papa Francesco riconosce la corruzione in Vaticano

 

 papa Francesco

«sì, c’è corruzione in Vaticano ma non perdo la serenità»

il pontefice e i mali della chiesa

«a Buenos Aires ero più ansioso. Scrivo bigliettini a San Giuseppe li metto sotto la sua statua»

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ampi stralci del colloquio di Francesco con i superiori degli ordini religiosi, pubblicato nel numero 4000 de «La Civiltà cattolica» e trascritto dal direttore, padre Spadaro

«Il Papa è in ritardo», mi dicono all’ingresso dell’Aula Paolo VI il 25 novembre 2016. Dentro, nel luogo in cui si svolgono i Sinodi, erano in attesa 140 Superiori Generali di Ordini e Congregazioni religiose maschili (Usg), riuniti alla fine della loro 88a Assemblea Generale. Fuori una leggera pioggia. «Andate e portate frutto. La fecondità della profezia»: questo il tema dell’Assemblea che si è svolta dal 23 al 25 novembre presso il «Salesianum» di Roma. Non è comune che il Pontefice arrivi in ritardo. Alle 10,15 ecco arrivare i fotografi e quindi il Papa a passo svelto. Dopo l’applauso di saluto, Francesco esordisce: «Scusate per il ritardo. La vita è così: piena di sorprese. Per capire le sorprese di Dio bisogna capire le sorprese della vita. Grazie tante». E ha proseguito dicendo che non voleva che il suo ritardo influisse sul tempo fissato per stare insieme. Per questo l’incontro è durato comunque tre ore piene. A metà dell’incontro si è avuta una pausa. Era stata preparata una saletta riservata per il Papa, ma lui ha esclamato: «Perché mi volete far stare tutto da solo?». E così la pausa ha visto il Papa gioiosamente tra i Generali a prendere un caffè e uno spuntino, salutando l’uno e l’altro. Non vi è stato alcun discorso preparato in anticipo né da parte dei religiosi né da parte del Papa. Le telecamere del Ctv hanno ripreso solamente i saluti iniziali e poi sono andate via. L’incontro doveva essere libero e fraterno, fatto di domande e risposte non filtrate. Il Papa non ha voluto leggerle in anticipo. Dopo aver ricevuto un brevissimo saluto da parte di p. Mario Johri, ministro generale dei Frati Cappuccini e presidente dell’Usg, e di p. David Glenday, comboniano, segretario generale, il Papa ha ascoltato le domande dell’Assemblea.

E se ci fossero critiche?

«È bene essere criticato — afferma il Papa —, a me piace questo, sempre. La vita è fatta anche di incomprensioni e di tensioni. E quando sono critiche che fanno crescere, le accetto, rispondo. Le domande più difficili però non le fanno i religiosi, ma i giovani. I giovani ti mettono in difficoltà, loro sì. I pranzi con i ragazzi nelle Giornate Mondiali della Gioventù o in altre occasioni, queste situazioni mi mettono in difficoltà. I giovani sono sfacciati e sinceri e loro ti chiedono le cose più difficili. Adesso fate le vostre domande».

Santo Padre, noi riconosciamo la sua capacità di parlare ai giovani e di infiammarli per la causa del Vangelo. Noi sappiamo anche del suo impegno per avvicinare i giovani alla Chiesa; per questo ha convocato il prossimo Sinodo dei vescovi sui giovani, la fede e il discernimento vocazionale. Quali motivazioni l’hanno spinta a convocare il Sinodo sui giovani? Quali suggerimenti ci offre per raggiungere i giovani oggi?

Alla fine del Sinodo scorso ogni partecipante ha dato tre suggerimenti sul tema da affrontare nel prossimo. Poi sono state consultate le Conferenze episcopali. Le convergenze sono andate su temi forti, quali gioventù, formazione sacerdotale, dialogo interreligioso e pace. Nel primo Consiglio post-sinodale è stata fatta una bella discussione. Io ero presente. Ci vado sempre, ma non parlo. Per me importante è ascoltare davvero. È importante che io ascolti, ma lascio che siano loro a lavorare liberamente. In questo modo capisco come emergono le problematiche, quali sono le proposte e i nodi, e come si affrontano.
Hanno scelto i giovani. Ma alcuni sottolineavano l’importanza della formazione sacerdotale. Personalmente ho molto a cuore il tema del discernimento. L’ho raccomandato più volte ai gesuiti: in Polonia e poi alla Congregazione Generale . Il discernimento accomuna la questione della formazione dei giovani alla vita: di tutti i giovani, e in particolare, a maggior ragione, anche dei seminaristi e dei futuri pastori. Perché la formazione e l’accompagnamento al sacerdozio ha bisogno del discernimento.
Al momento è uno dei problemi più grandi che abbiamo nella formazione sacerdotale. Nella formazione siamo abituati alle formule, ai bianchi e ai neri, ma non ai grigi della vita. E ciò che conta è la vita, non le formule. Dobbiamo crescere nel discernimento. La logica del bianco e nero può portare all’astrazione casuistica. Invece il discernimento è andare avanti nel grigio della vita secondo la volontà di Dio. E la volontà di Dio si cerca secondo la vera dottrina del Vangelo e non nel fissismo di una dottrina astratta. Ragionando sulla formazione dei giovani e sulla formazione dei seminaristi, ho deciso il tema finale così come è stato comunicato: «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale».
La Chiesa deve accompagnare i giovani nel loro cammino verso la maturità, e solo con il discernimento e non con le astrazioni i giovani possono scoprire il loro progetto di vita e vivere una vita davvero aperta a Dio e al mondo. Dunque ho scelto questo tema per introdurre il discernimento con maggior forza nella vita della Chiesa. L’altro giorno abbiamo avuto la seconda riunione del Consiglio post-sinodale. Si è discusso abbastanza bene su questo argomento. Hanno preparato la prima bozza sui Lineamenta che si dovrà inviare subito alle Conferenze episcopali. Hanno lavorato anche religiosi. È uscita una bozza ben preparata.
Questo comunque è il punto chiave: il discernimento, che è sempre dinamico, come la vita. Le cose statiche non vanno. Soprattutto con i giovani. Quando io ero giovane, la moda era fare riunioni. Oggi le cose statiche come le riunioni non vanno bene. Si deve lavorare con i giovani facendo cose, lavorando, con le missioni popolari, il lavoro sociale, con l’andare ogni settimana a dar da mangiare ai senzatetto. I giovani trovano il Signore nell’azione. Poi, dopo l’azione si deve fare una riflessione. Ma la riflessione da sola non aiuta: sono idee… solo idee. Dunque due parole: ascolto e movimento. Questo è importante. Ma non solamente formare i giovani all’ascolto, bensì innanzitutto ascoltare loro, i giovani stessi. Questo è un primo compito importantissimo della Chiesa: l’ascolto dei giovani. E nella preparazione del Sinodo la presenza dei religiosi è davvero importante, perché i religiosi lavorano molto con i giovani.

Che cosa si aspetta dalla vita religiosa nella preparazione del Sinodo?
Quali speranze Lei ha per il prossimo Sinodo sui giovani, alla luce della diminuzione delle forze della vita religiosa in Occidente?

Certo, è vero che c’è una diminuzione delle forze della vita religiosa in Occidente. Certamente è collegata al problema demografico. Ma è anche vero che a volte la pastorale vocazionale non risponde alle attese dei giovani. Il prossimo Sinodo ci darà idee. La diminuzione della vita religiosa in Occidente mi preoccupa.
Ma mi preoccupa anche un’altra cosa: il sorgere di alcuni nuovi Istituti religiosi che sollevano alcune preoccupazioni. Non dico che non debbano esserci nuovi Istituti religiosi! Assolutamente no. Ma in alcuni casi mi interrogo su che cosa stia accadendo oggi. Alcuni di essi sembrano una grande novità, sembrano esprimere una grande forza apostolica, trascinano tanti e poi… falliscono. A volte si scopre persino che dietro c’erano cose scandalose… Ci sono piccole fondazioni nuove che sono davvero buone e che fanno sul serio. Vedo che dietro queste buone fondazioni ci sono a volte anche gruppi di vescovi che accompagnano e garantiscono la loro crescita. Però ce ne sono altre che nascono non da un carisma dello Spirito Santo, ma da un carisma umano, da una persona carismatica che attira per le sue doti umane di fascinazione. Alcune sono, potrei dire, «restaurazioniste»: esse sembrano dare sicurezza e invece danno solo rigidità. Quando mi dicono che c’è una Congregazione che attira tante vocazioni, lo confesso, io mi preoccupo. Lo Spirito non funziona con la logica del successo umano: ha un altro modo. Ma mi dicono: ci sono tanti giovani decisi a tutto, che pregano tanto, che sono fedelissimi. E io mi dico: «Benissimo: vedremo se è il Signore!».
Alcuni poi sono pelagiani: vogliono tornare all’ascesi, fanno penitenze, sembrano soldati pronti a tutto per la difesa della fede e di buoni costumi… e poi scoppia lo scandalo del fondatore o della fondatrice… Noi sappiamo, vero? Lo stile di Gesù è un altro. Lo Spirito Santo ha fatto rumore il giorno della Pentecoste: era all’inizio. Ma di solito non fa tanto rumore, porta la croce. Lo Spirito Santo non è trionfalista. Lo stile di Dio è la croce che si porta avanti fino a che il Signore non dice «basta». Il trionfalismo non va bene d’accordo con la vita consacrata.
Dunque, non mettete la speranza nel fiorire improvviso e massiccio di questi Istituti. Cercate invece l’umile cammino di Gesù, quello della testimonianza evangelica. Benedetto XVI ce lo ha detto molto bene: la Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione.

Perché ha scelto tre tematiche ne per le prossime tre Giornate mondiali della gioventù che condurranno alle Giornate mondiali di Panama?

