, una proboscide e due larghe orecchie». L’artista che non aveva mai visto un elefante ma ne aveva sentito parlare, l’aveva immaginato secondo le sue categorie per le quali il cavallo rappresentava l’animale più grande mai visto. È un modo molto concreto per introdurre il discorso.
La prima costatazione riguarda i limiti di una teologia che presume utilizzare categorie universali, senza la consapevolezza del pluralismo delle razionalità umane. Per questo «la teologia ha bisogno di accostarsi alla ragione in modi nuovi, profondamente consapevole dei suoi gravi limiti, ma allo stesso tempo pure delle forme plurali di razionalità che scaturiscono da storia, cultura, tradizione, filosofia, visioni del mondo ecc.» (ib., p. 120). Quando non è consapevole del pluralismo delle razionalità umane «la teologia diventa inautentica e perde il suo ancoraggio alla realtà» (ib., p. 121). Egli cita l’esempio di Benedetto XVI nella discussa lezione a Regensburg nel 2006 quando identificò la ragione umana con la razionalità greco romana e affermò: «Le decisioni di fondo che appunto riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa, e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura» (Osservatore Romano, 14 settembre 2006, ib ., a p. 121).
La seconda constatazione riguarda la radice del pluralismo di razionalità cioè il condizionamento derivato dal linguaggio. «Proprio perché la lingua cinese, quella araba e quella francese operano con modi linguistici diversi, noi realizziamo ragionamenti diversi e quindi approcci diversi alla realtà, molti modi di ordinare e interpretare il mondo e strutturare la società. In breve i processi cognitivi e le costruzioni del pensiero seguono modelli linguistici» (ib., pp. 122s.).
Giustamente Wilfred avanza il sospetto che la teologia non abbia tratto completo profitto dalle conclusioni della linguistica strutturale sia medioevale per l’India (cita Anandavardhana 820-890) sia moderna per l’Occidente (cita il Corso postumo di Ferdinand de Saussure, 1857-1913).
In particolare insiste sulla dimensione classista della razionalità umana: «Le operazioni teoretiche, come analisi, sintesi, classificazione, inferenza, dialettica ecc. non son concezioni immacolate; riflettono anche il fattore classista, le inclinazioni culturali, le condizioni e disposizioni sociali. Il modo con cui i poveri percepiscono, giudicano, analizzano e valutano le situazioni è diverso dal modo in cui lo fanno le classi dominanti, le caste e i gruppi elitari della società» (ib., pp. 128s.).
Infine cita come «deplorevole» la messa in guardia contro l’uso di «metodi orientali» da parte della Congregazione per la dottrina della fede (Lettera su Alcuni aspetti della meditazione cristiana del 15 ottobre 1989) «perché associa la fede con un particolare tipo di ragione e dimostra un’ignoranza pressoché totale della natura di questa prassi della ragione pratica nel contesto asiatico» (ib., p. 128).
A questo proposito Wilfred è convinto che la Congregazione dovrebbe lasciare il compito di controllare le razionalità socioculturali alle chiese locali «che sono in grado di giudicare materie di ortodossia ed eterodossia nel contesto» (ib., p. 130). E termina velocemente: «Questo significa che la chiesa può non aver bisogno di un’istituzione come la Congregazione per la dottrina della fede. Essa deve passare rapidamente alla storia. Non sarebbe dovuta scomparire già da molto tempo?» (ib., p. 130). Ma se crediamo nel processo evolutivo e nell’azione creatrice di Dio man mano che le creature si sviluppano e diventano complesse, perché non ritenere che come le scoperte del passato hanno mostrato i limiti di molte interpretazioni teologiche, e consentito un reale cambiamento di strutture mentali, così avverrà certamente nel futuro. E il cammino verso la verità riprende da capo.

 

 




il vero problema dell’Africa non sono gli africani ma le multinazionali

il problema non è aiutarli a casa loro

è liberare casa loro

e restituire il maltolto

ecco come le multinazionali

sottraggono all’Africa miliardi di dollari

aiutarli a casa loro

 

.Le multinazionali sottraggono all’Africa miliardi di dollari

 Secondo il nuovo rapporto Oxfam rilasciato in data odierna [2 giugno, ndt], intitolato: “Africa: l’ascesa per pochi”(1), 11 miliardi di dollari sono stati sottratti all’Africa nell’arco dell’anno 2010, grazie all’utilizzo di uno tra i tanti trucchi usati dalle multinazionali per ridurre le imposte. Tale cifra, è sei volte l’equivalente dell’importo che sarebbe necessario a colmare il vuoto di fondi nel sistema sanitario di Sierra Leone, Liberia, Guinea, Guinea Bissau, tutti Stati in cui è presente l’ebola. Le scoperte dell’Oxfam arrivano in corrispondenza dell’imminente partecipazione dei leader politici ed economici al 25° World Economic Forum Africa, che si terrà in Sudafrica.

Il tema principale dell’incontro sarà come assicurare l’ascesa economica dell’Africa e conseguire uno sviluppo sostenibile. E’ necessaria una riforma del sistema di tassazione globale, affinché l’Africa possa pretendere i fondi che le spettano – tra l’altro, è necessaria per affrontare l’estrema povertà e disuguaglianza – e diviene realmente determinante se il continente deve continuare la sua crescita economica.

L’Oxfam ha richiesto a tutti i governi, la presenza dei capi di Stato e dei ministri delle finanze in vista della Financing for Development Conference che si terrà a luglio in Etiopia. La conferenza di Addis Abeba stabilirà le modalità con cui il mondo finanzierà lo sviluppo per i prossimi vent’anni; questa è un’opportunità per i governi, affinché inizino a elaborare un sistema globale di tassazione più democratico ed equo.

Winnie Byanyima, direttore esecutivo internazionale dell’Oxfam, ha dichiarato: “L’Africa sta subendo un’emorragia di miliardi di dollari, a causa dei trucchi usati dalle multinazionali per imbrogliare i governi africani, lasciandoli senza le entrate dovute, dal momento che non pagano la loro giusta quota di tasse. Se le entrate delle tasse fossero investite in educazione ed assistenza sanitaria, le società e le economie prospererebbero ulteriormente in tutto il continente”.

Nel 2010, l’ultimo anno di cui sono disponibili i dati, le compagnie multinazionali hanno evitato di pagare tasse per un ammontare di 40 miliardi di dollari statunitensi, grazie ad una pratica chiamata trade mispricing – nella quale una compagnia stabilisce prezzi artificiali per i beni e servizi venduti tra le proprie sussidiarie, al fine di evitare la tassazione. Con le corporate tax rates che hanno una media pari al 28% in Africa, ciò equivale a 11 miliardi di dollari statunitensi come entrate sotto forma di tasse.

Il trade mispricing è solo uno dei trucchi che le multinazionali usano per non pagare la loro quota giusta di tassazioni. Secondo l’UNCTAD, i paesi in via di sviluppo nella loro totalità, perdono, secondo una stima, 100 miliardi di dollari l’anno attraverso un altro set di schemi che permettono di evitare i pagamenti, coinvolgendo i paradisi fiscali.

Le compagnie fanno una dura attività di lobbying per avere agevolazioni fiscali come ricompensa per basare e mantenere le loro attività nelle nazioni africane. Le agevolazioni fiscali fornite alle sei più grandi compagnie di estrazione mineraria in Sierra Leone, raggiungono il 59% del budget totale della nazione o equivalgono a 8 volte il budget sanitario statale.

Byanyima ha aggiunto: “I leader africani non devono assistere inerti all’approvazione del nuovo sistema di tassazione globale, cosa che dà alle multinazionali la libertà di scansare i loro obblighi di pagamento delle tasse in Africa. I leader politici e d’affari devono mettere da parte la loro importanza, innanzi alle richieste, sempre più insistenti, di una riforma del sistema di tassazione internazionale. Le nazioni africane, devono introdurre un approccio più progressivo e democratico alla tassazione – incluso un appello alla parola ‘fine’ per le esenzioni dalle tasse per le compagnie straniere”.

Gli attuali meccanismi internazionali volti a superare l’evasione fiscale, come il processo BEPS (Base Erosion and Profit Shifting), controllato dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE)(2) per il G20, lasciano aperte enormi “vie di fuga” per le tasse, che le multinazionali possono continuare a sfruttare in tutto il mondo in via di sviluppo. Molte nazioni africane sono state escluse dalle discussioni sulla riforma del BEPS e, come risultato, non ne trarranno alcun beneficio.

 

Originale: http://fahamu.org/node/1911

https://www.oxfam.org/sites/www.oxfam.org/files/world_economic_forum_wef.africa_rising_for_the_few.pdf
2 Organisation for Economic Co-operation and Development (OECD) [così nominata a livello internazionale, ndt]




‘messa’ o cena del Signore?

