p, Zanotelli a Napoli manifesta a favore dei rom

Napoli

manifestazione contro lo sgombero dei Rom:

«non sono animali»

di Melina Chiapparino

Rom:  ‘noi non siamo animali’
La scritta a caratteri cubitali si legge sui cartelloni indossati da Padre Alex Zanotelli ed i manifestanti riunitosi oggi sotto Palazzo San Giacomo. Dalle 11 del mattino è cominciata la protesta del ‘Comitato Campano con i Rom’ e del ‘Comitato di solidarietà dei cittadini di via S. Erasmo alle Brecce’ contro lo sgombero dei campi rom in via Brecce Sant’Erasmo a Poggioreale, avvenuto lo scorso 7 aprile su provvedimento della Procura di Napoli. Ad affiancare i manifestanti, oltre a Zanotelli che ha parlato di «una vera e propria deportazione a cui non è stata affiancata alcuna soluzione abitativa per più di 700 persone lasciate in mezzo alla strade», erano presenti il gesuita Padre Domenico Pizzuti, la pastora Valdese These Mueller e Cathrine Molok di Amnesty International.   
«L’unica cosa che il Comune di Napoli ha fatto è la costruzione di un campo attrezzato in via del Riposo, un lager così è definito da Amnesty International – si legge nel volantino diffuso durante la manifestazione dai Comitati – troviamo incredibile che né il Comune né la Regione trovino case o appartamenti per le famiglie rom come prevede la politica dell’Unione Europea ed è ancora più incredibile che la Prefettura abbia 16milioni di euro da destinare ai rom che nessuno sta utilizzando».
 

Temi centrali della protesta sono stati due filoni: la destinazione di una sola porzione dei 1300 Rom dei campi nell’attrezzatura in via del Riposo, con la conseguente problematica di non avere una sistemazione per le altre famiglie e la questione dei minori. «Tanti bambini sono stati portati via dall’oggi al domani trovandosi costretti a vivere in strada e arrangiarsi – insiste Zanotelli – si tratta di minori scolarizzati che frequentavano le classi delle scuole nei pressi dei campi e a cui si sta negando il diritto allo studio». Durante la manifestazione hanno partecipato anche alcuni rappresentati della comunità Rom come Patrick che ha dichiarato di vivere in auto con la famiglia da 4 giorni. «Non vogliamo creare problemi- ha spiegato- vogliamo solo un posto dove vivere tranquilli». Una delegazione dei manifestanti, inclusa la rappresentante di Amnesty International è stata ricevuta durante la mattinata dalla dirigenza dell’assessorato al Welfare di Roberta Gaeta, che non era presente, ma nessun risultato è stato portato a casa dai Comitati. «Al momento non ci sono spazi alternativi da offrire» hanno dichiarato dopo la riunione i rappresentati delle comunità Rom.

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il vangelo della domenica commentato da p. Maggi

È RISORTO E VI PRECEDE IN GALILEA

commento al vangelo della domenica di pasqua (16 aprile 2917) di p. Alberto Maggi:

Mt 28,1-10

Dopo il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Magdala e l’altra Maria andarono a visitare la tomba.
Ed ecco, vi fu un gran terremoto. Un angelo del Signore, infatti, sceso dal cielo, si avvicinò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. Il suo aspetto era come folgore e il suo vestito bianco come neve. Per lo spavento che ebbero di lui, le guardie furono scosse e rimasero come morte.
L’angelo disse alle donne: «Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto, infatti, come aveva detto; venite, guardate il luogo dove era stato deposto. Presto, andate a dire ai suoi discepoli: “È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete”. Ecco, io ve l’ho detto».
Abbandonato in fretta il sepolcro con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l’annuncio ai suoi discepoli.
Ed ecco, Gesù venne loro incontro e disse: «Salute a voi!». Ed esse si avvicinarono, gli abbracciarono i piedi e lo adorarono. Allora Gesù disse loro: «Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno».

Nessun evangelista descrive la risurrezione di Gesù. L’immagine classica tradizionale conosciuta del Cristo trionfante, che esce dalla tomba, non appartiene infatti ai vangeli, ma ad un apocrifo del II secolo, chiamato il vangelo di Pietro. Ma tutti gli evangelisti danno indicazioni su come incontrare il Cristo vivente. L’esperienza del Cristo risorto, infatti, non è stato un privilegio concesso duemila anni fa ad un piccolo gruppo di persone, ma una possibilità per i credenti di tutti i tempi. Vediamo cosa ci dice al riguardo Matteo, nel capitolo 28, il capitolo della risurrezione. “Dopo il sabato”, ecco l’evangelista inizia con una notazione: l’osservanza del precetto del sabato ha ritardato la comunità primitiva di fare esperienza del Cristo risorto. “Dopo il sabato, all’alba del primo giorno”, il primo giorno richiama il primo giorno della creazione, in Gesù si realizza la nuova definitiva creazione della settimana. Il primo giorno della settimana, è il giorno ottavo, e il numero otto, nella chiesa primitiva, sarà il numero che avrà il significato del Cristo risorto, ed è il numero infatti delle beatitudini. “Maria di Magdala e l’altra Maria andarono a visitare la tomba”, manca una donna; alla crocifissione di Gesù erano tre le donne presenti: Maria di Magdala, l’altra Maria, la madre di Giacomo e Giuseppe, ma c’era anche la madre dei figli di Zebedeo. Non c’è più, perché? Questa donna ambiziosa, che voleva la gloria, il successo per i suoi figli, quando vede che il suo messia muore definitivamente, ha perso ogni speranza, quindi non sarà testimone della risurrezione. “Ed ecco, vi fu un gran terremoto”, il terremoto, nella Bibbia, è un segno della manifestazione divina, “e un angelo del Signore”, per angelo del Signore non s’intende un angelo inviato dal Signore, ma Dio quando entra in contatto con gli uomini. In questo vangelo appare per
ben tre volte: per annunciare la vita di Gesù, per proteggerla dalle mire omicide di Erode, e per confermarla(e) ora, che, quando la vita viene da Dio, è indistruttibile. “Un angelo del Signore, infatti, sceso dal cielo, si avvicinò, rotolò la pietra”, questa pietra era stata definita una gran pietra, “e si pose a sedere”, sedere  è segno di conquista, “su di essa”. A differenza delle donne, che, nel capitolo precedente, l’evangelista ci ha indicato che si erano sedute davanti alla tomba in segno di lutto, l’angelo siede sulla pietra in segno di vittoria. “Il suo aspetto era come folgore e il suo vestito bianco come neve”, sono le stesse descrizioni della trasfigurazione di Gesù e i colori della gloria divina. “Per lo spavento che ebbero di lui, le guardie furono scosse e rimasero come morte”, c’è l’irruzione della pienezza di vita, ma quanti appartengono al mondo della morte, per loro non è un’esperienza di vita, ma sprofondano ancora più nella morte. L’evangelista è ironico, perché quello che pensavano che è morto, in realtà è vivo, e quelli che erano vivi, dice sono come morti, sono morti. Ma “l’angelo disse alle donne: «Voi non abbiate paura!”, è strano questo, perché ad avere paura sono le guardie, e l’angelo invece le ignora e si rivolge alle donne, dice “«Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso”, cioè il maledetto, quello che era considerato morto per una maledizione divina, “Non è qui”. L’angelo non dice non è più qui, (ma) non è qui: il sepolcro non ha mai potuto contenere colui che era il vivente, ”È risorto, infatti”, e qui c’è un velato rimprovero, “come aveva detto”, l’aveva detto per ben tre volte, “venite, guardate il luogo dove era stato deposto”, e “Presto, andate a dire ai suoi discepoli: “È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea”, la Galilea è importante nella narrazione della resurrezione, apparirà tre volte, “là lo vedrete”, questo verbo vedere è lo stesso che è apparso nella beatitudine di: beati i puri di cuore, e non indica la vista fisica, ma una profonda esperienza interiore. Gesù risuscitato in questo vangelo, il vangelo di Matteo, non si manifesterà mai a Gerusalemme, la città  assassina, la città che, fin dall’inizio, è sotto una cappa di tenebre, ma, per vedere Gesù, per sperimentarlo, occorre andare in Galilea, cioè il luogo della sua predicazione. “Abbandonato in fretta il sepolcro con timore e gioia grande”, nella misura che abbandonano il sepolcro, che mai ha potuto contenere il vivente, subentra una gioia grande, e “le donne corsero a dare l’annuncio”, il termine annuncio, in greco, contiene in sé la radice del vocabolo angelo. Le donne, considerate gli esseri più lontani da Dio, in realtà sono i più vicini, compiono la stessa funzione degli angeli, “l’annuncio ai suoi discepoli. Ed ecco”, l’espressione indica una sorpresa, “Gesù venne loro incontro”, quando si va a comunicare vita, quando si va ad annunciare vita, c’è sempre il Signore che viene incontro, per rafforzare, con la sua presenza, l’annuncio, ”e disse”, qui la traduzione è “«Salute a voi!»”, in realtà è “rallegratevi”, perché? Al termine delle beatitudini, nell’ultima beatitudine, quella dei perseguitati, Gesù aveva detto: rallegratevi perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Eccola qual è la ricompensa: una vita indistruttibile, una vita capace di superare la morte. “Ed esse si avvicinarono, gli abbracciarono i piedi e lo adorarono”, i piedi indicano un incontro reale, fisico non è uno spirito, un fantasma. Il fatto che lo adorarono (vuol dire) che riconoscono in lui la pienezza della condizione divina. “Allora Gesù disse loro: «Non temete; andate ad annunciare”, di nuovo il ruolo degli angeli, “ai miei fratelli”, per la prima volta i discepoli vengono chiamati i fratelli di Gesù, “che vadano in Galilea”, e, di nuovo, l’invito, “là mi vedranno”. Perché in Galilea è possibile vedere Gesù? Poi vedremo in seguito che i discepoli andranno in Galilea su “il monte che Gesù aveva loro indicato”. Ma Gesù non ha indicato nessun monte. Qual è questo monte? È il monte delle beatitudini. Qual è il messaggio allora dell’evangelista? Vivendo, accogliendo le beatitudini, manifestando in pienezza la buona notizia di Gesù, c’è la possibilità di fare l’esperienza, d’ incontrare nella propria vita, colui che è il vivente.