I temi ni per le prossime tre Giornate mondiali non li ho scelti io! Dall’America Latina hanno chiesto questo: una forte presenza na. È vero che l’America Latina è molto na, e a me è sembrata una cosa molto buona. Non ho avuto altre proposte, e io ero contento così. Ma la Madonna vera! Non la Madonna capo di un ufficio postale che ogni giorno manda una lettera diversa, dicendo: «Figli miei, fate questo e poi il giorno dopo fate quest’altro». No, non questa. La Madonna vera è quella che genera Gesù nel nostro cuore, che è Madre. Questa moda della Madonna superstar, come una protagonista che mette se stessa al centro, non è cattolica.

Santo Padre, la sua missione nella Chiesa non è facile. Malgrado le sfide, le tensioni, le opposizioni, Lei ci offre la testimonianza di un uomo sereno, di un uomo di pace. Qual è la sorgente della sua serenità? Da dove viene questa fiducia che la ispira e che può sostenere anche la nostra missione? Chiamati a essere guide religiose, cosa ci suggerisce per vivere con responsabilità e pace il nostro compito?

Qual è la sorgente della mia serenità? No, non prendo pastiglie tranquillanti! Gli italiani danno un bel consiglio: per vivere in pace ci vuole un sano menefreghismo. Io non ho problemi nel dire che questa che sto vivendo è un’esperienza completamente nuova per me. A Buenos Aires ero più ansioso, lo ammetto. Mi sentivo più teso e preoccupato. Insomma: non ero come adesso. Ho avuto un’esperienza molto particolare di pace profonda dal momento che sono stato eletto. E non mi lascia più. Vivo in pace. Non so spiegare.
Per il conclave, mi dicono che nelle scommesse a Londra ero nel numero 42 o 46. Io non lo prevedevo affatto. Ho pure lasciato l’omelia pronta per il Giovedì santo . Nei giornali si diceva che ero un king maker, ma non il Papa. Al momento dell’elezione io ho detto semplicemente: «Signore, andiamo avanti!». Ho sentito pace, e quella pace non se n’è andata.
Nelle Congregazioni Generali si parlava dei problemi del Vaticano, si parlava di riforme. Tutti le volevano. C’è corruzione in Vaticano. Ma io sono in pace. Se c’è un problema, io scrivo un biglietto a san Giuseppe e lo metto sotto una statuetta che ho in camera mia. È la statua di san Giuseppe che dorme. E ormai lui dorme sotto un materasso di biglietti! Per questo io dormo bene: è una grazia di Dio. Dormo sempre sei ore. E prego. Prego a mio modo. Il breviario mi piace tanto e mai lo lascio. La Messa tutti i giorni. Il rosario…. Quando prego, prendo sempre la Bibbia. E la pace cresce. Non so se questo è il segreto… La mia pace è un regalo del Signore. Che non me la tolga!
Credo che ciascuno debba trovare la radice dell’elezione che il Signore ha fatto su di lui. Del resto, perdere la pace non aiuta affatto a soffrire. I superiori devono imparare a soffrire, ma a soffrire come un papà. E anche a soffrire con molta umiltà. Per questa strada si può andare dalla croce alla pace. Ma mai lavarsi le mani dai problemi! Sì, nella Chiesa ci sono i Ponzio Pilato che se ne lavano le mani per stare tranquilli. Ma un superiore che se ne lava le mani non è padre e non aiuta.

Santo Padre, nei suoi interventi ci ha detto spesso che ciò che specifica la vita religiosa è la profezia. Ci siamo confrontati a lungo su cosa significhi essere radicali nella profezia. Quali sono le «zone di sicurezza e di conforto» da cui siamo chiamati a uscire? Lei ha parlato alle monache di una «ascesi profetica e credibile». Come la intende in una prospettiva rinnovata di «cultura della misericordia»? Come può la vita consacrata contribuire a tale cultura?

Essere radicali nella profezia. A me questo importa tanto. Prenderò come «icona» Gioele 3. Mi viene spesso in mente, e so che viene da Dio. Dice: «Gli anziani avranno sogni e i giovani profetizzeranno». Questo versetto è un nocciolo della spiritualità delle generazioni. Essere radicali nella profezia è il famoso sine glossa, la regola sine glossa, il Vangelo sine glossa. Cioè: senza calmanti! Il Vangelo va preso senza calmanti. Così hanno fatto i nostri fondatori.
La radicalità della profezia dobbiamo trovarla nei nostri fondatori. Loro ci ricordano che siamo chiamati a uscire dalle nostre zone di conforto e sicurezza, da tutto quello che è mondanità: nel modo di vivere, ma anche nel pensare strade nuove per i nostri Istituti. Le strade nuove vanno cercate nel carisma fondazionale e nella profezia iniziale. Dobbiamo riconoscere personalmente e comunitariamente qual è la nostra mondanità.
Persino l’ascetica può essere mondana. E invece deve essere profetica. Quando sono entrato nel noviziato dei gesuiti, mi hanno dato il cilicio. Va bene anche il cilicio, ma attenzione: non deve aiutarmi a dimostrare quanto sono bravo e forte. La vera ascesi deve farmi più libero. Credo che il digiuno sia una cosa che conservi attualità: ma come faccio il digiuno? Semplicemente non mangiando? Santa Teresina aveva anche un altro modo: mai diceva cosa le piaceva. Non si lamentava e prendeva tutto quello che le davano. C’è un’ascesi quotidiana, piccola, che è una mortificazione costante. Mi viene in mente una frase di sant’Ignazio che aiuta a essere più liberi e felici. Lui diceva che per seguire il Signore aiuta la mortificazione in tutte le cose possibili. Se ti aiuta una cosa, falla, anche il cilicio! Ma solamente se ti aiuta a essere più libero, non se ti serve per mostrare a te stesso che sei forte.

Cosa comporta la vita comunitaria? Qual è il ruolo di un superiore per custodire questa profezia? Quale apporto possono dare i religiosi per contribuire al rinnovamento delle strutture e della mentalità della Chiesa?

La vita comunitaria? Alcuni santi l’hanno definita una continua penitenza. Ci sono comunità in cui la gente si spella e si spiuma! Se la misericordia non entra nella comunità, non va bene. Per i religiosi la capacità di perdono deve spesso iniziare nella comunità. E questo è profetico. Si comincia sempre con l’ascolto: che tutti si sentano ascoltati. Ci vuole ascolto e persuasione anche da parte del superiore. Se il superiore rimprovera continuamente, non aiuta a creare la profezia radicale della vita religiosa. Sono convinto che i religiosi siano in vantaggio nel dare un contributo al rinnovamento delle strutture e della mentalità della Chiesa.
Nei consigli presbiterali delle diocesi i religiosi aiutano nel cammino. E non devono avere paura di dire le cose. Nelle strutture della Chiesa entra il clima mondano e principesco, e i religiosi possono contribuire a distruggere questo clima nefasto. E non c’è bisogno di diventare cardinali per credersi prìncipi! Basta essere clericali. Questo è quanto di peggio ci sia nell’organizzazione della Chiesa. I religiosi possono contribuire con la testimonianza di una fratellanza più umile. I religiosi possono dare la testimonianza di un iceberg capovolto, dove la punta, cioè il vertice, il capo, è capovolta, sta in basso.

Santo Padre, noi abbiamo speranze che attraverso la sua guida si sviluppino migliori relazioni tra vita consacrata e Chiese particolari. Che cosa ci suggerisce per esprimere in pienezza i nostri carismi nelle Chiese particolari e per affrontare le difficoltà che a volte sorgono nei rapporti con i vescovi e il clero diocesano? Come vede la realizzazione del dialogo della vita religiosa con i vescovi e la collaborazione con la Chiesa locale?
Da tempo si chiede di rivedere i criteri circa i rapporti tra i vescovi e i religiosi stabiliti nel 1978 dalla Congregazione per i religiosi e dalla Congregazione per i vescovi nel documento Mutuae relationes. Già nel Sinodo del 1994 ne se era parlato. Quel documento risponde a un certo tempo e non è più così attuale. Il tempo è maturo per il cambiamento. È importante che i religiosi si sentano appieno dentro la Chiesa diocesana. Appieno. A volte ci sono tante incomprensioni che non aiutano all’unità, e allora bisogna dare un nome ai problemi. I religiosi devono essere nelle strutture di governo della Chiesa locale: consigli di amministrazione, consigli presbiterali… A Buenos Aires i religiosi eleggevano i loro rappresentanti nel consiglio presbiterale. Il lavoro va condiviso nelle strutture delle diocesi. I religiosi devono essere nelle strutture di governo della diocesi. Da isolati non ci si aiuta. In questo si deve crescere tanto. E così anche il vescovo è aiutato a non cadere nella tentazione di diventare un po’ principe…
Ma anche la spiritualità va diffusa e condivisa, e i religiosi sono portatori di forti correnti spirituali. In alcune diocesi i sacerdoti del clero diocesano si riuniscono in gruppi di spiritualità francescana, carmelitana… Ma che lo stile di vita possa essere condiviso: alcuni preti diocesani si chiedono perché non possano vivere insieme per non essere soli, perché non possano vivere una vita più comunitaria. Il desiderio viene, ad esempio, quando si ha la buona testimonianza di una parrocchia retta da una comunità di religiosi. Dunque, c’è un livello di collaborazione radicale, perché spirituale, di anima. E stare vicini spiritualmente in diocesi tra il clero e i religiosi aiuta a risolvere le possibili incomprensioni. Si possono studiare e ripensare tante cose. Tra queste anche la durata del servizio come parroco, che mi sembra breve e si cambiano i parroci troppo facilmente. Non nascondo che poi ci sono tanti altri problemi a un terzo livello, legato alla gestione economica. I problemi vengono quando si toccano le tasche! Penso alla questione dell’alienazione dei beni. Con i beni dobbiamo essere molto delicati. La povertà è midollare nella vita della Chiesa. Sia quando la si osserva, sia quando non la si osserva. Le conseguenze sono sempre forti.