Storia di una involuzione: dalla cena del “corpo di Cristo” alla messa

storia di una involuzione

Giampaolo Petrucci 

 
Tratto da: Adista Documenti n° 32 del 23/09/2017

Tra il 24 e il 29 luglio scorsi, presso la Domus Pacis di Santa Maria degli Angeli (Assisi), si è tenuta la 54.ma Sessione di Formazione Ecumenica del Sae (Segretariato Attività Ecumeniche) sul tema: “È parso bene allo Spirito Santo e a noi (At 15,28). Riforma, profezia, tradizione, nelle Chiese”. Tra i partecipanti al seminario, una ricca presenza di cristiani, ebrei e musulmani. La giornata del 27 luglio, sul tema “La preghiera e la mensa”, è stata inaugurata da una meditazione biblica di Ermanno Genre, teologo valdese. La lettera di Paolo ai Corinzi – dal titolo “Quando vi radunate in assemblea vi sono divisioni tra voi” (1Cor 11,17.32) – tocca un tema cruciale per la cristianità di ieri e di oggi, quello della Cena del Signore, e offre un particolare punto di vista per affrontare le divisioni della Chiesa di Corinto e, per estensione, anche delle Chiese attuali, spesso divise, clericalizzate, pervase da logiche di potere, incapaci di accoglienza e di uguaglianza. Nel corso della storia, denuncia Manifesto 4 Ottobre, la Cena del Signore è diventata la messa attuale, subendo una lenta e inequivocabile «involuzione», come osserva Genre nella sua riflessione, ponendo due questioni: «Abbiamo ridotto la cena del Signore ad un rito interclassista che non considera più la disparità sociale ed economica una questione teologica. La cena del Signore è diventata sempre più l’atto di una pietà personale privata che non si interroga sul “discernimento del corpo” che costituisce la Chiesa. Ridare vita alla correzione di Paolo significa dare corpo, nel vivere quotidiano e nella liturgia della cena del Signore, a quella parola biblica così cara ai profeti e a Gesù che si chiama “giustizia”(sedaqah) affinché il rito eucaristico non venga “destoricizzato” ma situato nella vita reale, come era quella di Gesù e dei discepoli»; «La domanda che da Corinto giunge a noi oggi interroga le nostre diverse cene ed eucarestie perché al primato della prassi si è sostituito il primato della confessionalità che crea delle appartenenze ecclesiali chiuse che mettono in ombra l’invito di Gesù che non è esclusivo ma inclusivo. Sapremo correggere i nostri abusi?».

di seguito l’intervento di Ermanno Genre così come pubblicato sul Manifesto 4 Ottobre, portale promosso da alcuni cattolici brindisini che riflettono su Vangelo, Costituzione e vita della Chiesa locale.

 

Una lettera persa

una lettera persa

Tratto da: Adista Documenti n° 32 del 23/09/2017

 

«Caro Paolo, vorremmo tanto poterti rivedere presto, per rinnovare il profondo legame spirituale che ci lega a te. Avremmo bisogno della tua presenza qui a Corinto perché ci troviamo continuamente in mezzo a conflitti. Non sappiamo se riceverai questa nostra lettera ma speriamo che tu possa essere informato da altri della nostra difficile situazione. Non è soltanto il problema del mangiare le carni sacrificate agli idoli che crea divisioni ma il nostro stesso radunarci per celebrare la cena del Signore. Anziché essere momento gioioso della nostra unità in Cristo si sta trasformando in motivo di disprezzo e di divisione verso i più poveri della comunità. Infatti, quando ci raduniamo, vi è chi arriva prima e comincia a mangiare le proprie pietanze mentre altri fratelli che lavorano al porto, addetti al carico e scarico delle merci, ci raggiungono soltanto più tardi, e quando arrivano non trovano più cibo perché il padrone di casa e i primi arrivati si sono rimpinzati oltremisura. Tu ci hai insegnato che  c’è un unico pane, e noi, diversi gli uni dagli altri, siamo un unico corpo, perché partecipiamo tutti a quell’unico pane che è Gesù Cristo. Ora però la nostra comunione in Cristo è compromessa dall’atteggiamento di alcuni membri della comunità che pensano soltanto a se stessi… Che cosa dobbiamo fare? Aspettiamo con ansia di ricevere il tuo insegnamento e ti salutiamo in Cristo, i fratelli e le sorelle di casa Cloe».

Sappiamo che tra l’apostolo Paolo e i cristiani di Corinto vi è stata una intensa corrispondenza di cui ci è pervenuta soltanto una parte. I conflitti sorti nella Chiesa di Corinto ci sono noti dalle lettere dell’apostolo Paolo e, per quanto possa essere paradossale, è grazie a questi conflitti che siamo venuti a conoscenza delle indicazioni dell’apostolo concernenti la cena del Signore. Infatti gli unici passi del suo epistolario concernenti la celebrazione dell’eucarestia sono entrambi situati nel vivo dei dissensi sorti nella chiesa di Corinto a cui Paolo ha cercato di porre rimedio. Problemi di altri tempi? Si e no. Soltanto una lettura superficiale del testo può farci pensare che il conflitto sorto a Corinto non abbia nulla a che vedere con la nostra realtà di cristiani del 21º secolo. Proviamo a mettere in evidenza il contesto in cui si situano le divisioni dei corinzi che fanno dire a Paolo che la loro cena non è più la cena del Signore. Di qui potremo rileggere autocriticamente le nostre divisioni e domandarci se le nostre celebrazioni non rischino di cadere sotto lo stesso giudizio dell’apostolo. La complessità di questo testo e dei problemi che pone richiederebbe un’ampia trattazione mentre il tempo a nostra disposizione è esiguo; conseguentemente, mi limiterò a concentrare l’attenzione su alcuni aspetti della più complessa questione.

In mezzo ai banchetti

È chiaro a tutti che a Corinto la celebrazione della cena del Signore avviene durante il pasto. A Corinto, come in tutte le Chiese cristiane primitive, l’agape comunitaria è il contesto all’interno del quale si celebra la cena del Signore; non esiste un rito eucaristico isolato, senza il pasto. Ci si incontra attorno a un tavolo, non davanti a un altare. È di qui dunque che occorre partire per cercare di comprendere i dissensi sorti a Corinto. Dissensi che, come appare chiaramente dai duri rimproveri dell’apostolo, non sono innanzitutto di ordine dottrinale, sono dissensi intrecciati con la convivialità, coinvolgono in prima istanza la dimensione delle relazioni sociali e umane interne alla Chiesa. Paolo ha spiegato ai corinzi che quando si radunano nel nome del Signore questa adunanza costituisce il “soma Christou”, cioé “il corpo di Cristo”. Conseguentemente, quando queste relazioni sono compromesse, ne è compromessa anche la celebrazione della cena del Signore che unisce e manifesta questo corpo ecclesiale. Per questo motivo, riassumendo le informazioni ricevute da alcuni cristiani di Corinto, Paolo non ha dubbi: «Quando vi riunite insieme, quello che fate, non è mangiare la cena del Signore» (1Cor 11,20). Per noi moderni la situazione può apparire assurda, dal momento che abbiamo abbandonato il pasto che a Corinto era strutturalmente legato alla celebrazione della cena del Signore. Questa prassi propria dei cristiani di Corinto si iscriveva nel più ampio contesto dei banchetti greco-romani a cui partecipavano anche i cristiani. Una partecipazione che era diventata anch’essa motivo di divisione all’interno della comunità. L’apostolo aveva cercato di porvi rimedio e di ciò ne abbiamo testimonianza nei capitoli 8, 9 e 10 della stessa epistola (si veda, più  dettagliatamente, E. Genre, Gesù ti invita a cena. L’eucaristia è ecumenica, Claudiana, Torino, 2007, 23ss.).

Greci e romani (Plutarco, Senofonte, Giovenale, Marziale, ecc.) ci hanno lasciato numerose tracce della tradizione dei banchetti o simposi a cui avevano normalmente accesso soltanto determinate classi sociali e in cui l’assegnazione dei posti a tavola assumeva una grande importanza; conseguentemente la diversa stratificazione sociale dei commensali costituiva un permanente elemento di tensione. Non mancano, tuttavia, degli esempi in cui si cercava di spezzare queste barriere sociali di esclusione per realizzare delle relazioni di “convivialità filantropica”. Ce ne offre un esempio Luciano di Samosata quando afferma che: «La cosa più bella in un banchetto è l’uguaglianza, e il dio che presiede ai conviti si chiama Spartipari, perché tutti devono avere pari la loro parte» (Lettere Saturnali, 3,32). Vi è una tensione permanente tra appartenenza di classe ed egualitarismo e di questa tensione abbiamo più di una traccia nei testi del Nuovo Testamento. È precisamente in questo contesto sociologico e culturale che Gesù si muove e a cui si ricollegano i Vangeli quando ci presentano l’attività di Gesù e dei discepoli. E questo è anche il contesto in cui la comunità cristiana di Corinto fa i suoi primi passi per definire la propria identità. Il banchetto agapico dei cristiani di Corinto si inserisce dunque come nuovo modello aggregativo nel mondo greco e romano dell’epoca con la sua propria originalità. Occorre pertanto distinguere la prassi degli inviti ai banchetti del mondo greco e romano, che avvenivano per iniziativa privata di persone benestanti con biglietti di invito personali, dall’autoconsapevolezza dei primi cristiani che si riunivano perché si sentivano convocati da Dio stesso a formare una comunità di uguali in cui nessuno è escluso. È questa autoconsapevolezza di essere convocati direttamente da Dio che fa la Chiesa e che pone tutti i partecipanti su un piano di pari dignità. Ma è proprio questo che i corinzi sembrano avere dimenticato.

