il Dio di Gesù, un Dio totalmente nuovo

 

Più scopriremo e capiremo la figura di Gesù, più scopriremo e capiremo la figura del Padre

Un Dio talmente nuovo, talmente sconvolgente, che farà sì che poi Gesù verrà assassinato in nome di questo Dio.”

Alberto Maggi

Maggi

 

La frase che Giovanni scrive nel prologo al suo vangelo “Dio nessuno l’ha mai conosciuto, soltanto Gesù ne è stata la spiegazione” afferma che tutte le immagini di Dio che ci sono state presentate, sono tutte immagini parziali, immagini a volte false.

Tutto quello che c’è da vedere di Dio, si può vedere in Gesù. E ricordo la famosa domanda che Filippo ha fatto a Gesù: “Adesso mostraci il Padre e ci basta”. E Gesù gli dirà: “Filippo, chi vede me, vede il Padre”.

Che significa? Che non Gesù è come Dio, ma Dio è come Gesù.

Più scopriremo e capiremo la figura di Gesù, più scopriremo e capiremo la figura del Padre. Un Dio talmente nuovo, talmente sconvolgente, che farà sì che poi Gesù verrà assassinato in nome di questo Dio. […]

L’uomo non è creato a immagine e somiglianza di Dio, ma la creazione è qualcosa di esterno da Dio : l’uomo è generato dal Padre come figlio. Ma questa figliolanza non può essere imposta, è una proposta. Figli di Dio non si nasce, ma si diventa. So che nella espressione popolare comunemente si dice che siamo tutti figli di Dio. Non è vero. Figli di Dio non lo si è per nascita, ma per una scelta.

E qual è questa scelta?

L’accoglienza nell’esistenza di Gesù, la sua figura e il suo messaggio. Questo è il progetto di Dio sull’umanità. […]

Le prime battute del vangelo di Giovanni si aprono con una immagine stupenda. Un Dio talmente innamorato dell’umanità, talmente entusiasta della creazione che dice: è troppo poco questa vita che hanno, io li voglio innalzare e dare loro la mia dignità divina.

Il progetto di Dio sull’umanità, la sua volontà – non esistono altre volontà – è che ogni uomo diventi suo figlio, attraverso la pratica di un amore simile al suo.

Questa è la volontà di Dio. Non il Dio – basta leggere certi salmi, il salmo 14 – che si affaccia dalle nuvole e guarda la terra disgustato: tutti sono traviati, tutti compiono il male. Ma un Dio che guarda l’umanità e dice: che meraviglia, guarda come sono belli, ma che peccato che abbiano questa vita che si conclude con la morte. Io li voglio innalzare e regalare a loro la mia stessa condizione divina, dare a loro la qualità di figli di Dio.

Questo è il progetto di Dio sull’ umanità. Un progetto pienamente positivo, un progetto nel quale si intravede tutto l’ottimismo di Dio sull’umanità.  La volontà di Dio sull’umanità, che Gesù Cristo ci ha fatto conoscere, è che l’uomo è importante, tanto importane al punto che Dio lo vuole innalzare al suo livello e dargli la sua condizione divina.

Il progetto di Dio sull’umanità è che ogni uomo diventi Signore. Signore non significa avere dei sudditi a cui comandare. Signore significa non aver nessuno a cui obbedire. Il progetto di Dio sull’umanità è trasmetterci la sua stessa qualità divina in modo che come lui, noi non abbiamo nessuno a cui dover obbedire.

Il verbo obbedire, o il termine obbedienza, non ha diritto di cittadinanza nei Vangeli. E’ assente. C’è 5 volte il verbo obbedire, ma sempre riferito a elementi contrari all’uomo: il vento, il mare. Mai Gesù chiederà ai suoi discepoli di obbedirgli, mai Gesù chiederà ai discepoli di obbedire a Dio. Figuratevi se chiede ai discepoli di obbedire a qualcuno degli apostoli o dei discepoli.

L’obbedienza non fa parte del lessico evangelico, ma al posto dell’obbedienza Gesù inaugura la SOMIGLIANZA.

Noi non obbediamo né a Gesù Cristo, né a Dio, perché Gesù non ci chiede di obbedire né a lui, né al Padre, ma ci chiede insistentemente di assomigliargli. Nel Vangelo non troviamo mai l’invito di Gesù “obbedite al Padre”, ma abbiamo sempre quello di “siate come il Padre vostro”.

L’uomo realizza la sua condizione divina e quindi diventa Signore nella pratica di un amore simile al suo .

Il prologo del vangelo di Giovanni si conclude con questa espressione: “Dio nessuno l’ha mai visto, l’unico che ce l’ha fatto conoscere è Gesù”. Da questo momento tutta l’attenzione deve essere rivolta su Gesù.

Soltanto conoscendo Gesù si arriva a comprendere, a conoscere chi è Dio. Non bisogna partire da una immagine che abbiamo di Dio filosofica o religiosa e poi arrivare a Gesù. Ma eliminiamo ogni idea religiosa, filosofica di Dio, centriamoci su Gesù e tutto quello che crediamo di Dio e non corrisponde in Gesù, va eliminato.[…]

Gesù si presenta con l’attributo divino: “IO SONO…  il cammino, la verità e la vita” (Gv 14,6).

1. Il primo di questi tre aspetti, il cammino, è un termine di movimento, dinamico, non un termine statico. Gesù non si presenta come una realtà statica, ferma, immobile, da adorare, ma come un cammino da percorrere in un crescendo di verità e di vita. Gesù dice: “Io sono il cammino”. Camminiamo con Lui, camminiamo sulle sue tracce.

2. Camminando con Gesù si conosce cos’è la verità. La verità , nel vangelo di Giovanni, è la verità su Dio e sull’uomo. Chi è Dio? E’ un Dio innamorato dell’uomo. Chi è l’uomo? E’ l’oggetto di questo amore di Dio che lo rende suo figlio per la vita.

3. Camminando in questa pienezza della verità si scopre anche la vita e si diventa figli di Dio.

E continua Gesù: “Se voi mi conosceste, conoscereste anche il Padre” (Gv 14,7).

Non c’è una conoscenza del Padre che precede la conoscenza di Gesù, ma la conoscenza di Gesù – l’unica conoscenza – permette la conoscenza del Padre.

Il dramma, almeno della mia esperienza, il dramma di noi cristiani è che non conosciamo Gesù. Il dramma di noi cristiani è che ci hanno imbottito di catechismi, con regole, obblighi, osservanze, ma non ci hanno fatto fare l’esperienza della persona di Gesù.[…]

Nei Vangeli abbiamo un dato sconvolgente, sconcertante. Più le persone sono immerse in un ambito religioso, più le persone vivono di devozioni, di pie pratiche, di atteggiamenti irreprensibili nei confronti della legge di Dio, e più hanno difficoltà a percepire Dio quando si manifesta nella loro esistenza. Più le persone sono lontane da Dio, sia dal punto di vista religioso e sia dal punto di vista morale, e più riescono per primi a percepire la presenza di Dio nella loro vita. Verrebbe quasi da dire: allontaniamoci dalla religione, perché, chi vive in un ambito religioso, è impossibilitato a fare l’esperienza di Dio. Qui c’è Filippo, un ebreo, un giudeo, un praticante che sta con Gesù, ma ancora non ha capito che in Gesù si manifesta il volto del Padre, perché il Dio della religione è un Dio imbalsamato, non un Dio vivo. E’ un Dio da venerare, ma non è un Dio con cui camminare.