Santo Padre, come la Chiesa anche la vita religiosa è impegnata ad affrontare le situazioni di abusi sessuali sui minori e di abusi finanziari con trasparenza e determinazione. Tutto ciò è una contro-testimonianza, suscita scandali e ha anche ripercussioni sulla proposta vocazionale e sull’aiuto dei benefattori. Quali misure ci suggerisce per prevenire tali scandali nelle nostre Congregazioni?

Forse non c’è il tempo per una risposta molto articolata e faccio affidamento alla vostra sapienza. Fatemi dire però che il Signore vuole tanto che i religiosi siano poveri. Quando non lo sono, il Signore manda un economo che porta l’Istituto in fallimento! A volte Congregazioni religiose sono accompagnate da un amministratore ritenuto «amico» e che poi le fa fallire. Comunque, criterio fondamentale per un economo è quello di non essere personalmente attaccato ai soldi. Una volta accadde che una suora economa svenne e una consorella disse a chi la soccorreva: «Passatele sotto il naso una banconota e certamente si riprenderà!». C’è da ridere, ma anche da riflettere. Importante poi verificare come le banche investono i soldi. Non deve mai accadere che ci siano investimenti in armi, ad esempio. Mai.
Circa gli abusi sessuali: pare che su 4 persone che abusano, 2 siano state abusate a loro volta. Si semina l’abuso nel futuro: è devastante. Se sono coinvolti preti o religiosi, è chiaro che è in azione la presenza del diavolo che rovina l’opera di Gesù tramite colui che doveva annunciare Gesù. Ma parliamoci chiaro: questa è una malattia. Se non siamo convinti che questa è una malattia, non si potrà risolvere bene il problema. Quindi, attenzione a ricevere in formazione candidati alla vita religiosa senza accertarsi bene della loro adeguata maturità affettiva. Per esempio: mai ricevere nella vita religiosa o in una diocesi candidati che sono stati respinti da un altro seminario o da un altro Istituto senza chiedere informazioni molto chiare e dettagliate sulle motivazioni dell’allontanamento.

Santo Padre, la vita religiosa non è in funzione di se stessa, ma della sua missione nel mondo. Lei ci ha invitato ad essere una Chiesa in uscita. Dal suo punto di osservazione, la vita religiosa nelle diverse parti del modo sta operando questa conversione?

La Chiesa è nata in uscita. Era chiusa nel Cenacolo e poi è uscita. E deve rimanere in uscita. Non deve tornare a chiudersi nel Cenacolo. Gesù ha voluto che fosse così. E «fuori» significa quelle che io chiamo periferie, esistenziali e sociali. I poveri esistenziali e i poveri sociali spingono la Chiesa fuori di sé. Pensiamo a una forma di povertà, quella legata al problema dei migranti e dei rifugiati: più importante degli accordi internazionali è la vita di quelle persone! E proprio nel servizio della carità è pure possibile trovare un ottimo terreno per il dialogo ecumenico: sono i poveri che uniscono i cristiani divisi! Queste sono tutte sfide aperte per i religiosi di una Chiesa in uscita. L’Evangelii gaudium vuole comunicare questa necessità: uscire. Vorrei che si tornasse a quella Esortazione apostolica con la riflessione e la preghiera. Essa è maturata alla luce dell’Evangelii nuntiandi e del lavoro fatto ad Aparecida, contiene un’ampia riflessione ecclesiale. E infine ricordiamolo sempre: la misericordia è Dio in uscita. E Dio è sempre misericordioso. Anche voi uscite!

Alle 13,00 circa l’incontro si è concluso con alcune parole di ringraziamento e un lungo applauso. Il Papa, già in piedi, prima di lasciare l’Aula, ha salutato tutti con queste parole: «Andate avanti con coraggio e senza paura di sbagliare! Quello che non sbaglia mai è quello che non fa nulla. Dobbiamo andare avanti! Sbaglieremo, a volte, sì, ma c’è sempre la misericordia di Dio dalla nostra parte!». Prima di uscire, Francesco ha voluto salutare ancora una volta tutti i presenti, uno ad uno.

 




è morto Todorov il filosofo che ripudiava ogni guerra e voleva aprire le frontiere

Todorov

l’uomo che non temeva i barbari

di Francesco Musolino
in “il Fatto Quotidiano” del 8 febbraio 2017

Correva l’anno 1982, quando in Francia pubblicarono il saggio La conquista dell’America. Il problema dell’altro. In quelle pagine lo studioso Tzvetan Todorov ricostruiva il confronto con l’alterità in seno alla civiltà occidentale, analizzando la conquista del Messico. E lo sterminio delle popolazioni indigene. Questo testo sarebbe diventato rapidamente uno dei capisaldi dei corsi di studi di sociologia e antropologia ma diversamente da altri studiosi, Todorov sapeva travalicare con le proprie parole le aule universitarie e le biblioteche, fornendoci una lente cristallina per leggere il passato. E interpretare giocoforza il presente. L’assunto era chiaro. Dinanzi all’altro – l’indigeno – possiamo decidere di assimilarli alla nostra cultura, imporre la nostra religione e i nostri costumi con la forza. Oppure, finiamo per considerarli diversi, inferiori, ponendo le basi per la loro conquista e sottomissione. In ogni caso, storicamente il confronto fra i conquistadores e le popolazioni indigene ha comportato epidemie, violenza e oblio. La conquista del west con relativo sterminio degli indiani e la colonizzazione europea dell’Africa nera, hanno semplicemente ribadito il concetto con maggiore enfasi e storiografia. Purtroppo Todorov si è spento ieri a Parigi, all’età di 77 anni. Nato a Sofia il 1 marzo 1939, scampò alla violenza e all’oscurantismo del regime totalitario della Bulgaria comunista fuggendo in Francia dove completò gli studi. Scelse di abbracciare la lingua – fra non poche polemiche – costruendosi una nuova identità, libera e dedita alla conoscenza. Era allievo di Roland Barthes e nei suoi saggi, spaziava dalla filosofia alla semiotica.

Ma la sua carriera accademica cambiò radicalmente scegliendo di approcciarsi al problema dell’Altro. Così, a meno di un mese dalla morte di Zygmunt Bauman, perdiamo un altro pensatore che ha speso la propria esistenza per comprendere la nostra identità e sfatare il machismo occidentale. Todorov ripudiava la guerra (“non esistono conflitti giusti”, disse) credeva nell’importanza identitaria dell’Europa e nella necessità di non erigere muri, aprendo le frontiere per approcciarci alla diversità come un tesoro. Ai suoi occhi era un errore fatale la nostra incapacità di trarre forza dagli insegnamenti del passato, dagli orrori delle dittature, dalla follia nazista (Memoria del male, tentazione del bene e Il nuovo disordine mondiale, scritti a cavallo degli anni 2000). Così ne La paura dei barbari (Garzanti) scrisse: “I totalitarismi si sono presentati come un mezzo per guarire la società borghese dai suoi vizi ma hanno dato vita a un mondo più oscuro di quello che combattevano”. E con quella libertà di pensiero che è propria solo dei grandi pensatori, commentando gli attentati terroristici in Francia, disse che la prova più ardua è quella di sconfiggere il jihadismo “senza snaturare noi stessi”, senza rinunciare alla nostra civiltà e ai diritti su cui poggia. “Terrorizzare i terroristi significa diventare come loro – scrisse – e per scampare questo pericolo dobbiamo prima di tutto combattere i nostri demoni”. Era amato in Italia (nel 2010 fu ospite d’onore al Salone del Libro di Torino) e durante gli incontri pubblici, inneggiava anche alla bellezza – nel 2014 Garzanti pubblicò La pittura dei lumi. Da Watteau a Goya – chissà, forse abbracciandone il fine salvifico già invocato da Dostoevskij. Todorov scriveva che “la paura dei barbari è ciò che rischia di renderci barbari” e mentre si diffonde l’odio verso i migranti, possiamo solo augurarci di riuscire a far nostre le sue parole lungimiranti.




bella intervista alla suora ‘bufala, eretica, femminista’

la teologa femminista e queer

“Non rispondi a interessi precisi? Scomoda, per gli uni e gli altri!”

teresa-forcadesa Berlino esiste una suora catalana che insegna teologia queer. Eva, del gruppo traduzionimilitanti, ha tradotto una intervista fatta a lei su picaramagazine.com

 

Teresa Forcades è dottoressa in medicina e teologia e monaca benedettina nel monastero Sant Benet de Montserrat. Bersaglio assiduo delle lobby economiche e politiche per la sua denuncia coraggiosa sul peso degli interessi delle multinazionali farmaceutiche nella gestione della pandemia dell’influenza A nel 2008, e più recentemente, nella vaccinazione non necessaria del Virus del Papilloma Umano nelle ragazze adolescenti, così come per aver criticato le posizioni della cupola ecclesiastica sui temi come l’aborto o i rapporti con il franchismo, promuove il Processo Costituente in Catalugna mentre impartisce lezioni di teologia queer a Berlino

Cosa pensi del disegno di Legge su “protezione del concepito e diritti della donna incinta” presentato in Consiglio dei Ministri lo scorso 20 dicembre?

La mia posizione è quella del Processo Costituente: critica e rifiuto frontale, poiché tenta di regolare socialmente in funzione di valori imposti. Detto questo, adesso viene la mia motivazione personale della quale sono responsabile a livello individuale: credo che sia una violazione chiara del diritto all’autodeterminazione di una donna che una legge la obblighi ad essere madre. E’ troppo prezioso per me il significato di esserlo. Credo che una donna che è rimasta incinta senza volerlo, anche attraverso la violenza, possa vivere la gravidanza in positivo, ma sono favorevole a permettere l’aborto quando il feto non è formato e questo a prescindere dai motivi della scelta.