Come i profeti

«Quando vi radunate insieme, quello che fate, non è mangiare la cena del Signore» (v. 20). Sono parole che hanno l’impronta dei profeti quando annunciano il giudizio su Israele. Qui il giudizio cade sulla comunità riunita per il pasto serale all’interno del quale veniva celebrata la cena del Signore. Questi disordini nelle agapi sono stati un problema che ha creato divisioni in molte comunità nei primi secoli di cristianesimo e i corinzi non sono un’eccezione. Non ci si stupirà che se ne accenni ancora in un testo tardivo che ha trovato spazio nel canone del Nuovo Testamento, la lettera di Giuda, in cui si lancia un’accusa a coloro che «sono delle macchie nelle vostre àgapi» (v. 12). Questi problemi, parallelamente alle mutazioni sociologiche del cristianesimo delle origini e alla clericalizzazione dei ministeri, porteranno ad attribuire al pasto comunitario una semplice funzione “caritativa”, separata dalla celebrazione della cena del Signore. L’agape non sarà più l’incontro (koinonia) della comunità attorno al pasto all’interno del quale si celebra la cena del Signore ma rappresenterà l’azione caritativa verso i poveri e i bisognosi. Il sinodo di Laodicea (tra il 342-381) stabilirà, con il canone 28, il divieto di tenere le agapi nelle chiese (PG 137,765.). Da questo momento le agapi dei cristiani non fanno più parte del contesto liturgico in cui si celebra la cena del Signore ma vengono confinate nello spazio caritativo/diaconale della Chiesa. Noi tutti siamo eredi di questa decisione assunta a Laodicea così come lo siamo della svolta costantiniana. Resta però la domanda: perché l’apostolo Paolo insiste su questo aspetto agapico all’interno del quale si celebra la cena del Signore? Non avrebbe potuto anticipare la decisione di Laodicea e risolvere questi dissensi che si sono protratti per secoli? Io credo che nella difesa che l’apostolo Paolo fa della dimensione agapica della cena del Signore vi sia un motivo teologico che tocca in profondità la natura stessa della Chiesa. Già lo abbiamo in parte anticipato, ma è necessario riprenderlo e approfondirlo.

Nella risposta dell’apostolo ai corinzi notiamo una forte contrapposizione tra la propria cena (to idion deipnon) e la cena del Signore (kuriakon deipnon). E in questa contrapposizione sta il motivo di fondo della critica dell’apostolo. La ricostruzione dell’accaduto non può che essere congetturale. Rinaldo Fabris propone questa ricostruzione: «Nella sala del padrone di casa-triclinio prendono posto gli amici e i clienti del padrone di casa – circa una decina di persone – mentre nell’atrio o peristilio si sistemano tutti gli altri. Dopo la benedizione del pane eucaristico segue il pasto comune con le varie vivande portate dagli ospiti. Alla fine – «dopo aver cenato» – c’è la benedizione del calice eucaristico. È al momento del pasto comune che avvengono le divisioni. I pochi cristiani benestanti e di alto rango consumano fra loro le ricche vivande che hanno portato, mentre «quelli che non hanno niente soffrono la fame e si trovano a disagio” (R. Fabris, Prima lettera ai Corinzi, Paoline, Milano, 144). Questa cornice più che verosimile ci aiuta a capire la reazione dell’apostolo che biasima duramente il comportamento anti-comunitario, anti-ecclesiale dei corinzi, che così facendo, spezzano la dimensione di comunione fraterna e, con essa, la comunione con il Signore della mensa. L’espressione greca ton idion deipnon, la “propria” cena, sta qui ad indicare la privatizzazione di un evento a carattere simbolico che è operativo unicamente nella dimensione del kuriakon deipnon, della cena del Signore, cioè di una comunione che ruota attorno a Gesù Cristo e non alle pietanze. Paolo lo aveva chiarito già nel capitolo 10 della stessa epistola quando aveva invitato i corinzi a prendere le distanze dall’idolatria, dai banchetti pagani, ricordando che «vi è un unico pane, noi, che siamo molti, siamo un corpo unico, perché partecipiamo tutti a quell’unico pane» (1Cor 10, 17). È precisamente ciò che i corinzi non sono più in grado di riconoscere con il loro atteggiamento egoistico: «Resta esclusa la convivialità con Cristo, perché si escludono i poveri dalla propria convivialità – commenta Barbaglio –. La celebrazione eucaristica diventa illusoria… È annullato il rapporto di comunione partecipazione con il Signore sotto il segno della cena, perché si annulla il rapporto di comunione e solidarietà con i fratelli bisognosi sotto il segno della cena comune… Dove non c’è Chiesa, intesa quale comunità solidale, non può esserci la cena del Signore» (G: Barbaglio, La prima lettera ai Corinzi, EDB, 1995, p. 573). In altre parole, con il loro comportamento conviviale, i corinzi, senza esserne consapevoli, si sono autoesclusi dalla cena del Signore. Perché vi sia inclusione occorre che chi mangia la “propria” cena riconosca che la condivisione del pane e del vino della cena del Signore, dono di Dio per tutta la Chiesa riunita, richiede il superamento del proprio ego e il rispetto dell’uguaglianza e della fraternità di tutti i membri della comunità.

La “tradizione” e i commenti dell’apostolo

È a questo punto che l’apostolo Paolo cita la “paradosis”, la tradizione della cena del Signore che leggo nella versione interconfessionale (TILC):

«Io ho ricevuto dal Signore quel che a mia volta vi ho trasmesso: nella notte in cui fu tradito, il Signore Gesù prese il pane, fece la preghiera di ringraziamento, spezzò il pane e disse: “Questo è il mio corpo che è dato per voi. Fate questo in memoria di me”. Poi, dopo aver cenato, fece lo stesso col calice. Lo prese e disse: “questo calice è la nuova alleanza che Dio stabilisce per mezzo del mio sangue. Tutte le volte che ne berrete, fate questo in memoria di me”. Infatti, ogni volta che mangiate da questo pane e bevete da questo calice, voi annunziate la morte del Signore, fino a quando egli ritornerà» (1Cor 11, 23-26).

Questo è quanto Paolo ha ricevuto e che ora ricorda ai corinzi. L’azione della cena del Signore consiste dunque nel “fare”, cioè nel ripetere i gesti compiuti da Gesù in sua memoria. Due volte ricorre l’azione verbale “fare” e due volte “in memoria di me”. Le espressioni temporali “tutte le volte”, “ogni volta”, indicano la ripetitività del rito che i corinzi praticano con regolarità ma che agli occhi dell’apostolo si è trasformato in un anti-rito: «quello che fate, non è mangiare la cena del Signore». Non entro qui nel merito della “memoria”, anamnesis, concetto così importante nella Bibbia ebraica e non a caso presente proprio in queste parole riferite a Gesù e che richiederebbe un’ampia trattazione. Riprenderò invece due considerazioni dell’apostolo come suo commento dopo aver citato la “tradizione”: a) il mangiare il pane e il bere indegnamente dal calice; b) il discernere il corpo (del Signore) che si riallaccia alla situazione che ha provocato scissioni e divisione nella comunità.

a) Mangiare e bere “indegnamente”. Dopo aver citato la tradizione Paolo cerca ora di trarne insegnamento per i corinzi che si sono distanziati da essa creando confusione e divisioni. L’avverbio anaxios che le nostre bibbie rendono con “in modo indegno”, “indegnamente”, non indica le persone bensì il modo di partecipazione; l’indegnità consiste nel fatto che alcuni mangiano “la propria cena” senza più scorgere il legame di solidarietà che li lega alla comunità. Chi si comporta in quel modo si rende «colpevole (enoxos) verso il corpo e il sangue del Signore» (v. 27) perché non riconosce il vincolo della comunione ecclesiale che fa sì che quel mangiare e quel bere siano realmente la cena del Signore. Cristo è realmente presente fra i commensali come corpo spirituale nella comunione (koinonia) dei suoi membri in cui ognuno è parte di un unico corpo. Mangiare “la propria cena” è il modo indegno di partecipare alla cena del Signore perché così facendo si ferisce e si spezza la comunione (koinonia), la comune appartenenza all’unico pane che è Gesù (1Cor 10,17). Di fatto, i corinzi, senza rendersene conto, hanno creato un nuovo rituale che «disprezza la chiesa e umilia coloro che non hanno nulla» (v. 22b), un rituale che ha smarrito la dimensione dell’agape comunitaria e lo ha trasformato in un pasto che non è più “mangiare la cena del Signore” ma un consumare egoisticamente dei cibi che non si situano più sotto la benedizione del Signore perché sono stati portati per sé e non per essere condivisi con i fratelli e le sorelle. Il commento critico dell’apostolo non è di natura sociologica ma teologica e più precisamente cristologica; per superare i dissensi Paolo non propone ai corinzi di istituire un servizio d’ordine, un simposiarca che garantisca l’ordine e il rispetto del rito, come avveniva nei simposi greco-romani. E non pensa neppure di poter risolvere la questione facendo ricorso alla sua autorità di apostolo. No, Paolo fa unicamente riferimento a Cristo, e questo è il motivo per cui ricorda ai corinzi la “paradosis”, la tradizione, di cui egli non è che un anello di trasmissione.

