sull’omofobia cosa sta cambiando nella chiesa?

Omofobia

cosa cambia nella Chiesa

tra resistenze ed “effetto Francesco”

intervista a Innocenzo Pontillo

a cura di Giampaolo Petrucci
in “Adista” – Notizie

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un vescovo un giorno mi ha detto: «Ho sempre ricevuto e letto con attenzione le lettere dei gruppi di credenti omosessuali, ma non potevo fare nulla per loro. Solo oggi papa Francesco mi sta mettendo in condizione di poter rispondere concretamente a queste sollecitazioni»

Per il decimo anno consecutivo, dal Nord al Sud Italia, passando per Torino, Sanremo, Genova, Firenze, Cagliari, Roma, Siracusa e Palermo, e poi anche in Spagna, in luoghi chiave della cattolicità a Barcellona e Siviglia, le settimane a ridosso della Giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia istituita nel 2007 dall’Unione Europea per il 17 maggio – nello stesso giorno del 1991, l’Oms cancellava l’omosessualità dalla sua classificazione internazionale delle malattie mentali – sono state animate da una lunga serie di veglie di preghiera in ricordo delle vittime e dell’intolleranza omofobica, fiaccolate, serate musicali, culti domenicali, ecc. intorno al versetto del Vangelo di Giovanni: «Amatevi come io vi ho amato». Eventi promossi dagli storici gruppi di cristiani Lgbt italiani presso luoghi di culto delle Chiese cristiane valdesi o metodiste ma – questo il dato in crescita – anche presso parrocchie cattoliche. In alcuni casi, a farsi carico dell’organizzazione degli eventi sono stati proprio i parroci che accompagnano il percorso spirituale dei fedeli gay della propria parrocchia, ma anche commissioni e gruppi di quelle diocesi che negli ultimi anni hanno promosso una riflessione pastorale introno al rapporto tra fede e omosessualità. Le persone omosessuali e transessuali ancora vivono in condizioni di drammatica emarginazione e discriminazione nella società e nella comunità religiosa, si legge il 17 maggio sul portale del Progetto Gionata, che racconta quanto si muove a livello nazionale nel mondo lgbt credente. «Eppure in questi anni sono cambiate molte cose. Soprattutto è cambiato il modo in cui le Chiese affrontano e riflettono su questi argomenti: dieci anni fa, in occasione delle prime veglie, in Italia le chiese cattoliche si rifiutavano di ospitarle, mentre forti discussioni si accesendevano sull’opportunità di accoglierle anche in ambito evangelico. Le veglie allora erano tenute quasi in segreto, evitando di pubblicizzarle troppo. Parlare di certi argomenti era quasi un tabù nella società e sopratutto nelle nostre chiese. In questi ultimi anni invece sono tante le comunità cristiane che hanno deciso di organizzare questi momenti di preghiera e di riflessione insieme ai gruppi di cristiani Lgbt». A margine delle veglie 2016, abbiamo scambiato alcune parole con Innocenzo Pontillo, animatore storico del portale Progetto Gionata e coordinatore del gruppo Kairos di cristiani omosessuali di Firenze. Raccontaci il tuo 17 maggio. A Firenze, 10 anni fa, è nata la prima veglia per ricordare le vittime dell’omofobia in seguito al suicidio di un ragazzo vittima di bullismo omofobico. Quest’anno, proprio il 17 maggio, per la decima volta, il gruppo Kairos ha organizzato un momento di sensibilizzazione contro discriminazione e omotransfobia insieme ad altre realtà, tra cui Libera, Pax Cristi, Samaria, Progetto Gionata, Ives di Pistoia, la Parrocchia della Madonna della Tosse di Firenze, la Comunità di base delle Piagge, l’altracittà giornale della periferia, la Sezione di Firenze degli Scout laici della Cngei, Delegazione Finisterre, la Chiesa evangelica valdese e la Chiesa vetero cattolica di Firenze. Insieme abbiamo organizzato una fiaccolata, partita dalle periferie geografiche della città, ma anche da quelle simboliche delle nostre vite, e giunta nei luoghi simbolo del centro (piazza Duomo, Piazza S. Marco, Piazza Ognissanti, Piazza Strozzi). Con la luce della nostra testimonianza abbiamo voluto illuminare la notte della nostra città e ricordare che ognuno di noi può essere “luce nel mondo”. Le testimonianze che costituivano il cuore della fiaccolata lasciavano senza parole e in profondo silenzio il pubblico incontrato lungo il tragitto. Sul sito di Kairos, kairosfirenze.wordpress.com, si possono vedere foto della fiaccolata e della veglia. La Giornata contro la violenza omofobica sembra unire molte persone e comunità di diversa estrazione…