C’è un vero conflitto etico, un bioconflitto, tra il diritto all’autodeterminazione della madre e il diritto alla vita dell’essere che è in gestazione. In una situazione in cui la madre non ha opzioni, i suoi diritti di autodeterminazione meritano il massimo rispetto. Può anche esserci una madre che vuole fare nascere e accompagnare un nascituro con una malformazione molto grave anche se sa che soffrirà e che subito dopo essere nato morirà. Obbligarla ad abortire sarebbe l’altro estremo e io sono contro, credo che questo nascituro sia immagine di Dio e mi piacerebbe che avessimo un mondo in grado di accoglierlo. Ma questo è ciò che io penso, e non posso imporlo a un’altra donna: “A lei, per legge, voglio che lo Stato la obblighi a fare questo perché io penso sia buono”.

Le Cattoliche per il Diritto di Scelta spiegano che il diritto canonico assolve le donne che abortiscono quando sono minori di 16 anni, in caso di stupro, bisogno, per rimediare un danno, per  legittima difesa… Perché pensi che questa legge è persino più restrittiva che il diritto canonico a partire da Papa Giovanni XXIII?

Ci sono gruppi che, riparandosi nella fede cattolica, spingono leggi restrittive per polarizzare la società in gruppi di interessi e tentare di creare un dibattito che a volte si allontana dei temi più trascendentali, come possono essere in questo momento il tema sociale e la crisi. Nel 1992 sono andata negli Stati Uniti per la prima volta: c’era un sacco di gente per strada con immagini di feti insanguinati, dicendo che le donne che abortiscono sono assassine… Durante quegli anni un ginecologo che praticava aborti [i] e la persona che l’accompagnava furono assassinati a colpi di pistola. Questa polarizzazione ricercata e voluta a fini politici è arrivata fin qui, e non è stato spontaneo.

Ci sono gruppi e movimenti che lavorano per la giustizia sociale e molti cristiani sarebbero d’accordo, ma quando entriamo nell’omosessualità, i diritti di matrimonio e adozione, l’aborto, il diritto a decidere sul proprio corpo, si problematizza fino a estremi assurdi. E’ un modo preciso di dividere il corpo sociale che unito farebbe molta paura. Si era disarticolato un potenziale di lotta sociale molto forte e adesso lo stiamo di nuovo intrappolando.

Lidia Falcón analizza questa legge come una punizione per tutti i passi avanti in equità e parità di genere raggiunti nelle ultime decadi, incarnato nel corpo delle donne e frutto del continuismo con la visione nazionalcattolica del proprio corpo delle donne e dell’aborto. Cosa ne pensi?

Leggi come questa rispondono ad un fenomeno che ho pure studiato con il tema delle streghe: tanto in Oriente come in Occidente, nei differenti momenti di crisi sociale, sconcerto, angoscia, perdita di riferimenti, la figura materna emerge come quella che risolverà il problema e quella che deve essere controllata in maniera speciale come una sorta di esorcismo collettivo, per essere il capro espiatorio: “Mettiamo le donne al loro posto e le cose andranno meglio”. Ma questi strateghi di destra non avrebbero successo se non ci fosse qualcosa nella popolazione che si aggiungesse. E perché li appoggiano? Per questa parte psicologica che fa in modo che si sentano protetti con questo tipo di leggi.

Credo che il patriarcato sorge da strutture tras storiche psichiche che abbiamo, basati sull’affermazione psicoanalitica del oggetto erotico primario, che tanto nei bimbi come nelle bimbe è la madre o il suo sostituto, rispetto al quale si origina una binarietà: a chi si identifica con l’oggetto del desidero lo chiamiamo bimba, e chi no, lo chiamiamo bimbo. Il patriarcato ci dice che in vita adulta dobbiamo essere così; io dico che dobbiamo attraversare questa fantasia primordiale, in linguaggio lacaniano, e, se usiamo il cristianesimo, nascere di nuovo. Se il referente identitario è la figura materna, le donne tendono a fare da badanti e gli uomini aspettano di essere accuditi.

Come ti sembrano le iniziative per costruire un’alleanza ampia di donne di tutti i settori sociali contro la riforma dell’aborto come il patto di tre deputate promossa dalla Piattaforma Femminista di Alicante e alla quale hanno aderito le politiche socialiste, invitando anche le donne di destra?

Eccellenti. Questa alleanze tra donne, questa prossimità e questo rendersi conto che c’è un interesse comune, pratico, nelle lotte viste giorno per giorno, sono sempre state presenti nella storia ed è la nostra forza: nel secolo XVII, la grande battaglia tra le confessioni cristiane dopo la Riforma e la Controriforma la fecero gli uomini, mentre le donne si scrivevano lettere le une alle altre e una era protestante, l’altra anglicana, l’altra cattolica…

Trovarono il modo di fare ponte tra di loro prescindendo da queste diversità confessionali. Negli albori del cristianesimo, durante l’Impero Romano, una legge vietava alle donne cristiane di lasciare che i loro vestiti fossero indossati dalle pagane quando andavano al circo. Questo significa che lo facevano!

Hai detto che la Chiesa spagnola deve chiedere perdono per la sua connivenza con il franchismo e rinunciare ai privilegi che ne derivano. Questo include derogare il concordato del 73 con la Santa Sede, i privilegi ecclesiali al momento di destinare la dichiarazione dei redditi?

La chiesa non solo tollerò il franchismo, che fu un governo criminale, bensì diede un appoggio senza  il quale probabilmente non avrebbe resistito. La forma migliore di continuare come istituzione dopo una esperienza del genere è riconoscerlo e, senz’altro, abolire tutti i privilegi che gli aspettano per il semplice fatto di essere chiesa.

Ma con la Legge Wert torniamo alla segregazione scolastica per sessi, privilegi alle strutture concertate, il rinserimento della religione cattolica come materia obbligatoria…

Nella scuola non deve esserci catechesi di nessuna religione. Una materia che fa enfasi nella religione come cultura sarebbe molto interessante, non una materia facile, ma ben fatta, e non solo sul cristianesimo, si deve disegnare e pensare bene il suo curriculum. C’è un valore nel conoscere la storia di un paese, e non perché il Vangelo dal  punto di vista culturale debba essere preminente riguardo un altro libro sacro.

Privilegiare le scuole religiose concertate, in modo alcuno. Questo si inquadra in questa tendenza alla privatizzazione: in Spagna avevamo un buon livello universitario e, in alcuni casi, d’avanguardia. Adesso, i dipartimenti che funzionavano meglio verranno privatizzati e diventeranno istituzioni d’élite.

Si potrà arrivare se hai una borsa di studio, ma non si tratta di prendere i cervelli vivaci e i ricchi, ma di fare si che la popolazione generale abbia accesso alla cultura superiore e universitaria.

Ti aspetti che Papa Francesco affronti riforme strutturali in seno alla chiesa. Questo include rendere possibile il sacerdozio femminile, che il celibato sia facoltativo e che il clero possa sposarsi?

Le riforme non vengono mai dall’alto, nella società come nella Chiesa. Questa si è allontanata della società nel suo insieme e non credo che adesso, all’improvviso, un papa carismatico farà un cambiamento strutturale dall’alto e produrrà una discontinuità verso una maggiore giustizia sociale. Sicché è certo possibile che, come accadde con Giovanni XXIII, un leader della Chiesa promuova cambiamenti verso una maggiore giustizia, dopo essersi reso conto che le basi ecclesiali erano anni non solo che chiedevano ma che lo preparavano, sperimentando, innovando, creando istituzioni come la Nouvelle Teologie (nuova teologia), il movimento liturgico e il movimento biblico.

Giovanni XXIII disse: “Dobbiamo aprire le finestre perché entri l’aria poiché qui odora di chiuso”. Adesso siamo in una situazione parallela, ci sono molti gruppi che si ispirarono al Concilio Vaticano II, per vedere come li si chiudevano le porte, e ciò che avevano cominciato arretrava. Per esempio, a partire dal Concilio Vaticano II si dice che le decisioni nel consiglio parrocchiale si prendono collegialmente. In molte parrocchie questi consigli sono stati smantellati o non hanno peso verso il reggente, e i gruppi di donne, di giovani, quelli che con preoccupazione sociale ne facevano parte sono stati man mano sommersi, escludendoli dalle attività…

A dispetto delle difficoltà, in tutti questi anni c’è stata una base cattolica crescente che vedeva come urgenti queste riforme, aperture e possibilità di democrazia all’interno della chiesa. Si sono creati movimenti come We are the Church (Siamo la Chiesa), come le cattoliche per il Diritto a Decidere, come i preti che chiedono un celibato facoltativo…

La teologia della liberazione, evidentemente, con tutto il suo compromesso politico, e la necessità di incarnare politicamente il vangelo. Vedremo se il Papa Francesco permette che tutto questo abbia un proprio spazio crescente dentro della Chiesa.

Dici che la teologia femminista si inserisce dentro le teologie critiche di liberazione e, pertanto, si centra nella situazione delle donne e la sua concezione dal punto di vista della struttura ecclesiastica, ma anche nelle disuguaglianze e discriminazioni per classe, etnia, opzione sessuale, identità di genere…

Le donne come collettivo trovano una struttura ecclesiastica che dice: “Dio giustifica la vostra sottomissione”, e nella storia ci sono gruppi di donne e uomini che dicono che Dio è per l’uguaglianza e la libertà di tutti, e in virtù di questo giustificano la loro liberazione.

Subito dopo il Concilio Vaticano II, Mary Daly e Elizabeth Schußler Fiorenza chiesero la parità assoluta nella Chiesa e le cattoliche fummo pioniere nel fare la petizione di sacerdozio femminile. Nel 74, con le prime ordinazioni di donne nelle chiesa episcopaliana (credo furono nove o undici, tra loro la teologa Carter Heyward, che ancora non aveva reso pubblico che era lesbica), Paolo VI incaricò una commissione biblica pontificia di studiare se nelle sacre scritture ci fosse qualcosa contraria all’ordinazione delle donne. La commissione lavora per due anni e la sua conclusione è che non c’è nulla in contrario. Paolo VI fece un motu proprio (un Papa può prendere l’ultima decisione) e gli parve che pastoralmente non era il momento. Dopo ci sono state dichiarazioni contro da parte di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, ma mai si è detto che fosse un dogma della Chiesa. Ci sono state molte affermazioni nella Chiesa che sono cambiate: durante molti anni si è detto che la schiavitù era voluta da Dio. Agli schiavi nordamericani i coloni bianchi dicevano questo e, quando imparano a leggere, prendono la bibbia, dissero che Dio non era con i coloni bianchi ma con la liberazione degli schiavi, e si creò tutta una forza spirituale a partire di questo messaggio: “Go down moses, let my people go”.