b) Discernere il corpo. Dal ragionamento di Paolo si capisce che il suo interesse non è di tipo sacramentale nel senso con cui lo interpretiamo oggi, legato al pane e al vino, bensì alla nozione di “corpo”. Prima di accostarsi alla cena del Signore i corinzi sono invitati a fare un vero e proprio autoesame (dokimazeto antropos eauton) perché chi prende parte alla cena «senza distinguere il corpo mangia e beve la propria condanna» (v. 29). Questa autoverifica, come emerge chiaramente dal contesto, non riguarda «la sfera dei sentimenti né l’ambito di idee teologiche sul sacramento, bensì – ricorda Barbaglio – la “prassi” conviviale» (Barbaglio, cit., 599 ). Che cosa si deve intendere allora con “corpo”? Le nostre versioni moderne aggiungono spesso “del Signore”, seguendo la variante dei codici che è però un’interpretazione. Fabris sostiene che: «Nel contesto del discorso di Paolo chi non riconosce il corpo equivale a chi “mangia il pane o beve il calice del Signore in modo indegno”, così come chi “mangia e beve la propria condanna” coincide con chi “dovrà rispondere del corpo e del sangue del Signore”. Allora il corpo che non viene riconosciuto è l’unico corpo formato dai partecipanti all’unico pane (1Cor 10, 17). È la “Chiesa di Dio” che viene disprezzata perché i poveri sono umiliati» (Fabris, cit., 153). Dovrebbe essere chiaro dunque che il “corpo” da discernere, da riconoscere, è vivente nella relazione intersoggettiva dei diversi membri della comunità, che devono essere rispettati e non disprezzati e offesi.

L’invito finale dell’apostolo ad aspettarsi si situa in questo stesso orizzonte e si riallaccia a quanto scritto all’inizio del brano:«È necessario che ci siano tra voi anche delle divisioni, perché quelli che sono approvati (dòkimoi) siano riconosciuti tali in mezzo a voi» (v. 19). Chi sono questi “dòkimoi”, cioè “quelli che sanno superare le prove”, come traduce la TILC, se non coloro che sono in grado di distinguere la cena del Signore che raffigura simbolicamente il corpo di Cristo che è la Chiesa da ”toidion deipnon”, da chi pensa solo a se stesso? Le divisioni dunque possono avere anche un valore positivo, terapeutico potremmo dire, nel senso che possono innescare un autentico processo di maturazione. Il verbo greco “dokimazein” nell’antichità veniva anche usato per indicare la purezza di un metallo, purezza che si affermava attraverso la prova del fuoco. Il biasimo dell’apostolo non è un ammonimento moralistico, paternalistico, bensì un richiamo che egli rivolge a dei fratelli e sorelle in fede («fratelli miei», v. 33).

Concludendo pongo ancora alla nostra attenzione due questioni.

La prima. Eredi della decisione di Laodicea, abbiamo ridotto la cena del Signore ad un rito interclassista che non considera più la disparità sociale ed economica una questione teologica. La cena del Signore è diventata sempre più l’atto di una pietà personale privata che non si interroga sul “discernimento del corpo” che costituisce la chiesa. Ridare vita alla correzione di Paolo significa dare corpo, nel vivere quotidiano e nella liturgia della cena del Signore, a quella parola biblica così cara ai profeti e a Gesù che si chiama “giustizia”(sedaqah) affinché il rito eucaristico non venga “destoricizzato” ma situato nella vita reale, come era quella di Gesù e dei discepoli. La giustizia di Dio che perdona e crea vita nuova, nell’effusione del suo Spirito, trasforma la vita dei commensali e li rende capaci di operare secondo giustizia nella chiesa e nel mondo.

La seconda. L’apostolo Paolo ha cercato di correggere la ritualità deviata dei corinzi con un forte invito a riconsiderare la prassi conviviale delle assemblee. Nel cercare di correggere gli abusi dei corinzi, l’apostolo non si è proposto di elaborare una propria “dottrina” della cena del Signore ma ha ricordato le azioni e i gesti compiuti da Gesù nell’ultima cena in cui era presente anche Giuda. In altre parole la cena del Signore non è la prassi di una “teoria teologica” ma, come ci ricorda Moltmann: «La comunione conviviale con Cristo deriva da un invito fattoci da Cristo stesso, non da un dogma cristologico» (J.Moltmann, La chiesa nella forza dello Spirito, Brescia, Queriniana, 1976, p. 321). La domanda che da Corinto giunge a noi oggi interroga le nostre diverse cene ed eucarestie perché al primato della prassi si è sostituito il primato della confessionalità che crea delle appartenenze ecclesiali chiuse che mettono in ombra l’invito di Gesù che non è esclusivo ma inclusivo. Sapremo correggere i nostri abusi?




come aiutare efficacemente i migranti senza perdere umanità e pietà

noi e i migranti, due alibi da sfatare

aiutiamoli, a iniziare da casa nostra


Francesco Gesualdi

Ci sono due modi di affrontare la questione immigrati: o ponendoci l’obiettivo di toglierceli dai piedi o volendoli aiutare a vivere meglio. In un caso pensiamo solo per noi. Nell’altro ci preoccupiamo di loro. Ad oggi sembra prevalere l’egocentrismo. Ma, sotto sotto, non ci sentiamo a posto e ci siamo fabbricati degli alibi per mettere a tacere la nostra coscienza. La prima giustificazione che ci siamo creati è che l’obbligo di accoglienza vale solo per i rifugiati politici, mentre abbiamo il diritto di respingere i migranti economici, coloro, cioè, che sono in cerca di migliori condizioni di vita.

L’assurdo è che noi stessi siamo terra di emigranti e se questa regola venisse applicata nei nostri confronti dovremmo aspettarci l’espulsione di ben quattro milioni di connazionali sparsi per il mondo. Da sempre abbiamo considerato la libertà di movimento un diritto inalienabile e se volessimo negarlo proprio oggi che abbiamo messo merci e capitali in totale libertà, dimostreremmo di tenere in maggior considerazione le cose delle persone. Ma forse il punto è proprio il sovvertimento dei valori: la ricchezza ci ha accecato a tal punto da avere inaridito la nostra umanità. L’attenzione tutta rivolta alla roba, abbiamo perso il senso del rispetto e della giustizia, la capacità di compassione, perfino di pietà.

E non ci rendiamo conto che più sbarriamo le porte, più inneschiamo situazioni perverse che ci sfuggono di mano. Diciamocelo: i migranti che scelgono la via del deserto non sono né masochisti, né amanti dell’illegalità. Sono dei forzati alla clandestinità perché le vie di ingresso ufficiali sono precluse. Se potessero arrivare in aereo con regolare passaporto, sarebbero ben felici di farlo. E se in Italia non trovassero lavoro, non ci rimarrebbero. Se ne andrebbero dove il lavoro c’è, perché la loro vocazione non è né quella dell’accattonaggio, né del brigantaggio. Sono persone in cerca di un lavoro per mantenere le famiglie rimaste a casa. Che le cose stiano così lo sappiamo molto bene anche noi, tant’è che il secondo alibi che ci siamo creati è che dobbiamo aiutarli a casa loro. E se lo diciamo è perché abbiamo ben chiaro che nessuno di loro affronta un viaggio così pericoloso per fare una passeggiata, ma per sfuggire a un destino crudele ora dovuto alle guerre, ora alla repressione politica, ora alla mancanza di prospettiva di vita.

Ciò che non diciamo è che questa situazione l’abbiamo creata noi attraverso 500 anni di invasioni, massacri, ruberie. La storia, alla fine presenta sempre il suo conto. L’emigrazione africana non è figlia di una sciagura transitoria, ma di un sistema di saccheggio di cui siamo stati e siamo ancora parte attiva, addirittura i suoi artefici. Per risolverla, dunque, è da qui che dobbiamo partire: dal nostro assetto produttivo e di consumo, dai nostri obiettivi economici, dai nostri rapporti commerciali, dal nostro assetto finanziario, dal nostro sostegno ai sistemi corruttivi e di rapina. Lo slogan giusto è «cambiamo le cose qui affinché cambino là». Per partire dovremmo porre uno stop serio alla vendita di armi e subito dopo dovremmo avviare nuovi rapporti economici.

