i poveri, i nostri maestri …

i poveri sono la porta santa

 

I poveri sono la porta santa 
di Tolentino Mendonça José,
teologo e scrittore porteghese

 

è vice rettore dell’Università Cattolica di Lisbona e Consulente del Pontificio Consiglio della Cultura. E’ autore e curatore editoriale di vari saggi e studi teologici

relazione tenuta ad Assisi il 19 settembre 2016 in occasione del meeting “SETE DI PACE – Religioni e Culture in dialogo” organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla diocesi di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino e dalle Famiglie Francescane ,”Panel 12: Religioni e poveri”povero2

Quando penso al contributo che l’esperienza religiosa dà nel presente e potrà dare, in un futuro prossimo, alla cultura, al tempo e al modo dell’esistenza umana, penso all’immenso patrimonio spirituale che nasce dall’amicizia con i poveri. I poveri spesso si siedono alle porte delle chiese. In realtà, essi non sono seduti davanti alla porta, ma sono loro la porta per arrivare a Dio, questo Dio che ci chiede sempre: “Dov’è tuo fratello?” (Gen 4,9). I poveri ci mostrano Dio. Essi sono testimoni e maestri della fede nella sua forma più concreta, perché sono gli ultimi, i piccoli, gli emarginati, i dimenticati, le vittime, quelli che senza voce gridano per la giustizia, gli affamati, quelli che possono contare solo su Dio. Le religioni non possono dimenticare mai la centralità dei poveri nella sua missione. I poveri sono la porta santa. Sono la più santa delle porte sante.  
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I poveri ci insegnano tanto sulla vita spirituale. Ci insegnano l’ascolto. L’ascolto non è soltanto apprendere il discorso verbale. Prima di tutto, è atteggiamento, chinarsi verso l’altro, è dedicargli la nostra attenzione, è disponibilità ad accogliere quello che è stato detto e non detto. Ascoltare significa offrire una spalla dove l’altro possa poggiare la mano, per alzarsi rapidamente. Poter essere ascoltati ci rilancia nel cammino. Uno dei testi che più impressionano sul valore dell’ascolto è il racconto Tristezza di Čechov. Descrive la storia di un vetturino, Iona, che ha perso un figlio e non trova, tra gli umani, nessuno disposto a confortarlo. «Sente il bisogno di raccontare come si è ammalato il figlio, le sue sofferenze, cosa disse prima di morire e come è morto … Sente il bisogno di descrivere il funerale, di raccontare quando è andato all’ospedale a cercare i vestiti del defunto. Nel villaggio è rimasta la figlia, Anissia… Vuole parlare anche di lei … » ma nessuno ascolta. Il vetturino si rivolge allora al suo cavallo e, mentre gli dà da mangiare comincia ad esporgli, in un lungo e dolente monologo, tutto quello che ha vissuto. Le ultime parole del racconto di Čechov sono queste: «Il cavallo continuò a masticare, mentre sembrava che ascoltasse, perché soffiava nella mano del suo padrone… Allora Iona, il vetturino, si animò e gli raccontò tutto ».  
I poveri ci insegnano la forza terapeutica della presenza: un semplice tocco aiuta a dissipare i turbamenti, tranquillizza un animo agitato e trasmette un conforto che nessuna macchina o farmaco può dare. Gesù, per esempio, va a toccare l’intoccabile. Tende la mano a coloro che è proibito toccare. Un uomo malato di lebbra spezza il cordone sanitario e si avvicina a Gesù per dire: “Signore, se vuoi, puoi sanarmi” (Lc 5,12). A quell’epoca i lebbrosi avevano l’obbligo di vivere lontano dagli abitati, separati dalla famiglia, in un distacco che serviva a evitare il contagio. Ebbene, Gesù non si limita alle parole: «Lo voglio», ma tende la mano e lo tocca (cfr. Lc 5,13). Preferisce correre il rischio del contagio, nel desiderio di toccare la ferita dell’altro; volendo condividere, come solo attraverso il tocco si condivide, quella sofferenza; aiutando a vincere l’ostracismo, interiorizzato con la separazione forzata. Cos’è che cura l’uomo? Cos’è che cura la donna che, in un altro punto del Vangelo, segue Gesù e lo tocca (cfr. Lc 8,43-48)? A curarli è certamente il potere di Dio che si manifesta in Gesù, ma in un processo dove la forma non è affatto indifferente. Li cura il fatto di sapersi toccati, e toccati nel senso di trovati, assunti, accettati, riconosciuti, riscattati, abbracciati. La mistica non è uno stato di impermeabilità, ma esattamente il suo contrario: una radicale porosità nei confronti della vita e degli altri. Una pelle, una presenza, un battito del cuore, un incontro, un’allegria condivisa con i poveri.povero

I poveri ci insegnano l’accoglienza di Dio.