Con i dogmi di fede della Chiesa cattolica non ho nessun problema, perché mai ho pensato che la teologia fosse una filosofia, che nasce dalla ragione. La teologia nasce dei postulati rivelati e lavora con la ragione. Dice: Dio esiste e si fa presente nel tempo e nello spazio incarnandosi in una persona, ciò che festeggiamo a Natale. Mi piace il dogma mariano che dice che Dio domandò a Maria, e solo a lei. Festeggiamo che chi può esercitare il potere assoluto non lo fa, perché concede senso e rispetto all’altro, all’amore e all’aprire spazi di libertà. E per apparire nel mondo, Dio non ha bisogno di una coppia eterosessuale, solo una coscienza umana libera che dica sì.

Una coscienza femminile.

Può essere femminile o maschile, ma è evidente che quella femminile incarna tuto il potere dell’umanità. Gesù lo si chiama figlio dell’uomo, ma lo è stato solo di una donna, Maria, e lo Spirito Santo, espressione della parte più personale e libera di Dio, fa una proposta, e lei gli dice: “D’accordo”. Questo è pensare la relazione con Dio come una relazione, consensuale, di tu per tu.

Questa è la visione comunitaria e egualitaria della Santissima Trinità che rivendichi nella tua tesi dottorale.

Dio non è un sovrano solitario che incarna il delirio di onnipotenza infantile dello psicotico. È una comunità, una relazione di libertà. Maria indica il figlio, che indica il padre, e questo indica il figlio, e lui indica te, perché, certo, se non passa da te… La Trinità disarticola tutto il sistema piramidale, che non l’ha inventato il cristianesimo. In molte culture, organizzazioni sociali, la tendenza alla piramide è propria di questa insicurezza infantile, e se le religioni hanno qualche senso, è ispirarci per superare questa paura, capire che la realtà può essere assolutamente orizzontale. Nelle comunità, le società, ci sono ostiche le strutture piramidali.

L’orizzontalità la vedo nella teologia, nella regola benedettina, che vivo nella mia comunità, e nella chiesa in generale. Richiede fiducia e che ognuno sia maturo per rompere questi rapporti di dipendenza, per creare il regno di Dio in terra e trattarci gli uni agli altri come Dio ci tratta. La parola testamento (Vecchio e Nuovo) significa alleanza, ciò che si fa quando le persone hanno lo stesso potere. Questo è il cuore di questa religione.

Come arrivi alla teologia queer?

Studiando Judith Butler. Ritengo che il queer rivendichi il carattere di pezzo unico di ogni persona, e che qualunque etichetta identitaria, di genere, di razza, nazione… è una stampella che rispecchia la tua paura alla libertà personale. Il processo di spiritualizzazione, cristificazione e divinizzazione è osare a essere concezione dell’amore e della libertà che sono Dio stesso, quando dice ‘sei fatta a mia immagine”. Il buddismo dice che l’identità personale è una finzione e deve superarsi perché tutto è un’identità indifferenziata. Questo vuoto personale è solo un primo passo perché si arrivi alla coscienza di unità. Ma, con la Trinità, l’unità non è mai al di là della differenza. La Trinità dice che la diversità è tanto eccelsa come l’unità, giacché un cosa è l’unità e un’altra molto diversa l’uniformità.

L’analisi religiosa che interpreta il rapporto sessuale come qualcosa che ha il fine di concepire è una visione utilitarista dell’amore umano e contraria alla spiritualità cristiana. Consegnarsi al mistero di un rapporto interpersonale è consegnarti al crescere nella direzione di essere immagine di Dio, di incarnare ciò che Dio rappresenta in terra. Addentrandoti, ricevi un regalo, che questa unione possa concepire un figlio, ma questo è perfettamente compatibile con l’essere responsabile e usare i metodi contracettivi quando lo consideri opportuno.

Contrario alla morale cristiana è pensare come se ci fossero due modi di usare il corpo della donna, solitamente basate nella prospettiva maschile: la cattiva, usarlo perché ti dia piacere, che sarebbe la lussuria, e che è condannata da tutti i padri della Chiesa, e l’altra, usarlo perché ti dia figli, e questo è buono. No! Sarebbe denigrare l’integrità della coppia, l’altra persona.

Per questo capisco che l’amore omosessuale sia perfettamente assimilabile dalla Chiesa, perché ha l’essenziale: non è avere figli, bensì un’intimità aperta verso un rapporto interpersonale che include il rispetto per l’integrità dell’altro. Due persone che si amano, si desiderano e si rispettano l’un l’altra danno una testimonianza: questo è il sacramento, un segnale visibile, come il battesimo, che sta dicendo: “questa creatura è accettata in questa comunità come uno in più”. La teología trinitaria dice che tutti i sacramenti rappresentano una raffigurazione dell’amore di Dio. Dio padre, il figlio e lo Spirito Santo, sono diversi ma non sono complementari. L’amore non è bisogno, non è quando ho bisogno perché mi manca qualcosa, non può essere l’amore utilitarista.

Alcuni settori e spazi politici e sociali previamente organizzati all’irruzione del Processo Costituente (PC) in Catalugna hanno criticato la velocità del processo e il personalismo per la visibilità di gente riconosciuta ‘mediaticamente’ come puoi essere tu o Arcadi Oliveres.  Come vivi il rapporto con questi spazi, e con tutti i processi ed assemblee sorti dal 15M del 2011?

E’ normale che gente che da anni sta tentando di organizzare una unità critichi il fatto di andare veloce: se fossimo 46.000 persone che hanno aderito al PC solo perché è uscito in tv, questo sarebbe stato un soufflé (qualcosa che si sarebbe sgonfiato dopo un attimo). Se il Pc può andare a velocità altissime è grazie alle assemblee del 15M, le organizzazioni di quartiere, e molte persone che già stavano lavorando e organizzando con fiducia.

E anche molti che non c’erano, perché il nostro spazio o nicchia politica è coinvolgere persone che non partecipavano. Molte persone del 15M, persino assemblee intere di alcune località, hanno fatto loro il PC, altri sono più spettatori, ci sono tutte le variazioni possibili. Ma senza la gente che già lavorava, non si sarebbe nemmeno prodotto il clima in Catalugna perché il processo attecchisse né perché questo potenziale umano si organizzasse.

C’è un rapporto di continuità tra i pionieri e gli altri, e noi non approfitteremo di ciò che noi non abbiamo iniziato né faremo la concorrenza, bensì tenteremo di inserire un fattore di unità, e se funziona, sarà grazie a tutti. Per quanto riguarda il personalismo, andare a cercare una persona che abbia visibilità è stata una strategia. Altrimenti, come mobiliti gente che non l’aveva già fatto? Adesso cominciano ad esserci facce visibili, il nostro ruolo deve rimanere ogni volta più utile ad altri agenti attivi dentro il movimento.

Tu sei scomoda per certi settori del cattolicesimo, ma anche per settori della sinistra che vivono la tua implicazione nel Pc come un’ingerenza, o persino un tentativo di manipolazione da parte della Chiesa. Che ne pensi?

Ho assunto quest’iniziativa perché gente organizzata politicamente a diversi livelli si chiedeva cosa si potesse fare in Catalugna per creare unità, perché avevano chiaro che, a lungo termine, se non stavano uniti altri avrebbero vinto la partita, e così hanno pensato che Arcadi e io potevamo essere persone con una credibilità trasversale. Viene dal basso, e da gente che sta nella Chiesa.

Riguardo la Chiesa, ho trovato disagio da parte delle strutture dell’organigramma ecclesiastico. Il vescovo di Sant Feliu, della diocesi di cui fa parte il mio monastero, mi disse che non serve a niente cambiare le strutture se non si cambiano i cuori. Sono d’accordo, la Costituzione è carta straccia se la gente non lavora perché si faccia carne. La legge di per sé non fa una società giusta, ma adesso abbiamo leggi che favoriscono gli interessi delle compagnie multinazionali contro la sovranità popolare, e bisogna cambiarle. Il cuore ha bisogno di qualcosa di più del lavoro, per questo sono per il cambiamento di strutture. La nostra società ci dà una struttura dove si pratica la non-solidarietà, io voglio creare una società che ci aiuti a realizzare solidarietà.

C’è una paura alla Chiesa Cattolica che riconosco, perché nel nostro paese ha avuto un’alleanza di 40 anni con la dittatura. Ma c’è anche molta gente di base che appoggia da molti anni la teologia della liberazione, i poveri, gente vicina a chi è morto nelle battaglie repubblicane, che ha lavorato per il catalanismo quando questo andava contro il potere stabilito, che ha resistito.

Nella Chiesa c’è una base e delle strutture e quelli tra noi che ne fanno parte hanno la responsabilità di lavorare perché cambino. Ed essere scomoda per tutti, non mi sembra poi tanto male.

Quando non rispondi a degli interessi chiari, calpesti i piedi agli uni e agli altri. Ma gli scontri in blocco fanno gioco a chi pretende che la società si basi sulla sfiducia e la paura; ci saranno livelli che ci accomunano o ci separano, ma non possono vederti come una concorrente o nemica. Questo è lo sguardo capitalista verso l’altro, e questa base antropologica dobbiamo cominciare a cambiarla. 

Fino a dove può arrivare la dissidenza nella Chiesa? Hai paura di rappresaglie per il fatto di essere un soggetto pubblico?