Gesù dice: “Da tanto tempo io sono con voi e tu non mi hai conosciuto?”. Ed ecco l’importante dichiarazione di Gesù: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9). Non chi conosce il Padre, conosce me. Chi ha visto me – dice Gesù – ha visto il Padre.

Cosa significa?

Come già si è espresso nel prologo, Gesù è l’unica fonte per conoscere Dio. Il Padre è  esattamente come Gesù: non Gesù è come Dio, ma Dio è come Gesù.

Cosa significa questo? Se io dico: Gesù è come Dio, significa che in qualche maniera ho un’idea di Dio. No, non Gesù è come Dio. Noi Dio non lo conosciamo. Ma Dio è come Gesù. Tutto quello che noi vediamo in Gesù e nelle sue azioni e nel suo insegnamento, questo è Dio . […]

Gesù allora dice: “Non credi che io sono nel Padre e il Padre in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me, ma il Padre che dimora in me compie le sue opere” (Gv 14,10).

Ecco il criterio sul quale ci soffermeremo : LE OPERE .

Non importa se non credete alle parole, perché le parole possono ingannare, bisogna guardare le opere. L’unico criterio di verità che c’è nei vangeli per stabilire se Gesù viene veramente da Dio o no, e se noi siamo in sintonia con lui o no, non sono le parole, le attestazioni di ortodossia e di fedeltà, ma le opere. E tutte le opere compiute da Gesù sono opere che comunicano e trasmettono vita.

Gesù,  è l’immagine di un Dio esclusivamente buono e ogni rapporto che ha con le persone, è esclusivamente quello della bontà.

Nota:

Il testo è tratto dalla  conferenza di Alberto Maggi dal titolo “Il Dio Impotente” del 15/01/2003 .

Il testo completo può essere scaricato da : http://www.studibiblici.it/index.html

 Dio è come Gesù ! – p. Alberto Maggi OSM



“lo racconterò a Dio stesso quello che mi hanno fatto”

“dirò cosa mi hanno fatto a Dio, gli dirò tutto”

le ultime parole di un bambino siriano

bambino siriano

“Dirò cosa mi hanno fatto a Dio, Gli dirò tutto” con queste parole strazianti è morto un bambino siriano di tre anni, vittima dei bombardamenti e della guerra che martirizza da anni il suo paese.
Nello scorrere le notizie del mondo, spesso ho guardato questa immagine e sono passata oltre, ma lui tornava e mi guardava e mentre scappavo da questa notizia, la sua frase mi straziava il cuore.
Ma sono tornata, e ancora oggi dopo qualche anno, è giusto urlare di nuovo il suo pianto, è giusto urlare al mondo quante atrocità hanno subito questi bambini e subiscono ancora oggi, sempre di più, tutti i bambini coinvolti nelle guerre.
Bambini che non hanno più niente, che non hanno più genitori, che hanno visto cose che occhi non dovrebbero mai vedere, che hanno sentito sulla loro tenera carne dolori atroci, nessuno più ha potuto abbracciarli, difenderli, calmarli, salvarli….e se ne sono andati così, tra le lacrime, tra l’ingiustizia, tra i sogni rubati…certi che, un giorno, una giustizia per tutto questo male… arriverà.

fonte qui 




il pasticcio leghista di allontanare il Crocifisso dai crocifissi

il crocifisso e lo stranierocroce fiorita

prendendo spunto da alcune vicende che hanno avuto luogo a Cascina, dove da poco è stata eletta sindaco un’esponente della Lega nord, il teologo don Severino Dianich  ha formulato  una riflessione sul rapporto tra certi segni esteriori della fede – come il crocifisso – e i comportamenti di accoglienza che dovrebbero caratterizzare sempre il cristiano

 
Il Crocifisso e lo straniero

Il suo ufficio ne era sprovvisto: Susanna Ceccardi, esponente della Lega, neo sindaca di Cascina, ha deciso di affiggere un crocifisso a una delle pareti del suo ufficio. Postando su facebook il gesto (vedi foto). Pochi giorni prima, in Prefettura, la Ceccardi aveva partecipato a una assemblea dei sindaci sull’accoglienza dei profughi. Ci sarebbero, infatti, nuovi profughi da ripartire sulla provincia di Pisa e la Prefettura chiede di innalzare le quote per ciascun comune. Rompendo il silenzio, la sindaca di Cascina aveva manifestato la sua contrarietà al fatto che «arrivino altri finti profughi nel nostro comune». I due gesti sono in contraddizione? Il teologo don Severino Dianich sostiene di sì e lo motiva in questo intervento:

di Severino Dianich

Dianich

Le chiese di altre regioni d’Italia da anni stanno sperimentando, come «caso serio» per la fede, il confronto con le tesi politiche di coloro che esibiscono la loro sedicente difesa della tradizione cristiana, intendendo bloccare l’accoglienza degli immigrati e dei profughi che fuggono dalle regioni funestate dalla persecuzione e dalla guerra. Il fenomeno sta ora coinvolgendo anche le comunità cristiane della nostra regione.

I drammi delle migrazioni di massa nel mondo, che agitano oggi, come del resto è avvenuto sempre, lungo tutta la storia, la vita sociale e politica delle nazioni, sono di grande complessità. È quindi inevitabile che anche i fra i credenti nel vangelo di Gesù si diano valutazioni diverse e si propongano soluzione assai differenziate. In questa legittima e feconda pluralità c’è però un limite, che il grande teologo Von Balthasar negli anni Sessanta avrebbe definito «il caso serio». Egli sostiene che è «caso serio» per la fede, dal quale non si può deflettere, la presa di posizione del credente di fronte alla croce: accettare che sia considerata un mito, un’analogia, un simbolo è una negazione del cristianesimo. È ciò che sta avvenendo quando si mette la difesa dell’identità dell’Europa sotto l’egida del crocifisso e, allo stesso tempo, si intendono sbarrare le porte della nostra terra di fronte alla tragedia di coloro che fuggono dalle loro case a causa della persecuzione e della guerra, con la pretesa di difendere in tal modo la «civiltà cristiana».

Il crocifisso attaccato alla parete, che nel passato rappresentava la fede nel vangelo di Gesù, viene trasformato nel simbolo di una identità etnica e culturale, diventa un puro oggetto che, al modo del logo di una corporation, dovrebbe avere la funzione di rappresentarne gli interessi. A questo punto il crocifisso affisso alla parete non ha più nulla a che fare con il Crocifisso. C’è un uomo, infatti, su quella croce, a cui si è tolta la parola, visto che Gesù vi fu inchiodato, fra gli altri motivi, anche perché ha voluto che il suo popolo rompesse i confini della sua antica identità di unico popolo di Dio e accettasse di diventare un popolo universale.

