il commento al vangelo della domenica

VIENE GESU’, PRENDE IL PANE E LO DA’ A LORO, COSI’ PURE IL PESCE  

commento al vangelo della domenica terza di pasqua (10 aprile 2016) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Gv 21,1-19

[ In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri. Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti. ] Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».

Quando Gesù risuscitato si era manifestato ai suoi discepoli li aveva inviati. Aveva detto: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi. Andate a testimoniare un amore di Dio per l’umanità, pieno, totale e incondizionato”.
Ma a quanto pare i discepoli non hanno capito o non hanno alcuna voglia di andare a manifestare questo amore e infatti tornano alle loro occupazioni di sempre. Leggiamo il capitolo 21 del vangelo di Giovanni.
Dopo questi fatti Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E’ la terza volta che Gesù risuscitato si manifesta. Il numero non va inteso in maniera aritmetica o matematica, ma significa la completezza, la pienezza delle apparizioni, delle esperienze di Gesù risuscitato.
E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle (l’ultimo dei discepoli chiamati da Gesù) di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. L’evangelista vuole raggiungere il numero sette che indica la totalità dei discepoli.
Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Pietro continua ancora nel suo desiderio di essere il leader. E’ lui che prende le decisioni. Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». E’ una caratteristica nel vangelo che i discepoli nei momenti difficili, nei momenti di crisi, anziché essere con Gesù sono con Simon Pietro. E i risultati sono catastrofici. Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. Gesù aveva detto: “Senza di me non potete far nulla” e aveva detto che “Quando viene la notte nessuno può operare”. Ma i discepoli ancora non hanno capito.
Ecco allora l’azione paziente di Gesù che rinnova il suo invito alla missione. Quando già era l’alba, quindi quando già comincia la luce, immagine di Gesù, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: “Figlioli”, termine pieno di dolcezza, di tenerezza, di delicatezza, “non avete nulla da mangiare?”. Letteralmente “il companatico”, quindi qualcosa da mettere sul pane. Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità (letteralmente moltitudine) di pesci.
E’ importante questo termine “moltitudine” perché l’evangelista l’aveva adoperato nel capitolo 5 nell’episodio della guarigione nel tempio di Gerusalemme, nella piscina di Betesda, quando c’era una moltitudine di ciechi, zoppi e paralitici che erano gli esclusi, gli emarginati. Cosa vuol dire l’evangelista? Che la missione del gruppo di Gesù si deve rivolgere agli esclusi, gli emarginati, i rifiutati e gli allontanati. E’ lì che la pesca sarà abbondante.
Allora quel discepolo che Gesù amava – il discepoli anonimo che continua la sua presenza in tutto questo suo vangelo –  disse a Pietro: «È il Signore!». Lui ha l’esperienza del Signore e subito lo riconosce. Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi (letteralmente si cinse la veste, che significa atteggiamento di servizio, come Gesù quando si è messo a lavare i piedi ai discepoli), perché era svestito. Era nudo. E’ strano che il discepolo che era nudo si metta la veste per poi gettarsi in acqua. L’evangelista naturalmente sta dando un significato figurato a tutto questo. Nudo perché non ha il distintivo del servizio di Gesù, perché è il servizio quello che rende discepoli di Gesù.  E si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri.
Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Questo fatto del pane e del pesce ricorda la condivisione dei pani e dei pesci che è immagine dell’eucaristia.
Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E’ la delicatezza di Gesù che si propone come colui che offre la vita, come colui che propone questa vita.
E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Nell’amore che si fa dono si percepisce la presenza del Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane – gli stessi gesti che gli evangelisti mettono nella cena eucaristica – e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti. ] L’eucaristia è l’alimento che ristora e comunica forza. Ed è a questo punto che finalmente l’evangelista risolve il problema di Simon Pietro. Gesù quando aveva incontrato Simone non l’aveva invitato a seguirlo, in questo vangelo. Allora ecco l’ultimo scontro drammatico tra Gesù e questo discepolo.
Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni”. Figlio significa discepoli, di Giovanni Battista. Lui è rimasto con l’idea del Giovanni Battista. “Mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Ma Gesù gli ha chiesto se lo ama. Lui sa che non può rispondere che lo ama, infatti dice che gli vuole bene. Ma Gesù accetta la risposta. Gli disse: «Pasci i miei agnelli» cioè gli elementi più deboli della comunità. E poi torna alla carica. Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Due volte Gesù gli chiede se lo ama e due volte Pietro risponde che gli vuole bene.
Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta, (e il numero tre al povero Simone ricorda il suo tradimento con il canto del gallo): «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Per due volte Gesù gli ha chiesto “mi ami?” e per due volte Simone ha risposto “ti voglio bene”, ora la terza volta Gesù lo incalza e gli dice “mi vuoi bene?” Ecco finalmente il crollo di Simone. Pietro rimase addolorato (finalmente era ora, non lo era al momento del tradimento) che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Lui che pensava di conoscersi meglio di Gesù. Quando Gesù aveva detto “Tutti mi tradirete, tutti mi abbandonerete”, lui aveva detto “No io sono pronto a dare la mia vita per te”. Pensava di conoscersi meglio di Gesù, ora finalmente ammette: “Tu conosci tutto”.
Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti cingevi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». E l’evangelista commenta. Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. Pietro aveva seguito Gesù pensando di seguire un leader vittorioso, il messia trionfante, e Gesù gli fa capire invece che seguire lui significa passare attraverso l’ignominia, attraverso il disprezzo, attraverso la croce. Ora finalmente questo discepolo ha capito e accoglie questo invito di Gesù. E, detto  questo, aggiunse: «Seguimi». Per la prima volta Gesù a Simone alla fine del vangelo lo invita a seguirlo. Quando finalmente ha compreso che seguire Gesù non prevede una strada di onori, di successi, di potere, ma di amore e di servizio e anche di umiliazioni e sofferenze, soltanto a questo punto Gesù dice al discepolo “seguimi”.




presto sull’isola greca di Lesbo la solidarietà di papa Francesco ai migranti

informazioni dal sito ‘il sismografo’   

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Papa Francesco potrebbe andare presto sull’isola greca di Lesbo, addirittura forse già il 15 aprile, per portare la sua vicinanza e il suo sostegno ai profughi e ai migranti.
È quanto sostengono media greci, citando come fonte una nota del Santo Sinodo della Chiesa ortodossa di Grecia.

Secondo quanto riportato dal sito internet Sismografo, solitamente ben informato, Papa Francesco potrebbe recarsi assieme al patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I sull’isola di Lesbo il prossimo 15 aprile, a seguito di una proposta da parte di Hyeronimus, arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia, che ha avuto il sostegno del Santo Sinodo della Chiesa ortodossa greca.