Non dovrei perdere la coerenza. Non credo che l’istituzione ecclesiastica possa farmi abdicare per ciò che io penso siano i principi del Vangelo, e se mi porta problemi, dovrei valutare come lo rivendico. Né la Chiesa né nessuno può chiedermi di dire ciò che non penso e io faccio ciò in cui non credo. Mi possono chiedere di non parlarne, e non escludo che ad un certo punto lo faranno. La mia voce non è imprescindibile. C’è chi non ha parlato e dopo l’ha organizzata più in grande, come la teologa brasiliana Ivonne Gebara, alla quale chiesero di andarsene in Europa. Era una punizione, ma adesso ha più argomentazioni per difendere ciò che voleva dire prima.

Ti hanno chiamato suora bufala, suora eretica, suora anticapitalistica… Come ti senti quando ti riducono alla denominazione di suora?

Dietro il personaggio sparisce la persona. C’è una parte positiva, per portare il velo raccolgo frutti di molte suore che i poveri riconoscono come persone di fiducia: chiedono per strada, ti vedono e ti sorridono perché ti sentono vicina. In ospedale, anche se porto il camice bianco, il velo vince sul differenziale di classe. La gente semplice capisce che siamo allo stesso livello. Non l’ho guadagnato io bensì le suore che mi hanno preceduto, anche se ci sono critiche storiche alle suore che hanno una base fondata.

Anche se non mi piacciono le etichette, c’è una realtà sociale e i segnali che emetti dipendono da dove ti collochi. Anche, questo linguaggio riflette la difficoltà di riconoscere una persona oltre quello che vedi. Alla base della teoria queer c’è che ti si dia lo spazio per essere ciò che sei, invece di bollarti sotto il generico, suora, suorina, sorellina… E’ molto interessante pensare cosa significa dalla prospettiva del referente femminile, tocchi cose inconsce…


[i] Il 29 luglio 1994, il Dr. John Bayard Britton, operatore di servizi abortivi, e James Barrett, il volontario che lo accompagnava, furono assassinati fuori da una clinica abortiva di Pensacola, Florida.




“il capitalismo è disumano, produce scarti umani e li vuole nascondere” – parola di papa Francesco


 

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALL’INCONTRO “ECONOMIA DI COMUNIONE”
PROMOSSO DAL MOVIMENTO DEI FOCOLARI

Aula Paolo VI
Sabato, 4 febbraio 2017

 

sono lieto di accogliervi come rappresentanti di un progetto al quale sono da tempo sinceramente interessato. A ciascuno di voi rivolgo il mio saluto cordiale, e ringrazio in particolare il coordinatore, Prof. Luigino Bruni, per le sue cortesi parole. E ringrazio anche per le testimonianze

Economia e comunione  Due parole che la cultura attuale tiene ben separate e spesso considera opposte. Due parole che voi invece avete unito, raccogliendo l’invito che venticinque anni fa vi rivolse Chiara Lubich, in Brasile, quando, di fronte allo scandalo della diseguaglianza nella città di San Paolo, chiese agli imprenditori di diventare agenti di comunione. Invitandovi ad essere creativi, competenti, ma non solo questo. L’imprenditore da voi è visto come agente di comunione. Nell’immettere dentro l’economia il germe buono della comunione, avete iniziato un profondo cambiamento nel modo di vedere e vivere l’impresa. L’impresa non solo può non distruggere la comunione tra le persone, ma può edificarla, può promuoverla. Con la vostra vita mostrate che economia e comunione diventano più belle quando sono una accanto all’altra. Più bella l’economia, certamente, ma più bella anche la comunione, perché la comunione spirituale dei cuori è ancora più piena quando diventa comunione di beni, di talenti, di profitti.

Pensando al vostro impegno, vorrei dirvi oggi tre cose:

La prima riguarda il denaro.

È molto importante che al centro dell’economia di comunione ci sia la comunione dei vostri utili. L’economia di comunione è anche comunione dei profitti, espressione della comunione della vita. Molte volte ho parlato del denaro come idolo. La Bibbia ce lo dice in diversi modi. Non a caso la prima azione pubblica di Gesù, nel Vangelo di Giovanni, è la cacciata dei mercanti dal tempio (cfr 2,13-21). Non si può comprendere il nuovo Regno portato da Gesù se non ci si libera dagli idoli, di cui uno dei più potenti è il denaro. Come dunque poter essere dei mercanti che Gesù non scaccia? Il denaro è importante, soprattutto quando non c’è e da esso dipende il cibo, la scuola, il futuro dei figli. Ma diventa idolo quando diventa il fine. L’avarizia, che non a caso è un vizio capitale, è peccato di idolatria perché l’accumulo di denaro per sé diventa il fine del proprio agire. E’ stato Gesù, proprio Lui, a dare categoria di “signore” al denaro: “Nessuno può servire due signori, due padroni”. Sono due: Dio o il denaro, l’anti-Dio, l’idolo. Questo l’ha detto Gesù. Allo stesso livello di opzione. Pensate a questo.

Quando il capitalismo fa della ricerca del profitto l’unico suo scopo, rischia di diventare una struttura idolatrica, una forma di culto. La “dea fortuna” è sempre più la nuova divinità di una certa finanza e di tutto quel sistema dell’azzardo che sta distruggendo milioni di famiglie del mondo, e che voi giustamente contrastate. Questo culto idolatrico è un surrogato della vita eterna. I singoli prodotti (le auto, i telefoni…) invecchiano e si consumano, ma se ho il denaro o il credito posso acquistarne immediatamente altri, illudendomi di vincere la morte.

Si capisce, allora, il valore etico e spirituale della vostra scelta di mettere i profitti in comune. Il modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo, condividerlo con altri, soprattutto con i poveri, o per far studiare e lavorare i giovani, vincendo la tentazione idolatrica con la comunione. Quando condividete e donate i vostri profitti, state facendo un atto di alta spiritualità, dicendo con i fatti al denaro: tu non sei Dio, tu non sei signore, tu non sei padrone! E non dimenticare anche quell’alta filosofia e quell’alta teologia che faceva dire alle nostre nonne: “Il diavolo entra dalle tasche”. Non dimenticare questo!

La seconda cosa che voglio dirvi riguarda la povertà, un tema centrale nel vostro movimento.

Oggi si attuano molteplici iniziative, pubbliche e private, per combattere la povertà. E tutto ciò, da una parte, è una crescita in umanità. Nella Bibbia i poveri, gli orfani, le vedove, gli “scarti” della società di quei tempi, erano aiutati con la decima e la spigolatura del grano. Ma la gran parte del popolo restava povero, quegli aiuti non erano sufficienti a sfamare e a curare tutti. Gli “scarti” della società restavano molti. Oggi abbiamo inventato altri modi per curare, sfamare, istruire i poveri, e alcuni dei semi della Bibbia sono fioriti in istituzioni più efficaci di quelle antiche. La ragione delle tasse sta anche in questa solidarietà, che viene negata dall’evasione ed elusione fiscale, che, prima di essere atti illegali sono atti che negano la legge basilare della vita: il reciproco soccorso.

Ma – e questo non lo si dirà mai abbastanza – il capitalismo continua a produrre gli scarti che poi vorrebbe curare. Il principale problema etico di questo capitalismo è la creazione di scarti per poi cercare di nasconderli o curarli per non farli più vedere. Una grave forma di povertà di una civiltà è non riuscire a vedere più i suoi poveri, che prima vengono scartati e poi nascosti.

Gli aerei inquinano l’atmosfera, ma con una piccola parte dei soldi del biglietto pianteranno alberi, per compensare parte del danno creato. Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è l’ipocrisia!

L’economia di comunione, se vuole essere fedele al suo carisma, non deve soltanto curare le vittime, ma costruire un sistema dove le vittime siano sempre di meno, dove possibilmente esse non ci siano più. Finché l’economia produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata, la comunione non è ancora realizzata, la festa della fraternità universale non è piena.

Bisogna allora puntare a cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale. Imitare il buon samaritano del Vangelo non è sufficiente. Certo, quando l’imprenditore o una qualsiasi persona si imbatte in una vittima, è chiamato a prendersene cura, e magari, come il buon samaritano, associare anche il mercato (l’albergatore) alla sua azione di fraternità. So che voi cercate di farlo da 25 anni. Ma occorre agire soprattutto prima che l’uomo si imbatta nei briganti, combattendo le strutture di peccato che producono briganti e vittime. Un imprenditore che è solo buon samaritano fa metà del suo dovere: cura le vittime di oggi, ma non riduce quelle di domani. Per la comunione occorre imitare il Padre misericordioso della parabola del figlio prodigo e attendere a casa i figli, i lavoratori e collaboratori che hanno sbagliato, e lì abbracciarli e fare festa con e per loro – e non farsi bloccare dalla meritocrazia invocata dal figlio maggiore e da tanti, che in nome del merito negano la misericordia. Un imprenditore di comunione è chiamato a fare di tutto perché anche quelli che sbagliano e lasciano la sua casa, possano sperare in un lavoro e in un reddito dignitoso, e non ritrovarsi a mangiare con i porci. Nessun figlio, nessun uomo, neanche il più ribelle, merita le ghiande.

Infine, la terza cosa riguarda il futuro.

Questi 25 anni della vostra storia dicono che la comunione e l’impresa possono stare e crescere insieme. Un’esperienza che per ora è limitata ad un piccolo numero di imprese, piccolissimo se confrontato al grande capitale del mondo. Ma i cambiamenti nell’ordine dello spirito e quindi della vita non sono legati ai grandi numeri. Il piccolo gregge, la lampada, una moneta, un agnello, una perla, il sale, il lievito: sono queste le immagini del Regno che incontriamo nei Vangeli. E i profeti ci hanno annunciato la nuova epoca di salvezza indicandoci il segno di un bambino, l’Emmanuele, e parlandoci di un “resto” fedele, un piccolo gruppo.