Dovremmo stipulare accordi commerciali che garantiscono prezzi equi e stabili ai produttori, dovremmo imporre stabili divieti alla finanza speculativa sulle materie prime, dovremmo smetterla con accordi che autorizzano le nostre imprese a razziare i loro mari e a prendersi le loro terre, dovremmo punire le nostre imprese che non garantiscono salari dignitosi nelle loro filiere globali, dovremmo smetterla di imporre accordi commerciali che favoriscono i nostri prodotti e distruggono le loro economie, dovremmo vigilare da vicino gli investimenti esteri delle nostre imprese per impedire comportamenti corruttivi a vantaggio di pochi capi locali che accumulano fortune nei paradisi fiscali. Delle 181mila persone disperate sbarcate sulle nostre coste nel 2016, il 21% erano nigeriani.

Eppure, grazie al petrolio, la Nigeria è una delle più grandi economie africane. Ma anche una delle più corrotte. Secondo Lamido Sanusi, già governatore della Banca centrale nigeriana, nei soli anni 2012-13 sono stati sottratti alle casse pubbliche 20 miliardi di dollari provenienti dalla vendita di petrolio alle compagnie internazionali, Eni compresa. Quei soldi sottratti ai nigeriani sono finiti sui conti cifrati aperti da personalità di governo in Svizzera, a Londra e in vari paradisi fiscali. Con la complicità di grandi banche internazionali. E non solo. Anche di Stati e Governi poco vigilanti, e l’Italia non è affatto esclusa. È proprio il caso di dire «aiutiamoli cominciando a cambiare a casa nostra».




il commento al vangelo della domenica

NON TI DICO FINO A SETTE VOLTE, MA FINO A SETTANTA VOLTE SETTE

il commento al vangelo della ventiquattresima domenica del tempo ordinario (17 settembre 2017):

 

Mt 18,21-35

In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sete volte?». E Gesù gli rispose: «Non t dico fino a sete volte, ma fino a settanta volte sete.
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talent. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e t restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e t restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tuto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io t ho condonato tuto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tuto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

il commento  di Ermes Ronchi:

«Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette», cioè sempre. L’unica misura del perdono è perdonare senza misura. Perché il Vangelo di Gesù non è spostare un po’ più avanti i paletti della morale, ma è la lieta notizia che l’amore di Dio non ha misura. Perché devo perdonare? Perché cancellare i debiti? La risposta è molto semplice: perché così fa Dio.
Gesù lo racconta con la parabola dei due debitori. Il primo doveva una cifra iperbolica al suo signore, qualcosa come il bilancio di una città: un debito insolvibile. «Allora il servo, gettatosi a terra, lo supplicava..»” e il re provò compassione. Il re non è il campione del diritto, ma della compassione. Sente come suo il dolore del servo, e sente che questo conta più dei suoi diritti. Il dolore pesa più dell’oro. E per noi subito s’apre l’alternativa: o acquisire un cuore regale o mantenere un cuore servile come quello del grande debitore perdonato che, “appena uscito”, trovò un servo come lui.
“Appena uscito”: non una settimana dopo, non il giorno dopo, non un’ora dopo. “Appena uscito”, ancora immerso in una gioia insperata, appena liberato, appena restituito al futuro e alla famiglia. Appena dopo aver fatto l’esperienza di come sia un cuore di re, «presolo per il collo, lo strangolava gridando: “Dammi i miei centesimi”», lui perdonato di miliardi!
Eppure, questo servo “‘malvagio” non esige nulla che non sia suo diritto: vuole essere pagato. È giusto e spietato, onesto e al tempo stesso crudele. Così anche noi: bravissimi a calare sul piatto tutti i nostri diritti, abilissimi prestigiatori nel far scomparire i nostri doveri. E passiamo nel mondo come predatori anziché come servitori della vita.
Giustizia umana è “dare a ciascuno il suo”. Ma ecco che su questa linea dell’equivalenza, dell’equilibrio tra dare e avere, dei conti in pareggio, Gesù propone la logica di Dio, quella dell’eccedenza: perdonare settanta volte sette, amare i nemici, porgere l’altra guancia, dare senza misura, profumo di nardo per trecento denari.
Quando non voglio perdonare (il perdono non è un istinto ma una decisione), quando di fronte a un’offesa riscuoto il mio debito con una contro offesa, non faccio altro che alzare il livello del dolore e della violenza. Anziché annullare il debito, stringo un nuovo laccio, aggiungo una sbarra alla prigione.
Perdonare, invece, significa sciogliere questo nodo, significa lasciare andare, liberare dai tentacoli e dalle corde che ci annodano malignamente, credere nell’altro, guardare non al suo passato ma al suo futuro. Così fa Dio, che ci perdona non come uno smemorato, ma come un liberatore, fino a una misura che si prende gioco dei nostri numeri e della nostra logica.

 

il commento di p. E. Bianchi:

Terminiamo la lettura del quarto dei cinque grandi discorsi di Gesù nel vangelo secondo Matteo, detto anche discorso ecclesiale o comunitario, perché in esso sono contenuti insegnamenti riguardanti la vita dei discepoli viventi in comunità, nelle chiese. Viene innanzitutto riferito il contesto dell’insegnamento di Gesù contenuto nella sua parabola. Avendo egli enunciato le esigenze della correzione fraterna e del perdono reciproco (cf. Mt 18,15-20), Pietro solleva una questione alla quale Gesù risponde subito in modo perentorio, ma poi rivela “in proposito” (diá toûto) cosa accade nel regno dei cieli, quale comportamento l’azione di Dio ispira ai discepoli. Questa pagina è un insegnamento decisivo nella vita ecclesiale, e dobbiamo confessare che noi cristiani la leggiamo spesso e volentieri, ma poi non riusciamo a metterla in pratica quando siamo coinvolti in dinamiche analoghe.

Pietro dunque si avvicina a Gesù e gli chiede: “Signore, se il mio fratello pecca contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette (numero di pienezza e totalità) volte?”. Domanda comprensibile: si può perdonare senza tenere conto del numero di volte in cui il perdono viene rinnovato? Se uno continua a compiere lo stesso male contro di me, fino a quante volte posso perdonarlo? Certamente Pietro non dimentica che nella Torah sta scritto che Lamech, il sanguinario figlio di Caino, canta la ripetizione della vendetta fino a sette e poi fino a settanta volte sette (cf. Gen 4,23-24). Pietro è già misericordioso, perché in verità non è facile perdonare sette volte lo stesso peccato allo stesso offensore. Ma Gesù gli risponde con autorità: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”, cioè sempre, all’infinito! Senza se e senza ma, il discepolo di Gesù perdona senza calcolare il numero delle volte. Di fronte a una tale dichiarazione l’ascoltatore resta stupefatto, forse anche esterrefatto, perché non è facile né comprendere né assumere questo atteggiamento. Ciò che Gesù chiede non è forse troppo? È possibile per l’essere umano perdonare sempre?

Allora Gesù spiega quelle sue parole così nette attraverso una parabola che, come sempre sulla sua bocca, è rivelazione, è un alzare il velo su Dio e sulla sua azione. Il racconto, che mette in scena un re e due servi debitori, si sviluppa in tre atti, seguiti da un commento conclusivo di Gesù(v. 35):

il re e il debitore nei suoi confronti (vv. 23-27);
il primo debitore e un fratello a sua volta debitore verso di lui (vv. 28-31);
il confronto definitivo tra il re e il primo debitore (vv. 32-34).
Un re vuole fare i conti con i suoi servi, ed ecco che gliene viene presentato uno il quale è debitore verso di lui di una cifra enorme, iperbolica: diecimila talenti, cioè cento milioni di denari (tenendo conto che un denaro corrisponde alla paga media giornaliera di un operaio), impossibile da rimborsare per un servo! Di fronte alla prospettiva della vendita dei suoi familiari come schiavi e della prigione per sé, quest’uomo si inginocchia davanti al re e lo supplica: “Sii grande di animo con me (sii paziente con me, makrothýmeson) e ti restituirò ogni cosa” (ciò che è impossibile!). Di fronte a tale disperazione e sofferenza il re, “mosso a viscerale compassione” (splanchnistheís), preso cioè da un sentimento di misericordia, lo lascia andare e gli condona il debito. Siamo in presenza di un re che esige l’osservanza della legge ma che, di fronte, a chi soffre perché non può ottemperare alla giustizia, fa regnare la misericordia e non più la legge. Egli ha un cuore capace di lasciarsi ferire dal male patito dal suo servo.