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Anche fonti del governo greco hanno confermato la notizia.

Interpellato dall’agenzia Ansa, padre Federico Lombardi ha affermato: «È un argomento di cui si sta parlando, ci sono contatti in corso. Non smentisco le voci ma al momento non posso dichiarare altro perché non ci sono decisioni, date né programmi definiti».

Stando a quanto riportato dal sito Vatican Insider: «La cifra del viaggio papale, che può essere iscritta tra le “trasferte mensili” in luoghi della sofferenza che Papa Francesco ha deciso di realizzare una volta al mese durante l’Anno Santo della Misericordia, è ovviamente connessa alla tragedia dei migranti che cercano di attraversare il Mare Nostrum per raggiungere l’Europa».

I precedenti viaggi
Se queste informazioni dovessero essere confermate e Papa Francesco dovesse recarsi su Lesbo, si tratterebbe del secondo viaggio compiuto assieme a Bartolomeo, dopo quello in Terra Santa del maggio 2014.

Da ricordare anche che si tratterebbe del secondo viaggio di un Pontefice in Grecia (dopo Giovanni Paolo II nel 2001) e il secondo viaggio di Papa Francesco in un’isola del Mediterraneo per incontrare profughi e rifugiati dopo quello dell’8 luglio 2013 a Lampedusa dove celebrò la Messa nel campo sportivo “Arena”.

L’attenzione ai migranti
Oltre al viaggio a Lampedusa, ci sono stati innumerevoli gesti che Papa Francesco ha compiuto per testimoniare la sua prossimità al dramma dei migranti: l’ultimo il 24 marzo scorso, Giovedì Santo, con la lavanda dei piedi ai richiedenti asilo ospitati nel Centro richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto. Il 6 settembre 2015, inoltre, durante l’Angelus il Papa rivolse una appello a tutte le parrocchie d’Europa affinché ciascuna accogliesse una famiglia di profughi “a iniziare da Roma e dal Vaticano”. Un invito che è stato accolto: a oggi sono transitati per le strutture ecclesiastiche in Italia 45 migranti, e 22mila di questi sono accolti al momento.




la ragazza rom di Roma che studia alla Sorbona da avvocato

 

da un campo rom a Roma all’università La Sorbona

dal sito www.romatoday.it

Da un “campo rom” a Roma, dove per sopravvivere la sua famiglia si vedeva costretta a chiedere l’elemosina per strada, all’università La Sorbona di Parigi, una delle più prestigiose d’Europa, dove studia per diventare magistrato.

È la storia di Anina Ciuciu, giovane rom rumena di 26 anni, che nei prossimi giorni, dopo ben 19 anni, rimetterà piede a Roma per partecipare ad alcuni eventi organizzati da Associazione 21 luglio in occasione della Giornata Internazionale dei Rom e Sinti, che si celebra l’8 aprile di ogni anno.

 

Venerdì 8 aprile, in Senato, nel corso di un dibattito che seguirà la proiezione al pubblico del film “Gitanistan. Lo Stato immaginario delle famiglie rom salentine”  – Sala dell’Istituto Santa Maria in Aquiro, Piazza Capranica 72, Roma, ore 18.30 – Anina racconterà la sua storia

 

Parlerà della vita di stenti che ha dovuto affrontare quando, all’età di sette anni, è dovuta scappare dal suo Paese, la Romania, per raggiungere l’Italia e Roma. Parlerà di come si sentiva a ritrovare la sua vita, la sua infanzia e i suoi sogni soffocati, seppur per qualche mese, nella dinamica ghettizzante e discriminatoria del “campo rom”. Chissà, se fosse rimasta in quella baraccopoli probabilmente avrebbe continuato a mendicare per sopravvivere, condannata a una esistenza di difficoltà e degrado, di esclusione sociale e rinuncia ai propri sogni e alle proprie aspirazioni.

Andrà ascoltata con attenzione la testimonianza di Anina, la cui autobiografia dal titolo “Je suis Tzigane et je le reste” è già stata pubblicata in Francia, perché ci dimostra che vivere in un ghetto quale è un “campo rom” non è frutto della scelta e dei desideri di una famiglia rom, bensì l’effetto devastante di politiche discriminatorie su base etnica che in Italia, e nella Capitale in particolare, sono state ritagliate su misura per i rom, basandole sul presupposto infondato del presunto nomadismo di famiglie che non vorrebbero vivere come tutti gli altri, in una casa, nella societ

Da quella baraccopoli romana, nel lontano 1997, Anina e la sua famiglia riuscirono ad andar via e a trasferirsi in Francia dove, grazie all’iniziale aiuto di due donne, trovarono un appartamento. Anina è andata a scuola, ha studiato il francese, si è laureata in giurisprudenza e ora frequenta un master alla Sorbona. Dice di sentirsi profondamente francese, oltre che rom e rumena. Europea nell’essenza, insomma.  

Ha avuto una opportunità Anina e l’ha colta al volo. Così come l’ha colta la sua famiglia. Quelle stesse opportunità che invece la politica della ghettizzazione nelle baraccopoli romane annienta in modo inesorabile. E con esse i sogni, le speranze e il futuro delle persone

 

 




«siamo i nazisti delle altre specie»

 

«come essere persone etiche in un mondo senza illusioni, in cui ogni atto implica la tortura e il sacrificio di un altro?»
“ogni giorno realizziamo la schiavitù, la tortura e il sacrificio di altre specie e anche delle persone più fragili della nostra specie”

Eliane Brum

in un articolo pubblicado su El País Brasil (29/2)

 

 

Se i nostri gesti alimentano una catena di orrori. Gli olocausti quotidiani delle specie viventi

se i nostri gesti alimentano una catena di orrori

gli olocausti quotidiani delle specie viventi

 
da: Adista Documenti n° 12 del 26/03/2016

smettere di essere “umani” per diventare “terrani”, cittadini di Gaia consapevoli che nessuna specie è autosufficiente, ma tutte sono in relazione tra loro, in un profondo legame di interdipendenza. Che atmosfera, oceani, suoli, temperatura, esseri viventi e non viventi, tutto è legato nel grande tessuto della vita, la cui legge fondamentale non è quella della competizione, ma della cooperazione di tutti con tutti. E che noi umani condividiamo con tutte le altre creature viventi un patrimonio genetico comune che risale agli organismi monocellulari primordiali dei mari antichi. Cosicché davvero si può affermare che, nella grande comunità della vita, siamo tutti parenti. 