Non occorre essere in molti per cambiare la nostra vita: basta che il sale e il lievito non si snaturino. Il grande lavoro da svolgere è cercare di non perdere il “principio attivo” che li anima: il sale non fa il suo mestiere crescendo in quantità, anzi, troppo sale rende la pasta salata, ma salvando la sua “anima”, cioè la sua qualità. Tutte le volte che le persone, i popoli e persino la Chiesa hanno pensato di salvare il mondo crescendo nei numeri, hanno prodotto strutture di potere, dimenticando i poveri. Salviamo la nostra economia, restando semplicemente sale e lievito: un lavoro difficile, perché tutto decade con il passare del tempo. Come fare per non perdere il principio attivo, l’ “enzima” della comunione?

Quando non c’erano i frigoriferi, per conservare il lievito madre del pane si donava alla vicina un po’ della propria pasta lievitata, e quando dovevano fare di nuovo il pane ricevevano un pugno di pasta lievitata da quella donna o da un’altra che lo aveva ricevuto a sua volta. È la reciprocità. La comunione non è solo divisione ma anche moltiplicazione dei beni, creazione di nuovo pane, di nuovi beni, di nuovo Bene con la maiuscola. Il principio vivo del Vangelo resta attivo solo se lo doniamo, perché è amore, e l’amore è attivo quando amiamo, non quando scriviamo romanzi o quando guardiamo telenovele. Se invece lo teniamo gelosamente tutto e solo per noi, ammuffisce e muore. E il Vangelo può ammuffirsi. L’economia di comunione avrà futuro se la donerete a tutti e non resterà solo dentro la vostra “casa”. Donatela a tutti, e prima ai poveri e ai giovani, che sono quelli che più ne hanno bisogno e sanno far fruttificare il dono ricevuto! Per avere vita in abbondanza occorre imparare a donare: non solo i profitti delle imprese, ma voi stessi. Il primo dono dell’imprenditore è la propria persona: il vostro denaro, seppure importante, è troppo poco. Il denaro non salva se non è accompagnato dal dono della persona. L’economia di oggi, i poveri, i giovani hanno bisogno prima di tutto della vostra anima, della vostra fraternità rispettosa e umile, della vostra voglia di vivere e solo dopo del vostro denaro.

Il capitalismo conosce la filantropia, non la comunione. È semplice donare una parte dei profitti, senza abbracciare e toccare le persone che ricevono quelle “briciole”. Invece, anche solo cinque pani e due pesci possono sfamare le folle se sono la condivisione di tutta la nostra vita. Nella logica del Vangelo, se non si dona tutto non si dona mai abbastanza.

Queste cose voi le fate già. Ma potete condividere di più i profitti per combattere l’idolatria, cambiare le strutture per prevenire la creazione delle vittime e degli scarti; donare di più il vostro lievito per lievitare il pane di molti. Il “no” ad un’economia che uccide diventi un “sì” ad una economia che fa vivere, perché condivide, include i poveri, usa i profitti per creare comunione.

Vi auguro di continuare sulla vostra strada, con coraggio, umiltà e gioia. «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7). Dio ama i vostri profitti e talenti donati con gioia. Lo fate già; potete farlo ancora di più.

Vi auguro di continuare ad essere seme, sale e lievito di un’altra economia: l’economia del Regno, dove i ricchi sanno condividere le loro ricchezze, e i poveri sono chiamati beati. Grazie.




i manifesti contro papa Francesco sono un attacco brutale da non sottovalutare

manifesti contro papa Francesco

di Marco Politi
in “http://www.ilfattoquotidiano.it/blog/mpoliti/” del 5 febbraio 2017


l’attacco è stato preciso, violento, ben pianificato. Sbagliano i sostenitori di Francesco a voler minimizzare. E sbaglia anche il Vaticano a diffondere la tacita consegna “non ti curar di loro, ma guarda e passa”. Perché i manifesti   contro papa Bergoglio affissi sabato in molte parti del centro di Roma toccano i punti vitali dell’immaginario di questo pontificato

In primo luogo, il rapporto diretto con la massa dei fedeli e anche il popolo, che non crede ma ascolta con attenzione le parole di Francesco: rapporto ridicolizzato e deformato dalla foto, che sui manifesti mostra un pontefice ingrugnito. Più insidioso ancora è il secondo messaggio veicolato dalle affissioni: l’attacco brutale al cuore della sua buona novella, la misericordia. Come dire: “Sei un dittatore subdolo che parli di misericordia ma perseguiti chi non è d’accordo con te: dall’Ordine di Malta ai Francescani dell’Immacolata, a sacerdoti per te scomodi … e non hai nemmeno il coraggio di rispondere a quei cardinali che ti mettono in discussione”. Vero e falso in un messaggio di lotta politica senza quartiere non hanno importanza. (La campagna elettorale di Trump insegna). E questo dei manifesti è un attacco “politico” in piena regola al pontificato bergogliano. Raffinato nella sua perfidia è anche l’uso del dialetto romano.

“A France’… “. Uno sberleffo che mira a svuotare nella sua volgarità ogni preminenza morale della personalità presa a bersaglio. Sbaglia anche chi minimizza, considerando la vicenda un mero sviluppo di un clima della comunicazione contemporanea diventato sempre più esplicito, polarizzato e aggressivo. Il che è vero. Ma nel caso di Francesco l’ondata di manifesti derisori è qualcosa di più: è   un’ulteriore mossa di un’escalation che ha per scopo la   denigrazione sistematica   del suo riformismo e in ultima analisi la mobilitazione delle forze in vista del futuro conclave da cui (secondo i conservatori) non deve uscire assolutamente un Francesco II. Ridicolizzare il Papa a Roma con metodi, che ricordano i tweet di Trump contro i suoi avversari o gli insulti da stadio contro giocatori e arbitri, significa appunto trascinare in basso la figura di Francesco per metterlo alla pari degli insulti da bar. In questa vicenda – quali che siano i quattro gatti che un domani potranno essere individuati come autori materiali del fatto – non esiste un burattinaio unico. Esiste invece, a partire sin dai primi mesi del pontificato e in accelerata con il primo sinodo sulla famiglia, il coagularsi costante e crescente di molteplici   gruppi, preti, vescovi e cardinali sostenuti da una galassia di siti internet, il cui motto è: “Questo Papa non ci piace!”. E’ un demagogo, un populista, un comunista, un femminista, un eretico … Che protestantizza la Chiesa cattolica, sminuisce il primato papale, toglie sacralità alla cattedra di Pietro, si allontana dalla Tradizione, semina confusione tra i fedeli …”. Si prenda una cartina geografica e si appuntino con uno spillo le località da cui provengono i cardinali e i vescovi, che hanno scritto libri contro la svolta pastorale di Francesco in tema di etica familiare, che hanno firmato petizioni, che gli hanno mandato una lettera accusandolo praticamente di manipolazione dell’ordine dei lavori del Sinodo 2015, che infine (con la lettera dei quattro Cardinali dell’autunno scorso) lo hanno sostanzialmente accusato di tradire la parola di Dio iscritta nel Vangelo – e si avrà una mappa della rete mondiale – in Curia e nei cinque continenti – di coloro che nutrono malumore nei confronti della linea del pontefice. Preti,
teologi, vescovi e cardinali che gli si oppongono apertamente e che dietro le quinte sono appoggiati da quanti ne condividono le idee ma non vogliono esporsi e intanto fanno resistenza passiva. I manifesti di Roma, che attaccano pubblicamente Bergoglio nella Roma, di cui è vescovo e da cui svolge (come suona la definizione cattolica tradizionale) la sua “missione di pastore universale”, sono il segno allarmante di un movimento a lui contrario, che non ha tregua e incarna la stessa aggressività logorante che ha avuto negli Stati Uniti il tea party movement. La somiglianza colpisce. Quel movimento, che incessantemente anno dopo anno ha disgregato l’immagine di Obama, non era ovviamente in grado di rimuoverlo da presidente, ma al termine del suo mandato ha pesato enormemente sulle elezioni presidenziali. C’è un “movimento del sacro incenso”, abbastanza numeroso come hanno dimostrato le votazioni al sinodo sulla famiglia, e variamente aggressivo, che mira a corrodere dall’interno degli ambienti ecclesiastici l’autorevolezza di Bergoglio. Il vasto consenso di cui gode nei sondaggi è solo una parte della questione. L’altra dimensione riguarda la Chiesa come istituzione. E in questa dimensione la guerra sotterranea è violenta. Bergoglio, mostrando tranquillità, ha finora ordinato discretamente ai suoi sostenitori nella gerarchia di non dare importanza agli attacchi a lui rivolti. Ma la storia insegna che in una guerra civile chi non contrasta efficacemente gli attacchi, finisce per logorarsi. E qui chi si logora non è tanto la personalità storica di Francesco, ma la vitalità del fronte riformatore.




il ‘grande male’ , come gli stermini, nasce dal quieto vivere, dal ‘cosa ci vuoi fare?’

Cosa ci vuoi fare

di Rosaria Gasparro

Maria ricorda tutto, ripassa giorno dopo giorno i suoi ricordi che stanno lì, fermi, nitidi. Li lucida con amore e risentimento. E li sciorina nel quotidiano. Sempre uguali, inamovibili, una collezione di farfalle morte appuntate con lo spillo nella sua storia. È il Novecento di casa mia che non cambia. È il suo orgoglio la memoria. novantaduenne che rivive con gioia e tormento la guerra e la pace, il passato che non passa.

Non sopporto questa memoria statica, tutta rivolta all’indietro che non vede il presente, che non prende le distanze dal male, che mentre lo congela in un altrove assoluto se lo porta ancora dentro e lascia nell’oggi le cose come sono, immutabili.

Il male non è mai altrove. È sempre qui. In agguato. Dentro di noi. Il male di oggi, nell’odio privato e condiviso, nei selfie sui luoghi dello sterminio, di ciò che sta accadendo adesso dietro tutto il nuovo filo spinato d’Europa, nel lasciar morire qualunque siano le acque o i cammini. Davanti a tutti.