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A Firenze, per esempio, la fiaccolata ha visto la partecipazione di laici cattolici ed evangelici, suore e religiosi, associazioni e anche parrocchie, e si è poi conclusa poi con una veglia nel tempio valdese. La veglia fiorentina è ospitata ogni anno, a rotazione, da una comunità cristiana diversa, ora cattolica, ora evangelica. Perché sempre più parrocchie accolgono le veglie? Cosa è cambiato con il pontificato di Francesco? C’è da dire che già dalla seconda edizione dell’iniziativa, molte comunità parrocchiali hanno ritenuto scandaloso che si negasse a dei credenti un luogo in cui pregare, solo perché omosessuali. Con l’arrivo del nuovo papa i vescovi si sono divisi in due: una maggioranza che ha rinunciato a sanzionare le parrocchie che ospitano le veglie; altri invece hanno voluto ribadire con forza la loro contrarietà, sopratutto nel Nordest. Le parole di ascolto e misericordia di papa Francesco non hanno convertito i cuori di alcuni vescovi, spesso condizionati da altre convenienze e logiche. Il caso di Genova è esemplare: lo scorso anno il card. Bagnasco, presidente dei vescovi italiani, ha vietato a una parrocchia della sua diocesi di accogliere una veglia, sollevando un grande movimento di protesta all’interno della Chiesa locale. Quest’anno, prudentemente, ha evitato ulteriori gesti eclatanti ed anzi ha inviato un suo delegato alla veglia genovese. Questo cambiamento di atteggiamento è dovuto anche alle reazioni di quel popolo di Dio cui papa Francesco ha dato nuova dignità, al cui sensus fidei il papa invita giustamente a guardare perché è lì che oggi spesso il Vangelo dà risposte vive e palpitanti. L’impressione, a volte, è che le veglie si fanno nelle parrocchie cattoliche perché lì c’è un prete “illuminato”, che opera senza un coordinamento, e spesso anzi in contrasto con le gerarchie locali e nazionali. Se non ci fosse l’iniziativa personale di alcuni parroci o suore si farebbe molta fatica a rintracciare il timido cambiamento in corso nella Chiesa italiana. Sono ancora pochi i vescovi che si stanno interrogando su questo tema, basti pensare alle difficoltà del Sinodo a discutere serenamente di accoglienza delle persone Lgbt. Comunque il Sinodo ha aiutato, se non a offrire soluzioni, almeno a mettere in luce il tema. E così, ora, alcuni vescovi stanno cominciando a incontrare i gruppi di credenti omosessuali e i loro genitori, per capire meglio le difficoltà che incontrano concretamente. 

Monsignor Krysztof Charamsa, 43 anni, il teologo che ha fatto coming out, con il suo compagno Eduard alla fine della conferenza stampa in corso a Roma, 3 ottobre 2015. ANSA/ LUCIANO DEL CASTILLO

Monsignor Krysztof Charamsa, 43 anni, il teologo che ha fatto coming out, con il suo compagno Eduard alla fine della conferenza stampa in corso a Roma, 3 ottobre 2015. ANSA/ LUCIANO DEL CASTILLO

Uno di loro un giorno mi ha detto: «Ho sempre ricevuto e letto con attenzione le lettere dei gruppi di credenti omosessuali, ma non potevo fare nulla per loro. Solo oggi papa Francesco mi sta mettendo in condizione di poter rispondere concretamente a queste sollecitazioni». Insomma, il processo di dialogo con le gerarchie è ancora agli albori ed è tutto da inventare, percorrendo spesso strade inesplorate. Un passo avanti e due indietro? L’Amoris Laetitia non è stata accolta con grande entusiasmo dal mondo gay credente… È stato troppo grande lo scarto tra la discussione sul tema dell’accoglienza delle persone omosessuali, che pure c’è stata nel popolo di Dio, e le risposte impacciate del Sinodo. A dirla tutta al Sinodo è stata palpabile la difficoltà di molti vescovi di parlare di questo tema, argomento ancora tabù per molti di loro. Nell’Amoris Laetitia papa Francesco si è limitato a registrare le poche generiche parole scaturite dal Sinodo, lasciando però aperta la porta nella Chiesa alla ricerca e alla sperimentazione di nuove risposte. Cosa che sta creando anche situazioni contraddittorie: ad esempio, nella Diocesi di Torino è nato il progetto “Alla luce del sole” dell’equipe Fede&Omosessualità, sotto la supervisione dell’incaricato vescovile per l’accompagnamento delle persone omosessuali cristiane. L’équipe ha poi organizzato, presso una parrocchia torinese, la veglia del 7 maggio, che ha inaugurato il lungo cammino delle veglie che si concluderà il 31 maggio. Al tempo stesso però dentro alcune strutture diocesane torinesi c’è anche un gruppo di Courage, che propugna invece l’accoglienza delle persone omosessuali nella Chiesa solo se rinunciano alle relazioni affettive e vivano nel nascondimento di ciò che sono. L’enfasi di Francesco sulla prassi pastorale può essere interpretato come un escamotage per
aggirare la dottrina della Chiesa, senza modificarla, lasciando che il cambiamento si imponga di fatto a livello locale? Credo che questo sia l’invito di Papa Francesco: una sfida per la Chiesa locale che non sarà esente da passi falsi. Edith Warton diceva: «Ci sono due modi per diffondere la luce: essere la candela, o lo specchio che la riflette». Quindi se davvero Cristo è la nostra candela, è nostra responsabilità esserne lo specchio e permettere a questa luce di arrivare anche a chi si è sentito rifiutato, emarginato, “sbagliato”. Oggi la Chiesa locale si pone la domanda: come essere “specchio”, anche per le persone Lgbt? Come cattolici non abbiamo ancora una risposta, ma finalmente siamo di nuovo in cammino per cercarla. È forse giunto il tempo, per la Chiesa, di farsi compagna di viaggio di chi bussa alla sua porta?