Peccato però che noi umani questa grande famiglia tendiamo piuttosto a sterminarla: come evidenzia la scrittrice e documentarista brasiliana Eliane Brum, in un articolo pubblicado su El País Brasil (29/2), «siamo i nazisti delle altre specie», trovando accettabile che milioni di bovini, ovini e suini nascano solo per nutrire noi, condannati a vivere, se si può chiamarla vita, in campi di concentramento e «sacrificati in olocausti quotidiani». E lo siamo senza più il conforto di poterlo ignorare, non essendoci più posto per le illusioni nella società dell’informazione in cui viviamo. Così, mentre «il cambiamento climatico annuncia già che non solo dobbiamo temere la catastrofe, ma che siamo diventati la catastrofe», alimentandoci, vestendoci e spostandoci «a costo della schiavitù, della tortura e del sacrificio di altre specie e anche delle persone più fragili della nostra specie», c’è un interrogativo a cui non possiamo più sfuggire: «Come essere persone etiche in un mondo senza illusioni, in cui ogni atto implica la tortura e il sacrificio di un altro?». Come guardarsi allo specchio senza cedere all’orrore o al cinismo? Ma se Eliane Brum lascia in sospeso la domanda, si può tuttavia ricordare che, una volta perduta l’innocenza, una volta preso atto che, nell’attuale modello, «nessuna azione del nostro quotidiano è innocente», possiamo sempre, in qualsiasi nostra scelta, cercare di ridurre quanto più possibile il danno, in ciò che mangiamo, in ciò che acquistiamo, nella maniera in cui decidiamo di spostarci, impegnandoci al tempo stesso per il superamento dell’attuale paradigma, in direzione di un nuovo modello in cui, ad ogni semplice gesto, non si finisca più necessariamente per alimentare «una catena di orrori». In cui, insomma, la nostra umanità non sia più di ostacolo alla nostra profonda natura di “terrani”.  

di seguito ampi stralci dell’articolo di Eliane Brum

 

gabbia

Ricordo una scena del primo film della trilogia Matrix, un cult della fine del XX secolo. I membri della resistenza erano quelli che, a un certo punto, si erano resi conto che la vita quotidiana era solo un inganno, un programma del computer, un’illusione. La realtà era un deserto in cui i ribelli lottavano contro “le macchine” in un mondo senza bellezza e senza gioia. La scelta era tra una pillola blu e una rossa. Chi avesse preso la rossa, avrebbe smesso di credere nel mondo che era dato vedere e si sarebbe trovato di fronte alla verità della condizione umana.

Nella scena che qui mi interessa ricordare, un traditore della resistenza negozia i termini della resa mentre si delizia con un succulento filetto. Lo sa bene che il filetto non esiste realmente, che è un programma al computer a farlo vedere e a far sentire l’odore e il sapore della carne, ma se lo gode ugualmente. Venderebbe l’anima alle macchine pur di tornare nella migliore condizione – ricco e famoso – al mondo delle illusioni. Consegnerebbe i suoi compagni pur di recuperare l’innocenza rispetto alla realtà del mondo. Sacrifica la lotta, gli amici e l’etica in cambio di un desiderio: tornare a essere cieco. O tornare a credere nel filetto.

La frase esatta, pronunciata mentre guarda un pezzo di carne infilzato dalla forchetta, è questa: «Lo so che questo filetto non esiste. Lo so che, quando lo addento, è Matrix a dire al mio cervello che è succulento e delizioso». E dopo una pausa: «Dopo nove anni, sai cosa ho capito? Che l’ignoranza è meravigliosa».

All’epoca, alla vigilia del cambio di millennio, il film aveva rappresentato per il pubblico una porta di ingresso al dibattito filosofico sul reale. La pillola rossa divenne una metafora per chi sceglie di vedere Matrix, o vedere al di là delle apparenze. Da allora, in questi ultimi anni di erosione accelerata delle illusioni, penso che la scelta sia diventata assai più complicata.

Forse il disagio, nel nostro tempo, deriva dal fatto che non è più possibile scegliere tra la pillola blu e quella rossa, tra restare ciechi o iniziare a vedere ciò che è dietro la trama dei giorni. Il disagio si deve al fatto che forse non esiste più la pillola blu, che non è possibile quell’illusione che ha svolto un ruolo strutturale nella costituzione soggettiva della nostra specie nel corso dei millenni.

fame

Se fosse uno di noi il membro della resistenza disposto a tradire i compagni, a negoziare la resa con le macchine di fronte a un succulento filetto al ristorante, qui, ora, e non più alla fine degli anni ’90, il dilemma potrebbe subire uno spostamento. Non si tratterebbe di vedere il filetto come filetto, nel senso di credere che esiste, che esiste il ristorante e che lo scenario che chiamiamo mondo è come si presenta ai nostri occhi. No. Il dilemma attuale può anche essere questo, ma solo nella misura in cui è anche altro. Il dramma è che crediamo nel filetto, sappiamo che esiste e sappiamo che è buono. Lo desideriamo, ce ne riempiamo la bocca e ce lo godiamo. Ma, guardandolo, non vediamo solo “il deserto del reale”, ma qualcosa di assai più incarnato e sempre più ineludibile: vediamo il bue.

È terribile vederlo. E, come le persone più sensibili hanno sperimentato, è impossibile smettere di vederlo. La sovrappopolazione umana è andata oltre la logica dei viventi, quella di uccidere per mangiare. E ha imposto la schiavitù e la tortura quotidiana di altre specie. Milioni di bovini, ovini e suini sono nati solo per nutrire noi in campi di concentramento a cui diamo nomi più accettabili. Sacrificati in olocausti quotidiani senza che nemmeno abbiano avuto una vita.

Animali rinchiusi, imprigionati, a volte persino impossibilitati a muoversi durante la loro intera esistenza. Creiamo professioni destinate a riconoscere in pochi secondi se un pulcino è maschio o femmina per separare le femmine, che vivranno pigiate le une sulle altre, a deporre uova, spesso senza riuscire neanche a muovere le ali, dai maschi, che verranno gettati ancora vivi tra i rifiuti. Schiavitù e tortura/sacrificio e rifiuti: questo il destino che attende gli ovini.

Siamo i nazisti delle altre specie. E, se prima era possibile ignorarlo, riducendo la questione a qualcosa di poco importante o a una cosa da “adoratori di lattuga”, con internet e la disseminazione di informazioni è impossibile evitare di guardare il bue negli occhi. Guardando il filetto, il bue ci guarda a sua volta. L’occhio vitreo di chi è terrorizzato perché sa di andare a morire, il bue che perde escrementi dalla paura quando sta per essere sacrificato, il bue che tenta di fuggire ma non trova l’uscita. Gli occhi del bue arrivano a persone come me che possono essere collocate nella categoria degli “adoratori di churrasco”.