Ma ecco la scena simmetrica. Quest’uomo perdonato, radicalmente salvato insieme alla sua famiglia, esce libero, per vivere in pienezza di libertà e di relazioni; e subito incontra un suo compagno, anzi precisamente un suo con-servo (syndoúlos), debitore nei suoi confronti di una cifra modesta, cento denari, l’equivalente della paga di poco più di tre mesi di un lavoratore nella campagna. Appena lo vede, lo afferra al collo e lo soffoca intimandogli di saldare il debito. L’altro lo supplica con le medesime parole da lui usate in precedenza: “Sii grande di animo con me (sii paziente con me) e ti restituirò”. Ma egli non accetta, perciò lo fa gettare in prigione fino al momento della restituzione del debito. Nella prima scena il re perdona al servo, nella seconda il perdonato non perdona al fratello!

La differenza di comportamento tra i due creditori è messa in luce dalla terza scena. Quando il re viene a sapere dagli altri servi ciò che ha fatto il servo da lui perdonato, lo fa chiamare e lo apostrofa: “Servo cattivo, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà (eleêsai) del tuo con-servo, così come io ho avuto pietà di te?”. Ecco rivelato il fondamento di ogni azione di perdono: l’essere stati perdonati. Il cristiano sa di essere stato perdonato dal Signore con una misericordia gratuita e preveniente, sa di aver beneficiato di una grazia insperata, per questo non può non fare misericordia a sua volta ai fratelli e alle sorelle, debitori verso di lui in modo certo meno grave. In questa parabola – lo ripeto – non è questione di quante volte si deve dare il perdono, ma si tratta di riconoscere di essere stati perdonati e dunque di dover perdonare. Se uno non sa perdonare all’altro senza calcoli, senza guardare al numero di volte in cui ha concesso il perdono, e non sa farlo con tutto il cuore, allora non riconosce ciò che gli è stato fatto, il perdono di cui è stato destinatario. Dio perdona gratuitamente, il suo amore non va mai meritato, ma occorre semplicemente accogliere il suo dono e, in una logica diffusiva, estendere agli altri il dono ricevuto.

Comprendiamo così l’applicazione conclusiva fatta da Gesù. Le parole che egli pronuncia sono parallele, identiche nel contenuto, a quelle con cui chiosa la quinta domanda del Padre nostro – “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12); l’unica, non lo si dimentichi, da lui commentata.

Se voi perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;
ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe. (Mt 6,14-15

Così anche il Padre mio che è nei cieli farà a voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello. (Mt 18,35)

Niente perdono da parte di Dio a noi, se noi non perdoniamo gli altri. O meglio, se non siamo ministri di questa misericordia ricevuta da Dio, che ci perdona sempre e ci ha perdonati una volta per tutte attraverso Gesù Cristo, egli ritira il suo perdono, come l’ha ritirato al servo inizialmente perdonato. Sarebbe una smentita del Dio che si professa e si proclama, l’essere da lui perdonati e poi non perdonare gli altri… La chiesa è una comunità di perdonati che perdonano, per questo al suo cuore c’è l’eucaristia, in cui si vive la remissione dei peccati a parte di Dio affinché siamo a nostra volta ministri di perdono e di misericordia nella chiesa stessa e nella compagnia degli uomini, nel mondo.

Da questa pagina il cristiano deve innanzitutto imparare a discernere il vero volto di Dio, quello che Gesù ci ha narrato (exeghésato: Gv 1,18), e saper sovrapporre questo volto ultimo e definitivo sugli altri che le Scritture stesse ci hanno consegnato. Non bisogna infatti nascondere che talvolta nelle Scritture appare tratteggiato un Dio che castiga e non esaudisce chi chiede pietà, un Dio che non reitera il perdono. Un esempio su tutti, che è una smentita letterale del Nome del Signore consegnato a Mosè (cf. Es 34,6-7), si trova all’inizio della profezia di Naum: “Un Dio geloso e vendicatore è il Signore, vendicatore è il Signore, pieno di collera. Il Signore si vendica degli avversari e serba rancore verso i nemici. Il Signore è lento all’ira, ma grande nella potenza e nulla lascia impunito” (Na 1,2-3).

Ma Gesù ci consegna l’ultima e definitiva narrazione di Dio. Per noi cristiani la misericordia di Dio è il tratto essenziale per conoscerlo ed è l’azione con cui Dio stesso ci mette in comunione con sé: è il modo in cui Dio rivela la sua onnipotenza! Non è facile accettare questo volto di Dio, perché tutte le religioni hanno sempre predicato un Dio che fa giustizia, che punisce il male commesso, che nella sua onnipotenza castiga. Non è facile perché noi umani abbiamo dentro di noi un concetto di “giustizia umana” e pretendiamo di proiettarlo su Dio. Ma Gesù ci ha rivelato il volto di Dio come volto di colui che

ci ha amati mentre gli eravamo nemici,
ci ha perdonati mentre peccavamo contro di lui,
ci è venuto incontro mentre noi lo negavamo (cf. Rm 5,8.10).

Ecco perché Gesù ci chiede addirittura l’amore verso i nemici (cf. Mt 5,43-47), novità del comandamento dell’amore del prossimo (cf. Mt 19,19; 22,39; Lv 19,18) esteso fino al nemico. In obbedienza al Signore Gesù, dunque, l’amore e il perdono del cristiano siano gratuiti, senza calcoli né restrizioni, “di cuore”. Se il cristiano perdona facendo calcoli, svaluta quel perdono che proclama a parole. Perdonare l’imperdonabile: questa l’unica misura del perdono cristiano!

 
in video il commento  di p. Maggi:

 




l’Europa si deve vergognare di fronte ai migranti

migranti

Dan Kitwood via Getty Images

Porti chiusi, muri alzati, frontiere blindate, quote disattese, risorse finanziarie lesinate. Europa e onore sul fronte migranti è un ossimoro. Tragico perché riguarda la vita e la morte di centinaia di migliaia di profughi. Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker rende omaggio per l’impegno praticato nel salvataggio e nell’accoglienza dei migranti. Un atto dovuto, meritato. Ma l’Italia non ha potuto salvare l’onore dell’Europa, perché esso non esiste.  

L’Europa degli Orban, del “fronte dell’Est” che in ogni vertice ha sempre remato contro ogni proposta che avesse anche una lontana parvenza con principi quali solidarietà, condivisione, inclusione. Il vento dell’Est, e del Nord, ha spazzato via ogni politica europea che ponesse al proprio centro il superamento degli aspetti più anacronistici del Trattato di Dublino e ponesse all’ordine del giorno, come più volte richiesto dall’Italia, il tema del diritto d’asilo europeo.  

L’Europa non ha onore da salvare ma solo vergogna da manifestare se i suoi leader fossero capacità di una sana autocritica. Così non è. E ciò non riguarda solo gli ultranazionalisti alla Orban. Perché la mancanza di onore, e di solidarietà, si sono manifestati anche da chi sembrava voler incarnare un rinnovato europeismo.  

Un esempio: Emmanuel Macron. Al di là degli inni alla gioia e alle dichiarazioni di principio, nei fatti, che poi sono quelli che contano, il giovane inquilino dell’Eliseo, in caduta libera nei sondaggi, ha mantenuto un atteggiamento quanto meno ambiguo nei confronti dell’emergenza che ha investito l’Italia. Appena insediato all’Eliseo, il neopresidente aveva promesso che non avrebbe lasciato soli i vicini di casa. Nei fatti, non solo ha negato l’approdo nei suoi porti delle navi delle Ong ma come il suo predecessore Hollande esercita un rigido controllo sulla frontiera di Ventimiglia, rispedendo quotidianamente in Italia decine di stranieri che tentano di entrare in Francia di soppiatto.  

Parigi si attiene infatti a due accordi. Il primo è quello di Dublino sottoscritto nel 2003 anche dall’Italia, in base al quale le domande di asilo devono essere esaminate dal Paese su cui il migrante mette piede. Dunque dall’Italia; l’altra è il già citato accordo sui ricollocamenti, che riguarda appunto chi ha diritto alla protezione internazionale e non tutti i migranti indistintamente. Al tirar delle somme il criterio è: sì a più fondi all’Italia ma no all’accoglienza di migranti sul suolo francese.

Lo spettro che Parigi vuole tenere alla larga è quello di una nuova Calais, la sterminata baraccopoli dove vivevano i migranti decisi a passare in Gran Bretagna. Un passo indietro nel tempo. Venticinque giugno 2015. È stato uno scontro “violento”, secondo chi vi ha assistito. Durante il dibattito al Consiglio europeo sulla nuova politica Ue dell’immigrazione, (l’allora) presidente del Consiglio Matteo Renzi avrebbe duramente attaccato i colleghi che si sono espressi contro l’obbligatorietà della ripartizione dei richiedenti asilo da Italia e Grecia.

“Se non siete d’accordo sui 40 mila non siete degni di chiamarvi Europa”, avrebbe detto il premier, secondo quanto si apprende da una fonte, per poi aggiungere “se questa è la vostra idea di Europa, tenetevela. O c’è solidarietà, o non fateci perdere tempo”.