Anche in Israele al tempo di Gesù, in una situazione ben più tragica, si poneva la questione della preservazione dell’identità del popolo di Dio, l’Israele dalla grande tradizione della legge di Mosé, con la sua imposizione di non allacciare rapporti con lo straniero. Ma la predicazione di quel pretendente messia sembrava la mettesse in pericolo, con quel suo predicare che Dio ama tutti, al di là di ogni confine. Quando nella sinagoga di Nazaret Gesù volle ricordare che Eliseo aveva guarito Naaman il siriano, invece dei molti lebbrosi di casa sua, tutti i presenti «si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù» (Lc 4,20-29). Quando in seguito dirà: «Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio», le sue parole dovettero suonare pericolosamente sovversive, se «in quel momento si avvicinarono alcuni farisei a dirgli: “Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere”» (Lc 13,29-31).

Un’altra volta ancora, quando, raccontando la parabola della vigna e dei contadini ribelli, Gesù prospettò che «la vigna» potesse venir tolta agli ebrei e il regno di Dio essere dato ad altri popoli, proprio «in quel momento, gli scribi e i capi dei sacerdoti cercarono di mettergli le mani addosso» e, se non fu linciato in quella occasione, fu solo perché ebbero «timore della folla» (Lc 20,9-19). Certamente se ne saranno ben ricordati quando, seduti nel sinedrio, procederanno alla sua condanna. Per lui, invece, si trattava di un messaggio così decisivo, da avanzarlo come uno dei criteri con cui egli alla fine dei tempi giudicherà il mondo: «Ero straniero e non mi avete accolto» (Mt 25,43).

È quanto basta per ritenere, anche se non lo avesse detto il papa quando lo interrogarono a proposito dei progetti politici di Donald Trump, che «una persona che pensa soltanto a fare muri e non ponti, non è cristiana». Con tutto ciò, chi ne condivide l’impostazione avanzi le sue idee e se ne discuta liberamente nel dibattito politico, né i cristiani avranno alcun motivo per ritrarsene, partecipando liberamente e civilmente al confronto. Ma non possono accettare che si affigga il crocifisso sulla stessa parete sulla quale si progetta di affiggere le ordinanze necessarie per innalzare contro gli stranieri quelle barriere che il Crocifisso, quello in carne ed ossa, sacrificando la sua vita, volle fossero abbattute una volta per sempre.

 




gli italiani sono malati di mente, parola di psichiatra di valore

 

il professor Vittorino Andreoli:

“L’Italia è un Paese malato di mente

esibizionisti, individualisti, masochisti, fatalisti”


ITALIA PSICHIATRA

 

“L’Italia è un paziente malato di mente. Malato grave. Dal punto di vista psichiatrico, direi che è da ricovero. Però non ci sono più i manicomi”. Il professor Vittorino Andreoli, uno dei massimi esponenti della psichiatria contemporanea, ex direttore del Dipartimento di psichiatria di Verona, membro della New York Academy of Sciences e presidente del Section Committee on Psychopathology of Expression della World Psychiatric Association ha messo idealmente sul lettino questo Paese che si dibatte tra crisi economica e caos politico e si è fatto un’idea precisa del malessere del suo popolo. Un’idea drammatica. Con una premessa: “Che io vedo gli italiani da italiano, in questo momento particolare. Quindi, sia chiaro che questa è una visione degli altri e nello stesso tempo di me. Come in uno specchio”.

Quali sono i sintomi della malattia mentale dell’Italia, professor Andreoli?
“Ne ho individuati quattro. Il primo lo definirei “masochismo nascosto”. Il piacere di trattarsi male e quasi goderne. Però, dietro la maschera dell’esibizionismo”.

Mi faccia capire questa storia della maschera.
“Beh, basta ascoltare gli italiani e i racconti meravigliosi delle loro vacanze, della loro famiglia. Ho fatto questo, ho fatto quello. Sono stato in quel ristorante, il più caro naturalmente. Mio figlio è straordinario, quello piccolo poi…”.

Esibizionisti.
“Ma certo, è questa la maschera che nasconde il masochismo. E poi tenga presente che generalmente l’esibizionismo è un disturbo della sessualità. Mostrare il proprio organo, ma non perché sia potente. Per compensare l’impotenza”.

Viene da pensare a certi politici. Anzi, a un politico in particolare.
“Pensi pure quello che vuole. Io faccio lo psichiatra e le parlo di questo sintomo degli italiani, di noi italiani. Del masochismo mascherato dall’esibizionismo. Tipo: non ho una lira ma mostro il portafoglio, anche se dentro non c’è niente. Oppure: sono vecchio, però metto un paio di jeans per sembrare più giovane e una conchiglia nel punto dove lei sa, così sembra che lì ci sia qualcosa e invece non c’è niente”.

Secondo sintomo.
“L’individualismo spietato. E badi che ci tengo a questo aggettivo. Perché un certo individualismo è normale, uno deve avere la sua identità a cui si attacca la stima. Ma quando diventa spietato…”.

Cattivo.
“Sì, ma spietato è ancora di più. Immagini dieci persone su una scialuppa, col mare agitato e il rischio di andare sotto. Ecco, invece di dire “cosa possiamo fare insieme noi dieci per salvarci?”, scatta l’io. Io faccio così, io posso nuotare, io me la cavo in questo modo… individualismo spietato, che al massimo si estende a un piccolissimo clan. Magari alla ragazza che sta insieme a te sulla scialuppa. All’amante più che alla moglie, forse a un amico. Quindi, quando parliamo di gruppo, in realtà parliamo di individualismo allargato”.

Terzo sintomo della malattia mentale degli italiani?
“La recita”.

La recita?
“Aaaahhh, proprio così… noi non esistiamo se non parliamo. Noi esistiamo per quello che diciamo, non per quello che abbiamo fatto. Ecco la patologia della recita: l’italiano indossa la maschera e non sa più qual è il suo volto. Guarda uno spettacolo a teatro o un film, ma non gli basta. No, sta bene solo se recita, se diventa lui l’attore. Guarda il film e parla. Ah, che meraviglia: sto parlando, tutti mi dovete ascoltare. Ma li ha visti gli inglesi?”.

Che fanno gli inglesi?
“Non parlano mai. Invece noi parliamo anche quando ascoltiamo la musica, quando leggiamo il giornale. Mi permetta di ricordare uno che aveva capito benissimo gli italiani, che era Luigi Pirandello. Aveva capito la follia perché aveva una moglie malata di mente. Uno nessuno e centomila è una delle più grandi opere mai scritte ed è perfetta per comprendere la nostra malattia mentale”.

Torniamo ai sintomi, professore.
“No, no. Rimaniamo alla maschera. Pensi a quelli che vanno in vacanza. Dicono che sono stati fuori quindici giorni e invece è una settimana. Oppure raccontano che hanno una terrazza stupenda e invece vivono in un monolocale con un’unica finestra e un vaso di fiori secchi sul davanzale. Non è magnifico? E a forza di raccontarlo, quando vanno a casa si convincono di avere sul serio una terrazza piena di piante. E poi c’è il quarto sintomo, importantissimo. Riguarda la fede…”.