La pubblicità del XX secolo ha perso risonanza in tempi di internet. Perché l’illusione non è più possibile. Nulla era più puro del latte bianco estratto da una mucca al pascolo. Era facile credere all’immagine bucolica dell’alimento sano. Il nostro latte veniva dal paradiso, dal nostro passato rurale perduto, dalla vita nei boschi di Walden (Walden ovvero Vita nei boschi è il resoconto dell’avventura di Henry David Thoreau in cerca di un rapporto intimo con la natura in contrasto con la crescente modernizzazione delle metropoli americane, ndt). E così la lunga serie di derivati del latte, come formaggio, yogurt e burro.

Ma la mucca della pubblicità non esiste. Quella reale nasce in cattività, figlia di un’altra schiava. La mucca che quasi non si muove, la cui esistenza consiste in una lunga serie di stupri con strumenti che penetrano nel suo corpo per fecondarla con il seme di un altro schiavo. Così si ingravida e si ingravida, e si ingravida di vitelli, che le verranno sottratti per diventare filetti, perché le sue mammelle continuino a dare latte, estratto da altre macchine. E, poiché lo sappiamo, il latte che giunge alla nostra mensa non può più essere bianco, ma rosso di orrore della mucca trasformata in oggetto, quella mucca per la quale ogni giorno significa tortura, stupro e schiavitù.

Per non bere sangue, cerchiamo latte a base di vegetali. I vegetali non gridano. A base di soia, per esempio. Bistecca di soia, hamburgher di soia, salsicce di soia, latte di soia. Ma come ignorare la deforestazione, la distruzione di interi ecosistemi, con tutta la vita che vi era contenuta? Come ignorare il fatto che la soia può essere stata piantata in area indigena e che, mentre diventa merce al supermercato, giovani guarani kaiowá si impiccano perché non sanno più come vivere?

(…). Guardiamo i nostri vestiti: sappiamo, con orrore, che in qualche punto della loro linea di produzione globalizzata vi è intessuto il sangue di bambini, uomini e donne in condizioni di lavoro analoghe alla schiavitù. (…).

Non è più possibile portare i bambini al giardino zoologico o all’acquario, perché sappiamo che l’unica educazione vicina alla verità che riceverebbero lì è quella dell’orrore a cui gli animali sono sottoposti per essere esibiti, per quanto buona possa apparire l’imitazione del loro habitat. Ricordo un reportage che andai a fare in un giardino zoologico, che avrebbe dovuto essere divertente, ma in cui potei raccontare solo, fra altri orrori, che il babbuino di nome Beto era imbottito di Valium per evitare che sbranasse parti del suo corpo. E che, anche dopato, si gettava contro le grate, gettava feci ai visitatori e picchiava la compagna. Pinky, la femmina di elefante, viveva sola. I suoi due compagni erano morti cadendo in un fossato nel tentativo di fuggire alla prigionia. (…).

Nel semplice gesto di accendere la luce, già esiste la consapevolezza che stiamo distruggendo il mondo di qualcuno (…). In questo momento, per limitarci a un esempio, decine di migliaia di persone hanno già perso le loro case nella regione dello Xingu, in Amazzonia, a causa della centrale idroelettrica di Belo Monte. I popoli indigeni che vivono nell’area non riescono più a sopportare l’aumento esponenziale di zanzare provocato dal lago artificiale creato dalla diga, con il relativo stravolgimento dell’ecosistema, come ha denunciato il Pubblico Ministero Federale parlando di etnocidio. In meno di tre mesi, si è registrata la morte di più di 16 tonnellate di pesci. E forse sta giungendo a termine il tempo in cui è possibile contare le vite a tonnellate, per quanto si tratti della vita di pesci. O della morte di pesci. Un dito sull’interruttore e una catena di morte. E ora sappiamo anche questo.

Il tempo delle illusioni è finito. Nessun atto del nostro quotidiano è innocente. Chiedendo un caffè e una fetta di pane imburrato, entriamo a far parte di una catena di orrori inflitti agli animali e agli esseri umani coinvolti nella produzione. Ogni atto anche banale implica una scelta etica e anche una scelta politica.

Lunga è la descrizione delle atrocità che commettiamo ripetutamente. Mangiamo, ci vestiamo, ci divertiamo, trasportiamo e ci spostiamo a costo della schiavitù, della tortura e del sacrificio di altre specie e anche delle persone più fragili della nostra specie. Siamo ciò che di peggio è capitato al pianeta e a tutti coloro che lo abitano. Il cambiamento climatico annuncia già che non solo dobbiamo temere la catastrofe, ma che siamo diventati la catastrofe. E questa volta non solo per tutti gli altri, ma anche per noi stessi.

Non è più possibile la pillola blu, non è più possibile credere alle illusioni. Esistono varie e profonde implicazioni in un’epoca in cui la conoscenza non libera, ma condanna. A cominciare forse dalla domanda: chi è l’innocente in un mondo in cui l’innocenza non è più possibile? (…).

Cosa faremo dinanzi all’impossibilità della pillola blu, quella che garantiva le illusioni? (…). Gli interrogativi cambiano e non è più possibile affermare, senza rivelare una considerevole ignoranza, che gli animali non hanno vita mentale né emotiva, sono “irrazionali”. O che, giusto per ricordare un argomento religioso, “non hanno anima”. Tutta l’ideologia che un giorno giustificò la schiavitù umana, finché non venne messa in discussione, smantellata e trasformata in un crimine e in una vergogna nella storia dell’umanità, viene ora utilizzata con gli animali.

Sempre più spesso le altre specie sono considerate diverse, non più inferiori. Cosicché in campo etico si impongono questioni affascinanti e assai spinose. La stessa espressione “diritti umani” diventa discutibile, perché pensare solo agli “umani” non è più possibile. (…). Altri modi di comprendere e di nominare il posto degli umani guadagnano terreno nell’orizzonte filosofico e nell’esercizio della politica.

Resta il cinismo, ultima roccaforte. Dire che, dinanzi a più di 7 miliardi di esseri umani che occupano il pianeta e continuano ad aumentare, non c’è altro modo che mangiare e indossare sfruttamento, schiavitù e tortura è l’affermazione più ovvia. È l’affermazione che viene usata per tutte le situazioni di disuguaglianza di diritti. Finché non sono io a essere sacrificato, o i miei cari, va tutto bene.

