doveroso ‘restare umani’

i migranti e il dovere di restare umani

di Enzo Bianchi

in “la Repubblica” dell’11 agosto 2017

L’invito del presidente della Cei, cardinal Bassetti, ad affrontare il fenomeno dei migranti «nel rispetto della legge» e senza fornire pretesti agli scafisti è un richiamo all’assunzione di responsabilità etica ad ampio raggio nella temperie che Italia e Europa stanno attraversando. Un richiamo quanto mai opportuno perché ormai si sta profilando una “emergenza umanitaria” che non è data dalle migrazioni in quanto tali, bensì dalle modalità culturali ed etiche, prima ancora che operative con cui le si affrontano. Non è infatti “emergenza” il fenomeno dei migranti — richiedenti asilo o economici — che in questa forma risale ormai alla fine del secolo scorso e i cui numeri sia assoluti che percentuali sarebbero agevolmente gestibili da politiche degne di questo nome. E l’aggettivo “umanitario” non riguarda solo le condizioni subumane in cui vivono milioni di persone nei campi profughi del Medioriente o nei paesi stremati da conflitti foraggiati dai mercanti d’armi o da carestie ricorrenti, naturali o indotte.

L’emergenza riguarda la nostra umanità: è il nostro restare umani che è in emergenza di fronte all’imbarbarimento dei costumi, dei discorsi, dei pensieri, delle azioni che sviliscono e sbeffeggiano quelli che un tempo erano considerati i valori e i principi della casa comune europea e della “millenaria civiltà cristiana”, così connaturale al nostro paese. È un impoverimento del nostro essere umani che si è via via accentuato da quando ci si è preoccupati più del controllo e della difesa delle frontiere esterne dell’Europa che non dei sentimenti che battono nel cuore del nostro continente e dei principi che ne determinano leggi e comportamenti. È un imbarbarimento che si è aggravato quando abbiamo siglato un accordo per delegare il lavoro sporco di fermare e respingere migliaia di profughi dal Medioriente a un paese che manifestamente vìola fondamenti etici, giuridici e culturali imprescindibili per la nostra “casa comune”.

Ora noi, già “popolo di navigatori e trasmigratori”, ci stiamo rapidamente adeguando a un pensiero unico che confligge persino con la millenaria legge del mare iscritta nella coscienza umana, e arriva a configurare una sorta di “reato umanitario” o “di altruismo” in base al quale diviene naturale minare sistematicamente e indistintamente la credibilità delle ong e perseguirne l’operato, affidare a un’inesistente autorità statale libica la gestione di ipotetici centri di raccolta dei migranti che tutti gli organismi umanitari internazionali definiscono luoghi di torture, vessazioni, violenze e abusi di ogni tipo, riconsegnare a una delle guardie costiere libiche quelle persone che erano state imbarcate da trafficanti di esseri umani con la sospetta connivenza di chi ora li riporta alla casella-prigione di partenza. Ora questa criticità emergenziale di un’umanità mortificata ha come effetto disastroso il rendere ancor più ardua la gestione del fenomeno migratorio attraverso i parametri dell’accoglienza, dell’integrazione e della solidarietà che dovrebbero costituire lo zoccolo duro della civiltà europea e che non sono certo di facile attuazione. Come, infatti, in questo clima di caccia al “buonista” pianificare politiche che consentano non solo la gestione degli arrivi delle persone in fuga dalla guerra o dalla fame, ma soprattutto la trasformazione strutturale di questa congiuntura in opportunità di crescita e di miglioramento delle condizioni di vita per l’intero sistema paese, a cominciare dalle fasce di popolazione residente più povere? E, di conseguenza, come evitare invece che i migranti abbandonati “senza regolare permesso” alimentino il mercato del lavoro nero, degli abusi sui minori e della prostituzione? L’esperienza di tante realtà che conosco e della mia stessa comunità, che da due anni dà accoglienza ad alcuni richiedenti asilo, mostra quanto sia difficile oggi, superata la fase di prima accoglienza e di apprendimento della lingua e dei diritti e doveri che ci accomunano, progettare e realizzare una feconda e sostenibile convivenza civile, un proficuo scambio delle risorse umane, morali e culturali di cui ogni essere umano è portatore. Non può bastare, infatti, il già difficilissimo inserimento degli immigrati accolti nel mondo del lavoro e una loro dignitosa sistemazione abitativa: occorrerebbe ripensare organicamente il tessuto sociale di città e campagne, la rivitalizzazione di aree depresse del nostro paese, la protezione dell’ambiente e del territorio, la salvaguardia dei diritti di cittadinanza. Questo potrebbe far sì che l’accoglienza sia realizzata non solo con generosità ma anche con intelligenza e l’integrazione avvenire senza generare squilibri. Sragionare per slogan, fomentare anziché capire e governare le paure delle componenti più deboli ed esposte della società, criminalizzare indistintamente tutti gli operatori umanitari, ergere a nemico ogni straniero o chiunque pensi diversamente non è difesa dei valori della nostra civiltà, al contrario è la via più sicura per piombare nel baratro della barbarie, per infliggere alla nostra umanità danni irreversibili, per condannare il nostro paese e l’Europa a un collasso etico dal quale sarà assai difficile risollevarsi. Anche in certi spazi cristiani, la paura dominante assottiglia le voci — tra le quali continua a spiccare per vigore quella di papa Francesco — che affrontano a viso aperto il forte vento contrario, contrastano la «dimensione del disumano che è entrata nel nostro orizzonte» e si levano a difesa dell’umanità. Purtroppo, stando “in mezzo alla gente”, ascoltandola e vedendo come si comporta, viene da dire che