Con la fede non si scherza.
“Mica quella in dio, lasciamo perdere. Io parlo del credere. Pensare che domani, alle otto del mattino ci sarà il miracolo. Poi se li fa dio, San Gennaro o chiunque altro poco importa. Insomma, per capirci, noi viviamo in un disastro, in una cloaca ma crediamo che domattina alle otto ci sarà il miracolo che ci cambia la vita. Aspettiamo Godot, che non c’è. Ma vai a spiegarlo agli italiani. Che cazzo vuoi, ti rispondono. Domattina alle otto arriva Godot. Quindi, non vale la pena di fare niente. E’ una fede incredibile, anche se detta così sembra un paradosso. Chi se ne importa se ci governa uno o l’altro, se viene il padre eterno o Berlusconi, chi se ne importa dei conti e della Corte dei conti, tanto domattina alle otto c’è il miracolo”.

Masochismo nascosto, individualismo spietato, recita, fede nel miracolo. Siamo messi malissimo, professor Andreoli.
“Proprio così. Nessuno psichiatra può salvare questo paziente che è l’Italia. Non posso nemmeno toglierti questi sintomi, perché senza ti sentiresti morto. Se ti togliessi la maschera ti vergogneresti, perché abbiamo perso la faccia dappertutto. Se ti togliessi la fede, ti vedresti meschino. Insomma, se trattassimo questo paziente secondo la ragione, secondo la psichiatria, lo metteremmo in una condizione che lo aggraverebbe. In conclusione, senza questi sintomi il popolo italiano non potrebbe che andare verso un suicidio di massa”.

E allora?
“Allora ci vorrebbe il manicomio. Ma siccome siamo tanti, l’unica considerazione è che il manicomio è l’Italia. E l’unico sano, che potrebbe essere lo psichiatra, visto da tutti questi malati è considerato matto”.

Scherza o dice sul serio?
“Ho cercato di usare un tono realistico facendo dell’ironia, un tono italiano. Però adesso le dico che ogni criterio di buona economia o di buona politica su di noi non funziona, perché in questo momento la nostra malattia è vista come una salvezza. E’ come se dicessi a un credente che dio non esiste e che invece di pregare dovrebbe andare in piazza a fare la rivoluzione. Oppure, da psichiatra, dovrei dire a tutti quelli che stanno facendo le vacanze, ma in realtà non le fanno perché non hanno una lira, tornate a casa e andate in piazza, andate a votare, togliete il potere a quello che dice che bisogna abbattere la magistratura perché non fa quello che vuole lui. Ma non lo farebbero, perché si mettono la maschera e dicono che gli va tutto benissimo”.

Guardi, professore, che non sono tutti malati. Ci sono anche molti sani in circolazione. Secondo lei che fanno?
“Piangono, si lamentano. Ma non sono sani, sono malati anche loro. Sono vicini a una depressione che noi psichiatri chiamiamo anaclitica. Penso agli uomini di cultura, quelli veri. Che ormai leggono solo Ungaretti e magari quel verso stupendo che andrebbe benissimo per il paziente Italia che abbiamo visitato adesso e dice più o meno: l’uomo… attaccato nel vuoto al suo filo di ragno”.

E lei, perché non se ne va?
“Perché faccio lo psichiatra, e vedo persone molto più disperate di me”.

Grazie della seduta, professore.
“Prego”.




se si torna a parlare di utopia è segno buono …

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Convegno sull’utopia. Il cambiamento: radicale e possibileconvegno sull’utopia

il cambiamento: radicale e possibile


Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 23 del 25/06/2016
Il potere dominante ha imposto, dalla fine degli anni ’70, una narrazione della vita e del mondo “in nome del denaro” – fondata su utilitarismo, competitività, ricchezza per pochi, violenza, cinismo, predazione della natura, furto dei beni comuni – ed ha inoltre convinto che non esiste un’alternativa a questo sistema. “Utopia” è il nome con cui si tacciano proposte che puntano in tutt’altra direzione. Noi vogliamo l’utopia, vogliamo credere che un mondo più fraterno, pacifico e sostenibile sia possibile. La storia è costellata di esempi della realizzazione di esperienze considerate da molti impossibili. Ed è con questo spirito che ci avviciniamo al 500° anniversario della pubblicazione del libro Utopia di Tommaso Moro.

“Ripensare l’utopia: da immaginario dell’inesistente e dell’impossibile a progetto di cambiamento radicale da realizzare”

è il titolo che abbiamo pensato per la prima parte della conferenza nazionale sull’utopia, in programma il 14 e 15 ottobre a Sezano (Vr).Obiettivi e organizzazione Oggi attendiamo una nuova era di “costruttori” (e non di distruttori), di cittadini (e non di predatori), coscienti di essere abitanti della Terra (e non “consumatori” delle risorse del pianeta), uniti nell’uguaglianza dei diritti fra tutti gli esseri umani, nel rispetto delle differenze fra tutti i popoli, e nella cura della grande comunità di vita che è la «casa comune» della Terra. Abbiamo bisogno di cittadini audaci, convinti dell’urgenza di mettere fine al sistema finanziario attuale che uccide; di sradicare i fattori strutturali che generano impoverimento, esclusione, marginalizzazione, rifiuto degli altri; di mettere al bando le guerre che continuano a distruggere il senso del vivere insieme. Per questo abbiamo intitolato la conferenza “Incontro con l’audacia mondiale”. La conferenza nazionale è curata dall’Università del Bene Comune, dal Monastero del Bene Comune e dalla Comunità degli Stimmatini di Sezano (Vr) – sulla scia dell’iniziativa internazionale “Dichiariamo Illegale la Poverta-Banning Poverty 2018” (Dip) – in collaborazione con altre organizzazioni della società civile, parte integrante del “popolo dell’utopia in azione”: Adista, altrapagina, Altramente, Centro Pace, Cercasi un fine, Cipsi, Combonifem, Comitato Acqua Bene Comune Campania, Comitato Acqua Bene Comune Puglia, Dip (Bolzano), Dip (Napoli), Labsus, Nigrizia, No Tav (Susa), Pressenza, Rete Radié Resch, Transform Italia, Università Invisibile.L’obiettivo della conferenza è dare cittadinanza e dignità alla capacità utopica e lo faremo attraverso due momenti simbolici: primo, i laboratori delle culture e pratiche utopiche, che faranno seguito alla presentazione del libro collettivo Ripensare l’utopia (che ho curato personalmente e che si avvale delle testimonianze di Achille Rossi, Jean-Pierre Wauquier, Bruno Amoroso, Cristina Bertelli, Roberto Mancini, Francesco Comina, Roberto Musacchio, Antonia Romano, Silvano Nicoletto, Olivier Turquet, ecc.). Il secondo momento prevede invece la proclamazione di tre dottori honoris causa in Utopia: la Cooperativa “New Hope”, di Caserta, un’occasione per le giovani donne immigrate di crescere nella loro dignità di persone, partecipando pienamente alla vita sociale del nostro Paese, senza correre il rischio di venire nuovamente sfruttate o costrette al lavoro nero e sottopagato; il militante pacifista tedesco Jurgen Gaesslin, noto per le sue battaglie contro il commercio mondiale delle armi; e Bernard Tirtiaux, artista belga, vetraio, scultore, scrittore, drammaturgo. L’attribuzione di questo singolare titolo è stato introdotto nel 2009 dall’Università del Bene Comune, unica nel suo genere, perché la tendenza prevalente è quella di trasformare le università in grandi centri di formazione alla gestione dei saperi e delle competenze e alla loro valorizzazione economica, commerciale, industriale e tecnocratica. Il popolo dell’utopia in festa La conferenza si concluderà con una cena (“La Festa dell’Utopia”) curata dal maestro chef Fulvio De Santa, il quale inventerà delle pietanze ispirate al tema dell’utopia. Saremo in molti a Sezano per questo importante evento. Contiamo su ciascuno di voi. Diffondete l’informazione e portate con voi amici e conoscenti. I grandi cambiamenti sociali nascono sotto la pressione della sofferenza, delle discriminazioni, delle violenze, ma si nutrono di coraggio e operano nella gioia. Solo le esclusioni e le violenze sono perpetrate dai tristi. Le buone rivoluzioni no.