Vale la pena dedicare un paragrafo ai cinici, questa categoria che prolifera in Brasile e nel mondo con il vigore di una zanzara. (…). Il cinico è colui che lascia il mondo così com’è. Ma forse, in questo momento, è lui l’innocente. La sua innocenza consiste nel credere che la pillola blu sia ancora disponibile. (…).

Cosa fare dinanzi all’occhio del bue? Come essere persone etiche in un mondo senza illusioni, in cui ogni atto implica la tortura e il sacrificio di un altro? Se siamo i nazisti delle altre specie, quando non della nostra, accettare che sia così non significa diventare un Eichmann, il nazista processato a Gerusalemme che affermava di aver compiuto solo gli ordini, l’uomo così banalmente ordinario da ispirare la filosofa Hannah Arendt nella creazione del concetto della “banalità del male”? Non saremmo, agli occhi del bue, tutti degli Eichmann che si giustificano dicendo che le cose stanno così e che si fa ciò che è necessario per sopravvivere? Se è così, cosa implica vivere consapevolmente in questa posizione?

Forse ci troviamo, come specie che riflette su di sé, dinanzi a uno dei maggiori dilemmi etici della nostra storia. Senza poter optare per la pillola blu, quella delle illusioni, condannati alla pillola rossa che ci obbliga a vedere, come costruire una scelta che torni a includere l’etica? Come non paralizzarsi di fronte allo specchio, in balia o dell’orrore o del cinismo, eliminando la possibilità di trasformazione? (…).

Dinanzi al filetto di cui abbiamo voglia e all’occhio del bue che ci interroga, c’è un’ipotesi che acquista sempre più forza: l’innocente è un assassino.

* Immagine tratta dal sito Pixabay, licenza e immagine originale. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza potranno essere perseguite




in memoria di Virgil Elizondo teologo della liberazione

Virgil Elizondo

teologo della frontiera

un commosso e fraterno ricordo del teologo Virgil Elizondo da parte di Rosino Gibellini pubblicato sul sito ‘Settimananews.it’:

di: Rosino Gibellini

Virgil Elizondo

Virgil Elizondo (28/08/1935 – 14/03/2016)

Fulminea si è diffusa la tristissima notizia di morte per suicidio (per un colpo d’arma da fuoco alla testa) del teologo ispanico degli USA, Virgil Elizondo, nella sua casa di San Antonio (Texas), nel primo pomeriggio di lunedì 14 marzo u.s. Aveva 80 anni. Pendeva su di lui, dal maggio 2015, una sentenza accusatoria di pedofilia per un fatto risalente al 1983, presentato in un processo da certo John Doe (che sta per anonimo).

La stampa riferisce anche testimonianze, secondo le quali l’accusa non avrebbe consistenza, ma lo avrebbe amareggiato e sconvolto, così da morirne «di crepacuore». Si attende ricostruzione di una morte tragica, arrivata improvvisa e inaspettata, dopo una vita intensa e operosa, e anche brillante, che gli aveva già meritato una via a lui intestata presso la cattedrale di San Fernando, che l’aveva portata ad essere – come è stato scritto – «l’anima della città».

Ho conosciuto Virgil Elizondo fin dal 1975 in occasione dell’Encuentro latino-americano de Teología, celebrato a Città del Messico nell’agosto 1975 sul tema Liberación y cautiverio [Liberazione e cattività], e fu subito amicizia. Amicizia che è andata rinsaldandosi in diverse occasioni e nelle più svariate città del mondo, in concomitanza dei congressi ecumenici di ASETT (Associazione ecumenica dei teologi del Terzo Mondo), ai quali ero invitato come osservatore ospite, e nelle assemblee generali annuali della rivista internazionale di teologia Concilium, dove Virgil Elizondo ha diretto per anni la sezione di “Teologia pratica” (con Norbert Greinacher), e successivamente la sezione di “Teologia della liberazione” (con Leonardo Boff). Nella sua qualità di teologo messico-americano ha sempre fatto da ponte tra la teologia del Nord e la teologia del Sud.

Paul Tillich, il teologo tedesco-americano, sintetizzava la sua esperienza di vita, che dall’Europa lo aveva condotto negli Stati Uniti d’America, in un breve libro, On the Boundary (1966), [Sulla linea di confine], nel quale scriveva: «Il confine è il posto migliore per acquisire conoscenza». Da questa esperienza nasceva il metodo della correlazione tra rivelazione cristiana e cultura, che ha trovato espressione e applicazione nella grande Teologia sistematica. Se la teologia di Tillich è una teologia on the boundary, la teologia ispanica-americana, che in Virgil Elizondo ha il suo iniziatore e il suo più noto rappresentante, è una teologia crossing borders, di “attraversamento dei confini”, che si fa interprete di una nuova realtà umana in fase di espansione. Devo qui segnalare che il libro offerto in suo onore nel 2000, reca il titolo Beyond Borders [Al di là dei confini].

Ricordo anche d’aver ricevuto in dono negli anni Settanta il testo dattiloscritto della tesi dottorale di Virgil Elizondo, sostenuta e difesa all’Institut Catholique de Paris, che recava il titolo un po’ misterioso per un europeo, Mestizaje, testo che sarebbe poi confluito nel libro Galilean Journey (1983), riedito ampliato nel 2000. Questo libro, oltre a descrivere il viaggio di Gesù dalla Galilea, culturalmente meticcia, a Gerusalemme, la città della croce e della resurrezione, indicava con la categoria di Mestizaje la promessa, di cui erano portatori i messico-americani. Il concetto di meticciato diventava così una chiave ermeneutica per rileggere il Vangelo, ma anche per reinterpretare la dinamica della cultura; come ha espresso Jacques Audinet nella prefazione dell’opera: «Elizondo punta a una nuova frontiera. I suoi pensieri lo portano naturalmente a trattare di un meticciato globale».

L’opera di Virgil Elizondo più letta in Europa è L’Avenir est au Métissage (1987), che riprende con scansione biografica l’opera maggiore, e che ha servito a far conoscere alla teologia europea questa nuova complessa categoria culturale e teologica. Il presidente del Senegal e scrittore, Léopold Sédar Senghor, ha sottolineato la convergenza del discorso teologico di Virgil Elizondo con la visione di Teilhard de Chardin, che prospettava per l’alba del terzo millennio la «civilisation de l’Universel». L’edizione americana del libro reca il titolo: The Future is Mestizo: Life Where Cultures Meet (1988) [Il futuro è meticcio: la vita dove le culture si incontrano].