stiamo diventando più cattivi e la stessa politica, che dovrebbe innanzitutto far crescere una “società buona”, non solo è latitante ma sembra tentata da percorsi che assecondano la barbarie.

Eppure è in gioco non solo la sopravvivenza e la dignità di milioni di persone, ma anche il bene più prezioso che ciascuno di noi e la nostra convivenza possiede: l’essere responsabili e perciò custodi del proprio fratello, della propria sorella in umanità.

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il commento al vangelo della domenica

COMANDAMI DI VENIRE VERSO DI TE SULLE ACQUE

 

commento al vangelo della domenica diciannovesima del tempo ordinario (13 agosto 2017) di P. Alberto Maggi: 

Mt 14,22-33

[Dopo che la folla ebbe mangiato], subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!».

L’amore universale di Dio per tutta l’umanità, che Gesù è venuto a manifestare con la sua vita ed il suo messaggio, trova resistenza proprio nel gruppo dei discepoli, che non accettano che l’amore di Dio sia per tutta l’umanità, pagani compresi, pensano che il privilegio è di Israele. È quello che ci scrive Matteo nel suo vangelo, al capitolo 14, dal versetto 22: “subito dopo”, il dopo è relazionato con la condivisione dei pani e dei pesci in terra d’Israele, “costrinse”, perché Gesù deve costringere i discepoli? Perché va contro la loro resistenza, loro non ne vogliono sapere, li deve obbligare, a far cosa? “i discepoli a salire sulla barca”, la barca è l’immagine della comunità cristiana e quindi della chiesa, “e a precederlo”, ecco adesso capiamo il perché dalla resistenza, “sull’altra riva”. Quando, nel vangelo, troviamo questa espressione “l’altra riva”, indica sempre la riva orientale del lago di Galilea, cioè la terra pagana. I discepoli non hanno alcuna intenzione di andare in terra pagana e, ogni volta che Gesù li invita o li spinge ad andare in terra pagana, sempre succede un incidente. “finché non avesse congedato la folla. Congelata la folla salì su il monte”, il monte ha l’articolo determinativo, e indica il monte che è apparso in precedenza cioè il monte delle beatitudini, dove Gesù, appunto, ha annunciato questo suo messaggio d’amore universale, “in disparte”, questa espressione la usano gli evangelisti per indicare che c’è resistenza, opposizione o incomprensione da parte dei discepoli. “a pregare”, è la prima volta che Gesù prega, sono due volte in questo vangelo che Gesù prega, e sempre in situazioni di difficoltà e di pericolo per i suoi discepoli, saranno qui ed al Getsemani. “venuta la sera”, è strano che l’evangelista ripeta quanto ha appena detto qualche versetto prima, al versetto 15, perché lo fa? “venuta la sera” è lo stesso termine che indica l’ultima cena di Gesù; quindi questo amore universale è quello che Gesù ha manifestato con il dono di sé per tutta l’umanità. “egli se ne stava lassù da solo”, beh si sa che è da solo: i discepoli non ci sono, la folla è stata congedata, ma l’evangelista sottolinea una solitudine non soltanto fisica, ma spirituale di Gesù, i discepoli lo stanno accompagnando, ma non lo seguono. “la barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde, il vento infatti era contrario”, questo vento è la resistenza dei discepoli all’invito di Gesù di andare in terra pagana, loro non ne vogliono sapere, non vogliono sapere di portare questo amore universale in terra pagana, dove Gesù poi condividerà di nuovo i pani, pensano che questo debba essere e rimanere un privilegio di Israele. Ecco perché il vento era contrario, sono gli stessi discepoli. “sul