“Non accettiamo nessuna concessione: o fate un gesto anche simbolico oppure non preoccupatevi: l’Italia può permettersi di fare da sola. È l’Europa che non può permetterselo”, è l’atto di accusa di Renzi ai leader europei.

Il premier ha poi continuato: “Mi emoziono davanti all’Europa. Sono figlio di questa storia. Mi emoziono pensando che domani sarà qui Delors. Ma non accetterò mai che questa discussione sia così meschina e egoista. Abbiamo fondato l’Europa perché avevano ideali. Ho pianto per il muro di Berlino, ho pianto per Srebrenica. Credo in un ideale. Non accetterò mai un compromesso al ribasso”, ha affermato il premier stando a quanto riferisce chi era presente all’incontro e che parla anche di un durissimo scontro con la presidente lituana Grybausakaite.

Di tempo se n’è perso d’allora, mentre a crescere è stato il bilancio delle vittime affogate nel Mediterraneo o morte nel deserto o sulla rotta balcanica. Due anni dopo, e tanti inutili vertici Ue, il ricorso contro le “quote” sui richiedenti asilo da ospitare è stato bocciato dalla Corte di Giustizia europea. Un sistema che consisteva nel trasferimento di circa 160mila richiedenti asilo da Italia e Grecia in Europa, in base a una quota rispetto alla popolazione e alla situazione economica di ogni paese. Tra coloro che avevano partecipato al ricorso c’erano Ungheria, Slovacchia e Polonia che hanno accolto pochissimi richiedenti e ora rischiano di essere multati. Non ha funzionato granché dunque il programma di relocation, dato che nell’arco di due anni sono stati trasferiti solo il 16,6% della quota prevista.

L’Italia avrà pure “salvato l’onore dell’Europa”, ma di certo l’Europa ha sbattuto i porti in faccia all’Italia. Tallinn, 6 luglio 2017, vertice dei ministri dell’Interno dei Paesi Ue. Proprio il Belgio dice no all’accoglienza dei migranti con una dichiarazione diTheo Francken, ministro per l’Asilo e politica migratoria belga: “Non credo che apriremo i nostri porti”. Lo stesso vale per l’Olanda che si defila dichiarando che aprire i porti non risolve il problema.

Siamo alla fiera delle ipocrisie. Per la verità storica, un atto unitario l’Europa l’ha compiuto. Ma di onorevole in esso non c’è proprio nulla. È l’accordo con la Turchia del presidente-autocrate Recep Tayyp Erdogan.

“L’accordo fra Ue e Turchia ha portato migliaia di rifugiati e migranti a vivere in condizioni squallide e pericolose, e non deve essere riprodotto con altri Paesi”. È il giudizio con cui Amnesty International condanna il patto fra Ankara e Bruxelles che il 16 marzo 2017 ha compiuto un anno.

Uno semplice scambio: per garantire i controlli sulle coste dell’Egeo da parte della Guardia Costiera turca, il governo di Erdogan avrebbe ricevuto 3 miliardi di euro per accogliere i migranti prima che potessero arrivare in Europa e altri 3 miliardi di euro se i primi non fossero stati sufficienti.

E così è stato:

“Nel 2015 circa 800.000 rifugiati sono arrivati sulle isole greche, mentre nei dieci mesi trascorsi dall’accordo il numero è sceso a 27.000”, dice l’autrice del rapporto di Amnesty Irem Arf . “Il problema è che mentre prima del patto i migranti venivano immediatamente trasferiti dalle isole greche alla terraferma, ora rimangono bloccati come in un limbo in attesa di un ritorno in Turchia. Le isole Lesbos, Samos e Kos sono particolarmente sovraffollate”.

Dalla Grecia sono state spostati in altri Paesi europei solo 9.610 profughi dei 160mila previsti dal programma di ricollocamento dell’Agenda europea sull’immigrazione del maggio del 2015. Da Amnesty a Medici Senza Frontiere.

Il rapporto di MSF:

“A un anno dall’accordo UE-Turchia: sfidare i ‘fatti alternativi ‘dell’UE sfata, sulla base della realtà dal campo, tre grandi “fatti alternativi” (o false verità) che l’UE attribuisce all’accordo, ovvero che offre ai migranti un’alternativa per non rischiare la vita, che le condizioni delle isole greche sono abbastanza accettabili per sostenere l’attesa della procedura di asilo, che l’accordo rispetta i principi fondamentali dei diritti umani. In realtà le condizioni e le conseguenze dell’accordo, che ricompensa la Turchia perché “blocchi l’afflusso” di migranti e rifugiati e accetti le persone respinte dalle coste greche, sono ben diverse, come le nostre équipe testimoniano ogni giorno in Grecia e sulla rotta balcanica. Dopo un anno dalla sua entrata in vigore, uomini, donne e bambini sono bloccati in zone non sicure al di fuori dell’Europa da cui non possono scappare, costretti a rotte sempre più pericolose per raggiungere il continente o intrappolati in hotpsot sovraffollati sulle isole greche, dove vivono in condizioni inadeguate. “L’accordo sta avendo un impatto diretto sulla salute dei nostri pazienti, molti di loro sono sempre più vulnerabili”, afferma Jayne Grimes, psicologa di MSF a Samo. “Queste persone sono scappate da situazioni di violenza estrema, tortura e guerra e sono sopravvissute a viaggi molto pericolosi. Hanno subito violenze e sofferenze alle frontiere dell’Europa. E il loro stato psicologico è aggravato dalle precarie condizioni di vita e dalla mancanza di informazioni sul loro status giuridico. Stanno perdendo qualunque speranza di trovare un futuro più sicuro, migliore di quello da cui sono scappati”.

E il brutto è che l’Europa ha intenzione, dichiarata, di moltiplicare questo “modello”, in Libia ad esempio. Davvero di male in peggio. “Chiedere l’eliminazione della detenzione dei bambini” migranti in Libia, è un punto su cui l’Ue dovrebbe battere nei suoi negoziati con le autorità del Paese. “Un primo passo, a cui farne poi seguire altri”. La richiesta proviene dal direttore regionale per l’Europa dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) Eugenio Ambrosi al lancio del rapporto “Viaggi strazianti“, condotto in collaborazione con l’Unicef, che contiene le testimonianze di 22mila migranti, di cui 11mila minori.

L’Unicef critica le misure per contenere i flussi dei migranti verso l’Europa, fermandoli in Libia. Sono “inaccettabili” secondo Sandie Blanchet, direttrice dell’ufficio Unicef di Bruxelles, che, rispondendo alla conferenza stampa per il lancio del rapporto, aggiunge: “è chiaro che non si tratta di un luogo sicuro per i bambini e le loro famiglie”.

Juncker si è guardato bene, infine, da dare una risposta, anche un accenno, alla lettera aperta inviata il 6 settembre da MSF leader degli Stati membri e alle istituzioni dell’Unione Europea per denunciare leatroci sofferenze che le loro politiche sulla migrazione stanno alimentando in Libia.

“La detenzione di migranti e rifugiati in Libia è vergognosa. Dobbiamo avere il coraggio di chiamarla per quello che realmente è: un’attività fiorente che lucra su rapimenti, torture ed estorsioni” sottolinea un passaggio della lettera aperta di MSF, firmata dalla dott.ssa Joanne Liu, presidente internazionale di MSF, e da Loris De Filippi, presidente di MSF in Italia “Le persone sono trattate come merci da sfruttare. Ammassate in stanze buie e sudicie, prive di ventilazione, costrette a vivere una sopra l’altra. Le donne vengono violentate e poi obbligate a chiamare le proprie famiglie e chiedere soldi per essere liberate. La loro disperazione è sconvolgente”. E ancora: “La Libia è solo l’esempio più recente ed estremo di politiche migratorie europee che da diversi anni hanno come principale obiettivo quello di allontanare le persone dalla nostra vista. Tutto questo toglie qualunque alternativa alle persone che cercano modi sicuri e legali di raggiungere l’Europa e le spinge sempre più in quelle reti di trafficanti che i leader europei dichiarano insistentemente di voler smantellare. Vie legali e sicure perché le persone possano raggiungere Paesi sicuri sono l’unico modo per proteggere i diritti delle persone in fuga, assicurare un controllo legale delle frontiere europee e rimuovere quei perversi incentivi che consentono ai trafficanti di prosperare”.

Per MSF:

“Le persone intrappolate in queste ben note condizioni da incubo hanno disperato bisogno di una via di uscita. Devono poter accedere a protezione, asilo e quando possibile a migliori procedure di rimpatrio volontario. Hanno bisogno di un’uscita di emergenza verso la sicurezza, attraverso canali sicuri e legali”.