Il male si nutre del quieto vivere, del lasciar fare, non chiede di fare la differenza. Si stanzia nell’adagio del “cosa ci vuoi fare”, è statico e dinamico, pervade senza far rumore, ci consuma mentre consumiamo, ci rassicura nel così fan tutti. Per questo il problema del male interroga l’educazione, le sue reali possibilità. Servono giorni dopo giorni, conoscenza e comprensione, ascolto e sentimento, visione e comunità aperta, domande su di noi e risposte sincere.

Serve tempo che non scade, che coglie ed elabora ogni segno di disagio e di rifiuto, che ne fa il rituale di ogni giorno mettendosi al posto dell’altro nel dileggio e nel sopruso.




Roma disseminata di manifesti contrto papa Francesco

manifesti contro papa Francesco affissi a Roma

subito rimossi


una decina di manifesti critici verso papa Francesco sono comparsi in piazza Risorgimento ma anche in altri quartieri della città. La foto a tutto campo riporta l’immagine del Pontefice con un’espressione particolarmente rabbuiata e accigliata. In basso, su fondo violaceo, la scritta con venature romanesche:

“A France’, hai commissariato Congregazioni, rimosso sacerdoti, decapitato l’Ordine di Malta e i Francescani dell’Immacolata, ignorato Cardinali… ma n’do sta la tua misericordia?”

Il poster è anonimo, non riporta sigle né simboli, ma è facilmente riconducibile agli ambienti conservatori che sempre più manifestano la loro opposizione al magistero, ai provvedimenti e alla linea pontificale di Bergoglio. E proprio in quella direzione vanno le indagini della Digos: al vaglio le immagini delle telecamere di sorveglianza per risalire agli autori delle affissioni che la polizia municipale ha provveduto subito a oscurare. 




il vangelo della domenica commentato da p. Maggi

VOI SIETE LA LUCE DEL MONDO

commento al vangelo della quinta domenica del tempo ordinario (5 febbraio 2017) di p. Alberto Maggi:

Mt 5,13-16




progetto chiesa – quale chiesa fra vent’anni?

alla Lateranense si progetta la Chiesa di domani

in “La Stampa-Vatican Insider” del 31 gennaio 2017

“«Dio è creativo, non è chiuso, non è rigido»: lo ha dichiarato con forza papa Francesco nel settembre 2013… «Quale Chiesa fra vent’anni?» è la domanda che lancia il primo «Festival Internazionale della Creatività nel Management Pastorale»… A Roma fra il 23 e il 25 marzo da tutto il mondo donne e uomini impegnati nel rinnovamento della Chiesa cattolica”

«Dio è creativo, non è chiuso, e per questo non è mai rigido. Dio non è rigido!»: lo ha dichiarato con forza papa Francesco nel settembre 2013, a pochi mesi dalla sua elezione al pontificato. Sono proprio queste le parole d’ordine che la Pontificia Università Lateranense, sotto la guida del rettore magnifico monsignor Enrico Dal Covolo, ha intenzione di incarnare esplorando e raccogliendo percorsi nuovi di fare Chiesa, di viverla, di raccontarla e di costruirla. «Quale Chiesa fra vent’anni?» è infatti è la domanda che lancia il primo «Festival Internazionale della Creatività nel Management Pastorale», realizzato dalla Scuola internazionale di Management pastorale – il percorso di alti studi per presbiteri, laici, religiosi, operatori ecclesiali e della pastorale creato due anni fa dalla Pontificia Università Lateranense – in collaborazione con Villanova University della Pennsylvania e con realizzazione formativa di Creativ.

A Roma fra il 23 e il 25 marzo giungeranno da tutto il mondo donne e uomini che si stanno impegnando nel rinnovamento della Chiesa cattolica a partire dal cambiamento concreto delle pratiche, realizzando quell’inculturazione del Vangelo che è primo strumento di evangelizzazione esplorando e raccogliendo percorsi innovativi di fare Chiesa, di viverla, di raccontarla e di costruirla, con la profondità e la passione della Pul che ha il mandato di ricercare «la Sapienza secondo Cristo».

Gli obiettivi del festival sono ambiziosi: esplorare nuovi modelli di Chiesa e best practices ecclesiali; capire quale possa essere la miglior riorganizzazione della Chiesa diocesana sul territorio; porre il tema della nuova collaborazione fra ordini religiosi e vita secolare nel rispetto reciproco; dialogare sulla valorizzazione del ministero sacerdotale ordinato e la corresponsabilità dei laici; accogliere come prioritaria la costruzione della sinodalità nelle chiese locali, per realizzare a tutti i livelli lo spirito della parresia che ha impostato i lavori dei Sinodi straordinari voluti ancora da papa Francesco.

L’evento ha proposte e numeri invitanti: tre conferenze pluriprospettiche per comunicare in profondità contenuti e fertilità di vedute con 18 ospiti internazionali; tre «Dialoghi» con personaggi significativi che diano voce a testimoni con punti di vista profetici; 18 tavoli della corresponsabilità aperti alla creatività dei partecipanti insieme ai 38 open lighting talk; saranno offerti inoltre trenta workshop e 15 talk, lezioni interattive aperte tenute da ricercatori d’avanguardia provenienti da Cile, Australia, Olanda, Germania, Italia, Usa, Kenya, Spagna da cui scaturiranno stimoli, casi di studio, approfondimenti che permetteranno ai partecipanti di immaginare e generare percorsi nuovi e spazi di scambio innovativo insieme allo spazio dedicato a 45 tavoli delle best practices in ambito ecclesiale.




libertà fa rima con solidarietà

i molti volti della libertà

di Sergio Rostagno*
in “Confronti” del febbraio 2017

non c’è libertà nemmeno per me se il mio prossimo non è libero insieme con me

libertà non prescinde da solidarietà

oggi più che mai appare necessario riflettere sul loro nesso

L’origine della parola libertà è sconosciuta. La radice greca “lib” si riferisce all’acqua corrente. Da lì sembra che venga la nostra parola libertà. Più interessante il termine inglese freedom, free, che ricorda il latino frater, ma si ritrova anche in Friede (pace in tedesco) e nell’inglese friend (l’amico).

Vedi anche: Franco; Francia. I greci avevano almeno 3 parole: eleuteria, exousia, parrhesia. Sono stati i greci a istituire la prima festa della libertà. La si celebrava ogni cinque anni ricordando di aver respinto l’invasione persiana e conservato la propria identità e la propria storia. In origine l’essere umano intende libertà come appartenenza (al clan, alla stirpe, alla famiglia) che ti protegge e dentro la quale sei libero: se ne esci diventi schiavo di qualcuno. Ciò spiega la parentela tra libertà, identità e fraternità nelle culture primitive. I popoli desiderano essere padroni sul loro territorio: questa è la libertà. La coesione interna e l’appartenenza ne sono un aspetto necessario. Il culto consacra e sottolinea l’appartenenza. Molto presto l’essere umano si accorge di poter vivere soltanto nel rapporto con altri (Lévi-Strauss).

Ma poco per volta il concetto si universalizza e diventa più ideale e più astratto. Intorno al I secolo filosofie e religioni assumono una concezione più universale dell’umano. Ne sentono il richiamo anche l’ebraismo e il cristianesimo. La religione stessa trova la sua più autentica espressione nella libertà e si svincola dall’idea di popolo trasformato (per catacresi) in «popolo di Dio». Gli scritti cristiani sottolineano la figura di Gesù come figura della libertà. Esempi di tale libertà sono gli episodi di superamento del legalismo e la norma come “nuova” legge. La legge lega, certo, ma siamo nello stesso tempo liberi. Il senso dell’identità è dato dall’agape, il legame reciproco, dove l’alterità  diventa una nuova variabile prima sconosciuta. La nozione di agape viene a riempire e interpretare quella di legge, legandosi così intimamente alla nozione di libertà e di persona intimamente nuova. La libertà come problema appare nelle chiese paoline. Da un lato i Galati non comprendono la libertà, ne hanno quasi paura; dall’altro i Corinzi vi si immergono con impeto individuale soggettivo, senza accorgersi del suo nesso intersoggettivo (agape). Tale problematica ha trovato nell’idea moderna di “emancipazione” una applicazione a diversi contesti (il popolo, la donna, lo schiavo). La filosofia moderna coltiva il concetto radicale di libertà. L’essere umano è libero come tale. Non si può risalire a niente di più originario che la libertà (Kant). Ma l’idea di libertà così raffinata finisce nell’arbitrio o nell’egoismo. Peggio se equivale a «volontà di Dio». Va quindi ripensata e temperata. Fuori della solidarietà il diritto diventa astrazione, egoismo. Su tutto sovrasta ancora il fatto irrisolto dell’alterità. Forse solo oggi ci accorgiamo di quanto fosse forte in teoria e labile in pratica il rapporto tra diritto e solidarietà. Non c’è diritto personale che tenga alla lunga se non è compensato dal diritto altrui. Non c’è libertà nemmeno per me se il mio prossimo non è libero insieme con me. Libertà non prescinde da solidarietà: oggi più che mai appare necessario riflettere sul loro nesso. Ci sfuggono realtà che fino a ieri sembravano raggiunte, conquiste che sembravano stabili. Siamo giustamente preoccupati dalla difficoltà di poter mantenere per tutti i vantaggi del welfare e della scuola pubblica. Ma se questo discorso riguarda i popoli europei, ancor più riguarda il rapporto con i nostri simili di ogni provenienza e cultura. Coltivare e salvaguardare la propria identità è una cosa, isolarsi e credersi migliori è un’altra. L’idea che l’identità viva nel rapporto, nell’accoglienza, nella reciprocità non deve illanguidire sotto il peso dei problemi complessi che abbiamo. Dobbiamo farne invece una bandiera vivace anche oggi.
*teologo e professore emerito alla Facoltà valdese di teologia di Roma