Con la sua attività di membro del Board of Directors della rivista internazionale di teologia Concilium, edita in sette lingue, Elizondo ha contribuito, com’è nella vocazione della american-hispanic theology, a costruire un ponte culturale tra teologia del Nord e teologia del Sud. Tra gli articoli scritti su Concilium merita una particolare menzione il testo: The New Humanity of the Americas (1990) in cui si esprime al meglio lo spirito, meticcio e universale ad un tempo, di Virgil Elizondo, il suo sogno e la sua visione di una nuova umanità delle Americhe come paradigma di una nuova umanità del mondo.

Su questo sfondo del meticciato, dell’incrocio di vita e cultura, si colloca il suo bel libro su Maria, dal titolo: Guadalupe. Madre della nuova creazione (1997/2000), che era stato anticipato da La Morenita: Evangelizer of the Americas (1981) [La Morenita: Evangelizzatrice delle Americhe], che è una delle interpretazioni più profonde dell’apparizione di Nostra Signora di Guadalupe a Juan Diego sul Tepeyac nel 1531 agli inizi delle Americhe. Nostra Signora di Guadalupe non è solo un’altra apparizione mariana. L’icona che ci ha lasciato sulla tilma dell’indio Juan Diego è la sua viva presenza, che esprime riconoscimento, accoglienza, compassione e protezione, e segna l’inizio di un processo di meticciato, come crogiuolo di popoli e culture.

Come scrittore di spiritualità si può ricordare: La via della croce. La passione di Cristo nelle Americhe; e Il Dio delle sorprese.

Fondatore del MAAC, Mexican-American Cultural Center di San Antonio (Texas), città americana bilingue, Virgil Elizondo era un sacerdote attivo nella pastorale, già rettore per oltre un decennio dell’antica cattedrale di San Antonio; direttore artistico della televisione San Antonio, Texas, che aveva una vasta audience negli USA e nel Centro America; e dal 2000 anche docente alla Notre-Dame University (Indiana, USA), dove è stato aperto un centro studi per la cultura ispanica.

La rivista Time aveva fatto il nome di Elizondo come uno degli “innovatori spirituali” del nuovo millennio.

Addio! Virgilio. Riposa in pace. È un addio, nel lutto e nella preghiera, con affetto e gratitudine per la profonda e generosa amicizia. Mi mancherai.




ben oltre cento casi di sterilizzazione forzata di donne Rom in ospedali pubblici della Slovacchia

LE STERILIZZAZIONI FORZATE DELLE DONNE ROM

La situazione delle comunità Rom dell’Europa centro-orientale è oggetto di interesse per Bruxelles dagli anni del processo di avvicinamento dei Paesi dell’area all’Unione europea. In quel periodo la Commissione europea ha infatti più volte rivolto un appello ai Paesi interessati per fare di più contro l’emarginazione sociale dei membri di questa minoranza. Qualcosa è stato fatto ma evidentemente mai abbastanza e i problemi continuano a esistere.

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La minoranza Rom in Ungheria conta, secondo diverse stime, da 600mila a 800mila membri. Le valutazioni sono approssimative ma mettono in luce il fatto che si tratta di una comunità ben numerosa. La maggiore minoranza etnica del Paese dal punto di vista numerico. Il grosso dei suoi appartenenti vive nelle regioni nord-orientali, quelle più depresse dal punto di vista economico. Disoccupazione, abbandono scolastico, tassi di mortalità più alti della media, caratterizzano la situazione di questa realtà che lamenta oltretutto lo stato di discriminazione in cui si trova da tempo.

Un fenomeno che a quanto pare inizia negli anni della scuola: diverse sono infatti le storie che raccontano di classi separate per i bambini Rom nelle scuole ungheresi, slovacche, ceche, romene. Si tratta di storie tristi che accomunano il vissuto di queste comunità nei vari Paesi dell’area. A queste si aggiungono i resoconti riguardanti la situazione delle donne Rom ancora più alle prese con i problemi legati alla disoccupazione e all’emarginazione sociale.

Ma c’è in particolare un fenomeno che mette in causa il problema di un certo tipo di violenza subita da diverse donne Rom e denunciata in questi anni dalle medesime e da organizzazioni per i diritti umani. Una violenza fisica e psicologica che nega qualsivoglia diritto alla dignità. Quella riguardante casi non infrequenti di donne Rom sterilizzate contro la loro volontà. A questo proposito si può menzionare l’inchiesta intitolata “Corpo e anima: casi di sterilizzazione forzata e altri attentati alla libertà riproduttiva dei Rom in Slovacchia” che è stata realizzata nel 2003 dal Centro per il diritto alla riproduzione e servizio di consulenza per i diritti civili e umani di New York.

Da questa indagine risulta che a partire dal 1989 a oggi ci sono stati ben oltre cento casi di sterilizzazione forzata di donne Rom in ospedali pubblici della Slovacchia orientale. Nel novembre del 2012 la Corte europea per i diritti umani ha affermato in una sentenza che diversi medici operanti in ospedali slovacchi hanno violato il diritto di donne Rom alla riproduzione e alla possibilità di creare una famiglia. Risale a quell’anno una ricerca sulla discriminazione e sui soprusi ai danni di cittadini Rom slovacchi realizzata da diverse Ong che hanno messo in evidenza il problema delle sterilizzazioni forzate.

lacio drom, vita da sinti

Secondo diversi osservatori si tratta di un problema trattato con poca attenzione dalla stampa slovacca. Un problema irrisolto dal momento che, secondo il Comitato dell’Onu per l’eliminazione delle discriminazioni razziali, non vi sono indagini vere e proprie disposte dal governo su questo fenomeno né vi è una situazione soddisfacente sul piano degli indennizzi malgrado due sentenze emesse negli anni scorsi dalla Corte europea per i diritti umani contro Bratislava.

La situazione dei Rom è peggiorata dalla caduta dei regimi, ma sembra che alcuni fenomeni come quello in questione avvenissero anche a quell’epoca. Secondo diversi attivisti dei diritti umani tale pratica ha resistito e il suo scopo sarebbe quello di controllare le nascite. A volte alle donne Rom vengono offerti soldi o regali, come sacchi di carbone o elettrodomestici oppure ancora dei bonus che vengono definiti premi di sterilizzazione. Ma in diversi casi, donne di questa comunità affermano di essere state sterilizzate senza che venisse loro chiesto il consenso. Negli anni scorsi donne Rom ungheresi, slovacche, ceche, romene e bulgare hanno denunciato questi soprusi alle organizzazioni per la difesa dei diritti umani. In effetti non se ne parla tanto e non solo in Slovacchia, ma questo non significa che la cosa non avvenga più.