basterebbe poco per salvare il mondo dei disperati

l’Onu «bacchetta» i Grandi

l’1% delle spese militari per affrontare le crisi globali 

di Lucia Capuzzi
in “Avvenire”

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Non è retorica. È aritmetica. Per affrontare così tante crisi umanitarie in corso sono necessari – in base ai calcoli delle Nazioni Unite – 240 milioni di dollari l’anno. Un traguardo tutt’altro che impossibile: la cifra rappresenta solo l’1 per cento delle attuali spese militari mondiali. A ricordarlo ai 57 capi di Stato e di governo e quasi 6mila delegati riuniti a Istanbul per il Primo summit umanitario è stato ieri Ban Ki-moon. Il segretario generale, promotore dell’iniziativa, si è detto «orgoglioso» dei risultati della conferenza. Devo, però – ha aggiunto – esprimere «disappunto per il fatto che alcuni leader non siano venuti, soprattutto quelli del G7, ad eccezione di Angela Merkel». Ban ha, dunque, lanciato un appello ai membri del Consiglio di sicurezza «a intraprendere passi importanti: la loro assenza non è una scusa per non fare nulla»armi1

La situazione è drammatica: 130 persone hanno necessità di assistenza per sopravvivere. E il loro numero cresce al ritmo allarmante di un milione al mese. Per far fronte all’emergenza, è urgente riformare il sistema degli aiuti in modo – afferma l’Onu – da renderlo «più inclusivo». A preoccupare, in particolare, è il proliferare di conflitti e le difficoltà nel fermare quelli in corso: come sottolinea l’Onu, l’80 per cento dei fondi devono tamponare tragedie create dall’uomo. Una vera soluzione, come ha ricordato papa Francesco nel messaggio inviato al summit, si può trovare solo mettendosi nei panni e dalla parte delle vittime. Ascoltiamo il loro pianto – ha chiesto il Pontefice –, lasciamo che ci diano «una lezione di umanità». La chiave per la riuscita del vertice – ha ribadito ieri il cardinale Pietro Parolin – è «mettersi dalla parte di quanti soffrono». In un’intervista a Radio Vaticana, il segretario di Stato – che ha guidato la delegazione della Santa Sede a Istanbul – ha sottolineato la centralità della persona umana «ma della persona umana nella sua concretezza, nella sua singolarità. Quindi la persona che soffre, la persona che si trova nella necessità».

armi2La conferenza non è stata, comunque, esente da polemiche. Il leader del Paese ospite, Recep Tayyb Erdogan, ha colto l’occasione per lanciare un nuovo affondo all’Ue. Il giorno dopo le critiche di Merkel per il giro di vite turco, il presidente ha detto di non aver ricevuto dall’Europa gli aiuti promessi per l’accordo sui profughi. E ha lanciato la sfida a Bruxelles: «Se non ci saranno progressi sulla liberalizzazione dei visti, Ankara non continuerà nell’attuazione dell’intesa sui migranti». Eloquente, pure, in tale direzione la scelta di non inserire nel nuovo esecutivo Volkan Bozkir, protagonista della recente mediazione con l’Europa.




‘tornare alla comunità’ per superare il ‘postumano’

nel tempo del “postumano”, tornare all’uomo

Fritjof Capra

Dobbiamo tornare alla comunità, spiega il fisico Fritjof Capra. Per il celebre autore del “Tao della fisica”, se studiamo il vivente “possiamo osservare che gli ecosistemi hanno sviluppato una serie di principi organizzativi che sono principi di comunità. Si potrebbe dire che la natura sostiene l’umano formando e nutrendo comunità”. Cooperazione e sviluppo sono impresse nel codice sorgente della nostra forma di vita.

«La nostra idea fissa della crescita economica e il sistema di valori ad essa sotteso hanno creato un ambiente fisico e mentale in cui la vita è diventata estremamente malsana». Eppure, prosegue Fritjof Capra, nemmeno l’idea opposta, quella di decrescita sembra in grado di accompagnarci verso quel «salto di paradigma» che l’odierno contesto di recessione globale rende non solo auspicabile, ma necessario

L’economia, osserva Capra, è solo un aspetto di un tessuto ecologico e sociale complessivo nel quale si sta facendo largo una nuova visione d’insieme che, a dispetto di cifre, rating e disavanzi di bilancio, oppone una «qualitative growth» – una crescita qualitativa – ai troppi numeri che «vorrebbero imbrigliare la vita» in schemi e grafici.

Fisico teorico, studioso di teoria della complessità, Fritjof Capra è fortemente critico nei confronti di ogni “parcellizzazione” e “settorializzazione” del sapere.

Dopo la svolta

Dono, comunità, interconnessione: tre parole chiave del nostro tempo…
Dobbiamo tornare alla comunità. Ci sono ragioni per questo “ritorno” che illuminano particolarmente il nostro tempo di crisi, dando ad esso una speranza nuova. Una ragione è legata alla sostenibilità, che non è una proprietà dell’individuo di una specie. È proprietà di una comunità ecologica o di una comunità sociale. Se studiamo la vita, possiamo osservare che gli ecosistemi hanno sviluppato una serie di principi organizzativi che sono principi di comunità. Si potrebbe dire che la natura sostiene la vita formando e nutrendo comunità.