finire della notte”, il particolare rimanda a un salmo, il salmo 46, dove si indica che Dio soccorre allo spuntare dell’alba, “egli andò verso di loro camminando sul mare”, perché l’evangelista ci scrive che Gesù cammina sul mare? Il mare era immagine del caos e soltanto Dio lo poteva domare; nel libro di Giobbe, Dio è colui che cammina sulle onde del mare. Allora camminare sul mare indica la manifestazione della condizione divina, della pienezza della condizione divina da parte di Gesù. “vedendolo camminare sul mare”, quindi vedendo la condizione divina, “i discepoli furono sconvolti”, perché sono sconvolti? Perché la religione aveva scavato un abisso tra Dio, lontano, inaccessibile, e l’uomo; era impensabile, inimmaginabile che Dio potesse manifestarsi in un uomo e che un uomo potesse avere la condizione divina, per questo “dissero è un fantasma”, quindi è impossibile per loro che un uomo possa essere anche Dio, “e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, io sono”, Gesù con questa espressione e la risposta che Dio ha dato a Mosè nel famoso episodio del roveto ardente, rivendica la pienezza della condizione divina, “io sono, non abbiate paura!»”. “Pietro”, questo discepolo viene presentato soltanto con il soprannome negativo, che indica la sua caparbietà, la sua testardaggine, quindi fa comprendere che sta facendo qualcosa non in sintonia con Gesù, “allora gli rispose: «Signore, se sei tu”, ecco esattamente come il diavolo nel deserto: “se tu sei”, Pietro svolge il ruolo del satana tentatore, tant’è vero che più avanti Gesù lo rimprovererà chiamandolo proprio satana. “se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque»”: Pietro vuole anche lui la condizione divina. “Ed egli disse: «Vieni!»”, la condizione divina non è esclusiva di Gesù, è a disposizione di tutti quanti la accolgono. “Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare”, perché questa espressione ci dice l’evangelista? Gesù al termine proprio del discorso della montagna, dove aveva annunziato questo amore universale di Dio per l’umanità, aveva parlato di una casa che era stata costruita sulla sabbia; quando arrivarono venti furiosi e le acque, la casa crollò, questo perché le parole non avevano messo radice nella persona, ecco questa è la figura di Pietro, ecco perché affonda. “gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò”, è interessante che aveva chiamato Simone, l’aveva invitato ad essere pescatore di uomo, e invece è lui che deve essere pescato. “e gli disse: «Uomo di poca fede”, è la seconda volta che Gesù deve rimproverare per la mancanza di fede, “perché hai dubitato?»”, lui credeva che la condizione divina venisse per un comando divino, la condizione divina non si ottiene se non attraverso la persecuzione, l’opposizione e spesso il sacrificio della propria vita. “Appena saliti sulla barca, il vento cessò”, questo spirito contrario, appena la comunità accoglie di nuovo Gesù, smette. “Quelli che erano sulla barca si prostrarono”, questo verbo lo ritroveremo sul monte della risurrezione, che è lo stesso monte delle beatitudini, dove i discepoli incontrano il risuscitato, “si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei”, ed ecco la novità, “figlio di Dio”. Non dicono “il figlio di Dio”; il figlio di Dio indicava il Dio della tradizione, quello che sterminava i peccatori, quello che detestava i pagani; Gesù è figlio di Dio, una maniera completamente nuova di manifestare Dio e la sua figliolanza, che qual è? Quella di un amore universale dal quale nessuno può essere escluso.

