il parroco dice che un duplice assassinio è opera del demonio

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“La colpa non è sua, ma del demonio”. Parroco “scagiona” l’assassino di moglie e figlio

“la colpa non è sua, ma del demonio”

parroco “scagiona” l’assassino di moglie e figlio

da: Adista Notizie n° 23 del 25/06/2016
Don Tonino Maria Nisi ha scomodato perfino il demonio pur di scagionare Luigi Alfarano, l’uomo che il 7 giugno scorso ha ucciso la moglie Federica De Luca e il figlio che avevano avuto quattro anni fa, Andrea, prima di togliersi la vita. «Luigi aveva una gran bella famiglia», ha detto il sacerdote, secondo quanto riportano le cronache locali, nel corso dei funerali di Alfarano, officiati il 10 giugno nella chiesa di San Pasquale Baylon di Taranto. «Il demonio si è messo in mezzo, perché non vuole la famiglia e la nostra gioia. E oggi io lo vedo così: con una mano tiene la sua sposa, con l’altra il suo bambino». Don Nisi ha pensato poi di rafforzare la sua arringa difensiva prendendo spunto dal lavoro che svolgeva Alfarano, coordinatore delle attività promozionali dell’Associazione nazionale tumori di Taranto. «Luigi, per il lavoro che faceva, aveva tutte le carte in regola per poter entrare in Paradiso», ha detto. E poi ancora, in ordine sparso: «Era un uomo buono»; «Nessuno si deve permettere di giudicare. Il Signore sa»; «Qualche ombra tutti noi dobbiamo presentarla alla misericordia di Dio».

Le parole di don Nisi non sono passate inosservate. «Uccidere una donna e il suo bambino, se erano “la tua” donna e “il tuo” bambino, è stato decretato dal pulpito di quella chiesa come un peccato minore – ha commentato, tra le altre, Michela Murgia –, giusto una macchiolina sul curriculum per il cielo, un errore veniale che non può compromettere la stima di amici e parenti, tantomeno quella di Dio». «Il fatto che l’assassino si sia suicidato è sufficiente a includerlo nel novero delle vittime e rubricare tutto come una “tragedia” familiare, una specie di imprevedibile evento del destino che ha colpito tutti allo stesso modo, senza colpevoli». «Lo stesso effetto di assoluzione/deresponsabilizzazione – prosegue Murgia – lo si ottiene dicendo e scrivendo che l’uomo era “disperato, ferito, affranto, spaventato” e simili, inducendo chi sente e chi legge a empatizzare con le ragioni dell’uccisore, piuttosto che con quelle della donna assassinata e di suo figlio. L’effetto che si ottiene è surreale: gli uccisi sono la donna e il bambino, ma la vera vittima è il loro assassino. Vittima di cosa? Ovvio: della decisione della donna di chiedere la separazione, evento che ha scatenato la sua sofferenza e la sua reazione».

Il vescovo di Taranto, mons. Filippo Santoro, interpellato dal Corriere del Mezzogiorno (11/6), si è detto «convinto che l’emozione dettata dal legame affettivo con la famiglia abbia fortemente spinto il predicatore a straripare, facendosi in modo inopportuno interprete di Dio». Secondo il vescovo, le parole pronunciate da don Nisi sono state determinate «dal desiderio di consolare la mamma di Alfarano» e «di rivolgere una parola di fiducia al mondo dell’associazionismo di cui il defunto faceva parte». Ma non è aberrante, gli ha chiesto il giornalista, sentir dire che Alfarano «amava la sua famiglia»? «Il messaggio aberrante – ha risposto il vescovo – può essere veicolato nel momento in cui non circoscriviamo le frasi di padre Tonino alla situazione contingente alla quale accennavo». Insomma secondo mons. Santoro le parole di don Nisi vanno contestualizzate.

Che sulla questione la Chiesa – come anche i media e la politica – sia quantomeno impreparata è poco ma sicuro. In molti ricorderanno il caso di don Piero Corsi, il parroco di Lerici che nel 2012 pensò bene di affiggere in parrocchia un volantino in cui la colpa dei femminicidi veniva attribuita alle donne, le quali «sempre più spesso provocano, cadono nell’arroganza, si credono autosufficienti e finiscono con esasperare le tensioni esistenti».

