una teologia per continuare a sperare nonostante tutto

per una teologia della speranza

breve ritratto di Jürgen Moltmann

moltmann

Jürgen Moltmann, teologo tuttora vivente, è nato nel 1926 ad Amburgo in una famiglia protestante liberale alquanto secolarizzata, nella quale, a suo dire, Lessing, Goethe e persino Nietzsche erano più letti della Bibbia. I suoi interessi culturali adolescenziali erano focalizzati sulla fisica.

Prima però di potersi iscrivere all’università viene arruolato nella Wehrmacht e nel luglio 1943 visse, come addetto a una batteria contraerea, il violento bombardamento di Amburgo. Il commilitone che gli era accanto cadde, ucciso. Dopo una breve esperienza al fronte, venne fatto prigioniero nel 1945 e trascorse tre anni in prigione, prima in Belgio e poi in Scozia. In questi tre anni di prigionia nacque e si approfondì in lui l’interesse per la fede cristiana. Lesse intensamente la Bibbia, dialogò con compagni di prigionia e, perlopiù cristiani britannici, maturando una vocazione cristiana.moltmann1

Rientrato in Germania nel 1948, si iscrisse alla facoltà di teologia di Gottinga e prese la decisione di diventare pastore evangelico, pur non avendo alle spalle la educazione ecclesiastica e la frequentazione della chiesa allora necessari per i candidati al ministero. A Gottinga conobbe Elizabeth Wendel, come lui studentessa in teologia che diventò sua moglie, nonché partner decisiva del suo itinerario teologico.

Tra i docenti sono particolarmente importanti le figure di Otto Weber, discepolo di Karl Barth, e di Hans Joachin Iwand, esponente di rilievo della cosiddetta chiesa confessante negli anni del nazionalsocialismo. Diventato pastore, Moltmann prestò servizio nella comunità di Bremen-Wasserhorst. I cinque anni da pastore determinarono la sua attenzione nei confronti di quella che egli chiamò ‘teologia del popolo’, cioè l’interesse per le esigenze spirituali della cosiddetta ‘gente comune’, allora particolarmente provata dalla guerra e dalle sue conseguenze economiche.

Moltmann sottolineò spesso che la sua successiva produzione teologica è rimasta legata a questa esperienza pastorale. Egli non ha mai ritenuto di appartenere a quel tipo di teologi che intendono separare la cattedra dal pulpito, il che non è senza rapporto col dato di fatto che i suoi sono tra i testi teologici, senza alcun dubbio, più letti in assoluto in tutto il mondo. Il lavoro pastorale non gli impedì di conseguire il dottorato in teologia e, nel 1958, egli accettò l’incarico di docente nella facoltà riformata di Wuppertal. Qui nacque l’opera per cui è noto: ‘Teologia della speranza’.moltmann2

In quegli anni Moltmann si confrontò con la ‘teologia dell’Antico Testamento’ di Gerhard Von Rad, Walther Zimmerli, Hans Walter Wolff, Hans-Joachim Kraus e, naturalmente, con il pensiero di Rudolf Bultmann, allora dominante. Ma è soprattutto nel discepolo e critico di Bultmann, Ernst Käsemann, che egli trovò le idee esegetiche fondamentali per la sua opera teologica. Decisivo fu poi l’incontro con il pensiero del filosofo marxista Ernst Bloch.

Nel 1963 accettò la cattedra all’università di Tubinga, dove vi rimase fino al termine dell’insegnamento. Il suo lavoro accademico, che si condensò soprattutto nelle due opere ‘Il Dio crocifisso’ (1972) e ‘La chiesa nella forza dello Spirito’ (1975) era nutrito da una serie di esperienze culturali e spirituali. Menzioniamo anzitutto il dialogo tra cristiani e marxisti, nel quale veniva approfondita la valenza politica della fede cristiana, tema al quale Moltmann è rimasto molto sensibile. In questo quadro si colloca anche l’incontro con Johann-Baptist Metz, cattolico e allievo di Karl Rahner: insieme a lui elaborano una ‘teologia politica’ europea.moltmann4