Se vogliamo sostenere la vita, noi dobbiamo fare la stessa cosa: nutrire le comunità. In una comunità troviamo piacere nelle relazioni umane. Dobbiamo tornare alle relazioni umane, nutrirle, svilupparle Dobbiamo sognare un’economia informale basata sulla reciprocità, sul dono, su quella shadow economy che, nascosta dalle statistiche ufficiali, permette a uomini e donne di aiutarsi, di sentirsi meno soli, di assistersi, di parlarsi, di avere cura di sé, avendo cura degli altri. La crescita qualitativa di cui parlavamo all’inizio passa proprio da qui: dall’aver cura di sé, dall’aver cura degli altri, dall’aver cura del mondo.

Dobbiamo tornare alla comunità. Ci sono ragioni per questo “ritorno” che illuminano particolarmente il nostro tempo di crisi.

Oggi il pensiero economico sembra arrivato a quel «punto morto» che lei descriveva in uno dei capitoli più forti di un suo libro pubblicato trent’anni fa, Il punto di svolta. Che cosa è cambiato da allora e perché la svolta («turning point») avvenuta nelle fisica all’inizio del XX e tanto attesa in questo inizio di XXI ancora non si è ancora verificata?
The Turning point venne pubblicato nel 1982 e la sua elaborazione mi prese quasi cinque anni, dal 1978 al 1981. Molte cose discusse e, in un certo senso, preconizzate in quel libro si sono poi verificate, ma il punto di svolta non è avvenuto. In questi anni mi sono chiesto molte volte la ragione. Nel 1989 tutto sembrava propendere per un cambiamento globale, invece… Ci siamo andati vicini, abbiamo visto sorgere una società civile globale, in particolare a Seattle, in occasione della manifestazioni di protesta (ma non solo di protesta) contro il vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organization).

Il 30 novembre 1999, più di cinquantamila persone, appartenenti a settecento organizzazioni non governative presero parte a una protesta pacifica e costruttiva che ha comunque cambiato per sempre l’orizzonte politico della globalizzazione. Però la storia non segue un corso lineare, avanza in maniera caotica e ci sorprende sempre.

La diffusione delle nuove comunicazioni e il pieno sviluppo della network societyhanno cambiato il contesto, mutando però anche la nostra consapevolezza. Hanno però anche dilatato i tempi della svolta. Una svolta che, ora, sembra nuovamente prossima ad arrivare.

“Noi siamo crisi”

La rapida consultazione di un qualsiasi dizionario basterebbe a ricordarci che “crisi” significa “separazione, scelta, giudizio”, capacità di cogliere nuove sfide, abbandonando vecchi schemi di pensiero. Qual’è dunque la sfida che ci pone la crisi che, dalla Grecia a New York, sembra non lasciare tregua al mondo?
La sfida principale è tutta nel capire “come” passare da un sistema ancora improntato su un’idea di crescita illimitata a un altro che preveda un livello ecologicamente sostenibile e socialmente oltre che economicamente equo. La nostra crisi inizia quando sbagliamo il sistema di referenza e avanziamo smarriti come su un territorio di cui possediamo la mappa, ma una macchia precocemente invecchiata. Per quanto attiene la sfida, occorre un passaggio, una svolta appunto. Ma per compiere questo passaggio, non basta dire “no” alla crescita o auspicare meno industria, meno consumi, meno tutto. La crescita è infatti una caratteristica fondamentale della vita e, di conseguenza, anche della società e dell’economia. Non c’è vita senza crescita e chi non cresce è destinato, prima o poi, a soccombere.

Dobbiamo però intenderci sul concetto di crescita e, come fisico, devo subito osservare che in natura essa non è mai un concetto lineare.
In un ecosistema c’è sempre un gioco di compensazioni che porta all’equilibrio: qualcosa cresce, qualcosa d’altro decresce, ma soprattutto si arriva a una crescita qualitativa che aumentare la complessità e la maturità dell’ecosistema stesso. Questo tipo di crescita non lineare, sfaccettata e multiforme è ben nota ai biologi e agli studiosi delle cosiddette scienze naturali, mentre pare ancora lontana dall’essere accolta dagli scienziati sociali, impregnati come sono di un meccanicismo cartesiano oramai fuori luogo e fuori tempo massimo.

La nostra è una cultura ancora troppo frammentata, divisa tra infiniti specialismi: il riduzionismo consiste proprio in questa disposizione culturale volta a ridurre interrelazioni tra fenomeni complessi a elementi base da studiare solo e soltanto in base ai meccanismo attraverso i quali interagiscono. È una visione ristretta del mondo alla quale, purtroppo, spesso si attribuisce l’etichetta del tutto fuori luogo di “metodo scientifico”.

L’attuale crisi finanziaria globale ha reso ancor più evidente che i maggiori problemi del nostro tempo – energia, ambiente, cambiamento climatico, sicurezza alimentare e la sicurezza finanziaria – non possono essere compresi separatamente. Sono problemi sistemici, il che significa che sono interconnessi e interdipendenti.

Proprio per uscire da questo schematismo, alla crescita e al suo corrispettivo, parimenti riduzionista di decrescita misurate dal PIL e dal consumo pro capite opporrei la visione di una crescita qualitativa e non-lineare, basata sulla qualità della vita e sulle relazioni. Siamo vicini al punto di svolta.

