Dio non va lasciato in cielo quando lui stesso ha deciso di scendere sulla terra
Questo non significa abbassare Dio, ma rispettare Dio presente, visibile e tangibile in ogni essere umano.
Quando rispettiamo ogni essere umano come rispettiamo Dio, in questo giorno noi ci siamo resi conto della genialità di Gesù e del cristianesimo.
La cosa negativa e terribile è che ci va meglio sulla terra se teniamo Dio in cielo. Ciò fa comodo a troppi, che pur si dicono cristiani. Così rispettiamo Dio nei templi (anticamere del cielo).
E questo (noi crediamo) ci dà il diritto di disprezzarlo, di maltrattarlo e persino di odiarlo in tanti esseri umani.
la scuola e i bambini rom: più di qualcosa non va
minori rom
la scuola che fallisce
LUCA LIVERANI
Un altro spreco di denaro pubblico per un’integrazione mai verificata nei risultati. Tra 2002 e 2015 il Comune di Roma ha speso 27 milioni di euro per la scolarizzazione dei minori rom. Ma uno su 5 non si è mai presentato in classe, 9 su 10 non hanno frequentato regolarmente, uno su due è in ritardo scolastico e frequenta una classe non conforme alla sua età, e sui 1.800 bambini rom iscritti, solo 198 hanno frequentato almeno i tre quarti dell’orario scolastico.
Dati allarmanti, raccolti ed elaborati dall’Associazione 21 luglio nel dossier Ultimo banco. A presentare lo studio il presidente dell’associazione Carlo Stasolla, assieme al direttore dell’Unar Francesco Spano e l’ex assessore alla scuola di Roma Marco Rossi Doria. In tredici anni dunque il Campidoglio ha speso nel ‘Progetto Scolarizzazione Rom di Roma Capitale’ circa 27 milioni di euro, attraverso bandi e proroghe, a quattro organizzazioni (Opera Nomadi, Arci Solidarietà, Capodarco/Ermes, Casa dei diritti sociali) coinvolgendo un numero tra i 500 e i 2.000 minori rom degli insediamenti formali della Capitale. Un investimento importante e a lungo termine, ma su cui non sono mai stati rilevati dati ufficiali circa la valutazione dei risultati e la qualità degli interventi. E dal dossier dell’Associazione 21 luglio emerge un divario drammatico tra i minori rom e gli altri studenti.A frequentare con regolarità le lezioni è solo il 12% dei rom (il 99% tra i non rom), dato crollato addirittura al 7,4% nell’anno scolastico 2012/2013 che ha coinciso con il periodo più intenso degli sgomberi dei ‘campi abusivi’ e ‘tollerati’ in linea con l’’Emergenza nomadi’ decretata allora dal governo. Differenze enormi anche nel ritardo scolastico: il 50% tra i ragazzini rom (contro una media del 13% tra i non rom) e un abbandono della scuola in età dell’obbligo del 18% (quasi 100 volte di più rispetto allo 0,2% dei non rom).
Nell’ultimo anno scolastico monitorato, 2014/15, nella baraccopoli istituzionale di Castel Romano la frequenza regolare è crollata al 3,1%. Impietosa l’analisi. «La politica di scolarizzazione dei minori rom a Roma si riduce al servizio di trasporto degli alunni» e «il monitoraggio della frequenza scolastica si trasforma, in realtà, in frequenza delle presenze sullo scuolabus». Non solo: «il numero di bus è eccessivamente inferiore» e ciascun mezzo «ogni mattina, in media si reca presso 9 scuole differenti». Tra la prima e l’ultima passa «oltre un’ora e mezzo che alcuni alunni trascorrono sul pullman anziché a scuola».
E visto che il bus parte dai campi attorno alle 7,40, «diversi alunni entrano in classe dopo la prima o addirittura dopo la seconda ora».
Le responsabilità? Per il dossier sono imputabili alla politica e all’amministrazione, alle competenze degli enti affidatari, al contesto socio- economico dei rom, alle politiche abitative e di sgombero. Perché «alla base di tutto c’è la segregazione abitativa all’interno delle baraccopoli, istituzionali e non, che incide in maniera determinante».