Molto importante inoltre fu il confronto interconfessionale, condotto anche in quanto membro della commissione Fede e Costituzione del Consiglio ecumenico delle chiese (CEC). In tale sede e in tale veste Moltmann incontrò e approfondì, oltre a quella cattolica, la teologia ortodossa (in particolare nella persona del rumeno Dumitru Stǎniloae), che influenzò profondamente la seconda fase della sua produzione. Importante anche il dialogo con il pensiero ebraico (Franz Rosenzweig e Gershom Scholem soprattutto), in vista dell’elaborazione di una teologia ‘dopo Auschwitz’.moltmann3

Nel 1980 prese avvio quella che possiamo definire la seconda fase del pensiero moltmanniano. Se fino ad allora il teologo aveva svolto ‘l’intera teologia in un punto focale’ (di volta in volta: l’escatologia, la croce, un’ecclesiologia pneumatica), ora egli propose una ‘teologia in movimento, in dialogo, in conflitto’, percorrendo alcuni punti nodali della dogmatica cristiana nell’opera dal titolo ‘Contributi sistematici di teologia’, una serie di sei volumi dedicati rispettivamente: alla dottrina trinitaria, alla creazione, alla cristologia, alla pneumatologia, all’escatologia e al metodo teologico.

Si tratta di opere al tempo stesso molto dense e assai leggibili, non destinate soltanto al pubblico degli addetti ai lavori, come testimonia l’enorme successo editoriale dei suoi libri. La produzione scientifica del teologo fu accompagnata anche da un’intesa attività di conferenziere e dall’appassionata partecipazione alle vicende del proprio tempo: dalla contestazione studentesca, durante la quale egli criticò la legislazione di emergenza introdotta in Germania, alle lotte di liberazione, all’evoluzione dei rapporti Est-Ovest fino al crollo del muro di Berlino, fino all’imporsi del movimento delle donne e del femminismo.

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il vangelo della domenica commentato da p. Maggi

IL PUBBLICANO TORNO’ A CASA GIUSTIFICATO, A DIFFERENZA DEL FARISEO 

 

  commento al vangelo della trentesima domenica del tempo ordinario (29 ottobre 2016) di p. Alberto Maggi:Maggi