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è possibile un mondo migliore?

Augé

dall’utopia al possibile

“La sola utopia valida per i secoli a venire e le cui fondamenta andrebbero urgentemente costruite o rinforzate è l’utopia dell’istruzione per tutti: l’unica via possibile per frenare una società mondiale ineguale e ignorante, condannata al consumo o all’esclusione e, alla fin fine, a rischio di suicidio planetario”.

un capitolo da:

“Un altro mondo è possibile”, il nuovo saggio di Marc Augé – etnologo e scrittore francese di fama mondiale – in questi giorni in libreria per Codice edizioni.

di Marc Augé

Le utopie del diciannovesimo secolo si sono infrante contro la dura realtà della storia del ventesimo. La globalizzazione oggi è sia economica sia tecnologica, e abitiamo in un mondo fatto di immagini e messaggi istantanei che ci dà la sensazione di vivere in un presente continuo. Anche l’ultima utopia, quella della “fine della Storia” e della società liberale, è messa alla prova. Per pensare alle possibilità di futuro c’è un modello, il pensiero scientifico, che promuove l’ipotesi come metodo, e si basa su due principi: pensare in rapporto agli scopi e comprendere che l’uomo, nella sua tripla dimensione, individuale, culturale e generale, è la sola priorità.

È il grande paradosso della nostra epoca: non osiamo più immaginare l’avvenire proprio nel momento in cui il progresso scientifico ci ha permesso di conoscere l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. La scienza avanza con una rapidità tale che oggi non saremmo in grado di descrivere quale sarà lo stato delle nostre conoscenze di qui a cinquant’anni, eppure su scala storica non si tratta che di un’infima particella di tempo.

Questo paradosso è tanto più sconvolgente se si considera che i progressi scientifici vanno di pari passo con invenzioni e innovazioni tecnologiche non prive di conseguenze sulla vita sociale delle persone. Le tecnologie nel campo della comunicazione in teoria permettono ad ogni individuo molteplici possibilità di relazione; i mezzi di trasporto consentono a ciascuno, sempre in teoria, di esplorare il mondo; infine, le reti di distribuzione dilatano a dismisura qualsiasi possibilità di consumo. Sotto un altro punto di vista, possiamo constatare che la collaborazione tra scienziati e ricercatori di tutto il mondo è sempre più necessaria per il progresso della scienza: condividono i propri risultati o lavorano direttamente insieme, come al CERN di Ginevra, che rappresenta un moderno modello di ciò che potrebbe essere l’utopia realizzata di una vita sociale internazionale votata alla conoscenza e alla ricerca di base.

Questo è il punto essenziale, a partire dal quale si possono sviluppare tutte le nostre aspettative ma anche tutti i nostri timori: lo stretto intreccio tra vita scientifica e vita sociale, tra storia della scienza e storia tout court, e tra progresso scientifico e sviluppo economico. Il ventesimo secolo ha segnato la morte delle utopie, delle «grandi narrazioni» del diciannovesimo, per riprendere l’espressione del filosofo Lyotard [1], che sono sfociate in mostruosità sociali e politiche. È stato anche il secolo delle sperimentazioni, talvolta omicide, della scienza, nel momento in cui le nuove invenzioni modificavano direttamente il corso della storia umana, come nel caso dei diversi armamenti derivati dalla ricerca sull’atomo.

Sappiamo che la scienza oggi richiede finanziamenti e che non può progredire se non in paesi ricchi, che la distinzione tra ricerca pura e ricerca applicata è relativa, dal momento che la prima necessita degli strumenti tecnologici elaborati dalla seconda: si può dire che mai come oggi storia delle scienze e storia politica siano state così interdipendenti. La crisi che stiamo attraversando sul piano economico e finanziario – evento relativamente recente del quale bisogna imparare a misurare le conseguenze – ha forse cause ancora più profonde che dipendono dalla correlazione tra le due storie.

L’utopia liberale a cui pensava Fukuyama, e a cui aveva dato il nome di «fine della Storia»[2], ha già lasciato il posto a un’oligarchia, che domina un pianeta le cui disuguaglianze interne non smettono di aumentare. La domanda posta da Derrida a Fukuyama – la fine della Storia, intesa come l’accordo intellettuale generalizzato sulla forma ottimale di governo degli uomini, è una realtà osservabile o una proiezione di tipo utopistico?[3] – ha trovato risposta. Siamo al centro di un’utopia che comincia a sgretolarsi nel momento stesso in cui prova a realizzarsi: quella dell’alleanza feconda e definitiva tra democrazia rappresentativa e mercato liberista su scala planetaria. Regimi che non hanno niente di democratico si adattano molto bene al libero mercato; la logica della speculazione finanziaria prevale su quella della produzione e della prosperità sociale. Nell’ambito delle conoscenze come in quello delle risorse economiche non smette di ampliarsi il divario tra i più fortunati e i più poveri, anche nei paesi emergenti. Ci stiamo dirigendo verso un pianeta a tre classi sociali: i potenti, i consumatori e gli esclusi.

I potenti di questo mondo e di quello che verrà non formano un corpo omogeneo: fanno parte della sfera economica, di quella politica o di quella scientifica, ma insieme costituiscono, obiettivamente, l’ambito all’interno del quale si delinea il futuro del sistema in atto. I consumatori sono il motore di questo sistema: il consumo è fondamentale per il suo funzionamento. L’intero apparato di pubblicità diretta o indiretta li invita a farlo in ogni maniera possibile: l’idea di innovazione teorizzata da Schumpeter sostituisce l’avvenire. L’innovazione tecnologica, oggi, rappresenta a grandi tratti l’idea di un pianeta interconnesso in cui le reti sociali si presentano come punti di contatto, di scambio, di cultura e di informazione. Le reti stesse sono l’ambiente e l’oggetto privilegiato del consumo, poiché la tecnologia che le rende ogni giorno più performanti si materializza sul mercato sotto forma di prodotti sempre più innovativi che non smettono di diffondere e riprodurre la propria immagine.

Trova spazio l’idea che tali prodotti siano un fattore di sviluppo delle conoscenze, e la virtuosità di alcuni nel loro utilizzo può in effetti venire a conforto di questa posizione pericolosamente illusoria, dal momento che confonde il fine con i mezzi, il messaggio con i media, la trasmissione con l’acquisizione, la conoscenza con l’identificazione.

Gli esclusi, infine, sono tali in termini sia di prosperità economica sia di accesso alla conoscenza. Le realtà della globalizzazione sono dunque assai lontane dagli ideali della planetarizzazione, di una società Terra i cui liberi cittadini, uguali per legge e di fatto, condividono lo spazio nel comune interesse. Il mercato si estende al globo intero, ma i lavoratori sottopagati si trovano da una parte e i consumatori, più o meno fortunati, dall’altra.