Perché «un bambino nato e cresciuto in un contesto di emergenza abitativa» parte «in una condizione di oggettiva penalizzazione»: non ha «servizi igienici adeguati», non ha «spazi di studio per i compiti», quasi sempre i genitori «sono privi di strumenti e capacità per sostenerlo», il trasporto scolastico insufficiente e da periferie estreme istituzionalizza entrate in ritardo e uscite anticipate. E allora, dice Stasolla, «è dal superamento delle baraccopoli che il nuovo sindaco dovrà ripartire per salvaguardare un’infanzia il cui futuro è già compromesso».
Hebe de Bonafini ricevuta e abbracciata da papa Francesco
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Hebe de Bonafini, 87 anni, non ha perso il suo spirito combattivo. Durante la dittatura militare in Argentina la sua vita è stata sconvolta: ha perso due figli e la nuora, dissolti nel nulla come tanti altri oppositori al regime. L’incontro col Papa a Santa Marta è stato lungo, molto affettuoso: ci siamo commossi e ci siamo abbracciati – ha detto la Bonafini – che in passato aveva criticato Papa Bergoglio e per questo ha chiesto scusa. Già tempo fa, in una lettera, aveva ammesso di essersi sbagliata, non conoscendo l’impegno di Bergoglio per i poveri. La fondatrice delle Madri di Plaza de Mayo ha parlato al Papa della drammatica situazione dell’Argentina, con la gente che è senza lavoro e lotta per sopravvivere. Il Papa, ha raccontato la donna in un incontro con i giornalisti, ha soprattutto ascoltato, con grande attenzione, e ha detto che per il momento non può andare in Argentina.
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il papa riceve la fondatrice delle Madri di piazza di Maggio
L’incontro avvenuto il 27 maggio a Santa Marta tra Hebe de Bonafini, fondatrice e presidente delle Madri di Plaza de Mayo – l’associazione formata dalle madri dei desaparecidos, i dissidenti scomparsi durante la dittatura militare argentina (1976-1983) – e papa Francesco, già quando era solo annunciato, non è andato giù a molti in Argentina, anche fra i vescovi, e non per l’ultra-trentennale impegno di Hebe per ricostruire verità, dignità e giustizia sulle vittime della dittatura, ma per le sue prese di posizione politiche, decisamente contrarie all’attuale presidente della Repubblica, Mauricio Macri
L’incontro avvenuto il 27 maggio a Santa Marta tra Hebe de Bonafini, fondatrice e presidente delle Madri di Plaza de Mayo – l’associazione formata dalle madri dei desaparecidos, i dissidenti scomparsi durante la dittatura militare argentina (1976-1983) – e papa Francesco, già quando era solo annunciato, non è andato giù a molti in Argentina, anche fra i vescovi, e non per l’ultra-trentennale impegno di Hebe per ricostruire verità, dignità e giustizia sulle vittime della dittatura, ma per le sue prese di posizione politiche, decisamente contrarie all’attuale presidente della Repubblica, Mauricio Macri.D’altronde è proprio sulla situazione del Paese latinoamericano che Hebe ha intrattenuto il papa, sul dramma di una crisi economica al limite della sopravvivenza per i troppi argentini senza lavoro. Nella successiva conferenza stampa, ha raccontato che, dopo un commovente abbraccio – con un conterraneo che lei aveva accusato in passato di atteggiamento complice con la dittatura, ma al quale recentemente ha chiesto scusa riconoscendo il suo errore di valutazione –, «con molta calma abbiamo parlato per due ore. Gli ho detto di cosa abbiamo bisogno, che venga da noi, che parli perché ci sentiamo senza protezioni». La “madre” ha fatto a Bergoglio un rapporto «minuzioso» su tutto quello che «sta succedendo» nel Paese. Ha aggiunto che «il papa è molto preoccupato», «molto triste», e che «l’attuale situazione gli fa ricordare il golpe del 1955, e non si aspettava che sarebbe successo nulla di tutto questo» (il riferimento del papa è alla cosiddetta “Rivoluzione liberatrice” che disarcionò, fra il 16 e il 23 settembre, il presidente di allora Juan Domingo Perón; il papa aveva espresso la stessa considerazione l’11 maggio, ricevendo dei sindacalisti argentini).Alla conversazione in Santa Marta