l’odio non è la al terrorismo

 

Tonio Dell’Olio

le reazioni di odio alimentano il terrorismo

intervista di Emanuela Citterio
Il presidente di Pro Civitate Christiana (nella foto accanto al Papa), spiega perché lavorare per la pace ha ancora senso, dopo l’attentato di Nizza. E racconta di quando ne parlò con Papa Francesco.
 
«Vivo ad Assisi e anche qui ci sono basiliche presidiate. Ci sono le transenne, la perquisizione, il mitra. Ma il terrorismo ha assunto modalità tali che pensare di affrontarlo con le armi è quanto meno una scelta miope. Ieri ne abbiamo avuto la prova eclatante, a Nizza». A parlare è Tonio Dell’Olio, sacerdote da sempre impegnato sul fronte della non violenza e dell’educazione alla pace. In questi giorni è stato nominato presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi, associazione laicale che opera ponendo la centralità del Vangelo di Gesù come chiave interpretativa della piena realizzazione dell’umano. Dell’Olio è stato responsabile del settore internazionale di Libera – associazioni nomi e numeri contro le mafie, coordinatore nazionale (1993 – 2005) e membro del consiglio nazionale (1993 – 2009) di Pax Christi – movimento cattolico internazionale per la pace. Ma ciò di cui porta ricordi incancellabili è la sua collaborazione, tra il 1985 e il 1993, con Tonino Bello, vescovo di Molfetta e presidente di Pax Christi.
 
Il Papa, di fronte alla strage di Nizza di ieri sera ha detto che si è trattato di un attacco alla pace. È ancora possibile, oggi, parlare di pace senza essere tacciati di buonismo? Di fronte a quanto accaduto ieri c’è chi invoca le “maniere forti” e la guerra…
 
In realtà siamo di fronte a un terrorismo che non colpisce obiettivi sensibili e non usa più nemmeno le armi. E nel momento in cui i terroristi sono identificati come persone che vivono in Europa, che non agiscono nemmeno seguendo ordini di catena con l’Isis, ma in modo autonomo se non spontaneo, bisogna ammettere l’evidenza, e cioè che il terrorismo non può essere affrontato “esclusivamente” con le armi e con mezzi tradizionali. Dovremmo invece cercare di tagliargli l’erba sotto i piedi.
 
In che modo?
 
Tutti gli sforzi di dialogo con il mondo islamico – o meglio, con i mondi islamici, che sono tanti e diversi – sono destinati a lungo termine a dare risultati maggiori.
 
Non è illusorio parlare di dialogo?
 
Sinceramente non vedo altra via. Le modalità dell’attentato di ieri sera ce ne hanno dato una prova eclatante. Va detto che nemmeno il pacifismo più radicale è contrario alla difesa, a un ordine pubblico che abbia il compito di contenere la violenza. Ma l’errore è alimentare la violenza con altra violenza, non provare a cercare vie alternative.
 
Oggi si sono scatenate le reazioni di odio nei confronti dell’Islam e degli immigrati, da parte di politici e della gente comune…
 
Per quanto possa sembrare paradossale queste reazioni danno carburante al terrorismo. Sia le reazioni istintive di pacia sia quelle che partono da un’analisi per arrivare alla condanna dell’Islam in quanto tale non fanno che offrire ragioni e motivazioni al terrorismo stesso. La vera alternativa è agire sul piano educativo, cercare di approfondire nelle scuole e nelle parrocchie, cominciare a costruire la convivenza da lì. E poi bisogna chiedere con forza alle moschee e gli imam parole ferme di condanna: questa potrebbe essere una delle chiavi di volta nel percorso di sconfitta del terrorismo, che durerà anni.
 
Il Papa è stato il primo a parlare di “Terza guerra mondiale a pezzi” fornendo un’interpretazione di tante guerre ed episodi di terrorismo di questi anni. Ma la sua sembra spesso una voce isolata.
 
Sento spesso papa Bergoglio. Siamo amici sin da quando era cardinale a Buenos Aires, continuiamo a sentirci e a confrontarci su questi temi, sul potere delle mafie, sulla non violenza. Sì, è stato lui a parlare di “terza guerra mondiale a pezzi”, ed è martellante la sua condanna sul traffico delle armi, su chi trae profitto dalle guerre e dal terrorismo. Ma molte cose le dice anche con la scelta dei suoi viaggi apostolici. Nei suoi confronti, del Papa, abbiamo un difetto di analisi: siamo attenti a quello che dice, perché siamo abituati così, e facciamo più fatica a leggere i segni. Una volta, chiacchierando con lui, gli ho citato una frase di don Tonino Bello, che diceva: “Di fronte a coloro che ostentano i segni del potere dobbiamo opporre il potere dei segni». «Esto me gusta!» esclamò d’un tratto. E dal viaggio a Lampedusa in poi sono stati tanti i segni fatti dal Papa. Credo che questa possa essere un’indicazione anche per noi. Opporre i segni alla violenza, metterli prima delle parole.
 
Ci può fare un esempio?
 