C’è una nuova energia, un movimento civile globale che non è puramente ideologico e chiede di rimettere l’uomo al centro dell’economia, mentre per troppo tempo l’economia si è insediata nel cuore dell’uomo.

Le nuove tecnologie hanno un ruolo ambivalente, in questa crisi. Aumentano la velocità di circolazione di denaro e titoli, ma al tempo stesso favoriscono la nascita di inedite solidarietà tra chi rivendica un modello di sviluppo diversamente partecipato e sostenibile…
Partiamo da una data: il 1989. Con la Caduta del Muro di Berlino. la crisi si è intensificata a tutti i livelli, ecologico, economico e sociale, ma il sistema ha sostanzialmente retto, anche perché le nuove tecnologie hanno dato vita a un nuovo materialismo fondato sul diktatedonistico “consumo, dunque sono”dando così a tutti l’illusione di partecipare in base alla propria capacità di acquisto. Oggi, venuta meno questa possibilità di inclusione attraverso il consumo, chi non può più consumare, comincia a chiedersi come ripartire, come partecipare, come fare rete. Al tempo stesso, infatti, queste nuove tecnologie di comunicazione hanno permesso la costituzione di reti di solidarietà orizzontale e di un pensiero non più lineare – la rete è, appunto, proprio questo: pensiero che si lega e interconnette in forma non convenzionale. C’è una nuova energia, un movimento civile globale che passa dall’occupazione di Wall Street alle proteste di piazza a un movimento di uscita dal nucleare che non è puramente ideologico e chiede di rimettere l’uomo al centro dell’economia, mentre per troppo tempo l’economia si è insediata nel cuore dell’uomo.

Nel tempo del “postumano” lei propone di tornare all’uomo?

Non c’è altra scelta. L’urgenza è anche quella di slegare finanza e vita. Un’economia in senso stretto dovrebbe uscire dall’ossessione istituzionalizzata della finanza. Questa ossessione è tutt’uno con la velocità: pensiamo al fatto che se, storicamente, gli scambi umani hanno sempre subito una certa frizione e un certo attrito – i trasporti via terra o via mare potevano subire ritardi di ogni tipo – oggi grazie alle nuove tecnologie di comunicazione la finanza ha velocizzato i processi di scambio annullando lo spazio tra azione e reazione. Al tempo stesso, però, queste nuove tecnologie hanno permesso il diffondersi di una consapevolezza altamente globalizzata, ma al tempo stesso localizzata nella necessità di azione. Il pensiero deve essere globale, ma l’azione non può prescindere dalla concretezza del locale. Il vecchio motto di Jacques Ellul, «pensa globalmente, agisci localmente» ha oramai preso corpo.

 
da vita.it



il nobel a Barghouti sarebbe un’ottima notizia

Palestina

Marwan Barghouti candidato al Premio Nobel per la Pace

Ufficio Stampa Ambasciata di Palestina a Roma
Redazione Italia

Palestina, Marwan Barghouti candidato al Premio Nobel per la Pace

lo scorso 17 aprile, il Parlamento Arabo composto da parlamentari di tutto il mondo arabo, ha deciso di candidare ufficialmente al Premio Nobel per la Pace 2016 Marwan Barghouti, il leader di Al-Fatah detenuto nelle carcere israeliane in nome del quale – dalla cella di Nelson Mandela in Sudafrica – è stata lanciata la campagna per la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi

Nella nomina fatta pervenire al Comitato per l’assegnazione del Premio, il Presidente del Parlamento, Ahmed Al Jarwan, ha motivato questa scelta con la convinzione che “il grande combattente per la libertà Marwan Barghouti rappresenta un simbolo di giustizia per la questione palestinese e la lotta del popolo palestinese”

La lettera al Comitato ricorda anche che Barghouti ha già trascorso 22 anni in carcere e 7 in esilio, oltre ad essere stato oggetto di svariati tentativi di omicidio a causa del suo impegno – dispiegato in un arco di tempo di più di 40 anni – per la causa della libertà e per il riconoscimento di uno Stato palestinese, in linea con le risoluzioni internazionali.

In sostanza, secondo il Parlamento Arabo “Il riconoscimento del Premio Nobel per la Pace a Marwan Barghouti rappresenterebbe un importante messaggio di sostegno e riconoscimento della lotta palestinese per porre fine all’occupazione sulla base della soluzione dei ‘due Stati’ e garantire alla regione una pace giusta e duratura”.

La campagna per la nomina di Barghouti è stata lanciata intorno alla metà di marzo da molte organizzazioni palestinesi, tra cui la Commissione del PLO per i Prigionieri, il Club dei Prigionieri Palestinesi e il Consiglio Legislativo Palestinese. Ai primi di aprile, Fadwa Barghouti, moglie di Marwan e attivista per i diritti umani, è stata invitata a Tunisi per una cerimonia molto partecipata nel corso della quale Fadhel Moussa, capo della Lega Tunisina per la Difesa dei Diritti dell’Uomo, ha voluto simbolicamente passare a Marwan il Premio Nobel per la Pace vinto l’anno scorso dal Quartetto per il Dialogo Nazionale Tunisino.