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anche i migranti sono persone

ripartiamo dall’ovvio:

i migranti sono persone

di Camillo Ripamonti
in “Avvenire” del 10 agosto 2017

Caro direttore, ripartiamo da quanto dovrebbe essere ovvio. In quest’estate in cui dibattito politico e mediatico si occupano dei migranti e dei rifugiati senza quasi mai mettere a fuoco chi sono, quali storie hanno, che sogni e aspirazioni li spingono a rischiare la vita verso un “dove” dove troppi li considerano peso e li rifiutano come pietre di scarto, pare davvero ripartire dall’ovvio, cioè dal riportare al centro i soggetti della migrazione, coloro che migrano. Cosificati da politiche di interesse, è giusto e necessario restituire loro la dignità di persone. Ogni giorno che passa di questa calda estate insieme alle migliaia di ettari di bosco del nostro Paese, sembrano andare in fumo anche i più banali princìpi di umanità e civiltà che ne costituiscono le fondamenta. Affermazioni demagogiche e scontri tra comizianti, in un Paese che è sempre in campagna elettorale, rischiano di distogliere anche le coscienze più attente dal cuore della questione: la vita di migranti e i rifugiati, donne e uomini come noi; migranti come lo siamo stati e continuiamo a esserlo noi, persone il cui anonimato, la cui non conoscenza della storia personale fatta di gioie e speranze, dolori e angosce ha reso solo un oggetto del contendere. Il pezzo che manca nella gran parte del racconto mediatico e politico convulso e a tratti asfissiante di questi giorni sta proprio nel dare un nome e un volto ai “senza volto”. Il vederli ogni giorno sui barconi ci fa credere di sapere chi sono, di conoscerli e invece non conosciamo quasi per nulla i loro racconti di vita da cui emerge il dramma reale di chi scappa dalla miseria o dalla violenza, la loro dignità pur nell’umiliazione, le sofferenze vissute, gli affetti familiari spezzati, lo strappo dalla propria terra, i sogni e le speranze.

Ascoltandoli, e solo ascoltandoli, appare chiaramente che i rifugiati e gli immigrati non sono soltanto bisogni a cui rispondere, ma sono persone a cui non solo stiamo negando un futuro, ma a cui stiamo negando la dignità. E sulla dignità della persona tutti i cattolici e tutti gli uomini e le donne di un Paese bello e civile come il nostro devono ritrovarsi, anche se a tratti ci siamo persi dietro paure alimentate ad arte.

In una umanità che sperimenta sempre più di essere una sola famiglia, i rifugiati sono un invito pressante a percorrere insieme un cammino: prendere coscienza del dramma dei profughi e dei migranti è essenziale per poter passare dal rifiuto all’accoglienza, dall’accoglienza all’integrazione, dalla integrazione alla vera democrazia che riconosce i diritti a tutti e a tutti attribuisce uguali doveri. Il fenomeno delle persone che migrano, data la sua complessità, non si risolve “rimandando indietro i profughi”, ma accogliendoli, e lavorando per orientare e condividere la gestione dei flussi migratori a livello nazionale e internazionale, aiutando i Paesi poveri a svilupparsi, prevenendo la vergognosa tratta degli esseri umani, e punendo severamente i moderni mercanti di schiavi. In questa estate in cui fermentano divisioni, mistificazioni e persino odi, forse quello che ci serve e ripartire dall’ovvio: se la vita umana va salvata e tutelata, lo si deve fare sempre, in ogni circostanza e non può essere merce di scambio o banco per muscolari prove del consenso. Da sempre i diritti umani sono universali e in quanto tali il loro riconoscimento spetta all’umanità intera e non solo a un sempre più esiguo manipolo di cittadini per nascita. Lasciar morire persone innocenti in mare, nel deserto o in un carcere libico non risolve i nostri problemi. E per quanto possa annoiare sentirsi dire l’ovvio, il destino dell’umanità è affare di tutti, nessuno escluso.