Ma anche quando le intenzioni sono le migliori sembra proprio che la Chiesa non sia attrezzata a trattare l’argomento.

Tre anni fa il vescovo di Perugia, mons. Gualtiero Bassetti, dedicò alla questione un lungo intervento pubblicato su La Voce, il settimanale della diocesi, in cui si leggeva, sì, che «non è amore alzare le mani contro la propria moglie, fidanzata e contro qualsiasi donna», ma si leggeva anche che «uccidere una donna significa spegnere tutto il dono di profezia che essa porta in sé, il suo dna di femminilità che armonizza e smorza dissidi che a volte si creano nelle relazioni».

Sempre nel 2013, l’allora vescovo di Locri, mons. Giuseppe Fiorini Morosini, affidò le sue riflessioni in merito a una nota pastorale in cui, partendo dai ripetuti casi di violenza sulle donne verificatisi in quei mesi, scriveva che «alcuni episodi sono stati crudeli e raccapriccianti» – solo alcuni? – e che a volte questa violenza è «sopportata eroicamente» dalle donne – ci può essere essere qualcosa di eroico nel sopportare la violenza? E ancora, senza bisogno di commento: «I mariti, i fratelli, i fidanzati non possono concedersi il lusso di andare nei bar a giocare, ad ubriacarsi e poi tornare a casa ed aggredire le proprie donne per una qualunque scemenza».

* Foto di ho visto nina volare. tratta da Flickr. Immagine originale e licenza.




ce la farà il sinodo panortodosso a vedere la luce dopo 60anni di preparazione?

il sinodo pan (?) -ortodosso

di Ioannis Maragós
in “SettimanaNews”

sinodo

Mancano pochi giorni all’inizio del Santo e grande sinodo della Chiesa ortodossa. Il suo presidente, il patriarca ecumenico, ha programmato il suo arrivo a Kolymbari Chania, sede del Sinodo, per mercoledì 15 giugno. Lo si stava preparando da circa 60 anni, e finalmente si saprà quale sarà il suo approdo. Un Sinodo avrebbe dovuto ridare vigore e presenza concreta a ciò che la Chiesa ortodossa intende per “sinodalità” (unità nella pluralità), e avrebbe chiamato la Chiesa a dare la sua testimonianza e il suo carisma nel mondo contemporaneo, poliedrico sotto tutti i punti di vista. L’aspirazione – come ha dichiarato il metropolita Ignazio di Volo – è «di dare testimonianza dell’unità e celebrarla nel Sinodo. Il Santo sinodo si tiene per affermare e confermare l’esistenza dell’unità nel sacramento dell’eucaristia, la fede comune, i sacri canoni e la tradizione teologica»

Il metropolita però è ben conscio dei problemi esistenti, perciò ha aggiunto: «Nell’Ortodossia non abbiamo questioni di primazie. Non dobbiamo lasciarci vincere dalle divisioni dei nazionalismi». Tutto questo impegno e questo sforzo ora rischiano di rivelarsi una spina dolorante nel fianco e una frattura nel profondo dell’unità della Chiesa ortodossa.

In attesa di vedere l’esito definitivo, diamo un piccola rassegna sulle diverse posizioni – così oserei chiamarle – di politica ecclesiastica.

Il Patriarcato delle Russie è a capo delle Chiese che si augurano si rimandi il tutto a tempi più propizi. Il Patriarcato russo ha chiesto al Patriarcato ecumenico di rimandare il Sinodo se nel frattempo non si fossero rimossi gli ostacoli che già dividono alcune Chiese locali, come per es. la Chiesa di Antiochia e la Chiesa di Gerusalemme; non trovandosi in comunione, ciò impedirà loro di compartecipare all’eucaristia durante i lavori del Sinodo. In seguito, hanno avanzato riserve anche le Chiese di Georgia, di Bulgaria e della Serbia, arrivando alla conclusione che, anche se un tale Sinodo si celebrasse, sarà comunque non legittimo perché contrario allo statuto che prevede il comune accordo nella convocazione. Quando è stato chiesto al metropolita Ilarione, incaricato per gli affari esteri del Patriarcato russo, perché, dopo aver sottoscritto tutto in fase preparatoria, ora ritrattassero, ha risposto che già nella fase preparatoria erano emerse divisioni che si sperava vedere superate nel frattempo. Quando la Chiesa di Antiochia ha dichiarato in modo chiaro e distinto le sue ragioni per non partecipare, si sono aggiunte le rinunce delle altre Chiese, Georgia, Bulgaria, Serbia. A quel punto la Chiesa Russa riunita in Sinodo ha chiesto al patriarca ecumenico di convocare una riunione preliminare per affrontare i problemi sorti per poter proseguire di comune accordo. Se questo non si fosse rivelato possibile, chiedeva di rimandare il tutto a un tempo più propizio. Intanto si cercherà di appianare le divergenze. Per il metropolita Ilarione il problema non è del Patriarcato ecumenico ma dell’intera Chiesa Ortodossa. Chiudendo, si è appellato alla prudenza, alla pacatezza e all’umiltà che caratterizzano il patriarca ecumenico, nel prendere la dovuta decisione.