Indipendentemente dalle disuguaglianze – rafforzate dalla priorità data alla tecnologia e dai cambiamenti che essa comporta in termini di consumo –, il sistema diffonde l’immagine di un mondo in cui tutto è ubiquo e istantaneo, occultando le reali condizioni della nostra esistenza e sovvertendo i fondamenti simbolici su cui poggia l’intera vita sociale. L’illusione di sapere e la perdita di attrazione da parte dei simboli sono conseguenza dello stesso processo tecnologico che contribuisce alle nuove conquiste della ricerca di base. Qualunque tentativo di pensare il futuro deve innanzitutto eliminare questa difficoltà. La portata del fenomeno sarà osservabile contrapponendo il locale al globale e, per esempio, le disuguaglianze sociali che prevalgono nelle grandi metropoli urbane all’immagine di armoniosa fluidità con cui le dipingono i mezzi di comunicazione, o i tempi morti della vita sociale ed economica all’istantaneità della comunicazione. La vita sociale reale ha bisogno del tempo e dello spazio, che sono la materia prima delle relazioni stabilite, pensate e rappresentate tra l’uno e l’altro, tra l’uno e gli altri e tra gli uni e gli altri.

Le seguenti tre scale di osservazione non possono essere confuse se non a costo di una illusoria metaforizzazione del reale.

Per lungo tempo gli esseri umani hanno popolato l’universo con i loro sogni, i loro miti e i loro dei, dando nomi agli astri o alle costellazioni per poterli sentire più vicini. Oggi prendiamo atto del carattere ambizioso e al contempo marginale di questa impresa. A livello di universo conosciuto (miliardi di sistemi solari nella nostra galassia e miliardi di galassie nel nostro universo), in cui le dimensioni del tempo e dello spazio si confondono e ci sfuggono, la nostra immaginazione si esaurisce rapidamente, incapace di afferrare l’inconcepibile. Dobbiamo coltivare il nostro orto, diceva Voltaire[4], ossia restare nella misura della storia umana.

Su scala planetaria, ci troviamo in una posizione intermedia. Anche se cominciamo a intravedere la possibilità di annettere la “periferia” più vicina (la Luna, Marte), per il nostro modo di vedere la scienza avanza troppo lentamente verso le frontiere dell’ignoto e dell’infinito. Per questo motivo ci stiamo abituando progressivamente al passaggio alla scala planetaria, a cui corrisponde la globalizzazione tecnologica e mediatica. Il pantheon greco ha abbandonato il cielo, ma le “stelle” dei varietà o della politica invadono i nostri schermi. Non proiettiamo più gli dei nel cielo, ma i nuovi idoli internazionali si proiettano nella nostra intimità, e contribuiscono a persuaderci del fatto che, anche per ognuno di noi, le dimensioni spaziali e temporali si siano trasformate radicalmente – il che in parte è vero, e in parte illusorio.

L’illusione scompare su scala locale, anche se la moltiplicazione e la miniaturizzazione delle tecnologie tendono a farla insinuare fin nell’intimo dei nostri corpi. Viviamo ancora, ciascuno a suo modo, nella concretezza del tempo e dello spazio: lo dimostrano, per esempio, i dibattiti sull’età del pensionamento o sulla natura dei contratti di lavoro (a tempo determinato o indeterminato), così come sugli ingorghi del traffico.

Ciò che ci inquieta, in fondo, è che non sappiamo più dove stiamo andando. Le utopie del diciannovesimo secolo descrivevano il mondo a cui aspiravano. Le grandi religioni sono state, e in alcuni casi sono ancora, animate da un proselitismo che trova la propria origine in un mito fondatore. Da questo punto di vista, il passato fornisce di caso in caso un modello, un punto di riferimento e una modalità di azione. Il mondo che oggi si richiude su ciascuno di noi è il mondo della tecnologia, che si è sviluppato più velocemente di quanto non abbiano fatto le società. Ci affanniamo per adottare i congegni che esso ci impone, e nel complesso abbiamo la sensazione di essere assorbiti da un avvenire a cui non avevamo pensato e che ci dà le vertigini, piuttosto che di essere determinati dal nostro passato. C’è qualcosa dell’apprendista stregone nelle attuali tecnologie della comunicazione. Questo aspetto, combinato alle crescenti disuguaglianze economiche e agli sconvolgimenti di massa che queste implicano, spiega perché, sotto alcuni aspetti, l’avvenire ci fa paura. Se non siamo più noi ad ambire al futuro, è perché è il futuro, piuttosto, che ambisce a noi.

Come reinserirci in quella che per certi aspetti sembra una fuga in avanti? Credo che potremmo tentare di trovare un principio di risposta solo partendo da concetti semplici e chiari. A rischio di dare sembianze dogmatiche a ciò che non pretende di essere altro che una dichiarazione di ambiziosa modestia, riassumerò tale risposta in tre punti: uno relativo al metodo, uno all’oggetto e uno al principio.

Il punto riguardante il metodo è, in realtà, qualcosa di più: si tratta di far assurgere il metodo scientifico a principio generale di azione sulla società. Si parla talvolta di “scientismo” per condannare le forme eccessive di garanzia e certezza. Tuttavia la scienza non ha niente a che vedere con lo scientismo. La ricerca scientifica passa attraverso l’ipotesi, che non può essere validata se non previa verifica: non parte da una verità preconcetta, ma si sforza di far arretrare progressivamente, seppur di poco, le frontiere dell’ignoto. Il fatto che nell’effettiva routine della pratica scientifica questa possa divenire oggetto di quelle critiche intestabili a qualunque pratica sociale che implichi rapporti di potere o di proprietà è tutta un’altra faccenda. Ciò che resta è che la scienza è l’unico settore dell’attività umana in cui si può parlare di progresso cumulativo senza timore di sbagliare. È esattamente la pratica dell’ipotesi che ha permesso l’avanzamento della conoscenza, nella misura in cui costituisce una scommessa sull’avvenire sempre rivedibile. Se l’esperimento non le verifica, si ritorna alle ipotesi.

Nei paesi comunisti, che pretendevano di essere guidati dal materialismo “scientifico”, l’accusa di revisionismo era considerata molto grave e poteva comportare conseguenze spiacevoli per quanti ne erano oggetto. Al contrario, l’idea che il modello scientifico debba ispirare la politica umana passa attraverso la promozione dell’ipotesi, della verifica e dell’eventuale revisione.

A questo proposito è legittimo chiedersi se la conoscenza non sia l’obiettivo ultimo dell’esistenza umana, se essa non ne sia l’oggetto stesso e, più in generale, se la questione degli obiettivi non debba essere dominante in tutti i dibattiti politici, economici e sociali. Se si è identificato il peccato originale nella conoscenza, nel desiderio di conoscere, questa convergenza con il mito pagano di Prometeo configura invece un ideale per l’umanità. L’ideale della conoscenza come fine ultimo della condizione umana si situa certamente al di là dei limiti spaziali e temporali di ogni vita individuale, ma suggerisce che la vera uguaglianza tra le persone passi attraverso l’accesso alla conoscenza, attraverso l’istruzione. Designando la conoscenza come obiettivo e fine ultimo dell’umanità, si fa riferimento semplicemente all’uguale dignità di tutti gli individui. Si tratta di rispondere alla domanda fondamentale: per cosa viviamo?, nel senso di “in vista di cosa?”.

D’altra parte, l’obiettivo della conoscenza non è in contraddizione con quello, espressamente formulato dall’Illuminismo, della felicità. Questa condizione non può essere definita per ognuno se non come la simultanea coscienza di sé e degli altri. L’amore individuale è una forma esacerbata e più o meno duratura di tale coscienza, di cui si trova un’espressione più collettiva nel termine fratellanza, che la Repubblica francese ha aggiunto alle due prime parole che costituiscono il suo motto: libertà e uguaglianza. Nessun individuo può pretendere di raggiungere una felicità totale, tanto meno una conoscenza totale. Tuttavia la nozione di sacro, secondo Durkheim, passa attraverso la presa di coscienza retrospettiva e in forma vivace dei momenti eccezionali in cui la coscienza degli altri si era fatta più vivida:

Verrà un giorno in cui le nostre società conosceranno ancora momenti di effervescenza creativa da cui sorgeranno nuovi ideali, da cui scaturiranno nuove formule che serviranno, per un certo tempo, da guida all’umanità; e una volta vissute queste ore, gli uomini proveranno spontaneamente il bisogno di riviverle ogni tanto nel pensiero, cioè di conservarne il ricordo per mezzo di feste che ne ravvivino regolarmente i frutti.[5]

La definizione durkheimiana di una sorta di sacralità laica ci tornerà utile dal momento che presuppone la tripla dimensione dell’uomo: individuale, culturale e generale. Ognuna di esse può trovare il proprio compimento solo nel rispetto delle altre due. L’avventura umana si svolge singolarmente in ogni coscienza individuale. Tuttavia il necessario riferimento al prossimo, senza il quale non si può costruire alcuna identità individuale, è in larga parte determinato dall’apparato simbolico delle società e delle culture particolari; queste possono essere talmente costrittive da togliere qualunque significato alla nozione di libertà individuale (ed è ad esse che bisogna imputare la storica disuguaglianza tra uomini e donne). La piena coscienza individuale non si realizza, invece, che attraverso quella dell’appartenenza al genere umano, indipendentemente dalle origini e dal sesso.