*prete, presidente Centro Astalli – Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati in Italia

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la Fallaci non aveva ragione

perché sull’Islam ha ragione padre Dall’Oglio e non la Fallaci

di Valerio Evangelista

per Aleteia*

Il 29 luglio 2013 veniva rapito il gesuita romano a Raqqa, in Siria. Una vita dedicata al dialogo, unica via per disinnescare la trappola dell’odio fondamentalista


“La Chiesa ha rifiutato lo scontro di civiltà che accomunava Samuel Huntington e al Qaida. E questo, evidentemente, è diventata una colpa da espiare”.

Così Andrea Riccardi commenta l’assassinio di Padre Jacques Hamel, in un articolo uscito sull’Espresso (“Cristiani mai in guerra”, a firma di Marco Damilano).

Il fondatore della Comunità di Sant’Egidio – cattolico, storico e profondo conoscitore dell’Islam – ricorda che nel 2016 si è celebrato il trentennale dell’incontro ecumenico di Assisi, e propone un ritorno a quello spirito. “Oggi la sfida è tornare a quella strategia. Non accettare la violenza. Sapere che c’è un’Islam che odia e un Islam che cerca l’amicizia e che sente l’onta di gesti che profanano la vita e un tempio dedicato al culto”.

Sono tante le storie di sacerdoti che hanno pagato a caro prezzo il proprio stile di vita fedele ai dettami del Vangelo.

“Il Vangelo propone una logica di speranza. La logica della carità in tutto e nonostante tutto. Ed è più forte della morte” – Padre Paolo, 2011

Come l’86enne Jacques Hamel, sgozzato l’estate scorsa fa durante una messa nella sua parrocchia in Normandia, come i giovanissimi sacerdoti iracheni Wasim Sabieh e Thaier Saad Abdal, morti nell’attentato che nel 2010 ha colpito la Cattedrale siro-cattolica di Baghdad, oppure come don Andrea Santoro, freddato in Turchia dalla pistola del 16enne Ouzhan Akdil. La lista sarebbe molto lunga.

E oggi non possiamo non ricordare Padre Paolo Dall’Oglio. Abuna Paolo si trovava a Raqqa per trattare la liberazione di un gruppo di ostaggi. Dal 29 luglio 2013 si sono perse le sue tracce, l’ipotesi più verosimile è che sia stato rapito da un gruppo di estremisti islamici vicino ad al Qaida.

Una vita spesa per il dialogo

Negli anni ’80 il gesuita romano ha rifondato la comunità monastica cattolico-siriaca Mar Musa nel deserto a nord di Damasco, dove nel 1992 fonda la comunità ecumenica al-Khalil (in arabo «l’amico», con cui si indica il patriarca Abramo) che promuove il dialogo islamico-cristiano. Il suo trentennale attivismo per l’abbattimento dei muri di diffidenza reciproca e per la costruzione di ponti di dialogo, è stato il motivo per cui il regime siriano lo ha espulso dal Paese mediorientale, nel 2012.

Dal 2011 Padre Paolo, che ha speso gran parte della sua intensa vita insieme al popolo siriano, si è infatti impegnato a formulare – insieme ai suoi “concittadini adottivi” – proposte di soluzioni pacifiche alle questioni sollevate dalle rivolte sviluppatesi in Siria. Tra i punti proposti anche una transizione politica verso un’architettura istituzionale democratica e il raggiungimento del consenso delle diverse componenti sociali e delle varie sensibilità religiose che coabitano in Siria.

“Lei sa meglio di chiunque altro quanto il terrorismo islamico internazionale sia soprattutto uno dei molti canali di illegalità del traffico di droga, di armi, di organi, di esseri umani, di capitali e di materie prime”. Queste parole, scritte nel 2012 da Paolo Dall’Oglio in una lettera a Kofi Annan, sono costate al gesuita romano l’espulsione definitiva dalla Siria.

“Solo passando dall’islamofobia all’islamosofia”, scriveva Dall’Oglio su SiriaLibano nel 2012, “dall’odio alla saggezza, eviteremo l’afghanizzazione della Siria”. Islamosofia, ovvero conoscere quell’Islam che cerca l’amicizia di cui parla anche Andrea Riccardi.