quelli che da lontano ci sembrano stranieri da vicino …

visti da lontano e visti da vicino

Tonio Dell’Olio

Tonio Dell'Olio

Visti da lontano, gli stranieri che giungono in Italia perché scappano dalla guerra o dalla violazione dei diritti umani più elementari o per fame, sono quelli che vengono a mettere in pericolo la nostra sicurezza o la nostra salute, sono quelli che “potrebbero starsene a casa loro” o che “vengono a rubarci il lavoro”. Quando li incontri guardandoli negli occhi e hai il coraggio di ascoltare i loro racconti, ti rendi conto che non sono nati esattamente a Lampedusa ma che la loro sconfitta ha radici lontane. Hanno un nome e una storia. Una vita. Conosci le condizioni del Paese da cui partono. Capisci che nessuno avrebbe voluto lasciare affetti, tradizioni e progetti. Comprendi almeno un poco il dramma delle traversate del deserto e del mare su barche di fortuna e le violenze che hanno dovuto subire da parte di polizie corrotte e di uomini senza scrupolo. Finalmente vedi la tua immagine riflessa in quella di un uomo. Visto da vicino non è più un immigrato, un irregolare, un clandestino. Abita a pieno titolo la tua stessa umanità. Sono motivi più che sufficienti per favorire l’incontro degli stranieri in Italia con le scuole, le parrocchie, le famiglie e i centri di aggregazione per sconfiggere i pregiudizi e il disprezzo, l’ignoranza e il razzismo.




“saranno le migrazioni e decidere il destino dell’Europa”

contro l’Europa del sospetto

intervista a Zygmunt BaumanZygmunt Bauman1

a cura di Fulvio Scaglione

 

Saranno le migrazioni e decidere il destino dell’Europa? La domanda, che sarebbe parsa avventata solo poco tempo fa, domina oggi il dibattito politico come le discussioni quotidiane. Il referendum sulla Brexit è stato in gran parte giocato su questo tema. E così anche la campagna elettorale per le elezioni presidenziali austriache, che la Corte Costituzionale ha deciso di far ripetere. Due momenti di scelta che hanno spaccato a metà Gran Bretagna e Austria e hanno di colpo rivelato la precarietà dell’assetto istituzionale comunitario. 

Il professor Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo, è il più acuto studioso della società postmoderna e ha raccontato in pagine memorabili l’angoscia dell’uomo contemporaneo, trasformatosi da produttore in consumatore. La sua metafora della “società liquida” (in cui l’individuo è sempre più costretto ad adeguarsi ai comportamenti dei gruppi per non sentirsi escluso) è ormai diventata proverbiale. Nato in Polonia da genitori ebrei, Bauman conobbe da ragazzo l’esperienza della fuga davanti alla persecuzione e dell’esilio. Forse anche per questo il suo punto di vista sull’incontro-scontro tra migranti ed Europa è originale e contro corrente.

«Oggi si fa spesso confusione tra fenomeni assai diversi», dice Bauman. «Uno è l’emigrazione-immigrazione, da un luogo verso un altro luogo. Tutt’altra cosa è la migrazione: che muove da un luogo, certo, ma verso dove? I due fenomeni hanno radici molto diverse ma effetti molto simili, perché simili sono le condizioni psicosociali dei luoghi di approdo. Umberto Eco, ben prima dell’attuale panico da migrazioni, notò nei suoi Cinque scritti morali che l’immigrazione può essere controllata, limitata, pianificata o accettata, mentre questo non è il caso delle migrazioni. Come tutti i fenomeni naturali, le migrazioni non possono essere controllate. Eco si faceva allora una domanda cruciale: è ancora possibile distinguere l’immigrazione dalla migrazione, quando l’intero pianeta sta diventando teatro di un incessante spostamento incrociato di popoli? E si rispondeva: l’Europa diventerà un continente multirazziale o “colorato”, che ci piaccia o no».

Zygmunt Bauman

Secondo molti studi, per esempio quelli del Pew Research Center di Washington, oggi gli europei sono i più ostili ai migranti. Come si spiega questo, in un continente che nel passato anche recente ha mandato migranti in tutto il mondo?
«Oggi gli europei hanno paura del futuro, hanno perso la fiducia nella capacità collettiva di mitigarne gli eccessi e renderlo più amichevole. La parola “progresso”, che ancora usiamo per inerzia, evoca emozioni opposte a quelle che sentiva Immanuel Kant quando coniò il termine. Il pensiero del futuro, oggi, desta in noi più spesso l’idea di una catastrofe imminente che non quella di una vita più confortevole. E lo straniero rappresenta tutto ciò che di instabile e imprevedibile c’è nella nostra vita. Per questo guardiamo ai migranti come a un segno visibile e tangibile della fragilità del nostro benessere e delle sue prospettive. Come direbbe il filosofo Michael Walzer, è sempre in primo luogo contro gli stranieri che i residenti di un quartiere “si organizzeranno per difendere le loro politiche e culture locali” e proveranno a trasformarlo in un “piccolo Stato”. Però è assai difficile, per non dire impossibile, costruire uno Stato futuro libero da stranieri. Quindi l’immagine-guida di questo sforzo viene quasi sempre recuperata dal passato. Il passato com’era ma, ancor più spesso, come può essere immaginato: tutto “nostro”, senza sfumature, non ancora intaccato dall’importuna vicinanza degli “altri”. È la reazione tipica della politica che, quando perde la capacità di dar forma al futuro, tende a trasferirsi nello spazio della memoria collettiva, che può essere facilmente manipolata e dà una sensazione di beata onnipotenza. È un’illusione? Sì, certo. Ma è un’illusione che tiene a galla un numero sempre crescente di noi europei».

Eppure per giustificare l’ostilità nei confronti dei migranti si adducono questioni economiche. In sostanza: non abbiamo i soldi per accoglierli.
«Le ragioni psicosociali e culturali vengono travestite da ragioni economiche per renderle più “razionali” e quindi “politicamente corrette”. Le ricerche più serie mostrano che gli immigrati contribuiscono alla ricchezza del Paese d’arrivo più di quanto prendano in termini di servizi sociali. Altri studi, oltre alle conclusioni del comune buonsenso, mostrano che la diffidenza nei confronti di immigrati e migranti è maggiore laddove ce n’è un numero minore. Nella campagna referendaria per la Brexit i residenti delle aree con meno immigrati hanno votato per portare la Gran Bretagna fuori dall’Europa. Londra, città di infinite diaspore culturali ed etniche, ha votato per restare. Il sospetto quindi è che l’ostilità verso gli “alieni” sia generata soprattutto dal non avere avuto l’opportunità di sviluppare la capacità di interagire con le differenze. Mancando questa, è facile che gli stranieri diventino il simbolo delle forze, reali ma lontane e ignote, che regolano l’andamento del mondo e generano quel sentimento di precarietà che angoscia tanti europei».