(Fonte: Radio Popolare)

 




Tonino Bello un grande vescovo precursore di papa Francesco

don Tonino, il prete che sposò la pace

di Sandra Amurri

in “il Fatto Quotidiano” del 4 aprile 2016

Bello

Figlio del Concilio Vaticano II, precursore di Papa Francesco, di quella “Chiesa del grembiule contro la Chiesa delle Stole” per usare una metafora a lui cara, don Tonino Bello, il vescovo di Molfetta che non si fece mai chiamare Monsignore, è nato ad Alessano, a pochi chilometri da Santa Maria di Leuca, lembo estremo del Salento dove i due Mari, Adriatico e Ionio, si separano dando vita a uno spettacolo imperdibile.

Consumato dal cancro: aveva soltanto 58 anni

E qui è stato sepolto a 58 anni, consumato dal cancro. A dare l’ultimo saluto al Vescovo, Presidente di Pax Christi, nel porto di Molfetta, arrivarono 60 mila persone. Malattia che non gli impedì, solo quattro mesi prima, di partecipare alla “marcia dei 500” pacifisti che violarono il divieto di entrare nella Sarajevo assediata. “Il seme della nonviolenza attecchirà?”, si chiede nel diario da Sarajevo. “Sarà possibile cambiare il mondo col gesto semplice dei disarmati quando le istituzioni non si muovono? E il popolo si potrà organizzare per conto suo e collocare spine nel fianco a chi gestisce il potere? ”. E qual è “il tasso delle nostre colpe di esportatori di armi in questa delirante barbarie?”. Domande che irrompono nella drammatica attualità, definita da Papa Francesco: “La terza guerra mondiale a pezzi”.

Qui nella Piazza di Alessano che porta il suo nome c’è la sede della Scuola della Pace e la casa di famiglia trasformata in Fondazione. Leggendo il librone all’ingresso si capisce che, giovani e meno giovani, non arrivano fin qui, da ogni parte d’Italia, spinti da un retorico esercizio della memoria ma dal bisogno di condividere i suoi valori, oggi più che mai, oggi, faro in questa eclissi permanente di umanità.

“Caro Don Tonino, mi sforzo di assomigliarti”, scrive Paola, 18 anni di Napoli, mentre Luca, 50 anni: “Mi manchi”. Mancano gli esempi: quando la parola è credibile perché impastata con la coerenza. “Cari fratelli, solo se avremo servito potremo parlare e saremo creduti…” leitmotiv delle sue omelie.

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A farci da Cicerone, Stefano Bello, nipote del Vescovo di Molfetta che lavora in un centro di riabilitazione psichiatrica, papà di Tonino, un bimbo di 5 anni, ancora ignaro di essere unico erede di tanto nome. Varchiamo l’ingresso del cimitero, sulla destra, un anfiteatro in miniatura, al centro, un’aiuola dove è adagiata una grande pietra con su una piccola scritta: don Tonino Bello, terziario francescano, vescovo di Molfetta- Ruvo-Terlizzi-Giovinazzo.

Nato ad Alessano il 18 marzo 1935, morto a Molfetta il 20 aprile 1993”. Intorno grandi massi dove sono state scolpite alcune delle frasi più significative del Vescovo visionario che scriveva preghiere poetiche sul molo, mentre il sole scompariva all’orizzonte: “Ama la gente, i poveri soprattutto. E Gesù Cristo”…”. In piedi, costruttori di pace”. Quella Pace che campeggia anche sullo striscione appeso a due alberi, per don Tonino non era solo assenza di guerra, ma ricerca costante di verità e giustizia sociale.

Come il ritornello della canzone che, in una sera di pioggia scrosciante, intonavano i bimbi di Kiseljak, e che don Tonino aveva registrato: “Mir, do neba, do moga naroda, kada se probude da rata ne bude…”.

(Pace fino al cielo, fino al mio popolo, affinché al risveglio non trovi la guerra).

Un figlio della guerra nato senza camicia

Nato da una famiglia povera aveva provato il dolore per la perdita degli affetti più cari morti in guerra. La mamma Maria, rimasta sola, sfamava lui e i suoi due fratelli, Marcello e Trifone, con le verdure che raccoglieva nei campi e con quei pochi denari che racimolava ricamando e facendo la domestica. Tonino per studiare fu mandato in seminario a soli 10 anni. Quando, terminati gli studi a Bologna tornò a Tricase come parroco scrisse: “Grazie terra mia, piccola e povera che mi hai fatto nascere povero come te e mi hai dato la ricchezza di capire i poveri e di potermi oggi disporre a servirli”. Divenuto Vescovo, a chiunque bussasse alla porta, credenti e non, offriva “una parola e una frisa”. Con l’avvento dell’equo canone molte famiglie povere vennero sfrattate “Zio le ospitò nell’ Arcivescovado” racconta Stefano. Non perdeva occasione di criticare i politici

“Ero un bambino, ma ricordo benissimo un giorno, dopo tre ore di auto, arrivammo a Molfetta per cenare con lo zio e ripartire l’indomani mattina ma lui ci rispedì a casa, dicendoci con un sorriso che lì non c’era posto e noi un tetto dove dormire l’avevamo”.

Non perdeva occasione per bacchettare i politici di non fare nulla o, di fare poco, contro la povertà. Tant’è che smisero di partecipare al consueto appuntamento per gli auguri natalizi per non “subire” le sue prediche-ramanzine. Ma don Tonino non si arrese, le registrò e inviò loro le cassette. Così come non lasciò soli gli operai delle acciaierie di Giovinazzo, sfilò accanto a loro contro la chiusura dello stabilimento. E dal palco spiegò: “La Chiesa ha il compito di schierarsi con gli ultimi. E in questo momento gli ultimi siete voi. Stare con voi significa anche condividere la vostra protesta contro una politica che non ha salvaguardato i livelli occupazionali attraverso le necessarie riconversioni e ristrutturazioni….”. Ma fece di più, per sostenerli, prelevò undici milioni di lire dal fondo per la costruzione delle chiese. Non aveva alcun timore reverenziale. Da poco eletto Presidente di Pax Christi, non esitò a scrivere una lettera di fuoco a Indro Montanelli, direttore de “Il Giornale”, che in un articolo di fondo aveva ridicolizzato monsignor Bettazzi accusandolo di invitare all’evasione fiscale, anziché all’obiezione fiscale (non pagare tasse finalizzate all’acquisto delle armi).

Polemiche scomode, mal digerite anche all’interno della Chiesa.

A sostenerlo David Maria Turoldo: “Caro don Tonino, mi dicono che sei stato richiamato perché parli troppo contro le armi… dì pubblicamente che sei stato richiamato perché di questo hanno paura. Sono anche vili, come sappiamo: forti con i deboli e deboli coi forti. Per amore dei poveri e della verità; e cioè per amore della Chiesa e della pace, non scoraggiarti, caro fratello vescovo! Di vescovi in cui confidare ce ne sono così pochi!”.