Nel libroPaolo Dall’Oglio. L’uomo del dialogo” (Ed.Paoline, 2015), Guyonne de Montjou riporta la testimonianza di alcuni suoi incontri con Paolo al monastero di Mar Musa. In uno di questi, il gesuita romano ha spiegato – con la sua inconfondibile chiarezza – la passione nel cercare il confronto con l’altro:

“Io ovviamente annuncerò, fino al martirio, se necessario, la Buona Novella dell’amore di Gesù! Ma so che, di fronte a me, un musulmano annuncerà con la stessa intensità la Profezia coranica. L’unico mezzo per donare la propria vita per Gesù consiste nell’aiutare ognuno ad essere un pellegrino di verità, non limitarlo all’interno del suo contesto, valorizzare la sua esperienza di Dio… Il mondo ha bisogno di persone iniziate all’esperienza mistica. In modo collettivo e individuale, bisogna che ognuno senta nel proprio corpo e nel proprio cuore, grazie a maestri esperti, il tocco e il contatto di Dio”.

Anni di tesi, ipotesi e congetture sulla sua sorte. Mi sottraggo volentieri a queste disquisizioni, facendo mie le parole di Hind Aboud Kabawat, profonda amica di Padre Paolo, riportate da un articolo di Marta Serafini sul Corriere: “Se è morto è morto. Se è vivo allora tornerà indietro. Noi dobbiamo seguire i suoi principi. Amare gli altri, costruire ponti attraversando il confine per la pace e la riconciliazione. Erano queste le sue parole preferite”.

“Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” – Giovanni 15:13

Il carisma visionario di un uomo straordinario

“Paolo è stato sottovalutato”, ha dichiarato ad Aleteia Riccardo Cristiano, giornalista e storico vaticanista di Radio Rai. “Con noi comunicava sulla base del concetto di solidarietà nei confronti di popolazioni che rivendicavano libertà e dignità. Era un visionario, e come tale ha saputo identificare degli scenari prossimi e avvertirci di ciò che sarebbe potuto accadere. Noi non l’abbiamo compreso, perché – a differenza sua – non eravamo abituati a vivere e comunicare con i siriani. A loro, ai siriani, parlava sulla base del concetto di consapevolezza sociale”.

 

La radice dell’impegno di Padre Paolo non è infatti da ricercarsi nella volontà di affermazione di un gruppo politico o di una fazione religiosa, ma nella constatazione della crisi irrimediabile del modello di unità sociale calata dall’alto. “Paolo, e con lui tanti siriani, aveva compreso la crisi profonda di quello stato, che oserei paragonare allo stato napoleonico”, ha aggiunto Riccardo Cristiano. L’unica unità presentabile era dunque, per il sacerdote romano, non quella nata come espressione della volontà imprevedibile di un governo autoritario; ma quella ricostruita dal basso, valorizzando e non annullando le diversità.

In un intervista al giornalista siriano di ANA Press Rami Jarrah – tenutasi nella città turca di Gaziantep poco prima del rapimento ma riapparsa recentemente sul web – Paolo aveva affermato, con un sapore tragicamente profetico, che “se ciascuno di noi chiude la mente … noi tutti perderemmo il Paese e ciascuno perderebbe l’altro”. Ribadendo la necessità di pensare “a cosa fare per mettere il paese sulla strada della comprensione, della convivenza, della fratellanza, della democrazia matura e del superamento del regime tirannico“.

“La consapevolezza di essere un soggetto plurimo e di avere bisogno dell’altro per arricchire se stessi. È questo il concetto visionario che ha fatto innamorare i siriani, a prescindere dalla propria appartenenza religiosa, della figura di Paolo”, ha sottolineato il vaticanista di Radio Rai, responsabile dell’associazione Giornalisti amici di Padre Dall’Oglio. Ma questo doppio binario comunicativo è stato incompreso da entrambi i versanti, perché spesso limitati da un registro interpretativo squisitamente partigiano.

Il nemico dei terroristi è necessariamente chi parla di dialogo, che funge da minaccia esistenziale per il nichilismo, per l’ideologizzazione o per qualunque sia la fonte a cui vogliamo ricorrere per interpretare la motivazione degli assassini. Siamo portati a pensare che il dialogo sia sinonimo di buonismo, ma in realtà è l’unica arma capace di mettere in crisi questi gruppi. Ecco perché le espressioni, i simboli e gli interpreti del dialogo sono il bersaglio per antonomasia. La potenza di Paolo è data dalla sinergia dei due registri comunicativi – solidarietà e consapevolezza – che vanno di pari passo. Proprio come Bergoglio, anche lui sembra rivolgersi a bambini, con dolcezza e chiarezza, arrivando fino al cuore della questione”, ha concluso Riccardo Cristiano.