Di ritorno dal viaggio, Fadwa ha commentato che si trattava di una decisione importante “perché afferma che il popolo palestinese ha il diritto di liberarsi dall’ occupazione israeliana (…) Israele definisce Barghouti e gli altri prigionieri come terroristi; questa candidatura dice tutt’altro”. Questo invece il commento di Issa Qaraqe, capo della Commissione del PLO per i Prigionieri: “Non importa se Marwan vincerà o meno il premio, il fattore cruciale di questa vicenda è l’alto valore legale e simbolico di questa candidatura”.




frei Betto e il nostro mondo ‘globocolonizzato’

Il cristianesimo come progetto di civiltà

il cristianesimo come progetto di civiltà

da: Adista Documenti n° 20 del 28/05/2016

frei Betto, uno degli esponenti più prestigiosi della Chiesa della Liberazione brasiliana, durante la conferenza pronunciata il 15 marzo scorso all’Accademia Brasiliana delle Lettere, evidenzia opportunamente che: 

come «non fu il cristianesimo a convertire l’Impero Romano, all’epoca di Costantino», ma «furono i romani a convertire la Chiesa in potenza imperiale», così non è stato il cristianesimo ad evangelizzare l’Occidente, «ma è stato il capitalismo occidentale a impregnarlo del suo spirito profittatore, individualista e competitivo»

con i risultati che abbiamo tutti dinanzi agli occhi. E ciò malgrado il fatto che Gesù non sia venuto a portare tra noi una Chiesa o una nuova religione, ma

 

«un nuovo progetto di civiltà, basato sull’amore per il prossimo e per la natura e sulla condivisione dei beni della Terra e dei frutti del lavoro umano. Una nuova civiltà in cui tutti siano inclusi: storpi, ciechi, lebbrosi, mendicanti e prostitute. E in cui la vita, il più grande dono di Dio, sia da tutti goduta in pienezza»

 

Il Brasile è un Paese di matrice cristiana. Chiedete a chiunque quale sia la sua visione del mondo e, certamente, avrete una risposta intessuta di categorie religiose.

Il cristianesimo, nella sua versione cattolica, è arrivato nel nostro Paese in compagnia del progetto colonizzatore portoghese. Entrare a far parte della civiltà, così come veniva concepita nella Penisola Iberica, significava diventare cristiani. Era questa l’ossessione missionaria di Anchieta: annullare le convinzioni religiose dei popoli originari della terra brasiliana, considerate idolatriche, per introdurre il cristianesimo secondo la teologia europea occidentale, in un  atto di aggressione alla cultura indigena.

I colonizzatori portarono in Brasile gli africani come schiavi, i quali dovevano piegarsi al battesimo per entrare nell’inferno qui in Terra, con la promessa che, se fossero stati docili alla volontà e ai perversi capricci dei bianchi, avrebbero meritato il Paradiso celeste come ricompensa. Si predicava il Gesù crocifisso alla senzala (la dimora degli schiavi contrapposta alla casa-grande del padrone, ndt), affinché si rassegnasse ad atroci sofferenze, e il Sacro Cuore di Gesù alla casa-grande, perché mettesse i propri beni a disposizione delle opere della Chiesa.

IL FLAUTO E L’OSTIA CONSACRATA

All’inizio del XX secolo, un prete destinato a catechizzare un villaggio della regione dello Xingu rimase indignato nel constatare che il rituale religioso era centrato su un flauto suonato dallo sciamano, la cui musica stabiliva la connessione con il Trascendente. A donne e bambini, chiusi nelle capanne, era proibito assistere alla cerimonia.

Scortato da soldati, il missionario portò il flauto al centro del villaggio, fece venire donne e bambini e, dinanzi a tutti, spezzò lo strumento musicale, denunciandone la natura idolatrica, e predicò la presenza di Gesù nell’ostia consacrata.

Ebbene, cosa impedisce a un gruppo di indigeni di entrare nella chiesa della Candelária, aprire il tabernacolo, strappare le ostie consacrate e gettarle nella spazzatura? Appena la mancanza di una scorta sufficientemente armata.

FEDE E POLITICA

Noi occidentali abbiamo desacralizzato il mondo o, come dice Max Weber, lo abbiamo disincantato. Fino al punto di decretare “la morte di Dio”. Se abbracciamo paradigmi così profondamente cartesiani, fortunatamente in crisi, ciò non costituisce un motivo per “spezzare il flauto” dei popoli che prendono sul serio le loro radici religiose.

Oggi, sbaglia l’Oriente per il fatto di ignorare la conquista moderna della laicità della politica e della reciproca autonomia tra religione e Stato. E sbaglia l’Occidente per il fatto di “sacralizzare” l’economia capitalista, divinizzare la “mano invisibile” del mercato e disprezzare le tradizioni religiose, pretendendo di confinarle nei templi e nella vita privata.

Gli orientali commettono un errore a confessionalizzare la politica, come se le persone si dividessero tra credenti e non credenti (oppure tra adepti alla mia fede e tutti gli altri). La linea divisoria della popolazione mondiale sta nell’ingiustizia che segrega 4 su 7 miliardi di abitanti.

A loro volta, gli occidentali commettono un grave errore nel pretendere di imporre a tutti i popoli, con la forza e con il denaro, il proprio paradigma di civiltà fondato sull’accumulazione della ricchezza, sul consumismo e sulla proprietà privata al di sopra dei diritti umani.