Di fronte alle prese di posizione a priori sugli immigrati, per esempio, ho constatato che non c’è altra via che la conoscenza personale. Da lontano sono stranieri, hanno un altro colore della pelle, ci rubano il lavoro, disturbano la nostra sicurezza e la nostra salute. Quando ne conosci uno, che ti dice dove stava, ti descrive il suo Paese raccontandoti anche le sue bellezze, un altro stile di vita, e quando ti dice il disagio di un viaggio nel deserto… Ho visto persone arrivate con idee ben precise e molto prevenute sciogliersi in lacrime. Credo che l’antidoto all’odio e alla paura nei confronti degli altri sia solo la conoscenza dei volti, delle biografie, delle storie dei migranti. Tra l’altro riconosceremmo la nostra, di storia. Se facessimo questo in tutte le parrocchie e le scuole credo che la convivenza con gli immigrati in Italia sarebbe molto diversa.
(Fonte: Mondoemissione)
NIZZA – Non dobbiamo cadere nella trappola dello scontro delle civiltà
Intervento di p. Giulio Albanese, missionario comboniano e giornalista
(estratto “Agorà-Estate” Raitre del 15.07.2016)
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solo l’inclusione sociale riuscirà a sconfiggere l’Isis

Bauman

che errore sovrapporre
il terrorismo all’immigrazione

lo studioso e filosofo polacco spiega che le prime armi dell’Occidente per sconfiggere Isis sono inclusione sociale e integrazione

«Solo la società nel suo insieme può farlo»

di Maria Serena Natale

Professor Bauman, nel dibattito europeo terrorismo e immigrazione si sovrappongono in una distorsione ottica che fa il gioco dei populisti e ostacola la percezione dei profughi come «vittime». Un meccanismo che sposta il discorso sul piano della sicurezza e legittima i governi a sbarrare le porte, come ha annunciato Varsavia subito dopo gli attentati di Bruxelles. Quali sono i rischi di questa operazione?

«Identificare il “problema immigrazione” con quello della sicurezza nazionale e personale, subordinando il primo al secondo e infine fondendoli nella prassi come nel linguaggio, significa aiutare i terroristi a raggiungere i loro obiettivi. Prima di tutto, secondo la logica della profezia che si auto-avvera, infiammare sentimenti anti-islamici in Europa, facendo sì che siano gli stessi europei a convincere i giovani musulmani dell’esistenza di una distanza insormontabile tra loro. Questo rende molto più facile convogliare i conflitti connaturati alle relazioni sociali nell’idea di una guerra santa tra due modi di vivere inconciliabili, tra la sola vera fede e un insieme di false credenze. In Francia, per esempio, malgrado non siano più di un migliaio i giovani musulmani sospettati di legami con il terrorismo, per l’opinione pubblica tutti i musulmani, e in particolare i giovani, sono “complici”, colpevoli ancor prima che il crimine sia stato commesso. Così una comunità diventa la comoda valvola di sfogo per il risentimento della società, a prescindere dai valori dei singoli, da quanto impegno e onestà questi mettano in gioco per diventare cittadini».

Mantenere una connessione vitale tra «società ospite» e immigrati è sempre più difficile in questo clima di sospetto reciproco. In Paesi che si scoprono inermi, come oggi il Belgio, è saltato il patto sociale sul quale si fondava la speranza dell’integrazione? 

«Dal punto di vista dei terroristi, quanto peggiori sono le condizioni dei giovani musulmani nelle nostre società, tanto più forti sono le possibilità di reclutamento. Se cade del tutto la prospettiva di una comunicazione trans-culturale e di un’interazione autentica tra etnie e religioni, si riduce al minimo anche la possibilità di un incontro diretto, del “faccia a faccia” con l’altro, di una reciproca comprensione. A questo si aggiunge la stigmatizzazione di interi gruppi in base a caratteristiche ritenute non sradicabili che li rendono diversi da “noi, i normali”. Ne consegue l’alienazione forzata di persone marchiate come anomale, bandite dal consesso al quale, apertamente o nella profondità dei loro cuori, vorrebbero aderire ma dal quale sono state ostracizzate senza diritto al ritorno, dopo essere state per di più costrette ad accettare il comune verdetto sulla loro inferiorità. Come se fossero loro a non aver saputo raggiungere lo standard richiesto per entrare nel club. Chi viene così stigmatizzato subisce un doloroso colpo al rispetto di sé, che porta senso di colpa e umiliazione. Lo stigma può essere anche percepito come un oltraggio immeritato, che richiede e giustifica una vendetta tanto forte da ribaltare il giudizio della società e re-impossessarsi del rispetto rubato».

Come ristabilire il contatto con questa parte della comunità, cosa può fare la politica?

«I governi non hanno interesse a placare le paure dei cittadini, piuttosto alimentano l’ansia che deriva dall’incertezza del futuro spostando la fonte d’angoscia dai problemi che non sanno risolvere a quelli con soluzioni più “mediatiche”. Nel primo genere rientrano elementi cruciali della condizione umana come lavoro dignitoso e stabilità della posizione sociale. Nel secondo, la lotta al terrore. Non c’è dubbio sul ruolo che la comunità musulmana deve giocare per combattere la radicalizzazione, dobbiamo comprendere però che solo la società nel suo insieme può sradicare la minaccia comune. Le prime armi dell’Occidente nella lotta contro il terrorismo sono inclusione sociale e integrazione».

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