L’Europa e altre parti del mondo si stanno riempiendo di muri. Non è straordinario che di fronte a fenomeni così complessi ci si affidi a strumenti così primitivi?
«Viviamo la crisi della separazione tra potere e politica: i poteri si affrancano dal controllo della politica e la politica perde così il più importante tra i presupposti per produrre azioni effettive. Ma sopra questa crisi ce n’è un’altra, l’incongruenza segnalata dal sociologo Ulrich Beck: viviamo già in una condizione cosmopolita di interdipendenza e scambio a livello planetario, ma la nostra consapevolezza cosmopolita è ancora ai primi vagiti. Il sociologo americano William Fielding Ogburn nel 1922, in piena epoca colonialista e imperialista, coniò l’espressione “ritardo culturale” per descrivere il disagio dei “selvaggi” che erano esposti a una forte pressione verso la modernizzazione ma erano ancora innocenti rispetto alla mentalità moderna. È come se oggi fossimo noi europei a portare il bastoncino nella corsa a staffetta tra i continenti, il che genera ansia. Il mercato, sotto forma di merci e di beni, ci offre un’ampia gamma di antidepressivi e anti-tutto. Vuole spingere ognuno di noi a ritagliarsi una piccola nicchia consolante e ben attrezzata. Ognuno per sé e gli altri si arrangino. Così ci accecano rispetto alla natura del nostro problema invece di aiutarci a sradicarne le cause».

E per aiutare la gente, invece, ad aprire gli occhi?
«C’è una personalità assai determinata nel sollevare certe questioni, ed è papa Francesco. Che lo fa, peraltro, senza pretendere di avere la bacchetta magica ma, al contrario, invitando a fare sforzi giusti ma che potrebbero anche fallire. C’è un passo del discorso che tenne il 6 maggio 2016, al conferimento del Premio Carlomagno, che andrebbe imparato a memoria: “Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. È urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro, portando avanti la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni (Evangelii gaudium, 239). La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione”. Papa Francesco vuole sottrarre le sorti della pacifica convivenza ai politici di professione e al reame oscuro della politica per portarle nelle strade, tra i negozi e gli uffici, negli spazi pubblici dove noi tutti ci incontriamo. Vuole affidare le speranze del genere umano non ai generali dello “scontro di civiltà” ma a noi soldati semplici della vita quotidiana. Perché questo accada, però, devono realizzarsi anche altre condizioni e il Papa ce le ricorda: “La giusta distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è mera filantropia. È un dovere morale. Se vogliamo pensare le nostre società in un modo diverso, abbiamo bisogno di creare posti di lavoro dignitoso e ben remunerato, specialmente per i nostri giovani. Ciò richiede la ricerca di nuovi modelli economici più inclusivi ed equi, non orientati al servizio di pochi, ma al beneficio della gente e della società. E questo ci chiede il passaggio da un’economia liquida a un’economia sociale”. Ho una sola parola da aggiungere: amen».

(Avvenire, 13 luglio 2016)




il commento al vangelo della domenica

CHIEDETE E VI SARA’ DATO  

 

commento al vangelo della domenica diciassettesima del tempo ordinario (24 luglio 2016) di p. Alberto Maggi:

Maggi

Lc 11,1-13

Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite:
“Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”».
Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».

L’unica preghiera insegnata da Gesù, il Padre Nostro, ci è giunta in tre versioni differenti tra loro. Questo perché gli evangelisti non intendevano trasmettere le parole esatte di Gesù, ma il suo profondo significato.
 Del Padre Nostro abbiamo quindi una versione in Matteo, la più lunga, poi una versione più breve, questa di Luca che ora commenteremo al capitolo 11, e poi nel primo catechismo della chiesa che si chiama Didaché, una parola greca che significa “insegnamento”.
Ma pur essendo differenti queste tre versioni tutte contengono un mistero che adesso cercheremo di affrontare. Allora vediamo questa unica preghiera insegnata da Gesù e vediamo la sua importanza. Gesù ai discepoli che gli chiedono di insegnare loro a pregare dice: “Quando pregate, dite: “Padre …” Verso Dio non si rivolge usando quei formulari cerimoniali liturgici in cui Dio veniva esaltato con tutti i suoi nomi (tipo “altissimo”). No. Gesù si rivolge a Dio chiamandolo Padre, perché questo è il rapporto che lui è venuto ad inaugurare con i suoi: la relazione di un padre con un figlio.
E teniamo presente che in quella cultura il padre è colui che trasmette la vita, quindi è la fonte della vita. E la prima richiesta che si fa: “Sia santificato il tuo nome”. Il verbo “santificare” ha il significato di consacrare, separare, ma quando è rivolto a Dio significa riconoscere quello che è.
Allora la prima richiesta che la comunità dei credenti rivolge al Padre è “venga riconosciuto questo tuo nome”, cioè che la gente ti conosca come un Padre, e in questo brano del vangelo Gesù dirà che il Padre fa incontro ai bisogni dei suoi figli, il Padre addirittura li precede perché il Padre ha a cuore la vita e la felicità dei suoi figli. Allora la comunità chiede questo tuo nome, con il quale noi ti abbiamo conosciuto e che stiamo sperimentando – Padre – venga riconosciuto.
L’altra petizione: “Venga il tuo regno”. “Venga il tuo regno” non ha il significato di chiedere qualcosa che non c’è e quindi deve venire, il significato del verbo è “si estenda, si allarghi questo tuo regno”. Il regno, il regno del Padre c’è già. Gesù, nel proclamare le beatitudini, aveva proclamato beati i poveri perché di essi è il regno di Dio. Il regno di Dio non è l’aldilà, ma una società alternativa dove al posto di accumulare per sé si condivida generosamente con gli altri, dove al posto di comandare si serva.
Allora, attraverso la fedeltà alle beatitudini, la comunità chiede che si estenda questa esperienza del regno. E qui in mezzo c’è un versetto di difficile traduzione, perché contiene una parola greca che nella lingua greca semplicemente non esiste. E’ quello che noi traduciamo con “dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano”. L’evangelista scrive – cerco di tradurre letteralmente dal testo – “il pane nostro quello …” e poi c’è questa parola greca che nella lingua greca non esiste … “dallo a noi ogni giorno”.
San Girolamo, il primo traduttore del vangelo, di fronte a questo termine che non c’è nella lingua greca, fece una scelta. Nel vangelo di Matteo lo tradusse con “super-super-stantialem”, che significa un pane che va al di là della sostanza. Nel vangelo di Luca invece lo tradusse con “quotidiano”. Poi la chiesa nella versione liturgica ha scelto la versione di Matteo, ma anziché super-super-stantialem, difficile da pronunciare e da comprendere, ci ha messo quotidiano.
E’ una scelta che provoca tanti danni, perché con questa scelta sembra quasi che si debba chiedere a Dio il pane da mangiare, il pane che nutre gli uomini. No, il pane che nutre gli uomini è compito degli uomini procurarlo e condividerlo con chi non ne ha. Questo è un pane speciale perché viene richiesto a Dio. Probabilmente la traduzione “super-super-stantialem” era quella esatta. Chi è questo pane? Questo pane è la presenza di Gesù al centro della comunità, come è al centro del Padre Nostro, Gesù come   alimento, come parola che alimenta la vita e come pane, il pane dell’Eucaristia che dona la forza di vivere questa parola. Quindi non si richiede il pane. Gesù aveva detto: “Non vi affannate, non state in ansia su cosa mangerete o cosa berrete! A queste cose pensano i pagani. Se viene richiesto a Dio è perché è la presenza del Signore come alimento di vita.
Poi la clausola “e perdona”, cioè letteralmente cancella, “a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo” – cancelliamo – “a ogni nostro debitore”. Dio ci perdona, ma il suo perdono diventa efficace e operativo nel momento che si traduce in perdono per gli altri.
Poi l’ultima delle invocazioni, anche questa tradotta male, specialmente in Matteo, ha provocato tanti problemi … il famoso “non ci indurre in tentazione”! Ora la traduzione ha migliorato. “Non abbandonarci alla tentazione”, letteralmente alla prova.
Qual è questa prova alla quale la comunità chiede di non essere abbandonata? E’ la prova nella quale ha fallito. Gesù nell’orto degli ulivi aveva chiesto ai discepoli: “Pregate per non entrare nella prova, per non cedere alla prova”. La prova era quella di Gesù che veniva catturato come un malfattore, che finiva assassinato come un delinquente, come un maledetto da Dio, una prova che ha messo in crisi la comunità. Allora Gesù chiede in questa preghiera alla comunità di chiedere di rimanere forti nel momento della prova, nel momento di questa tentazione.
Poi il brano si conclude con la piena fiducia nel Signore e soprattutto con un aspetto molto importante: l’unica cosa che Gesù garantisce che sarà data è normalmente quella che meno si chiede nell’elenco, nelle liste delle preghiere. Infatti il brano si conclude dicendo: “Se voi dunque, che siete cattivi”, non per dire che siamo cattivi, ma per paragonare la bontà del Padre al nostro atteggiamento verso gli altri dice che siamo cattivi, “sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo (letteralmente Spirito Santo senza l’articolo, perché non dà la pienezza dello Spirito Santo, ma Spirito Santo nella misura con cui la persona è in grado di accoglierlo) a quelli che glielo chiedono!».
Ecco è l’unica cosa che Gesù garantisce che il Padre darà. Spirito Santo. A che serve questo Spirito? Lo Spirito è la forza dell’amore di Dio che serve per realizzare il disegno d’amore del Padre su ognuno di noi. Perché Dio non governa gli uomini emanando leggi che questi devono osservare, ma comunicando loro il suo Spirito, l’energia interiore che fa comprendere la strada da percorrere.