Canali umanitari, diritto d’asilo europeo, una vera politica di cooperazione con i Paesi africani di origine e di transito dei migranti. Una politica fondata sul rispetto dei diritti umani e della dignità della persona… Questo significherebbe per l’Europa “salvare l’onore”. Ma più che una speranza, è una illusione se l’onore è affidato a quanti questo “onore” hanno calpestato.




Rita e Carla – una vita intera condivisa e vissuta tra i sinti ei rom

Torino

una presenza ecclesiale profetica

una testimonianza di Pio Caon:

Sono passati quasi 40 anni da quando la Comunità delle Suore Luigine di Alba ha deciso di vivere direttamente tra i Sinti e Rom nelle periferie torinesi.
La loro prima dimora è stata una vecchia carovana.
Una presenza di Chiesa profetica : accoglienza e rispetto del diverso.
Una presenza che non separa i buoni dai cattivi, i giusti da chi sbaglia.
Condivisione della cultura, lingua e tradizione del popolo sinto e rom
Vivendo tra i Sinti e Rom, le suore hanno fatto propria e rispettato la cultura nomade assumendone in pieno sfaccettature, valori e contraddizioni.
La loro presenza è stata quella che il ministero missionario richiede: partecipare pienamente alla vita di un popolo vivendone le medesime condizioni sociali e culturali per poi rendere sensibili le comunità civili e cristiane a partire dal loro incontro.
Le suore infatti, oltre a vivere la vita nomade, hanno partecipato attivamente alla vita ecclesiale torinese. Le loro dimore hanno accolto indistintamente cattolici, ortodossi, mussulmani, atei.
Hanno sperimentato la povertà come scelta di libertà che riduce il consumo, le cose e i beni.
Le diversità possono vivere insieme
La loro vita è un segno concreto di speranza. Eppure non sono mancati momenti di tensione che hanno messo in crisi la loro scelta quando tra i nomadi sono esplosi momenti di rabbia e frustrazione scatenati da chi ha perso ogni prospettiva nel futuro e si abbandona alla violenza.
Nel campo non sempre le istituzioni sono presenti e la giustizia non è assicurata.
Le vostre idee camminano
Suor Rita e Suor Carla ci hanno insegnato che realizzare un “sogno” è ancora possibile
Pio Caon



un’offesa a papa Giovanni farlo patrono dell’esercito e della guerra

Giovanni XXIII

mons. Ricchiuti (Pax Christi)

“il papa della pace non può diventare patrono dell’esercito

“papa Giovanni XXIII è nel cuore di tutte le persone come il Papa Buono, il papa della pace, e non degli eserciti”

Così mons. Giovanni Ricchiuti, vescovo di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti e presidente di Pax Christi Italia, contesta oggi la notizia della nomina di San Giovanni XXIII a patrono dell’esercito italiano, che secondo l’Ansa sarà ufficializzata domani, 12 settembre, in una celebrazione riservata nel Palazzo Esercito di via XX Settembre. L’ordinario militare per l’Italia, mons. Santo Marcianò, consegnerà la Bolla della Congregazione per il Culto divino al capo di Stato Maggiore dell’Esercito, gen. Danilo Errico. “Come presidente della sezione italiana di Pax Christi, movimento cattolico internazionale per la pace, mi sembra irrispettoso coinvolgere come patrono delle Forze Armate colui che, da Papa, denunciò ogni guerra con l’Enciclica ‘Pacem in terris’ e diede avvio al Concilio che, nella Costituzione ‘Gaudium et spes’, condanna ogni guerra totale, come di fatto sono tutte le guerre di oggi”, afferma mons. Ricchiuti. Per il presidente e tutto il movimento Pax Christi questa notizia è ritenuta “assurda” anche perché “l’Esercito di oggi, formato da militari professionisti e non più di leva, è molto diverso da quello della Prima guerra mondiale” ed è cambiato anche il modello di Difesa, “con costi altissimi (23 miliardi di euro per il 2017) e teso a difendere gli interessi vitali ovunque minacciati o compromessi”. “Pensare a Giovanni XXIII come patrono dell’Esercito – sottolinea – lo ritengo anticonciliare anche alla luce della forte ed inequivocabile affermazione contenuta nella Pacem in Terris, ‘con i mezzi di distruzione oggi in uso e con le possibilità di incontro e di dialogo, ritenere che la guerra possa portare alla giustizia e alla pace è fuori dalla ragione – alienum a ratione’. È ‘roba da matti’, per usare un’affermazione di don Tonino Bello, anch’egli presidente di Pax Christi fino al 1993”. Mons. Ricchiuti è certo che “questo sentire non sia solo di Pax Christi, ma di tante donne e uomini di buona volontà, a cui chiediamo di unirsi con ogni mezzo a questa dichiarazione per esprimere il proprio rammarico per una decisione che non rappresenta il ‘sensus fidei’ di tanti credenti che hanno conosciuto Giovanni XXIII o che ne apprezzano la memoria di quella ventata profetica che ha indicato alla Chiesa nuovi sentieri di giustizia e di pace”.




il business della sofferenza in Libia e i governi europei

lettera aperta di Medici senza Frontiere

i governi europei alimentano il business della sofferenza in Libia

Lettera aperta di Medici senza Frontiere: i governi europei alimentano il business della sofferenza in Libia

MSF ha inviato oggi una lettera aperta ai leader degli Stati membri e alle istituzioni dell’Unione Europea per denunciare le atroci sofferenze che le loro politiche sulla migrazione stanno alimentando in Libia.

Nella lettera, inviata anche al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, MSF denuncia la determinazione dell’Europa nel bloccare le persone in Libia a qualunque costo e chiede che gli inaccettabili abusi contro le persone trattenute arbitrariamente nei centri di detenzione cessino al più presto.

Un sistema criminale di abusi

“Il dramma che migranti e rifugiati stanno vivendo in Libia dovrebbe scioccare la coscienza collettiva dei cittadini e dei leader dell’Europa” si legge nella lettera, firmata dalla dott.ssa Joanne Liu, presidente internazionale di MSF e da Loris De Filippi, presidente di MSF in Italia. “Accecati dall’obiettivo di tenere le persone fuori dall’Europa, le politiche e i finanziamenti europei stanno contribuendo a fermare i barconi in partenza dalla Libia, ma in questo modo non fanno che alimentare un sistema criminale di abusi.”

MSF assiste le persone nei centri di detenzione di Tripoli da più di un anno e ha visto con i propri occhi questo schema di detenzione arbitraria, estorsioni, abusi fisici e privazione dei servizi di base che uomini, donne e bambini subiscono in questi centri.

“La detenzione di migranti e rifugiati in Libia è vergognosa. Dobbiamo avere il coraggio di chiamarla per quello che realmente è: un’attività fiorente che lucra su rapimenti, torture ed estorsioni” continua la lettera aperta di MSF. “Le persone sono trattate come merci da sfruttare. Ammassate in stanze buie e sudicie, prive di ventilazione, costrette a vivere una sopra l’altra. Le donne vengono violentate e poi obbligate a chiamare le proprie famiglie e chiedere soldi per essere liberate. La loro disperazione è sconvolgente.”

La complicità dell’Europa

La riduzione delle partenze dalle coste libiche è stata celebrata come un successo nel prevenire le morti in mare e combattere le reti di trafficanti. Ma per MSF questa celebrazione è da considerarsi nella migliore delle ipotesi pura ipocrisia o, nella peggiore, cinica complicità con il business criminale che riduce gli esseri umani a mercanzia nelle mani dei trafficanti.

“Chi è davvero complice dei trafficanti: chi cerca di salvare vite umane oppure chi consente che le persone vengano trattate come merci da cui trarre profitto?” si domanda nella lettera di MSF. “La Libia è solo l’esempio più recente ed estremo di politiche migratorie europee che da diversi anni hanno come principale obiettivo quello di allontanare le persone dalla nostra vista. Tutto questo toglie qualunque alternativa alle persone che cercano modi sicuri e legali di raggiungere l’Europa e le spinge sempre più in quelle reti di trafficanti che i leader europei dichiarano insistentemente di voler smantellare.”

Per MSF, vie legali e sicure perché le persone possano raggiungere paesi sicuri sono l’unico modo per proteggere i diritti delle persone in fuga, assicurare un controllo legale delle frontiere europee e rimuovere quei perversi incentivi che consentono ai trafficanti di prosperare: “Le persone intrappolate in queste ben note condizioni da incubo hanno disperato bisogno di una via di uscita. Devono poter accedere a protezione, asilo e quando possibile a migliori procedure di rimpatrio volontario. Hanno bisogno di un’uscita di emergenza verso la sicurezza, attraverso canali sicuri e legali.”

“Non possiamo dire che non sapevamo quello che stava accadendo. Non possiamo continuare a tollerare questo vergognoso accanimento sulla miseria e la sofferenza delle persone in Libia” conclude la lettera di MSF. “Permettere che esseri umani siano destinati a subire stupri, torture e schiavitù è davvero il prezzo che, per fermare i flussi, i governi europei sono disposti a pagare?”