La tripla dimensione dell’essere umano costituisce dunque il principio da cui partire per poter formulare il suo stesso fine, l’effettiva universalità, e per definire l’incerto luogo della sua messa in atto: le società nella loro diversità.

Dunque l’obbligatoria constatazione di un indebolimento, se non della scomparsa, dei progetti politici del ventesimo secolo non ci porterà a trarre solo conseguenze negative poiché, in fin dei conti, questa assenza di rappresentazioni costruite dell’avvenire ci dà forse una reale possibilità di concepire dei cambiamenti, in forza dell’esperienza storica concreta e della pratica e della ricerca fondamentale.

Forse stiamo imparando a cambiare il mondo prima di immaginarlo, a guardare verso l’avvenire senza proiettarvi le nostre illusioni. Elaborare delle ipotesi per testare la loro validità, spostare progressivamente e prudentemente le frontiere dell’ignoto: ecco ciò che ci insegna la scienza, ciò che dovrebbe promuovere ogni programma educativo e a cui dovrebbe ispirarsi qualunque riflessione politica. Si delinea così la sola utopia valida per i secoli a venire, le cui fondamenta andrebbero urgentemente costruite o rinforzate: l’utopia dell’istruzione per tutti, la cui realizzazione appare l’unica possibile via per frenare, se non invertire, il corso dell’utopia nera che oggi sembra in via di realizzazione: quella di una società mondiale ineguale, per la maggior parte ignorante, illetterata o analfabeta, condannata al consumo o all’esclusione, esposta ad ogni forma di proselitismo violento, di regressione ideologica e, alla fin fine, a rischio di suicidio planetario.

NOTE

1. JeanFrançois Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 2002 (ed. or. La Condition postmoderne. Rapport sur le savoir, 1979).
2. Francis Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992 (ed. or. The End of History and the Last Man, 1992).
3. Jacques Derrida, Spettri di Marx, Cortina, Milano 1994 (ed. or. Spectres de Marx, 1993).
4. Voltaire, Candido o l’Ottimismo, Feltrinelli, Milano 1991, p. 125 (ed. or. Candide ou l’optimisme, 1759).
5. Émile Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia, Meltemi, Roma 2005, p. 491 (ed. or. Les Formes élémentaires de la vie religieuse : le système totémique en Australie, 1912).

(10 aprile 2017)

 

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come si fa a credere alla vita in un mondo di morte – come ripensare nel presente l’annuncio della resurrezione –

una speranza in tutte le lingue

di Angelo Reginato
in “Riforma” – settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi – del 14 aprile 2017

come si fa a credere alla vita, in un mondo di morte? Come si fa ad annunciare che è risorto, quel condannato alla morte più infamante? Le quattro narrazioni dei vangeli sono portatrici di un’elaborazione della speranza che è udibile nelle diverse lingue: ricominciare (Marco), uscire dalla gabbia del pensiero unico (Matteo), incamminarsi su sentieri di pace (Luca) coinvolgendo persone con nome e cognome (Giovanni)

Anche noi, chiamati ad annunciare l’evangelo della resurrezione e a ripensarlo nel presente, siamo tentati di fuggire. Come le donne, di cui ci narra Marco. Come si fa a credere alla vita, in un mondo di morte? Come si fa ad annunciare che è risorto, quel condannato alla morte più infamante? Solo creature angeliche possono farlo. Solo anime belle sono in grado di penetrare la crosta di sangue raggrumato che copre la nostra storia e scorgere l’utopia di un mondo giusto, che coltiva la vita e aborrisce la morte. Noi no. I nostri occhi vedono solo teatri di guerra e cinismo spietato. Non angeli ma droni sorvegliano i sepolcri ben sigillati di una storia che difende la vita di pochi e condanna a morte il resto dell’umanità. Pasqua, dunque, impossibile nello scenario post-moderno, che decostruisce ogni speranza? In realtà, è così da sempre. L’umanità, fin da subito, ha dovuto fare i conti con lo scandalo di una storia che gronda sangue. Come leggiamo nelle Scritture. Dove, però, insieme all’analisi lucida della situazione, viene messa in campo la sfida alla tirannia della morte. Come nei quattro racconti evangelici.

Marco, che conclude la sua narrazione con la fuga, silenziosa e spaventata delle donne, destinatarie dell’annuncio di Pasqua (16, 8), propone la strategia della ripresa: tornare in Galilea (16, 7), dove tutto ha preso inizio, e ricominciare daccapo. In un mondo disperato, è decisivo fare della speranza un percorso educativo a lungo termine, tenace, che prova e riprova a compiere quanto la storia tenta di impedire. Matteo, invece, parla della Pasqua come di un terremoto (27, 54; 28, 2), evocando come via d’uscita dalla paralisi uno shock esistenziale, una trasmutazione dei valori, un mettere sottosopra quelle visioni che, a torto, riteniamo ben fondate. Luca, a partire dalle parole di perdono pronunciate da Gesù, propone esperienze di riconciliazione quali segni di credibilità dell’annuncio pasquale (24, 47), facendosi prossimi a quanti, in preda alla tristezza del cuore, hanno tirato i remi in barca e hanno dismesso ogni forma di responsabilità storica (24, 13ss). Infine, Giovanni evoca una strategia personalizzata, basata sul chiamare per nome (20, 16), sulla qualità delle relazioni, improntate su un amore inatteso, immeritato. Linguaggio interno dei cristiani, inservibile nell’agone pubblico? Tutto il contrario! Queste straordinarie narrazioni, che sono «occhio» (e non «oppio»!) dei popoli, sono portatrici di un’elaborazione della speranza che è udibile nelle diverse lingue. E che alla nostra società, tendenzialmente depressiva, propongono nuove aperture di sentieri troppo in fretta giudicati impercorribili. Come Marco, anche noi possiamo porre un’istanza di ricominciamento nel nostro contesto crepuscolare. Lavorare nei diversi ambiti educativi per iniziare al sogno di una vita che resista alle sirene della resa ai disegni mortali.

Ma perché questa parola suoni credibile, è necessario uscire dalle gabbie del pensiero unico, operare terremoti come quelli narrati da Matteo, scosse esistenziali e culturali, che aprano varchi di pensiero differente: qui l’annuncio pasquale potrà risuonare alle orecchie del mondo come un sussurrare il sospetto che non per forza di cose la vita è quella che ci fanno vivere; e, insieme, gridare l’indignazione per le troppe condanne a morte emanate dai nostri cuori di pietra. E poi, una volta scorto il passaggio, incamminarci lungo sentieri di pace, come indica Luca, innescando processi di riconciliazione. A Pasqua risorge Gesù, non tutti i morti. I nostri annunci avranno, per forza di cose, il carattere parziale di chi non risolve tutti i problemi ma indica simbolicamente una direzione: un corridoio umanitario, la microrealizzazione di una gestione dei conflitti in un determinato territorio, un gesto ecumenico che sappia di vangelo. Coinvolgendo persone con nome e cognome, come fa Giovanni, che coniuga la Pasqua con la contingenza del vivere quotidiano.
Che cos’hanno le chiese da dire al mondo, se non il fatto di mettersi in gioco, nonostante tutto, e proporsi come laboratori di resurrezione in mezzo a un’umanità rassegnata e incredula?

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a Torino la consulta per idiritti dei rom conculcati

Torino

i rom formano una Consulta per i diritti

“dal Pd ai fascisti record di manifestazioni contro di noi”

“In città è in atto una caccia alle streghe: nessuno si preoccupa delle soluzioni abitative per superare i campi”

di JACOPO RICCA

I rom torinesi fondano una Consulta per rappresentare le loro istanze e denunciano: “La politica continua a organizzare manifestazioni contro gli insediamenti presenti in città”. Hanno scelto l’8 aprile, data fondamentale per la cultura nomade dove si ricorda il primo congresso mondiale svoltosi a Londra nel 1971 e si celebra il “Romano Dives”, la Giornata Internazionale del popolo rom, per lanciare la prima consulta torinese che riunirà i rappresentanti degli insediamenti e delle tante comunità rom e sinte presenti in città.

L’organo politico sarà ospitato nella sede dell’associazione Idea Rom, presieduta da Vesna Vuletic, che in questi anni ha portato avanti le battaglie anche legali, come la costituzione di parte civile nel processo contro gli autori del rogo della Continassa, del popolo rom. Gli organizzatori però raccontano una situazione difficile in città, con la politica, da destra a sinistra, che continua a battersi contro di loro: “La Consulta Rom di Torino nasce in un clima da caccia alle streghe – attaccano – Proprio nella settimana in cui ricorre il primo atto politico mai messo in atto dalle comunità Rom, è stato raggiunto un record tutto particolare e cioè ben cinque manifestazioni politiche contro di noi. Si è iniziato con un incontro del Movimento 5 Stelle sul tema dei roghi tossici e della sicurezza sul bus 69, per poi passare a un convegno del Partito democratico sull’inquinamento ambientale prodotto dai rom, poi un presidio dei comitati contro l’insediamento di via Germagnano, quindi una conferenza stampa di Alemanno all’interno di un campo nomadi, fino a concludere la settimana con una manifestazione fascista nuovamente a ridosso di un insediamento”.