sinodo

Le rinunce a partecipare sono cominciate dal Patriarcato di Antiochia, che non ha trovato all’ordine del giorno il suo contenzioso con il Patriarcato di Gerusalemme, il quale tre anni fa aveva istituito una metropolia a Qatar, tradizionalmente considerato territorio di Antiochia. Antiochia ha dichiarato la rottura della sua comunione con il Patriarcato di Gerusalemme. Dietro questa contesa alcuni non dubitano di vedervi una questione di politica internazionale sullo scacchiere mediorientale più ampio. Si sa che Antiochia si lascia influenzare volentieri da Mosca; si ricorda ancora che il patriarca, storicamente, è passato sotto l’influenza e il “dominio” della lingua araba per la spinta e il supporto della politica zarista in Medio Oriente sul finire dell’800. Si sa che il patriarca di Gerusalemme è grande amico degli emiri del Qatar, che ha costruito, a sue spese, la cattedrale ortodossa a Qatar. Tutti due sono sul versante filo USA.

Il Patriarcato Bulgaro viene considerato un satellite fedele della Russia e non solo nella politica – per cosi dire – ecclesiale. Esso contesta che le sue riserve non sono state recepite nei vari documenti. Le spese sono esorbitanti e si dichiara impossibilitato a conferire il proprio contributo. Sono presenti problemi procedurali, a proprio avviso non ancora presi in seria considerazione, per es. come saranno seduti intorno al tavolo, la procedura dei dibattimenti ecc., che tutelano la sinodalità. È una Chiesa ultraconservatrice, chiusa ad ogni apertura al mondo. Non partecipa al dialogo ecumenico né con la Chiesa cattolica, né con il Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC). È recente il suo riconoscimento come Chiesa autonoma. La sua autonomia dal Patriarcato ecumenico è stata riconosciuta nel 1945. Dopo la caduta del regime comunista, ha rischiato lo scisma interno tra collaborazionisti e non, contezioso ancora non del tutto assorbito.

Il Patriarcato di Georgia è anch’esso un satellite russo. Una Chiesa strettamente chiusa in se stessa. Il patriarca, una volta attivissimo membro del CEC, adesso rifiuta ogni discorso ecumenico. Dal Patriarcato si contesta e si ripudia il documento per le relazioni con il resto del mondo cristiano. Vecchi calendaristi a oltranza, per loro è una questione di fede. Il documento sui matrimoni è ritenuto molto liberale, specialmente quando tratta i matrimoni misti ecc. Il Patriarcato di Serbia è autonomo dal 1920. Il problema con la sua autocefalia è la modalità della sua concessione e del suo riconoscimento. Ha seri problemi con la Chiesa della ex Repubblica jugoslava di Macedonia, auto-dichiaratasi indipendente, e dunque considerata scismatica. Tradizionalmente ha buoni rapporti con il Patriarcato ecumenico e adesso anche con Mosca. Però ha dei problemi con il Patriarcato di Romania, perché questi ha ultimamente nominato dei vescovi per la cura pastorale della gente di lingua romena (vlacho) e risiede nei territori serbi confinanti con la Romania.

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Il Patriarcato di Romania si propone come terzo polo dato che non è né di lingua greca né di lingua slava ma neolatina. Con Mosca è in continuo attrito, perché un suo territorio, l’Yperdnisteria, si è staccato dall’obbedienza Romena per avvicinarsi a Mosca.
Il blocco pro Sinodo insieme con il Patriarcato ecumenico

Il Patriarcato di Alessandria, il secondo per ordine d’onore, cerca di tenersi equidistante tra Costantinopoli e Mosca. È forte del suo prestigio di missionarietà in terra africana.