 




«colui che tace sulla giustizia è un diavolo muto»

Iraq

giornalista musulmana va in onda con la croce al collo contro la persecuzione dei cristiani

l’irachena Dalia AlAqidi lancia «una campagna aperta a tutti». La collega libanese Dima Sadeq annuncia il tg indossando una t-shirt con la N araba dei cristiani

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dalia al-aqidiIncurante delle possibili conseguenze del suo gesto clamoroso, la giornalista Dalia AlAqidi (nella foto a sinistra), dipendente dell’emittente irachena Sumaria, si è messa una croce al collo e si è scagliata dalla tv contro il «fascismo politico islamista», unendosi alla schiera di quei musulmani iracheni che a proprio rischio e pericolo hanno deciso di difendere i cristiani dalla persecuzione dello Stato islamico. Perché «colui che tace sulla giustizia è un diavolo muto», ha detto la donna.

«UNA PERDITA PER TUTTI». AlAqidi ha deciso di presentarsi in tv con la croce al collo non solo perché dalla città di Mosul, da giugno nelle mani dei terroristi islamici guidati dal “califfo” Al Baghdadi, è scomparsa una comunità cristiana che contava migliaia di fedeli, ma anche per «il bene dell’intero paese». Interpellata dal quotidiano libanese Al Nahar, la giornalista ha invitato i suoi connazionali e l’Occidente a chiedersi: «Quali benefici potrebbero trarre la storia e la civiltà da un ritorno al passato oscurantista?». Secondo la donna, infatti, l’esodo dei cristiani è grave per tutti. «I cristiani fanno parte della popolazione indigena di questa terra e non possiamo andare avanti senza di loro, né senza qualche altra componente dell’Iraq».

CHI SONO GLI INFEDELI. Agli estremisti che le hanno affibbiato il marchio di “infedele”, AlAqidi replica che la croce al collo se l’è messa proprio per difendere «il pluralismo religioso che ha fatto dell’Iraq la culla della civiltà». La giornalista è fermamente convinta che l’islam sia «una religione della tolleranza», perciò «i non credenti siete voi». «Siete voi gli apostati, i proseliti, voi i tagliatori di teste», ha detto, mentre «io sono un semplice essere umano che difende i diritti dei figli del proprio paese, qualunque sia la loro identità». Secondo AlAqidi il «fascismo politico islamista» ha «indotto i musulmani moderati come me a vergognarsi della loro religione». Ma se è vero che «la paura ha ridotto molti al silenzio», ha aggiunto coraggiosamente, «io non starò zitta davanti a questa ingiustizia». La donna ha poi invitando tutti a seguire la sua iniziativa, che «non è solo religiosa, ma rivolta a tutti, contro chiunque tenti di cancellare la civiltà».

dima sadekLA “N” DEI CRISTIANI. Le parole della giornalista irachena forti hanno immediatamente colpito la collega Dima Sadeq (foto a destra), della rete libanese Lbci, la quale si è presentata in tv con stampata sulla t-shirt la lettera araba “ن” (corrispondente alla “N” iniziale della parola “nazareni”) con cui sono state marchiate le case dei cristiani nella città di Mosul. Prima di cominciare ad annunciare le notizie del telegiornale, Sadeq ha detto: «Da Mosul a Beirut, siamo tutti cristiani».

IL LOGO DELLA TV. Successivamente il network libanese per assecondare l’iniziativa di AlAqidi ha trasformato il suo logo in Lbن e lanciato l’hashtag #Lbن per dare il via a una campagna di sensibilizzazione che ha convinto migliaia di utenti di Twitter e Facebook a sostituire la propria immagine con il “marchio” dei cristiani iracheni. «Il posto più buio dell’inferno è riservato a coloro che si mantengono neutrali in tempi di crisi morale», ha detto Dalia AlAqidi parafrasando Dante Alighieri. «Non permetteremo – le ha fatto eco Sadeq – che i muri diventino il luogo su cui disegnare lettere di esilio».