Parole dure che denunciano un clima di ostilità diffusa: “Nessuno o quasi che affronti il tema delle tante risorse in questi anni gettate al vento anziché utilizzate per affrontare i problemi – continuano gli animatori della Consulta – Pochi a sfiorare il tema delle soluzioni abitative e del lavoro come possibile via d’uscita per il superamento dei campi nomadi e degli annessi problemi”.

Secondo la stima della consulta, che si è definisce “un organismo politico di auto-rappresentanza che darà voce a chi non viene mai ascoltato, smascherando gli interessi che finora hanno impedito la vera soluzione dei problemi”, a Torino le persone di origine rom e Sinte sono circa 2.800 persone, che salgono a 5mila nella provincia e arrivano a 7mila se si considera tutto il Piemonte. “Anche Torino è una delle tante città italiane in cui migliaia di rom vivono ammassati nelle baraccopoli, istituzionali e non, che ne punteggiano le aree più marginali e degradate – concludono – Si tratta di persone a cui in pochi riconoscono la dignità di esseri umani, percepiti e trattati piuttosto come problema o corpo estraneo da espellere”.

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l’Italia è davvero il Paese degli omicidi? come nasce la xenofobia

paura e luoghi comuni alleati della xenofobia

di Vittorio Emiliani
in “Trentino” del 9 aprile 2017

Tutti i nostri telegiornali grondano sangue, ogni giorno. Ma l’Italia è davvero il Paese degli omicidi? No, no, e poi no. Siamo di fronte a un sensazionalismo irresponsabile che addensa su quanti, anziani soprattutto, si informano soprattutto dalle tv, un clima continuo e pesante di insicurezza. Totalmente sproporzionato rispetto alle cifre reali della criminalità in Italia, e poiché questo rivolo continuo di sangue che esce dal televisore viene per lo più collegato all’aumento dell’immigrazione, con inaccettabili speculazioni politiche, il danno si moltiplica.

Quali sono i dati certi, reali? Dal 2010-11 al 2015-16 gli omicidi volontari sono calati da 517 a 430, cioè del 15%. Pensate che soltanto nel 1991 erano ancora 1.910, cioè quasi cinque volte di più e la metà era attribuita a mafia-camorra-’ndrangheta, mentre oggi alla malavita organizzata vengono imputati appena 50 omicidi volontari, l’11,6%. Da una parte si tira un sospiro di sollievo, dall’altra ci si deve allarmare di più, nel senso che le varie mafie sparano molto di meno perché sono entrate nei gangli vitali dell’economia, degli affari, dell’import-export attraverso la connivenza di tanti “colletti bianchi”. Però l’Italia è un Paese nel quale si assassina meno che in Finlandia, Belgio, Grecia, Irlanda, Portogallo, Regno Unito, Austria e Danimarca. Per non parlare ovviamente degli Stati Uniti e anche dei Paesi Baltici. Siamo alla pari, se non leggermente sotto, rispetto a Francia, Spagna, Olanda, Germania. Ma lì i Tg nazionali non danno notizia di “un nuovo omicidio” in qualche sperduto paese. Da noi sì, e con evidenza sempre straordinaria. Dal 2010 agli inizi del 2013, secondo dati ufficiali della polizia di Stato, anche le vittime di femminicidio risultano diminuite dell’8,5%. Non so in seguito. In quel periodo hanno rappresentato il 31% di tutti gli omicidi. Una vera e propria impennata registrano invece le denunce di stalking: + 27,7% ammontando a 22.144. Quindi l’aumento dell’immigrazione, della popolazione straniera residente, pur salita da 3 a 5,4 milioni nell’ultimo decennio (+83,7%), non ha prodotto incrementi nel numero di omicidi che anzi sono decisamente calati. Perché accettare in silenzio gli spropositi dei vari Salvini?

Analogo discorso per le rapine: mentre i furti hanno registrato un incremento del 3,5 %, le rapine risultano diminuite dalle 35.831 del 2010-11 alle 33.314 (-7,0%). Se dovessimo stare alle cronache del profondo Nord dove pesca voti la Lega, si dovrebbe affermare che la pressione malavitosa percepita è molto ma molto più forte del fenomeno criminoso reale. Che viene ampliato interessatamente da alcune forze politiche xenofobe in modo irresponsabile e purtroppo anche da tanti mezzi di dis/informazione. Per mancanza di professionalità. Bisogna dire, a questo punto, che gli stanziamenti governativi per la sicurezza sono aumentati circa 1 miliardo nel periodo esaminato, come pure quelli per le spese di gestione e per gli investimenti tecnico-logistici della polizia. Va meno bene il rapporti pensionamenti-assunzioni, deficitario nel 2012-13, alla pari (2.190 pensionati e altrettanti assunti) nel biennio successivo. A proposito di realtà “percepita” e di realtà “vera” si parla e straparla di una «fiumana di richiedenti asilo».

Le cifre dell’Unione europea ridimensionano nettamente il fenomeno. Nel 2015 nella Ue i richiedenti asilo sono stati 441.800 in Germania (35,2%), 174.435 in Ungheria (13,9%), 156.11 in Svezia (12,4%) e 83.245 in Italia (6,6%). Se poi rapportiamo il loro numero con quello degli abitanti, prima diventa l’Ungheria, seguita da Austria, Finlandia, Germania e Italia. La quale, certo, ha tutti i problemi dei Paesi di primo approdo. Ma non è, ripeto, quello nel quale si fermano poi i migranti pur cresciuti nel 2016. Mi scuso per le molte cifre esibite e però bisognava pur documentare fenomeni come quello criminale nelle loro reali dimensioni smentendo i pericolosissimi luoghi comuni di un sensazionalismo giornalistico e politico davvero dissennato che ragiona (se ragiona) a spanne. Ma che Paese siamo diventati?

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ricordando una giornata importante per il popolo rom

Rom

Paolo VI e quella svolta a Pomezia nel ‘65

ma l’inclusione resta lontana

Paolo VI riceve dei fiori da una bambina rom durante la visita Pomezia del ‘65

marco roncalli

«Vorrei che anche per il vostro popolo si desse inizio a una nuova storia, a una rinnovata storia. Che si volti pagina! È arrivato il tempo di sradicare pregiudizi secolari, preconcetti e reciproche diffidenze che spesso sono alla base della discriminazione, del razzismo, della xenofobia. Nessuno si deve sentire isolato, nessuno è autorizzato a calpestare la dignità e i diritti degli altri. Avete l’esempio del beato Zefirino, figlio del vostro popolo, che si distinse per le sue virtù, per umiltà e onestà e per la grande devozione alla Madonna, che lo portò al martirio … Più volte anche da parte di San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI vi è stato assicurato l’affetto e l’incoraggiamento della Chiesa. Vorrei concludere con le parole del Beato Paolo VI … Voi nella Chiesa non siete ai margini, ma sotto certi aspetti, voi siete al centro, voi siete nel cuore» . 

Sono le parole che il 26 ottobre 2015, Papa Francesco ha pronunciato davanti a oltre 7mila Rom – provenienti da una ventina di nazioni del mondo, quasi duemila da 9 regioni e 26 diocesi italiane – giunti a Roma per ricordare il cinquantesimo anniversario dell’incontro di Paolo VI con il loro popolo a Pomezia, il 26 settembre del 1965. Un appello, quello di Francesco, sempre attuale. Certamente non solo oggi, 8 aprile, Giornata internazionale dei Rom e Sinti indetta dall’Onu, considerando che la presenza in Italia di circa 170 mila Rom di cui attorno ai quasi 40 mila vivono nei campi (oltre la metà composta da bambini di cui soltanto il 20% frequenta la scuola), resta sempre percepita solo come un problema di sicurezza

«Continuiamo, infatti, ad assistere ancora a troppa retorica politica e comunicativa razzista, xenofoba e antiziganista, con azioni conseguenti che portano a creare conflittualità e reazioni sociali, annullando gli aspetti positivi di percorsi di inclusione e partecipazione sociale. Manca, troppo spesso, il rispetto per il popolo rom, che vive nelle nostre periferie…»,

afferma monsignor Gian Carlo Perego oggi vescovo di Ferrara. Sono parole tratte da uno dei suoi ultimi scritti come direttore generale Fondazione Migrantes, la prefazione al volume di Susanna Placidi “Una giornata particolare” (Tau editore), che ricorda l’incontro di Papa Montini, alla vigilia della conclusione del Concilio Vaticano II: il primo, ufficiale, tra la Chiesa e il popolo “zingaro”. Un incontro che inizialmente prevedeva un incontro nella Basilica di San Pietro, mentre poi Paolo VI stesso decise di recarsi a visitarli nel loro accampamento di Pomezia, che quella giornata piovosa aveva trasformato in una palude. Un appuntamento storico che consacrava una svolta e vedeva l’abbraccio del Papa con una minoranza da sempre ai margini della società e associata a pregiudizi atavici come il furto o il rapimento dei bambini; una minoranza perseguitata nei secoli, ritenuta pericolosa, da cancellare dalla faccia della terra, impresa in cui si diedero molto da fare i nazisti durante la Seconda guerra mondiale (mezzo milione – secondo le statistiche più accreditate – i Rom che morirono nelle camere a gas e nei forni crematori dei lager, dopo aver subito trattamenti di particolare crudeltà).