La Chiesa di Cipro ha buoni rapporti con tutti, però si considera il battistrada del Patriarcato ecumenico e il principale sostenitore delle missioni in Africa del Patriarcato di Alessandria, sia in termini di personale sia per i quantitativi di aiuti. Qualche lamento sul Sinodo lo avrebbe, ma non protesta più di tanto. Benché sia di origine apostolica, nella linea di onore la precedono altre Chiese molto più giovani. È una Chiesa estroversa e partecipa a tutte le manifestazioni ecumeniche. Il suo arcivescovo si comporta come paritetico al presidente della repubblica: si esprime in tutto e per tutto anche su temi di politica interna ed estera. Nel suo messaggio per l’imminente Sinodo ha scritto: «Partecipare (al Sinodo) è una dichiarazione di unità e di comune accordo, per questo consideriamo ogni altra presa di posizione o proposta dell’ultimo momento come minaccia per l’unità (della Chiesa) e la responsabilità sarà a carico di tutti coloro che, anche non volendo, contribuiranno alla sua rottura». La Chiesa della Grecia si considera custode della nazione greca, dell’ortodossia e del Patriarcato ecumenico. È vero che le sue relazioni col Patriarcato a volte appaiono burrascose, ma restano sostanzialmente buoni fratelli. Nei momenti difficili per il Patriarcato ecumenico, è sempre al suo fianco. I problemi si concentrano attorno alle cosiddette “nuove terre”, cioè il Nord della Grecia che, nel 1912, sono state annesse allo Stato greco allora esistente solo al Sud, dopo le guerre balcaniche contro l’allora Impero ottomano, ma non alla Chiesa della Grecia. Solo più tardi si è trovato un compromesso. Le metropolie del Nord sono state affidate alla cura pastorale della Chiesa della Grecia ma non giuridicamente alla Chiesa della Grecia. Altri problemi sono la presenza e la funzione dell’Ufficio di rappresentanza del Patriarcato in Atene. Per molti greci costituisce un grosso problema che il patriarca ecumenico debba essere per forza un cittadino turco. Negli ambienti conservatori non sono ben viste le aperture ecumeniche del Patriarcato. Quanto al Sinodo, contestano l’uso dei termini “Chiesa”, “Chiese”, “«comunità cristiane” e “confessioni”, e si sono riservati il compito di porre il problema in assemblea.