Nel libro “Collera e luce. Un prete nella rivoluzione siriana” (Emi, 2013) Padre Paolo ha descritto, con lucida lungimiranza, il destino dei cristiani di Siria nel caso in cui la comunità internazionale continuasse a ignorare la causa siriana:

Una cosa è il progetto di una Siria democratica, rivoluzionaria, pluralista, dove i cristiani avrebbero il loro posto. Altra cosa è il progetto politico islamista dove lo spazio dei cristiani sarebbe ristretto. E infine, altra cosa ancora è l’esplicita aggressione contro i cristiani da parte degli estremisti musulmani cosiddetti jihadisti e takfiriti.

E l’irresponsabilità mondiale prepara il terreno a questa terza ipotesi. (…) Il cristianesimo siriano diventerà residuale. Il che non significa che diverrà privo di senso, di importanza culturale e certamente di ruolo spirituale. Il disastro può essere più o meno grave, tutto dipenderà dalle scelte future sul piano nazionale o internazionale.

Tuttavia, a fronte di tale questione l’ottimismo deve restare di rigore; alla fine del conflitto, il tessuto sociale siriano si ricomporrà nella sua pluralità. Alcuni ritorneranno per ricostituire una certa normalità, il loro contesto vitale. Quanti avranno trovato una soluzione altrove, vi resteranno. Io conservo la speranza che le comunità cristiane residuali possano fiorire in una futura Siria islamica, capace di scegliere un coerente pluralismo inclusivo. 

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papa Francesco chiama ‘famiglia’ una coppia gay

papa Francesco a coppia gay con i tre figli adottivi

«Benedizione apostolica alla vostra famiglia»

di Eletta Cucuzza
in “Adista.it” del 9 agosto 2017

 

“Io non ho paura” potrebbe essere il motto di papa Francesco per molte sue affermazioni che vanno ben al di là di catechismi, diritti canonici, tradizione, consuetudini e riflessioni teologiche. Non ha paura delle reazioni che di volta in volta esse suscitano. Rientra fra i suoi “passi più lunghi della gamba” ecclesial-moderata (e ecclesial-reazionaria) aver chiamato «famiglia» una coppia gay, e con tanto di benedizione apostolica. Toni Reis e David Harrad, sposatisi a Curitiba (Brasile) nel 2011 dopo una convivenza di 27 anni, hanno adottato tre ragazzi: Allyson (16 anni) e i fratelli Jessica (14) e Filipe (11). Ad aprile di quest’anno li hanno fatti battezzare, e hanno voluto raccontare la loro storia e la loro felicità per la grazia e il battesimo dei loro tre ragazzi in una lettera a papa Francesco, accompagnandola con foto della cerimonia, copia dei certificati e un particolare ringraziamento al capo della Chiesa cattolica.

Toni e David mai si sarebbero aspettati una risposta. Che invece è giunta, il 10 luglio, firmata da mons. Paolo Borgia degli Affari Generali della Segreteria di Stato vaticana, e le cui parole non potranno non rendere felici persone lgbt di tutto il mondo, i cui matrimoni non sono ammessi dalla Chiesa cattolica, secondo la quale – e viene ripetuto ad ogni pie’ sospinto – i contraenti per originare una famiglia devono essere esclusivamente un maschio e una femmina.

Nella risposta a firma Paolo Borgia si legge: «papa Francesco», che «ha apprezzato la lettera», «porge a voi anche le sue congratulazioni, invocando per la vostra famiglia l’abbondanza delle grazie divine, affinché viviate costantemente e felicemente la condizione di cristiani, come buoni figli di Dio e della Chiesa, e inviandovi una augurale Benedizione Apostolica, con la richiesta di non dimenticarvi di pregare per lui». La lettera, la cui foto è visibile all’indirizzo http://g1.globo.com/pr/parana/noticia/casal-gay-agradece-papa-francisco-por-batismo-de-filhos-evaticano-responde.ghtml, è corredata da una foto di Francesco autografata.

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