Ma torniamo a quella “giornata particolare”. Anche padre Renè Voillaume e la piccola sorella Magdeleine in quell’occasione, lo ricorda monsignor Matteo Maria Zuppi, presentando lo stesso libro di Susanna Placidi, «accompagnarono un febbricitante Paolo VI, visibilmente felice per sanare una frattura secolare, che tanta sofferenza ha generato». «Egli, che aveva conosciuto il popolo zingaro –prosegue l’arcivescovo di Bologna – li chiamò “cari” e offrì a loro e a noi definizioni così diverse da quelle cui erano e sono abituati, frutto di sentimento poetico e di finezza letteraria: “pellegrini perpetui”, “esuli volontari”, “profughi sempre in cammino”, “viandanti senza riposo’”…». «Voi siete al centro, voi siete nel cuore”, affermò solennemente Papa Montini. In quella “giornata particolare” che a Pomezia aveva ascoltato la lettura del Vangelo in cinque idiomi diversi aprì davvero il suo cuore di Pastore e festeggiò il suo compleanno.

Da allora fino a Papa Francesco non sono mancate tappe importanti di questo legame tra il popolo Rom e la Chiesa. Certo molto resta da fare, ma occorre dar conto anche di esperienze che, benché poco diffuse, si collocano nel solco aperto da Paolo VI, capaci di far rivivere lo spirito di quella “giornata particolare” . Uno spirito già soffiato a ben guardare in tante pagine di storia della Chiesa dal tempo in cui Filippo Neri e altri santi erano pronti ad opporsi al decreto di Pio V che reclutava forzatamente gli zingari come rematori nelle galere pontificie, pronte per la battaglia di Lepanto, sino all’ultimo secolo che ha visto tante figure di precursori dell’apostolato fra i gitani un po’ in tutta Europa. Religiosi, parroci, vescovi capaci nei modi più diversi di «farsi zingari». Solo per fare qualche esempio fra i molti si pensi al gesuita Jean-Marie Fleury o all’arcivescovo di Utrecht, Johannes de Jong, negli anni ’40; a padre André Barthelemy negli anni ’50; al gesuita Luis Artigues, negli anni Sessanta; al futuro cardinale Roger Etchegaray, a Sorella Magdeleine o a padre Renè Voillaume, sempre restando in quegli anni. 

In Italia è stato don Dino Torreggiani il primo ad occuparsi sistematicamente dei Rom proponendo – anche con un memoriale inviato alla Sacra Congregazione Concistoriale già il 25 giugno 1957 – un piano in grado di affrontare la loro situazione e quella dei lavoratori dello spettacolo viaggiante, attraverso un coordinamento delle attività dei cappellani, d’intesa con il clero diocesano , base di una futura “prelatura dei nomadi”, di fatto presto realizzatasi con la nascita dell’Opera Assistenza Spirituale ai Nomadi in Italia (poi collocata all’interno degli organismi della Cei, nella Commissione Emigrazione e Turismo). Sulla scia dell’opera di Torreggiani si mossero diverse figure “storiche” della pastorale tra i Rom. Ne ricordiamo qui due. Don Bruno Nicolini, di Bolzano: un “convertito “ alla causa dei Rom, poi tra gli organizzatori del pellegrinaggio internazionale a Pomezia nell’incontro con Paolo VI, a fine anni ’70 chiamato a Roma dal cardinal vicario Ugo Poletti a seguire in diocesi la pastorale del mondo zingaro trovando come utile alleata la Comunità di Sant’Egidio. E don Mario Riboldi, lombardo: fu lui, insieme a don Torreggiani, a convincere l’allora arcivescovo di Milano a visitare i “circensi” di un Luna Park, alla periferia della città. Da Pontefice, Montini l’avrebbe ricordato in una udienza ad un gruppo di Rom nell’Anno Santo del 1975: «Voi mi domanderete: ma la Chiesa ci vuol bene? Sì che vi vuol bene e farà quel che può per aiutarvi… A Milano ho potuto incontrare parecchi dei vostri accampamenti, un po’ ovunque nella periferia e anche altrove i nostri passi si sono incrociati con i vostri. È stato don Riboldi che ci ha svelato la vostra vita…».

Una vita che decenni dopo non pare cambiata per i Rom. Giornate come quella dell’8 aprile – il “Romanò Dives” – servono almeno a rialzare il riflettore su un’emarginazione indiscutibile, favorita da tanti motivi che finiscono comunque per calpestare la dignità umana di un popolo . E ci si augura possano servire a dare il via a iniziative capaci di nuovi percorsi con le piccole comunità Rom e Sinti presenti tra noi. Alcuni cammini sono già stati avviati. Qualche traguardo raggiunto: ad esempio a Torino, dove i Rom hanno messo in piedi un progetto di housing sociale; a Milano, dove la Casa della Carità e il Centro Ambrosiano di Solidarietà hanno tolto dai campi una novantina di famiglie e fatto diplomare una trentina di ragazzi; a Roma, dove laboratori di sartoria frequentati da donne Rom con finalità di inclusione sociale sono nati su progetti promossi da Caritas, Migrantes e di Sant’Egidio, quest’ultima particolarmente attiva in varie città italiane anche sul fronte sanitario e scolastico. Senza dimenticare, al Nord come al Sud, da Brugherio alla Sicilia, lungo l’Italia “Paese dei campi Rom”, preti sconosciuti alle cronache che hanno scelto di vivere tra le roulottes. 

Ma sono casi poco frequenti, esperienze di testimonianza in un quadro dove restano ancora aperti troppi fronti che attendono soluzioni politiche: dalla scolarizzazione al superamento della segregazione abitativa. Né pare raccolga eccessivi entusiasmi la celebrazione di questo 8 aprile 2017, considerando le poche occasioni di festa promosse oggi da istituzioni religiose come ad esempio quella a Rimini voluta dalla Consulta delle Aggregazioni Laicali della Diocesi insieme alle famiglie. Lo stesso discorso per le istituzioni civili: anzi, proprio ieri – alla vigilia della ricorrenza – a Napoli sono accaduti due episodi in contemporanea che fotografano la situazione reale: l’inaugurazione di un nuovo grande campo (nell’Italia impegnatasi entro il 2020 a superare i megacampi monoetnici) e lo sgombero forzato di un altro campo a colpi di ruspe lasciando senza alloggio centinaia di Rom (compresi bambini e anziani). L’ inclusione? Ancora lontana.

«Nonostante la preoccupazione espressa dagli organi internazionali nulla è cambiato e in Italia continuano ad essere perpetrate politiche discriminatorie nei confronti delle popolazioni Rom…»: questa l’accusa ripetuta in Senato dall’Associazione 21 luglio, alla vigilia della Giornata internazionale. L’ennesima protesta dentro un “Rapporto annuale” costretto a rilevare «pesanti ritardi»

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8 aprile – giornata internazionale dei rom

giornata internazionale dei rom

papa Francesco: no a chiusure ma dialogo e integrazione

Il Papa abbraccia il popolo gitano (26 ottobre 2015) - OSS_ROM

papa Francesco abbraccia il popolo rom il 26 ottobre 2015

nella Giornata internazionale dei rom e dei sinti, che si celebra ogni 8 aprile, il Papa in un messaggio invita la Chiesa e la società civile a trovare soluzioni per superare le barriere che impediscono a queste popolazioni di godere dei loro diritti fondamentali e di adempiere ai loro doveri. Ieri pomeriggio nel suo intervento alla Conferenza sulla situazione dei rom in Europa organizzata dall’Ambasciata ungherese, il card. Peter Turkson, presidente del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale, ha ribadito: la vera sfida è l’integrazione.