La Chiesa dell’Albania è una Chiesa piccola ma dinamica, malgrado le pressioni e le angherie che subisce ad ogni pie’ sospinto dallo Stato albanese. Attivissima in tutti i forum interortodossi, intercristiani, interreligiosi. L’arcivescovo di Albania Anastasios scrive: «È evidente che i problemi sono tanti. Appunto per questo si deve celebrare il Grande e santo sinodo. Altrimenti i problemi non si risolvono. Il rinvio ferirà profondamente l’autorevolezza internazionale della Chiesa ortodossa». La Chiesa autocefala di Polonia è già a Creta. I vescovi della Cechia, che in un primo momento hanno mostrato perplessità a partecipare, hanno ritrattato le loro precedenti prese di posizione contro il Patriarcato dichiarandosene pentiti, e parteciperanno.
Cosa sarà questa riunione, se si farà Per i russi e alleati sarà un’assemblea illegittima, se si lavorerà senza cinque Chiese, malgrado si autoproclami Grande e santo sinodo della Chiesa ortodossa. Altri, i più ottimisti, sostengono che sì, la mancanza di alcune Chiese sarà un disguido, ma la natura dell’assemblea si chiarificherà dal peso che assumerà nella coscienza ecclesiale. Il Sinodo successivo a quello di Creta deciderà del suo carattere ecclesiale. Non è un grande male che non siano presenti tutti i convocati, visto che nemmeno nei grandi sinodi ecumenici del passato erano tutti presenti. Se sarà o no considerato come vero sinodo, oppure qualcosa d’altro, dipenderà dalla ricezione nella coscienza del santo popolo fedele. Di certo si affrontano due linee, quella ecumenica, con la sua ansia di mostrare e testimoniare la presenza della Chiesa nel mondo contemporaneo, e la linea del particolarismo nazionale che coltiva lo star bene nei propri territori e la custodia di uno stile di vita tradizionale, cercando semmai di rinvigorirlo in qualche modo, perché sappiamo cosa sia il passato ma non il futuro, e questo fa paura. Sicuramente, un certo tipo di nazionalismo religioso – della nazione santa da Dio protetta – presente nella parte orientale del’Europa non è assente nemmeno in alcune Chiese cattoliche. La teoria della “terza Roma” e il mito della Roma città eterna sopravvivono eccome. Vi è qui un grosso problema da risolvere una volta per tutte, almeno nella Chiesa Ortodossa: la Chiesa nazionale, la sua natura, il suo territorio, il suo governo; non basterebbe un sinodo intero per risolverlo. Un altro concetto, sia teologico sia pratico, è illustrare, in qualche modo descrivere e regolamentare, la cosiddetta sinodalità di cui tutti parlano. Tutti la annunciano come fosse la medicina per ogni male. Sarebbe un’ottima occasione per la Chiesa ortodossa di dare una buona lezione a tutti gli altri – cattolici, protestanti, chiese libere ecc. – ma pare che tra il dire e il fare ci sia di mezzo il mare. Certo, si è creato il caso della non convergenza tra le Chiese sul da farsi. La questione è: ci si dati da fare per risolverlo o se si è approfittato per invitare chi di dovere – il primus inter pares – a non cercare di aumentare il proprio prestigio – si voglia o no, sarà in prima fila – e ricordargli che “ci siamo anche noi”? La sinodalità dovrà essere vissuta secondo forme paritarie. Il problema viene creato e alimentato per costringere il primus a interpellarli e risolverlo. In chiusura, avendo davanti gli occhi tanta violenza che serpeggia nel mondo, il nichilismo imperante, il dominio dell’economia, lo sfascio della famiglia, l’edonismo che avviliscono e annullano la persona umana, di che cosa ci occupiamo noi – cattolici, ortodossi, protestanti, Chiese libere – che ci onoriamo del nome cristiano? A chi assomigliamo: all’imperatore Costantino oppure al Nazareno pellegrino che ai suoi discepoli nomadi raccomandava «Chi vuole essere il primo sia il servo di tutti»?




un giovane prete racconta la brutta avventura vissuta da bambino vittima di pedofilia

«smettiamola, smettetela di idolatrare il prete»

di un giovane prete

in “La Croix” del 7 giugno 2016

prete

‘La Croix’ pubblica la testimonianza esclusiva e anonima di un giovane religioso francese che invita i laici ad uscire da un “rapporto infantile” coi preti, che favorisce il clima di impunità nel quale certi hanno potuto commettere abusi