UN CRISTIANESIMO A IMMAGINE E SOMIGLIANZA DEL CAPITALISMO

Molti dei presenti in questa sala dell’Accademia Brasiliana delle Lettere sono figli e figlie del XX secolo e sono nati in famiglie cattoliche. Siamo stati battezzati e cresimati, abbiamo fatto la prima comunione, abbiamo imparato a pregare e abbiamo appreso la devozione ai santi e alle sante.

Questo cristianesimo si sposava perfettamente con la morale borghese che separava il personale dal sociale, il privato dal pubblico. Era peccato masturbarsi, ma non pagare un salario ingiusto a una lavoratrice domestica confinata in una stanzetta irrespirabile, sprovvista di tutele e obbligata a svolgere molteplici compiti. Era peccato saltare la messa la domenica, ma non impedire a un bambino nero di frequentare il collegio religioso dei bianchi. Era peccato fare cattivi pensieri, ma non pagare, in una notte, per una bottiglia di vino, quanto il cameriere che portava i bicchieri guadagnava in tre mesi di lavoro.

Come evidenziato da Max Weber, il cristianesimo ha dotato di spirito il capitalismo. Bisogna aver fede nella mano invisibile del mercato, così come si crede in un Dio che non si vede. Bisogna essere convinti che tutto dipende dai meriti personali e che la povertà deriva da peccati capitali come la pigrizia e la lussuria. Bisogna tener presente che molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti a godere, già sulla Terra, le gioie che il Signore promette nelle dimore celesti…

Non fu il cristianesimo a convertire l’Impero Romano, all’epoca di Costantino. Furono i romani a convertire la Chiesa in potenza imperiale. Allo stesso modo, non fu il cristianesimo a evangelizzare l’Occidente, ma fu il capitalismo occidentale a impregnarlo del suo spirito usuraio, individualista, competitivo. E cosa ci presenta la storia come risultato?

Tutte le nazioni schiavocratiche della modernità erano cristiane. Erano cristiane le nazioni che promossero il genocidio indigeno in America Latina. È cristiano il Paese che ha commesso il più grave attentato terroristico di tutta la storia, calcinando migliaia di persone con le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Erano cristiani i governi che hanno scatenato le due grandi guerre del XX secolo. Ostentavano la qualifica di cristiane le dittature che, il secolo scorso, hanno proliferato in America Latina, patrocinate dalla CIA. Sono cristiani i Paesi che più devastano l’ambiente. Così come sono cristiani quelli che più producono pornografia e alimentano il narcotraffico. Sono cristiane molte nazioni, tra cui il Brasile, in cui la disuguaglianza sociale è clamorosa.

Di che diavolo di cristianesimo stiamo parlando? Certamente non di quello chiamato a riflettere la prassi e i valori testimoniati da Cristo.

GESÙ È VENUTO A FONDARE UNA RELIGIONE?

Siamo stati educati nell’idea che Gesù venne a fondare una religione o una Chiesa. Ma ciò non coincide con quanto dicono i vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni, le principali fonti sulla persona di Gesù.

In tutti e quattro i vangeli la parola Chiesa appare solo due volte, e solo in Matteo. E i vangeli stanno a indicare come Gesù fosse un severo critico della religione dominante nella Palestina del suo tempo, basti leggere il capitolo 23 di Matteo.

Già l’espressione “Regno di Dio” (o “Regno dei cieli”, in Matteo) appare più di cento volte in bocca a Gesù. Il teologo Alfred Loisy diceva che Gesù aveva predicato il Regno, ma che ciò che si era avuto era stata la Chiesa…

Gesù visse, morì e resuscitò sotto il regno di Cesare, un titolo concesso ai primi 11 imperatori romani. A partire dall’anno 63 prima della nostra era, la Palestina si trovava sotto il dominio dell’Impero Romano. Era una provincia fortemente controllata da Roma, politicamente, economicamente e militarmente. Tutta l’azione di Gesù si svolse sotto il regno dell’imperatore Tiberio Claudio Nerone Cesare, al potere dall’anno 14 all’anno 37. La Palestina nella quale visse Gesù era governata da autorità nominate da Tiberio, come il governatore Ponzio Pilato (il quale, curiosamente, è stato immortalato nel Credo cristiano) e la famiglia del re Erode. La società era diretta da un potere centrale che si manteneva con le imposte riscosse dal popolo, dalle comunità rurali e dalle città.

Pertanto, parlare di un altro regno, quello di Dio, all’interno del regno di Cesare aveva l’effetto che avrebbe oggi parlare di democrazia in tempi di dittatura. E questo spiega la ragione per cui tutti noi cristiani siamo discepoli di un prigioniero politico. Gesù non è morto di epatite nel suo letto, né in un disastro di cammelli lungo una strada di Gerusalemme. Come tanti perseguitati dai governi autoritari, arrestati, torturati e uccisi, egli pure è stato arrestato, torturato, giudicato da due poteri politici e condannato a morte sulla croce. La domanda da porre è questa: che tipo di fede hanno, oggi, i cristiani, se neppure reagiscono a questo disordine stabilito in cui, secondo l’Oxfam, 62 famiglie possiedono una fortuna pari al reddito di 3,6 miliardi di persone, metà dell’umanità?

Al contrario di ciò che molti pensano, per Gesù il Regno di Dio non era solo qualcosa là in alto, nel Cielo. Era, soprattutto, qualcosa da conquistare in questa vita e su questa Terra. «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10, 10). Ed egli fu l’uomo nuovo per eccellenza, il prototipo di ciò che dovranno essere tutti gli uomini e tutte le donne del “Regno” futuro, la civiltà dell’amore, della giustizia e della solidarietà.