Cecilia Seppia:


Quando individui e comunità sono liberi di partecipare integralmente alla vita pubblica offrendo il proprio contributo, è allora che è possibile realizzare una piena convivenza pacifica in cui le differenti culture e tradizioni riescano a conservare i loro rispettivi valori e consuetudini senza adottare gli uni verso gli altri atteggiamenti ostili e di chiusura ma attraverso il dialogo e l’integrazione. Lo scrive il Papa in un messaggio inviato ai partecipanti alla conferenza sulla situazione dei rom in Europa organizzato dall’Ambasciata ungherese presso la Santa Sede. Francesco torna a chiedere di promuovere e salvaguardare il bene di tutti all’interno della società e esprime l’auspicio che i deboli e gli emarginati possano finalmente godere dei loro diritti fondamentali e adempiere anche ai loro doveri nella comunità. Nel solco della strada tracciata dal Beato Paolo VI, il primo Pontefice che andò a visitare un campo nomadi a Pomezia spronando così la Chiesa all’impegno pastorale verso questo popolo, Francesco rinnova la sua attenzione e preoccupazione, lo spirito di accoglienza e vicinanza che il 26 ottobre del 2015 ha portato in Vaticano 7mila gitani.

“Conosco le difficoltà del vostro popolo. Visitando alcune parrocchie romane, nelle periferie della città, ho avuto modo di sentire i vostri problemi, le vostre inquietudini, e ho constatato che interpellano non soltanto la Chiesa, ma anche le autorità locali. Ho potuto vedere le condizioni precarie in cui vivono molti di voi, dovute alla trascuratezza e alla mancanza di lavoro e dei necessari mezzi di sussistenza. Ciò contrasta col diritto di ogni persona ad una vita dignitosa”.

Degrado, abbandono, che il Papa ha avuto modo di toccare con mano visitando a sorpresa il campo nomadi nel quartiere di Pietralata a Roma, poco prima di incontrare la comunità parrocchiale di San Michele Arcangelo, l’8 febbraio del 2015. Indifferenza e scarto, contro cui ha levato il suo appello:

“Non vogliamo più assistere a tragedie familiari in cui i bambini muoiono di freddo o tra le fiamme, o diventano oggetti in mano a persone depravate, i giovani e le donne sono coinvolti nel traffico di droga o di esseri umani. E questo perché spesso cadiamo nell’indifferenza e nell’incapacità di accettare costumi e modi di vita diversi da noi”.

I numeri solo in Italia della realtà del popolo gitano stando al rapporto dell’Associazione 21 luglio parlano di sgomberi forzati, 175 episodi di odio e di razzismo, e anche la pagina della cronaca odierna riporta di un incendio in un campo vicino Milano in cui risultano in condizioni drammatiche una mamma e il suo bimbo di tre anni. Perciò il Papa insiste ancora sulla sfida dell’integrazione, che vuol dire accettare costumi e modi di vita diversi da noi. Ma, come ribadiva nel 2015 , anche per i rom è arrivato un tempo nuovo:

“Vorrei che anche per il vostro popolo si desse inizio a una nuova storia, a una rinnovata storia. Che si volti pagina! È arrivato il tempo di sradicare pregiudizi secolari, preconcetti e reciproche diffidenze che spesso sono alla base della discriminazione, del razzismo e della xenofobia. Nessuno si deve sentire isolato, nessuno è autorizzato a calpestare la dignità e i diritti degli altri… Cari amici, non date ai mezzi di comunicazione e all’opinione pubblica occasioni per parlare male di voi. Voi stessi siete i protagonisti del vostro presente e del vostro futuro. Come tutti i cittadini, potete contribuire al benessere e al progresso della società rispettandone le leggi, adempiendo ai vostri doveri e integrandovi anche attraverso l’emancipazione delle nuove generazioni”.

Superare le barriere comportandosi da buoni cristiani, garantendo ai propri figli l’istruzione e il diritto di andare a scuola, così da diventare cittadini attivi, di partecipare alla vita politica, sociale ed economica del Paese, è l’altra urgenza invocata da Francesco che allora diceva, riprendendo le parole di Papa Paolo VI: “Voi non siete ai margini, voi siete nel cuore della Chiesa”.

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no armi nucleari

Papa e Pax Christi internazionale all’Onu: «Via le armi nucleari per il futuro dell'umanità»

papa Francesco e Pax Christi internazionale all’Onu

«Via le armi nucleari per il futuro dell’umanità»

da: Adista Notizie n° 14 del 08/04/2017
Mettere al bando le armi nucleari per garantire un futuro all’umanità. È l’appello che Pax Christi International rivolge ai rappresentanti degli Stati che dallo scorso 27 marzo, presso l’Assemblea generale dell’Onu, partecipano ai negoziati per «un divieto giuridicamente vincolante sulle armi nucleari».

«Riteniamo un traguardo fondamentale che le armi nucleari siano esplicitamente vietate da un trattato internazionale e consideriamo il trattato come un esercizio di valori morali e responsabilità globali necessario per costruire un mondo più sicuro e sostenibile», scrive la rete pacifista di oltre 120 realtà nazionali, fra cui Pax Christi Italia (v. Adista Notizie n. 12/17)».

«Le armi nucleari sono strumenti di violenza definitiva. Nel nostro pianeta non c’è posto per armi di tale terrore e distruzione di massa», «la loro presenza in un’epoca di crescente interdipendenza è un affronto alla dignità umana», si legge nella nota. L’uso delle armi nucleari, «in qualsiasi circostanza, è ingiustificabile e impensabile». La Chiesa, ricorda Pax Christi International, si è schierata contro la natura indiscriminata delle armi nucleari, come affermato nella Costituzione pastorale Gaudium ed Spes: «Ogni atto di guerra rivolto indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni assieme ai loro abitanti è un crimine contro Dio e l’uomo stesso. Esso merita una condanna inequivocabile e senza esitazioni».

L’unica possibilità di salvezza per l’umanità e il pianeta è «un completo divieto legale delle armi nucleari che porti alla loro totale eliminazione»: «Fino a quando esisteranno armi nucleari – ammonisce il movimento pacifista –, il rischio di qualsiasi loro uso intenzionale o accidentale è reale», pertanto «l’unico modo per eliminare tale rischio è quello di eliminare tutte le armi nucleari». Ed è per questo che Pax Christi International fa appello a tutti i rappresentanti che fino al prossimo mese di luglio saranno impegnati nei negoziati a «sviluppare un robusto strumento giuridico» che «obblighi» gli Stati ad «eliminare» le armi nucleari e a vietare «l’intera gamma di attività correlate come lo sviluppo, la distribuzione, la produzione, il collaudo, lo stoccaggio, il trasferimento» delle stesse.

Che il tema sia di grande importanza è dimostrato dal fatto che anche papa Francesco è intervenuto, inviando una lettera a Elayne Whyte Gómez, che guida i negoziati presso le Nazioni Unite. «Se si prendono in considerazione le principali minacce alla pace e alla sicurezza con le loro molteplici dimensioni in questo mondo multipolare del XXI secolo, come, ad esempio, il terrorismo, i conflitti asimmetrici, la sicurezza informatica, le problematiche ambientali, la povertà, non pochi dubbi emergono circa l’inadeguatezza della deterrenza nucleare a rispondere efficacemente a tali sfide», scrive Francesco nella lettera che porta data 23 marzo. Tali preoccupazioni «assumono ancor più consistenza quando consideriamo le catastrofiche conseguenze umanitarie e ambientali che derivano da qualsiasi utilizzo degli ordigni nucleari con devastanti effetti indiscriminati e incontrollabili nel tempo e nello spazio. Simile motivo di preoccupazione emerge di fronte allo spreco di risorse per il nucleare a scopo militare, che potrebbero invece essere utilizzate per priorità più significative, quali la promozione della pace e dello sviluppo umano integrale».

Ci si deve inoltre chiedere «quanto sia sostenibile un equilibro basato sulla paura», che mina «le relazioni di fiducia fra i popoli», aggiunge il pontefice. «La pace e la stabilità internazionali non possono essere fondate su un falso senso di sicurezza, sulla minaccia di una distruzione reciproca o di totale annientamento, sul semplice mantenimento di un equilibrio di potere. La pace deve essere costruita sulla giustizia, sullo sviluppo umano integrale, sul rispetto dei diritti umani fondamentali, sulla custodia del creato, sulla partecipazione di tutti alla vita pubblica, sulla fiducia fra i popoli, sulla promozione di istituzioni pacifiche, sull’accesso all’educazione e alla salute, sul dialogo e sulla solidarietà. In questa prospettiva, abbiamo bisogno di andare oltre la deterrenza nucleare: la comunità internazionale è chiamata ad adottare strategie lungimiranti per promuovere l’obiettivo della pace e della stabilità ed evitare approcci miopi ai problemi di sicurezza nazionale e internazionale». Quindi «l’obiettivo finale dell’eliminazione totale delle armi nucleari diventa sia una sfida sia un imperativo morale e umanitario», da costruirsi «attraverso un dialogo che sia sinceramente orientato verso il bene comune e non verso la tutela di interessi velati o particolari» e che includa tutti: «Stati nucleari, Paesi non possessori di armi nucleari, settore militare e quello privato, comunità religiose, società civile, Organizzazioni internazionali». Non è facile, Francesco ne è consapevole, ma non è un motivo per non camminare in direzione del disarmo nucleare: «Sebbene questo sia un obiettivo di lungo periodo estremamente complesso, non è al di fuori della nostra portata».