Ricordo sempre questa storia:
C’era una volta un uomo devoto che, nella sua preghiera, chiese a Dio una cosa smisurata, ma che Dio immediatamente soddisfò. L’uomo chiese che Dio venisse a visitarlo nella sua casa. Avendo ottenuto il sì di Dio, l’uomo diede il via a grandi preparativi (pulizia, riparazioni, ornamenti…) per ricevere il suo Ospite. Nel giorno stabilito della visita, l’uomo si mise sulla soglia della porta di casa in attesa di Dio. La mattina presto venne un ragazzino che cercò, dalla finestra, di rubargli una mela sul tavolo, ma lui glielo impedì rimproverandolo duramente. A mezzogiorno un mendicante venne a disturbarlo con le sue richieste, ma lui gli spiegò che stava aspettando una visita illustre, di ritornare un altro giorno. Nel pomeriggio, un viaggiatore stanco gli chiese ospitalità, che lui gli negò, perché aspettava Dio. Soltanto Dio non venne. Per questo, quando scese la notte, anche l’uomo cadde in un grande sconforto. E durante la sua preghiera protestò con Dio che non aveva mantenuto la parola. Ma Dio gli rispose: “Per tre volte ho cercato di entrare in casa tua, ma tu stesso me l’hai impedito”.
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il commento di padre Maggi al vangelo della domenica

SE AVESTE FEDE! 

commento al vangelo della ventisettesima domenica del tempo ordinario (2 ottobre 2016) di p. Alberto Maggi: Maggi

Lc 17,5-10

In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

Gesù vuole traghettare i suoi discepoli dalla religione alla fede, da un rapporto con Dio basato sulla sottomissione, sull’obbedienza alle sue leggi, un rapporto che rende il credente un servo nei confronti del suo Signore, a un rapporto con il Padre basato sulla somiglianza e la pratica del suo amore. Un rapporto questo che rende il credente figlio di Dio.
Perché questo sia possibile – e Gesù più volte in questo vangelo di Luca che stiamo commentando ha invitato i suoi discepoli ad essere come il Padre, cioè ad essere buoni fino in fondo – bisogna che l’amore del discepolo raggiunga una qualità simile a quella di Dio. E qual è la qualità dell’amore di Dio? Quella che si esprime in un perdono senza condizioni.
Ecco perché allora … siamo al capitolo 17 di Luca, dal versetto 5 … Gesù afferma: “Se tuo fratello commetterà una colpa rimproveralo, ma se si pentirà, perdonagli”. E Gesù già prevenendo l’obiezione dice: “E se commetterà una colpa sette volte al giorno…”  –  numeri non indicano una quantità, ma una qualità –  “… contro di te, e sette volte a te ritornerà dicendo ‘sono pentito’, tu gli perdonerai”.
Questa ultima espressione l’evangelista l’adopera con un verbo imperativo. Quindi è un imperativo il dover perdonare chi commette qualche colpa. Il numero, come dicevo, non indica una quantità, ma la qualità. La qualità del tuo perdono, afferma Gesù, deve essere simile a quella di Dio.
Ed è a questo punto che gli apostoli intervengono con una domanda, con una affermazione completamente fuori posto. Gli apostoli dissero al Signore: “Accresci in noi la fede!”. Ma la fede non può essere accresciuta, non può essere data perché la fede non viene data da Dio. La fede non è un dono che Dio dà ad alcuni in grande misura, ad altri meno, ed ad altri per niente. La fede è la risposta degli uomini al dono d’amore che Dio fa a tutta l’umanità.
Chi risponde, questa è fede. Per cui accrescere o no non dipende da Dio, ma dipende dalla risposta dell’uomo. Ecco perché Gesù risponde: “Se aveste fede quanto un granello di senape…”, il granello di senape è proverbialmente il chicco più piccolo, minuscolo, quindi un niente,  “… potreste dire a questo gelso…” o sicomoro, qui la traduzione può essere gelso o sicomoro, una pianta che aveva radici talmente profonde che si pensava difficilmente sradicabile, era una pianta che, una volta piantata, durava per ben seicento anni.
“Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe”. Quindi Gesù sta dicendo che questi discepoli non hanno fede per niente, perché basterebbe un pizzico di questa fede. Ancora non hanno risposto al dono d’amore che Dio ha dato loro. Per questo Gesù propone un’alternativa. Se non accolgono la sua offerta di diventare figli di Dio, di avere un rapporto con il Padre basato sulla somiglianza al suo amore, restano nella condizione di servi di Dio, servi del loro Signore, basati sulla sottomissione.
Gesù in questo vangelo, nell’ultima cena affermerà: “Ecco io sono in mezzo a voi come colui che serve”. La novità portata da Gesù è che Dio non chiede di essere servito dagli uomini, ma è Dio che si mette lui a servizio degli uomini. E poco prima, nel capitolo 12, quasi come immagine dell’Eucaristia, Gesù aveva parlato di quel signore che tornava di notte nella sua casa e, trovando i servi ancora in piedi, cosa farà? Non si farà servire, ma si metterà lui a servirli.
Qui invece tutto il contrario.
“Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Esattamente il contrario di quello che Gesù aveva affermato nel capitolo 12. Lì era il signore che faceva mettere a tavola i suoi servi e passava a servirli. Qui dice tutto il contrario.
“Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? “ Cos’è questa contraddizione? Ebbene Gesù propone un’alternativa. O accogliete questa offerta d’amore di Dio e l’amore di Dio vi rende liberi e quest’amore si esprime attraverso il perdono incondizionato, o altrimenti rimanete nella condizione di servi verso il vostro Signore.
Ecco allora la conclusione di questo brano che spesso è stata equivocata quasi a significare l’inutilità dell’agire cristiano. “Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato… “ questo
verbo ordinare si riferiva all’osservanza della legge, “Dite: “Siamo servi inutili.”. Qui la traduzione non è esatta perché non sono servi inutili, avevano fatto quello che dovevano fare, non è vero che sono inutili. Meglio tradurre con “siamo semplicemente servi. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.
Ecco Gesù propone un’alternativa, lui non impone, ma offre. O si diventa figli di Dio, quindi pienamente liberi di amare di servire, o si rimane nella condizione di servi. Ma chi rimane nella condizione di servo non potrà mai sperimentare la libertà, la pienezza e la gioia che la comunione di Dio che si rivela come un Padre ai suoi può manifestare.

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