 




l’ospitalità è una medicina che guarisce molti mali

ospitalità

via maestra delle fedi  

Christoph Theobald

“Cristo in casa di Marta e Maria” di Velàzquez

Pubblico in questa pagina un brano sul tema dell’ospitalità tratto dal libro «Lo stile della vita cristiana» del gesuita Christoph Theobald, in uscita da Qiqajon, la casa editrice della Comunità di Bose (traduzione di Valerio Lanzarini, pagine 168, euro 16).christopher-theobald-foto.1024x1024

Nato a Colonia nel 1946 e docente presso il Centre Sèvres di Parigi, padre Theobald è considerato uno dei massimi esponenti della “teologia narrativa”, disciplina le cui caratteristiche sono passate in rassegna dallo stesso autore in un altro volume di recente pubblicazione in Italia («I racconti di Dio. Pensare la teologia narrativa», traduzione di Romeo Fabbri, Edb, pagine 72, euro 7,50). Nello «Stile della vita cristiana» padre Theobald propone un raffronto sistematico fra il testo biblico e le istanze della vita quotidiana, in un orizzonte nello stesso tempo personale e comunitario.

La simmetria – legge fondamentale di ogni incontro autentico – non è un qualcosa che si acquisisce di un primo acchito, soprattutto a causa dei pregiudizi che gli uomini si impongono vicendevolmente, sia da un punto di vista sociale che religioso. Vi è perciò la necessità di attraversarli perché a un dato momento le due persone possano accedere all’esperienza di una vera simmetria, prima ancora che si possa parlare di reciprocità.

A partire da questo presupposto, l’ospitalità si presenta come un’offerta: la simmetria permette di offrire all’altro la possibilità di esprimersi e di condividere qualcosa, affinché io diventi a mia volta suo ospite.

Esponendomi all’altro, accogliendolo presso di me, nella mia casa, alla mia tavola o semplicemente sulla soglia – e a condizione che io sia vero con me stesso in questa accoglienza –, sono sempre in attesa che l’altro faccia lo stesso. Se per miracolo lo fa, io divento suo ospite ed egli mi dà ospitalità. Questa è la trama fondamentale che attraversa le Scritture, dalla figura di Abramo fino al pasto promesso nell’Apocalisse: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). La simmetria si trasforma allora in reciprocità: «Io con lui ed egli con me».

Questa immagine dell’incontro e dell’ospitalità non è soltanto escatologica: caratterizza la figura di Gesù di Nazaret, «l’essere ospitale» per eccellenza. Essa è per ora, segna l’entrata nella «terra dove scorrono latte e miele» (Es 3,8). Ogni terra può diventare terra promessa quando degli esseri vivono l’incontro fino in fondo, come ha fatto Gesù di Nazaret. (…)

La sua ospitalità è radicale, al punto che egli si annulla per permettere all’altro di trovare la propria identità: «La tua fede ti ha salvata» (Le 7,50; 8,48; eccetera). Quando si reca alla tavola di Simone il fariseo (cf. Lc 7,36-50), si tratta per lui fin da subito di un’ospitalità aperta. Nelle scene evangeliche, quasi mai Gesù si trova in un faccia a faccia. Sempre interviene un terzo: in casa di Simone, è la donna che sopraggiunge e gli bagna i piedi con le sue lacrime e li asciuga con i suoi capelli…

In definitiva, qual è la posta in gioco di questa ospitalità? È la rivelazione di ciò che la tradizione biblica chiama «fede». Non ancora una fede esplicita in Dio, ma la fede come espressione ultima dell’essere umano, quell’atto fondamentale, del tutto elementare, che scommette sulla vita. Ne vale la pena, c’è di mezzo la vita; essa manterrà la promessa. Nessuno di noi ha scelto di esistere siamo stati tutti messi al mondo, e ciascuno deve riconciliarsi con il fatto di esistere in certe condizioni precise, di tipo sociale, culturale, nazionale, religioso, politico, con i loro limiti terribili: le disuguaglianze di ogni sorta, i confronti che esse producono, le immagini altrui che ci aggrediscono, e via dicendo. L’ospitalità è il luogo della riconciliazione con se stessi. E nessuno può farlo al posto di un altro. Ecco allora il miracolo della reciprocità. Un essere ospitale può generare in me questo atto di fede: la mia esistenza vale la pena di essere
vissuta…

A questa ospitalità radicalmente aperta viene mosso talora il rimprovero di ingenuità. Può concernere, per esempio, certi cristiani della Francia che tentano di vivere l’incontro religioso coni musulmani: non ci sarebbe per loro un prezzo da pagare, a differenza dei cristiani in Algeria, dei maroniti in Libano, o dei copti in Egitto. Ma in realtà quale che sia il contesto, il prezzo da pagare è sempre alto. Perché l’ospitalità è l’espressione ultima di una speranza di non violenza di fronte alla violenza, ora, questa violenza c’è, a tutti i livelli, non solamente tra cristiani e musulmani, ma, più in profondità, tra i concittadini di una stessa società. Il ruolo dello Stato laico è del resto quello di arginarla, di regolarla; ma non può guarirla. È qui che interviene la specificità della tradizione biblica: nel desiderio, e più ancora nella possibilità, che in esso si fa strada, di guarire la violenza attraverso l’esperienza dell’ospitalità. Ed è qui, inoltre, che compare un altro termine: la «santità», perché l’ospitalità può condurre a mettere
in gioco se stessi, fino all’offerta di sé nel martirio, come l’ha vissuto Gesù di Nazaret.

Questa medesima posta in gioco può essere resa con un termine più semplice ancora, che ricorda un’esperienza pressoché quotidiana: il «malinteso». Ogni incontro deve necessariamente attraversare
dei malintesi.

Il malinteso in un incontro ospitale può durare molto a lungo, e perfino essere alimentato da un «politicamente corretto» o da certe immagini sociali. Può portare alla violenza, quando non si vuole «intendere ». Ma può anche trasformarsi in desiderio di «intendersi». La via che conduce dal malinteso verso un’«intesa» passa per l’interrogare, e anzitutto per un «autointerrogarsi »: la messa in questione di se stessi è indubbiamente la condizione ultima di un incontro riuscito. Io sono interrogato dalla presenza dell’altro; e mi interrogo sui miei pregiudizi, sulle mie rappresentazioni, sulle mie immagini, in forza dell’inaggirabile alterità dell’altro. Che cosa intendo dell’altro in ciò che egli dice, nel rito a cui è attaccato, nel suo calendario, nelle sue feste? O nelle sue questioni più fondamentali sul piano umano: come educare i figli, come essere fedele erede di una tradizione, come vivere nella precarietà? In ultima istanza, intendo nell’altro la «fede»? E quale? Sono in grado di arrivare a dire come Gesù: «Neanche in Israele ho trovato una fede così grande!» (Lc 7,9)? Nella misura in cui questo interrogarmi personalmente nasce e si esprime nel mio modo di comportarmi nei confronti dell’altro, io posso sperare che lo stesso avvenga in lui. La reciprocità nell’interrogarsi può essere una maniera di accedere all’autentico incontro, in modo da intendersi a un certo livello di profondità, e dunque da superare le violenze. Perché le violenze non si trovano unicamente nell’altro: sono anche in me, e ci vuole del tempo perché possano essere riconosciute, dirsi… ed essere guarite. A ciò mira il ministero di Gesù.