 

Il papa e lo stop alle armi nucleari

di Luigi Sandri
in “Trentino” del 3 aprile 2017

La distanza tra l’utopia e la “realpolitik” pone anche il papato, come i governanti delle nazioni, di fronte a un’ardua sfida quando si tratti di proporre lo sradicamento dell’arma nucleare che, usata nel 1945 ad Hiroshima, ha mostrato al mondo la sua tremenda efficacia. In un messaggio inviato a fine marzo alla “Conferenza delle Nazioni Unite finalizzata a negoziare uno strumento legalmente vincolante per proibire le armi nucleari, che conduca verso la loro totale eliminazione”, papa Francesco, dopo aver sottolineato il grave pericolo costituito da quegli armamenti, ha scritto: “Abbiamo bisogno di andare oltre la deterrenza nucleare: la comunità internazionale è chiamata ad adottare strategie lungimiranti per promuovere l’obiettivo della pace e della stabilità ed evitare approcci miopi ai problemi di sicurezza nazionale e internazionale”. La “deterrenza” è un equilibro delle forze che spinge le “nazioni nucleari” a cercare di avere una potenza simile a quella dei paesi nucleari considerati nemici, al fine di scoraggiare un’eventuale aggressione. È, in sostanza, un “equilibrio del terrore”, quello che dal dopoguerra ha retto il confronto tra il blocco sovietico e il mondo occidentale, tra la Nato e il Patto di Varsavia. Un equilibrio che ha consigliato alle due Parti di evitare conflitti che sarebbero stati disastrosi per tutti. Perciò, in piena “guerra fredda”, Giovanni Paolo II in un messaggio ad una sessione dell’Onu sul disarmo, aveva scritto, il 7 giugno 1982: “Nelle attuali condizioni, una dissuasione (deterrenza) basata sull’equilibrio, non certamente come un fine in sé ma come una tappa sulla via di un disarmo progressivo, può ancora essere giudicata come moralmente accettabile”. Di fatto, dopo una corsa sfrenata agli armamenti nucleari, con una serie di accordi l’Unione sovietica e gli Stati Uniti d’America negli anni Ottanta del secolo scorso decisero di ridurre i loro arsenali. Oggi, dalle 65mila testate atomiche di allora, gli attuali nove Paesi nucleari (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, India, Pakistan, Israele, Corea del nord – e quest’ultima guidata da Kim Jong-un che minaccia di colpire Corea del Sud, Giappone e Usa con i suoi missili) ne posseggono, insieme, affermano stime di esperti, 15.350. Vi è poi da aggiungere che alcuni paesi della Nato, Italia inclusa, hanno basi con bombe nucleari statunitensi. Seppur diminuite rispetto a trent’anni fa, le testate nucleari esistenti, se usate, distruggerebbero più e più volte il pianeta. Da qui l’appello di Francesco all’Onu: “Sebbene il vostro obiettivo (la totale eliminazione delle armi nucleari) sia di lungo periodo ed estremamente complesso, non è al di fuori della nostra portata”. Corea del Nord esclusa, oggi non vi è paese dei “nove” che minacci apertamente di colpire altri con bombe nucleari. E, tuttavia, nessun paese propone una contestuale e verificabile distruzione di quelle armi. Liberare il mondo dal “fungo” atomico appare, dunque, una meta lontana.

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allarme armi

“Italia a mano armata”. L'allarme di Famiglia Cristiana sulla proliferazione di armi da fuoco

“Italia a mano armata”

l’allarme di Famiglia Cristiana sulla proliferazione di armi da fuoco

da: Adista Notizie n° 14 del 08/04/2017
 

Sono 1.265.484 le licenze per armi rilasciate nel 2015 in Italia. Che siano state concesse per uso sportivo (con un aumento 18,5%), per caccia (l’aumento è del 12,4%) o per difesa personale (questo dato è leggermente in calo, forse perché per ottenere armi per difesa personale occorre motivarne la necessità), il dato allarmante resta la proliferazione di armi leggere da fuoco lungo tutto lo Stivale, alla quale si accompagna un numero inquietante di vittime – 4 al mese secondo l’OPAL, Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e le politiche di difesa e sicurezza di Brescia – come per esempio i 23 femminicidi su 115 commessi nel 2016 con armi da fuoco legalmente detenute. A lanciare un grido d’allarme è il settimanale dei Paolini, Famiglia Cristiana, con un’inchiesta pubblicata sul numero 13/2017, in edicola il 23 marzo, dal titolo “Italia a mano armata. Troppe pistole e licenze ‘facili’”.

A fare il punto della situazione, in un Paese il cui sport nazionale sembra ormai la caccia, Giorgio Beretta (analista dell’OPAL), Fausto Cardella (magistrato, procuratore generale a Perugia) e Marco Bruniera (dirigente della sezione di Treviso del Tiro a Segno Nazionale), a colloquio con i giornalisti Eugenio Arcidiacono ed Elisa Chiari.

Il fornaio di Vasto che si è vendicato di un pirata della strada che aveva investito e ucciso la moglie, il ristoratore lodigiano che ha sparato ad un ladro, la violenza femminicida di un viterbese che ha colpito la ex e si è poi tolto la vita con la stessa arma, il ventenne di Giaveno (To) che durante una rissa estrae la pistola del padre e uccide un motociclista: sono solo alcuni casi recenti di omicidi commessi con armi legalmente detenute, concesse senza troppi complimenti e fuori dal controllo delle questure, che non riescono a monitorare costantemente e capillarmente: «Dal nostro database – afferma Beretta – emerge che solo l’omicidio commesso dal ristoratore di Lodi sarebbe riconducibile alla legittima difesa: tutti gli altri sono femminicidi, vendette, conseguenze di liti familiari». È del tutto evidente, prosegue Beretta, «che per uccidere o uccidersi ci sono molti altri modi oltre le armi da fuoco, ma l’alto numero di casi di omicidi e di suicidi commessi da chi le deteneva ufficialmente non per uso personale, ci porta a dire che forse ci vorrebbe una legislazione più restrittiva», in particolar modo sulle licenze per caccia e sport, che rappresentano un escamotage per chi intende acquistare un’arma per difesa personale e che vengono concesse con troppa leggerezza: basta presentare un certificato medico e un attestato di idoneità rilasciato del Tiro a Segno Nazionale. Una seria riforma della legislazione, spiega l’analista dell’OPAL, dovrebbe ridurre da sei a due anni la licenza per sport e caccia, poi dovrebbe ridurre drasticamente il numero di armi detenute consentite, dovrebbe inoltre rendere obbligatorio un sistema di controllo sull’effettivo uso che si fa di queste armi e poi dovrebbe costringere lo “sportivo” o il “cacciatore” a comunicare alla famiglia la presenza di armi in casa, cosa che l’attuale legislazione non prevede.

A stuzzicare il dibattito nell’opinione pubblica, in seguito ad alcuni casi di attualità, è stata la proposta di estendere la legittima difesa, oggi regolamentata in maniera stringente dall’art. 52 del Codice Penale, secondo il quale la difesa, per essere legittima, deve essere proporzionata al pericolo e che il pericolo sia effettivamente in atto. Su questo argomento, sul ddl in Senato che prevede l’innalzamento delle pene per reati di rapina e furto in appartamenti, e sul delicato rapporto tra sicurezza, autodifesa e diffusione di armi, Famiglia Cristiana ha discusso con il magistrato Cardella, secondo il quale «una società è più sicura quando a maneggiare le armi sono le persone deputate a farlo per mestiere e per dovere». «Ci si dimentica troppo spesso di valutare che l’arma aumenta il pericolo per chi la impugna: anche un ladro può sentirsi legittimato a sparare per salvarsi la vita e di solito dei due è il più pratico di armi». La responsabilità politica di chi invita ad allargare l’uso di armi per “legittima” difesa è grande e grave, sembra affermare tra le righe il procuratore, fermo sostenitore della prevenzione con strumenti passivi, come l’antifurto e la vigilanza privata. Insomma, «la difesa spetta allo Stato» e detenere armi crea più problemi di quelli che si crede di risolvere: «Quante volte accade – conclude Cardella – che l’arma regolarmente detenuta è servita a far finire in tragedia una relazione degenerata o una lite tra vicini? Ha senso temere il terrorismo dei lupi solitari senza preoccuparsi delle conseguenze di un’arma in mano a chiunque?».

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