ha avanzato critiche mons. Jorge Casaretto, vescovo emerito di San Isidro, in genere non tenero verso Macri (v. Adista Notizie n. 19/15), che il 29 maggio ha dichiarato: «Non è Hebe de Bonafini la persona più indicata per informare il papa su come sta l’Argentina»; e, se il papa l’ha ricevuta, è «per una questione di carattere personale dove è evidente la dimensione della misericordia», lo spirito tutto evangelico, dato che ha deciso di ricevere «una persona che lo ha insultato». Consultato sulle dichiarazioni di Hebe – «in cinque mesi [Macri] ha distrutto tutto» quello che hanno realizzato i governi Kirchner, di Nestor prima e della moglie Cristina fino a cinque mesi fa –, Casaretto ha detto che il papa «ha informazioni molto migliori»: «Noi siamo migliori informatori di Bonafini». È vero che il Paese si trova in «una transizione molto difficile», ha riconosciuto, e «forse è questo il momento più critico», ma confida negli «annunci che si stanno facendo di un possibile recupero» della situazione.Prima dell’incontro fra Hebe e Francesco, fra le persone irritate è da annoverare il capo di Gabinetto, Marcos Peña, che su Facebook ha postato questa considerazione: «C’è molta gente che si è sentita offesa o indignata perché il papa riceverà Bonafini. Li capisco. Non la conosco personalmente, ma è difficile trovare un altro argentino che sia stato tanto aggressivo e offensivo contro tutti quelli che non la pensano come lei. E ritengono pure che sono troppi i gesti da un lato e pochi dall’altro». Tuttavia, ha aggiunto comprensivo, «bisogna capire che il compito del papa è evangelico e spirituale, non politico partitico».Che si sia trattato di misericordia evangelica è fuor di dubbio. D’altronde, prima della visita di Hebe in Vaticano, Luis Liberman, direttore della Cattedra del Dialogo e della Cultura dell’Incontro, il 15 maggio ha detto di aver parlato con Bergoglio (il Sismografo, 12/5) mettendolo in guardia dal possibile uso che Bonafini avrebbe potuto fare dell’udienza. «Non è un mio problema», ha risposto, «io per la signora non ho altro che misericordia. È una mamma alla quale han ucciso due figli. Ad una donna che hanno vissuto questa esperienza non si chiude mai la porta. Io vedo il dolore di una madre».Il governo argentino è irritato con FrancescoC’è però chi vede altro. In attesa dell’incontro Bonafini-Francesco, Washington Uranga, politolgo e vaticanista del quotidiano argentino Pagina 12, scriveva (11 maggio) che esso «costituisce un rovescio politico per il governo di Mauricio Macri nella sua relazione con il Vaticano, che ha già subìto un duro colpo con l’atteggiamento e la gestualità di Francesco nell’incontro protocollare di appena 22 minuti del febbraio scorso» (v. Adista Notizie n. 10/16). «Ora Francesco riceverà Hebe de Bonafini nel preciso momento in cui il governo dell’alleanza Cambiemos riceve critiche dagli organismi di difesa dei diritti umani per misure inconsulte e per il cambiamento della politica in materia senza dialogare con i naturali interlocutori del tema». «Quello che preoccupa seriamente il papa – suggerisce Uranga – è il clima di scontro politico e sociale in Argentina. Attraverso le testimonianze di diverse persone che hanno avuto con lui colloqui privati negli ultimi tempi, si sa che Francesco segue da vicino la realtà argentina e che ha manifestato la sua inquietudine» per «il clima di rivalsa che si vive in Argentina».Il termometro di quanta fosse l’irritazione del governo di Macri già prima che Bergoglio ricevesse Hebe si può desumere dall’editoriale del 10 maggio del quotidiano vicino al governo Clarín, secondo il quale «il papa aperto e riformista all’esterno [dell’Argentina], si comporta come un papa chiuso e conservatore all’interno. Come papa, guida tutti. Come peronista, una parte. E a cinque mesi dall’inizio della gestione [Macri], ricevere Bonafini è come fare una croce sulla maggioranza che ha votato per il macrismo».* Immagine di Ministerio de Cultura de la Nacion Argentina, tratta dal sito Flickr,licenza e immagine originale. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite