un bel libro su don Milani

Barbiana

Un «miracolo» laicodon-milani

di Silvano Nistri
in “Avvenire” del 23 novembre 2016

esce, per le edizioni San Paolo, un libro di Michele Gesualdi: Don Lorenzo Milani, l’esilio di Barbiana (pp. 256, euro 16), con prefazione di Andrea Riccardi e postfazione di don Luigi Ciotti (con  stralci qui sotto, in questa stessa pagina). Sarà presentato a Firenze, nel Palazzo della Regione, il 26 novembre alle 11, presente l’arcivescovo Giuseppe Betori

don-milani1

Il giovane don Milani arrivò a Calenzano come coadiutore del vecchio proposto ma il suo impegno pastorale a tutto campo rivelava già la sua paternità e dedizione. C’è subito la scuola popolare che coinvolge i giovani, una scuola aperta dove sono invitate a parlare persone professionalmente preparate di varia estrazione, ma c’è anche l’attenzione agli orfani della Madonnina del Grappa, il recupero di una cappella in disuso, l’attenzione a famiglie in situazione di disagio; c’è il bambino che muore di tetano vegliato nella sua agonia, c’è il catechismo con il Vangelo secondo un criterio storico e adoperando il linguaggio dei ragazzi, che lo impegna tanto… E c’è anche un’attenzione a quello che avviene nel mondo. Il suo è un discorso rigoroso, affine a quello di don Mazzolari con cui è in rapporto. Lo fa con la scuola popolare, lo fa negli incontri con i preti del vicariato, lo fa in qualche occasione parlando in chiesa. A Calenzano don Lorenzo andava alla ricerca di persone preparate per parlare ai giovani della Scuola popolare, a Barbiana avviene il contrario; a questa «parrocchia di niente» sono le personalità politiche, religiose, socialmente impegnate e colte a cercarlo. Si arrampicano fin lassù per respirare quell’esperienza.don-milani2

Ci arrivano Capitini, Ingrao, Ernesto Rossi, e, seppure per interposta persona, ci arriva Fromm. Si affrontano temi fondamentali come l’obiezione di coscienza, la pace, la formazione civile e religiosa, l’ingiustizia sociale, il primato della coscienza sulla legge, lo sfruttamento nord-sud del mondo, il razzismo… Il suo direttore spirituale don Bensi indicava come segno dell’autenticità profetica di don Milani la sproporzione tra Barbiana e la sua incidenza nel mondo. E’ vero. C’è un mistero di grazia ed è impossibile non riconoscerlo.

 

prete senza etichette, dalla parte dei poveri

di Andrea Riccardiriccardi

in “Avvenire” del 23 novembre 2016

Su don Lorenzo Milani è stato scritto molto. La sua figura ha scosso in profondità tante coscienze a partire dagli anni Sessanta. Ha fatto quindi discutere e scrivere. La sua scuola è stata un modello per numerose scuole, anche se non si può dire che ci siano state repliche dell’esperienza di Barbiana. Resta però la grande domanda su chi sia stato davvero don Milani. Barbiana, quando don Milani vi fu inviato, era niente: un posto di montagna sperduto e spopolato. Oggi è ancora meno. Tuttavia oggi Barbiana resta un fatto della nostra storia, nonostante la sua piccolezza, ma anche un simbolo. Un simbolo su cui converrebbe interrogarsi di più. La dimostrazione di quanto, in condizioni impossibili, possono fare un uomo o una donna che amano e lavorano per gli altri. Torna alla mente quanto il Priore scrisse alla madre: «La grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, ma da tutt’altre cose. E neanche le possibilità di fare del bene si misurano dal numero dei parrocchiani». Per tanti anni, la figura del Priore di Barbiana, con la sua scuola, si è imposta all’attenzione di molti. È apparso soprattutto un maestro o un protagonista di battaglie civili. E lo è stato effettivamente. Lettera a una professoressa è un testo su cui si sono misurati quanti si occupavano di scuola ed educazione, ma anche molti che si sono impegnati nella società civile e nelle periferie. Quel testo ne ha fatto una figura nota come educatore, ma anche attore di una pedagogia rivoluzionaria e di un’azione sociale di promozione degli ultimi. Un grande attivista sociale, che in vita è stato qualificato anche come un eversivo o un comunista. A questo avrebbero contribuito pure le sue posizioni sull’obiezione di coscienza, la guerra, l’antifranchismo e l’antifascismo. Ed anche la sua assenza di “prudenza” ecclesiastica che, allora, contraddistingueva anche non pochi preti illuminati di Firenze. Eppure non c’è solo il don Milani di Lettera a una professoressa. O meglio questo libro è il punto d’arrivo di una storia. A tante rappresentazioni della figura del Priore sfugge il cuore della sua personalità. È anche motivo della sua angoscia personale negli ultimi tempi di vita, quando domandò alla Chiesa di ereditare la sua opera. Chiese che la sua persona fosse riconosciuta con un qualche gesto dalla comunità ecclesiale. Non fu la ricerca di un viatico rassicurante o ancor meno fu carrierismo, ma rappresentò l’espressione di un sentire profondo. Non era un impegno privato il suo: «Temeva che quel clima – ha dichiarato un prete che lo conosceva – avrebbe vanificato la sua scelta di servire la Chiesa attraverso i poveri, col rischio che, agli occhi della gente di Barbiana, il suo apostolato apparisse un fatto privato». Milani è fondamentalmente un prete e un cristiano che sceglie per i poveri e per il Vangelo. Sia la sua opera che la sua personalità sono impregnate da questa sua scelta evangelica. È però significativo come il prete Milani, così prete, parli oltre i confini confessionali, rappresenti un’attrazione per i laici e un oggetto d’interesse per la stampa laica. Vuol dire che dal profondo di un’esperienza evangelica vera con i poveri c’è qualcosa che interpella il mondo laico e quello di sinistra nell’Italia degli anni Cinquanta-Sessanta e forse oltre quel periodo. Si vede come un dialogo non ideologico – anche in un tempo di muri ideologici qual era quello di don Milani – possa sempre partire dai poveri. Non è un prete di sinistra. Non è un prete a suo agio con l’intelligenza progressista. Don Lorenzo non è un cattolico contestatore come quelli degli anni postconciliari. Non è certo un clericale. Don Lorenzo non si poteva incasellare o ancor peggio utilizzare. Scandalizzava i conservatori e i tradizionalisti in un mondo in cui erano ancora forti. Scavalcava i progressisti in un tempo in cui avevano un’identità. Don Milani non si può classificare con le categorie con cui si leggono i cattolici degli anni Sessanta. Molti lo hanno fatto ed è normale. Ma non lo hanno capito.

 

La sua alta lezione: formare le coscienze

di Luigi CiottiCiotti

in “Avvenire” del 23 novembre 2016

Suona perfino scontato – a mezzo secolo dalla morte – parlare di attualità di don Milani. In questi cinquant’anni le ingiustizie e le povertà non sono certo diminuite, e la Barbiana di allora, così come apparve a don Lorenzo il 7 dicembre 1954, si riflette nelle tante Barbiane del nostro tempo: quelle dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, quelle delle zone di guerra e del Mediterraneo, dove il mare inghiotte o depone sulle spiagge i corpi delle vittime della fame, della schiavitù e dell’ingiustizia globale. Come nelle Barbiane di chi all’altra riva è approdato, senza però trovare lavoro e dignità: quelle delle baraccopoli e dei quartieri ghetto, delle case sovraffollate e dei rifugi di fortuna, quelle di chi cade in mano alle mafie del caporalato, del narcotraffico, della prostituzione. Ma don Milani è nostro contemporaneo anche per quello che è forse il cuore, il nucleo pulsante della sua opera: la scuola. C’è, irrisolta, una grande questione educativa. Perché se è vero che nel nostro Paese – ma il discorso può essere esteso ad altre democrazie “avanzate” – la povertà assoluta e relativa opprime milioni di persone, è anche vero che ci troviamo di fronte a un diffuso analfabetismo di ritorno, e che l’Italia è tra i primi posti in Europa per dispersione scolastica. Don Milani ci ha insegnato che non si può combattere la povertà materiale senza una formazione delle coscienze, senza un’educazione alla ricerca. A Barbiana, dove pure il priore si comportava da maestro severo ed esigente, era sempre l’alunno che fa più fatica a dettare il ritmo di marcia e guidare di fatto il progetto comune. Resta un’intuizione preziosa, perché solo così la scuola diventa la base di una società prospera, la cui forza si misura dalla capacità di includere e valorizzare i più fragili, così come la tenuta di un ponte dipende dal concorso di tutti i piloni a sorreggerne il peso. «Se si perde loro – è scritto nella Lettera a una professoressa – la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati». Questo vuoto culturale si riflette infine nel decadimento del linguaggio, un decadimento che si manifesta anche come corruzione e prostituzione della parola. Nella “società della comunicazione”, le parole tendono sempre più a diventare strumenti di potere invece che segnavia della ricerca di verità. E don Milani, che nella parola umana come strumento di conoscenza e di dignità avvertiva lo stesso eco liberante della parola di Dio, non avrebbe certo taciuto di fronte allo scempio linguistico dei discorsi che etichettano, che diffamano, che manipolano la realtà e nascondono la verità. Ecco allora che opportunamente Michele Gesualdi mette in guardia dal rischio di una memoria deferente e d’occasione, o peggio di strumentalizzazioni o appropriazioni indebite della sua eredità intellettuale e spirituale. Don Milani non va celebrato ma vissuto, così come «Barbiana era molto più di una scuola, era un vivere in comune». Non può esistere un “don Milani in pillole”, citato a seconda di circostanze e convenienze, così come il famoso passo dell’obbedienza che non è più una virtù, non deve essere interpretato come un generico invito alla ribellione, ma come un’esortazione a seguire la voce della propria coscienza, che non è mai accomodante, che sempre ci chiama a quelle responsabilità che proprio il conformismo e l’obbedienza acritica permettono di eludere. Essere consapevoli significa essere responsabili, significa mettere la nostra libertà al servizio di chi libero non è. È di questa libertà che don Milani è stato maestro. A noi spetta il compito di esserne, almeno, testimoni credibili.