“Non sta succedendo, non lo sta facendo, non è possibile”. Questo urlava interiormente l’adolescente che ero quando il cappellano del mio liceo faceva ciò che anni di occultamento mi hanno a lungo impedito di nominare e di dire. “Non è possibile”. L’ho pensato talmente forte che ci ho creduto. Solo il corpo ha registrato il fatto, e lo spirito si è trovato umiliato quando il ricordo è tornato a galla, come uno choc. Avevo evidentemente ben introiettato quello schema secondo il quale quelle cose non possono succedere. Non da parte di un prete. Non da parte di colui che mi seguiva e che aveva la mia fiducia. Non in quell’istituto prestigioso dove lo incontravo tutti i giorni. Non durante la confessione. Non all’inizio del XXI secolo. “Non è possibile”. Grazie a quello che sta succedendo in questo periodo, quella negazione sembra svanire nelle diocesi: il vescovo che mi ha ricevuto recentemente non ha minimizzato i fatti e si assumerà, spero, le sue responsabilità rispetto a quel prete. Lo sguardo della nostra società si focalizza in questi ultimi tempi sulle vittime, il grido delle quali, soffocato, chiedeva da troppo tempo di essere ascoltato. “È successo”, per l’istituzione, scossa quando comincia ad ammettere, a bassa voce, che “è possibile”. Ma in questo quadro, manca il resto del gregge. “Non è possibile”. Battezzati, genitori, catechisti, laici impegnati o no, non lo abbiamo forse anche noi creduto impossibile? Non ci siamo messi anche noi dei paraocchi? Involontariamente, certo, semplicemente mantenendo in noi e attorno a noi, in particolare tra i giovani, un’immagine del prete che non è corretta. Rileggendo la mia storia, mi accorgo quanto io fossi, da adolescente, legato ad una rappresentazione del prete come sant’uomo, perché uomo di Dio: colui che quindi non può mai essere nell’errore, in nulla di ciò che dice o fa. Rappresentazione ereditata dal mio ambiente, certo, ma che mi sembra molto diffusa. Oggi sono prete: questo può stupire. Quello che ho passato non mi ha impedito di andare avanti, di discernere, anche se è stato proprio nel momento delle scelte decisive che il velo del diniego si è strappato: il mio aggressore era anche la persona che mi seguiva, che mi ha aiutato nel discernimento, e che in questo senso mi ha anche “fatto del bene”. Per me è stato complicato, ad un certo momento, districare, nel mio cuore, il mio risentimento contro di lui dai benefici che gli devo. Ma “Dio è più grande del mio cuore”, e non ho mai dubitato della realtà di una chiamata sentita molto prima, di un desiderio che è cresciuto e si è radicato indipendentemente da quei fatti, con cui non mi identifico anche se fanno parte della mia storia, e mi rendono attento a qualsiasi forma di influenza all’interno della Chiesa. A questo proposito, non è anodino che io abbia scelto la vita consacrata, che dà al presbiterato un quadro comunitario: sono fratello prima di essere padre e credo fermamente al “sacramento del fratello”, quello stare insieme nell’umanità in cammino verso Dio. Come “giovane prete”, scopro oggi le gioie del ministero. È l’occasione di veder cambiare, dalla mia ordinazione, lo sguardo che mi viene rivolto. In certi contesti si manifesta deferenza nei miei confronti, una sorta di rispetto legato al mio stato più che alla mia persona. E questo indica talvolta che ci si aspetta da me un ruolo lontano da quello per cui sono stato ordinato prete. Io non sono perfetto o santo perché prete, ma sono chiamato alla santità come tutti. Ed è proprio perché c’è una chiamata generale alla santità che abbiamo bisogno di preti. Smettiamola, smettetela di idolatrare il prete, come un essere fluttuante al di sopra dei mortali e staccato dalle molte vicissitudini dell’esistenza, come l’errore o il dubbio. Bisogna amare i preti,
non idolatrare in loro un’immagine. Il clericalismo che venera un’immagine del prete più che amare i preti non tocca solo gli ambienti classici, impregna profondamente le nostre mentalità. Aggiungerei quindi questo: l’ordinazione non fa di me il manager ideale, essere prete non mi rende indispensabile a tutte le riunioni parrocchiali, perché il sacerdozio non è qualcosa in virtù della quale avrei una scienza infusa che mi permetterebbe di prendere sempre la decisione giusta e di mettere tutti d’accordo. Questo è un rapporto infantile col prete, e credo che gli scandali che vengono a galla, con tutto il loro disagio, devono rimettere in discussione questo atteggiamento che non è giusto nei rapporti col clero. Dicendo questo, non intendo allontanare lo sguardo dalle colpe di governo dei vescovi, né invitare ad un sospetto generalizzato nei confronti dei preti, ma semplicemente sottolineare che una denuncia del “sistema” non sarebbe completa se coloro che non sono preti non si ponessero le stesse domande. Il problema del silenzio della Chiesa è innanzitutto quello del silenzio delle vittime e quel silenzio viene mantenuto, almeno passivamente, da quelle immagini che rimangono nella mente di tutti e che manteniamo inconsciamente. Deve cambiare qualcosa, collettivamente, perché i mea culpa venuti dall’alto non suonino come ammissioni di impotenza. Il dolore che il popolo di Dio sente ora che le vittime riescono a parlare ci mostra che è necessaria, e che è cominciata, una purificazione delle nostre rappresentazioni. Che ci siano delle pecore nere, o dei lupi nell’ovile, è una cosa. Che le nostre paure e i nostri accecamenti collettivi permettano loro di continuare a imperversare favorendo un clima di silenzio che soffoca il grido, è un’altra cosa. E su quest’ultimo punto, dobbiamo tutti lavorare, affinché si possa dire un giorno, davvero: “Non è possibile”.