Lc 18,9-14

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Gesù, nel suo insegnamento ha presentato Dio come un Padre il cui amore non è attratto dai meriti delle persone, ma dai loro bisogni. E’ quanto esprime l’evangelista Luca nel capitolo 18, versetti 9-14. Leggiamo.
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola. E la parabola ha un indirizzo ben preciso, per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri. Quindi Gesù rivolge questo messaggio a coloro che si sentono giusti. Giusti significa – da un punto di vista religioso – coloro che si ritengono completamente a posto con Dio in base alla loro pratica religiosa, in base alla loro situazione, e per questo motivo disprezzano gli altri. E’ tipico delle persone religiose. 
Quanto uno si sente tanto a posto con Dio, si permette poi di giudicare, condannare e poi disprezzare gli altri. Ed è a questo tipo di persone, quindi le persone molto pie, molto religiose, che Gesù rivolge questa parabola.
“Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.” Gesù presenta gli opposti della società religiosa e civile dell’epoca. Il termine fariseo significa separato. Chi erano i farisei? Erano laici che si impegnavano ad osservare nella vita quotidiana tutti i precetti, le leggi e le osservanze prescritte nella legge.
Ne avevano estrapolate addirittura ben 613. Erano attenti a non mangiare nulla di impuro, erano scrupolosi osservanti del riposo del sabato. Erano i santi per eccellenza. Quindi il fariseo è la persona che si ritiene – ed è ritenuta – la più vicina a Dio.
All’opposto il pubblicano. Pubblicano viene da publicum, la cosa pubblica. Erano gli esattori del dazio; erano considerati ladri di professione, al servizio spesso dei dominatori pagani, erano considerati i trasgressori di tutti i comandamenti e avevano come un marchio di impurità per il quale per loro non c’era speranza alcuna di salvezza.
Anche se un domani un pubblicano si fosse convertito, lui non avrebbe più potuto cambiare mestiere e poi per lui non c’era nessuna speranza di salvezza.
Quindi Gesù presenta i due opposti. Il più vicino a Dio, e non il più lontano, ma addirittura l’escluso da Dio.
“Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé…” Letteralmente l‘evangelista scrive “pregava verso se stesso”. La preghiera del fariseo non è rivolta a Dio, ma lui ha fatto di se stesso il proprio Dio, il proprio idolo. La sua è un inutile sbrodolamento delle inutili virtù che Gesù non richiede, che Dio non richiede. Ed ecco la sua preghiera: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini”. Ecco la preghiera di questa persona che si ritiene giusta, che si ritiene un modello di santità, porta subito al giudizio e al disprezzo degli altri uomini. “Ladri, ingiusti, adùlteri, e (qui c’è proprio una punta di disprezzo) neppure come questo pubblicano.”
Cos’è che lo fa sentire tanto a posto con Dio, cos’è che lo fa ritenere tanto santo, tanto giusto? Quello che Dio non richiede. Le cose inutili. Infatti ora vedremo che questo fariseo elenca tutte azioni superflue, inutili e per questo nocive.
“Digiuno due volte alla settimana …” Il digiuno era comandato una volta all’anno, il giorno del perdono, ma le persone pie, come i farisei, digiunavano due volte la settimana, il lunedì e il giovedì, in ricordo della salita di Mosè sul monte Sinai e poi della sua discesa. Erano i giorni di digiuno.
“E pago le decime di tutto quello che possiedo”. La decima era una tassa che si pagava su certe derrate alimentari ma non su tutto. Lui, per scrupolo, offre tutto e paga tutto quanto. Notiamo che non elenca nessun atteggiamento benevolo e favorevole ai bisogni degli altri, tutto rivolto a se stesso e a Dio. C’è un fariseo che dice che come lui nessuno osservava la legge e che quando si è poi pentito – è San Paolo di Tarso – dirà che “Tutte queste prescrizioni hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità, e umiltà e mortificazione del corpo, ma il realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare l’egoismo, la carne”. San Paolo, che pure aveva sperimentato questo, dice che non servono a niente. Tutte queste devozioni, tutte queste pratiche religiose, non solo sono inutili, ma sono nocive perché non fanno altro che soddisfare il proprio io.
Nella lettera ai Filippesi San Paolo arriverà a dire che quando ha conosciuto il messaggio di Gesù tutte queste devozioni e pratiche che gli sembravano tanto importanti le ha considerate un escremento.
“Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo”. Si sente in colpa, sa che è un escluso da Dio. “Ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”, letteralmente “sii benevolo, mostrami la tua misericordia”. Il pubblicano mostra di avere fede. Lui sa che è in una situazione disperata, per lui non c’è perdono, per lui non c’è salvezza, ma nonostante questo – e qui sembra di sentire l’eco del Salmo 23 dove il salmista dice “anche se vado in una valle oscura tu sei con me” – dice “mostrami la tua misericordia”.
“Tu vedi Signore che vita faccio, non posso cambiare, questa è la mia situazione, tu la conosci. Ebbene, nonostante questo, mostrami il tuo amore e la tua misericordia”.
La conclusione di Gesù è sconcertante. “Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato”. All’inizio l’evangelista ha presentato quelle persone che si ritenevano “giusti” e ora parla di “giustificato” cioè a posto con Dio, in sintonia con Dio. Ma che cosa ha fatto? Non si è pentito. Non ha detto che cambia il suo comportamento, non ha detto nulla di tutto questo, ma ha chiesto al Signore di mostrargli la sua misericordia.
E il Dio di Gesù, il suo amore non lo dirige a chi lo merita, ma a chi ne ha bisogno.
“Perché chiunque si esalta (letteralmente si innalza) sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”. Quindi Gesù rovescia i paradigmi della società, quello che si riteneva più vicino a Dio per le sue pratiche religiose, per Gesù è il più lontano, perché non fa nulla per gli altri. Quello che conta per Gesù non è quello che si rivolge alla divinità, ma gli atteggiamenti di bene, di benessere che si fanno nei confronti degli altri. E soprattutto, a conclusione, Gesù ricorda che l’amore di Dio non è concesso come un premio per i propri meriti, ma come un regalo per i propri bisogni.

 

 

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