Le basi di questo progetto di civiltà e dei suoi valori si trovano rispecchiate nella prassi e nelle parole di Gesù. Se operiamo come lui, questo nuovo mondo dovrà diventare realtà. È questa l’essenza della promessa di Gesù.

LA CENTRALITÀ DELL’UMANO

Si può non avere una fede cristiana e persino provare avversione per la Chiesa. Ma a imboccare il sentiero di Gesù è qualunque persona affamata di giustizia, libera da qualsivoglia pregiudizio nei confronti degli esseri umani, capace di condividere i propri beni con chi ne ha bisogno, di preservare l’ambiente, di avere compassione e saper perdonare, di essere solidale con le cause che difendono i diritti dei poveri.

Gesù non è venuto ad aprirci la porta del cielo. È venuto a riscattare l’opera originaria di Dio, che ci ha creati perché vivessimo in un paradiso, come indica il libro della Genesi. Se il paradiso non si è realizzato, è perché abbiamo abusato della nostra libertà anelando a trasformare in proprietà privata ciò che, di diritto, è di tutti.

Gesù non è venuto come un extraterrestre per portarci un catalogo di verità estranee al nostro mondo. È venuto a ri-velare, disvelare, togliere il velo, cioè a farci vedere ciò che è già parte del nostro procedere, del nostro quotidiano, ma del cui valore trascendente non avevamo idea.

È venuto ad avvisarci: il mondo che Dio vuole ha questo profilo, queste caratteristiche! Un mondo in cui non ci siano esclusi, affamati, vittime di ingiustizia. Un mondo in cui la solidarietà regni sulla competitività e la riconciliazione sulla vendetta.

Questo progetto di Dio, annunciato da Gesù, ha il suo centro non in Dio, ma nell’essere umano, fatto a immagine e somiglianza di Dio. Solo nella relazione con il prossimo si può amare, servire e onorare Dio.

I missionari che colonizzarono l’America Latina bruciarono indigeni, come il capo indio Hatuey, a Cuba, colpevoli di rendere culto a un Dio diverso da quello dei cristiani. Ebbene, Gesù non predicò ai farisei e ai sadducei un altro Dio, differente da quello a cui rendevano culto gli ebrei nel Tempio di Gerusalemme. Predicò che, per l’essere umano, l’essere supremo è lo stesso essere umano. In Matteo 25, 31-46, Gesù si identifica con l’affamato, l’assetato, lo straniero, l’ignudo, l’infermo, il prigioniero. E chiarisce che è al servizio di Dio chi libera il prossimo da un mondo che produce tali forme di oppressione e di esclusione.

Pertanto, ciò che Gesù è venuto a portare tra noi non è stata una Chiesa o una nuova religione. È stato un nuovo progetto di civiltà, basato sull’amore per il prossimo e per la natura e sulla condivisione dei beni della Terra e dei frutti del lavoro umano. Una nuova civiltà in cui tutti siano inclusi: storpi, ciechi, lebbrosi, mendicanti e prostitute. E in cui la vita, il più grande dono di Dio, sia da tutti goduta in pienezza.

Come raggiungere tale progetto di civiltà? Gesù ha posto nitidamente l’accento sul fatto che a tale scopo è necessario rinunciare, come valori o obiettivi di vita, all’avere, al piacere e al potere, simbolizzati nell’episodio delle tentazioni nel deserto (Lc 4,1-13). E, al contrario di ciò che si presuppone, chi lo fa incontra ciò che ogni essere umano desidera di più, la felicità, o, nei termini del Vangelo, la beatitudine, esplicitata da Gesù in otto vie che imprimono un senso altruista alle nostre vite (Mt 5,3-12). Bisogna essere solidali con gli esclusi, come il buon samaritano; compassionevoli, come il padre del figliol prodigo; spogliati di tutto, come la vedova che dona al Tempio il denaro che le era necessario. Bisogna assicurare a tutti condizioni degne di vita, come nella condivisione dei pani e dei pesci. Bisogna denunciare coloro che mettono la legge al di sopra dei diritti umani e fanno della casa di Dio una spelonca di ladri. Bisogna trasformare la nostra carne e il nostro sangue in pane e vino affinché tutti, come fratelli e sorelle, intorno alla stessa mensa, condividano il miracolo della vita uniti da un solo Spirito.

Ebbene, se siamo d’accordo sul fondamento di tutta la predicazione di Gesù – il fatto che l’essere supremo è lo stesso essere umano – allora non resta che chiederci perché tanti esseri umani, in questo mondo globocolonizzato in cui viviamo, siano condannati da strutture ingiuste alla miseria, all’esclusione, alla migrazione forzata, alla morte precoce e, insomma, a una vita di sofferenza e di oppressione.

E che abbiano o meno fede in Dio, tutti coloro che si impegnano a combattere le cause dell’ingiustizia compiono la volontà di Dio secondo la parola di Gesù. E credono che questo “regno di Cesare” debba essere abolito per far spazio a un altro regno, le cui strutture assicureranno a tutti una vita in pienezza. E in questo si riassume il progetto di Dio per la storia umana e l’utopia annunciata da Gesù.