E, forse, nessuno, che nel cuore della notte, alla guida della cinquecento, andava alla stazione a raccogliere i barboni o che scriveva ad un immigrato parole di fratellanza, la grande assente alla tavola della modernità: “Dimmi,fratello marocchino ma sotto quella pelle scura hai un’anima pure tu? Quando rannicchiato nella macchina consumi un pasto veloce, qualche volta versi anche tu lacrime amare nella scodella?… Perdonaci se, pur appartenendo a un popolo che ha sperimentato l’amarezza dell’emigrazione, non abbiamo usato misericordia verso di te. Anzi ripetiamo su di te, con le rivalse di una squallida nemesi storica, le violenze che hanno umiliato e offeso i nostri padri in terra straniera. Perdonaci, se non abbiamo saputo levare coraggiosamente la voce per forzare la mano dei nostri legislatori… Un giorno, quando nel cielo incontreremo il nostro Dio, questo infaticabile viandante sulle strade della terra, ci accorgeremo con sorpresa che egli ha il colore della tua pelle. P.S. Se passi da casa mia, fermati”. L’unico riferimento è sempre stato il Vangelo

La chiave del suo operato, come spiega efficacemente il Vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, Vito Angiuli, è “mettere in pratica il Vangelo sine glossa e sine modo”, cioè senza aggiunte o menomazioni. “Ma anche senza confini e senza misura”. E così la sua utopia resiste oltre la morte e vive nelle viscere della terra oltraggiata e nel sangue dolente degli ultimi.




papa Francesco ostacolato dai cardinali integralisti

preti sposati

papa Francesco sostenuto da Kasper si sta preparando a deludere i tradizionalisti

per il cardinale Walter Kasper l’esortazione apostolica nella quale papa Francesco tirerà le somme del doppio sinodo sulla famiglia “sarà il primo passo di una riforma che farà voltar pagina alla Chiesa al termine di un periodo di 1700 anni”.

http://sacerdotisposati.altervista.org/?p=25793595

http://sacerdotisposati.altervista.org/?p=25793595, 29/03/2016 – 20:25 (informazione.it – comunicati stampa – varie)

le difficoltà che papa Francesco trova comunque nell’aprire la chiesa a posizioni più evangeliche e ‘misericordiose’ sono enormi: un saggio di questi ostacoli che trova in questo sforzo lo troviamo nelle posizioni rigide e integralistiche di uno dei pesi massimi del vaticano, nientemeno che il card. Muller, prefetto dell’ex s. Uffizio, quello che decide anche le virgole sull’ortodossia sapendo per filo e per segno come è fatto Dio, anzi  isponendone totalmente essendo proprietà sua, avendolo ‘in tasca’ : di seguito le posizioni del card. Muller riportate da S. Magister nel suo blog

Muller

il vaticanista tradizionalista Magister sostiene l’ala intransigente e pubblica sul suo blog “Settimo Cielo” le tesi dell cardinale tedesco Gerhard L. Müller (testo a seguire):

da “Informe sobre la esperanza”
di Gerhard L. Müller

“CHI SONO IO PER GIUDICARE?”

Proprio quelli che fino ad oggi non hanno mostrato alcun rispetto per la dottrina della Chiesa si servono di un frase isolata del Santo Padre, “Chi sono io per giudicare?”, tolta dal contesto, per presentare idee distorte sulla morale sessuale, avvalorandole con una presunta interpretazione del pensiero “autentico” del papa al riguardo.

La questione omosessuale che diede spunto alla domanda posta al Santo Padre è già presente nella Bibbia, tanto nell’Antico Testamento (cfr. Gen 19; Dt 23, 18s; Lev 18, 22; 20, 13; Sap 13-15) quanto nelle lettere paoline (cfr. Rom 1, 26s; 1 Cor 6, 9s), trattata come soggetto teologico, sia pure con i condizionamenti propri inerenti alla storicità della divina rivelazione.

Preti sposati: Papa francesco sostenuto da Kasper si sta preparando a deludere i tradizionalisti

Dalla Sacra Scrittura si ricava il disordine intrinseco degli atti omosessuali, poiché non procedono da una vera complementarietà affettiva e sessuale. Si tratta di una questione molto complessa, per le numerose implicazione che sono emerse con forza negli ultimi anni. In ogni caso, la concezione antropologica che si ricava dalla Bibbia comporta alcune ineludibili esigenze morali e nello stesso tempo uno scrupoloso rispetto per la persona omosessuale. Queste persone, chiamate alla castità ed alla perfezione cristiana attraverso la padronanza di sé e a volte con l’aiuto di un’amicizia disinteressata, vivono “una autentica prova. Perciò devono essere accolte con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione” (Catechismo della Chiesa cattolica, 2357-2359).

Tuttavia, oltre al problema suscitato della decontestualizzazione della citata frase di papa Francesco, pronunciata come segno di rispetto per la dignità della persona, mi sembra sia evidente che la Chiesa, con il suo magistero, ha la capacità di giudicare la moralità di certe situazioni. Questa è una verità indiscussa: Dio è il solo giudice che ci giudicherà alla fine dei tempi e il papa ed i vescovi hanno l’obbligo di presentare i criteri rivelati per questo giudizio finale che oggi già si anticipa nella nostra coscienza morale.

La Chiesa ha detto sempre “questo è vero, questo è falso” e nessuno può interpretare in modo soggettivista i comandamenti di Dio, le beatitudini, i concili, secondo i propri criteri, il proprio interesse o persino le proprie necessità, come se Dio fosse solo lo sfondo della sua autonomia. Il rapporto tra la coscienza personale e Dio è concreto e reale, illuminato dal magistero della Chiesa; la Chiesa possiede il diritto e l’obbligo di dichiarare che una dottrina è falsa, precisamente perché una tale dottrina devia la gente semplice dalla strada che porta a Dio.

A partire dalla rivoluzione francese, dai successivi regimi liberali e dai sistemi totalitari del secolo XX, l’obiettivo dei principali attacchi è sempre stato la visione cristiana dell’esistenza umana ed del suo destino.

Quando non si poté vincere la sua resistenza, si permise il mantenimento di alcuni dei suoi elementi, ma non del cristianesimo nella sua sostanza; il risultato fu che il cristianesimo cessò di essere il criterio di tutta la realtà e si incoraggiarono le suddette posizioni soggettiviste.

Queste hanno origine in una nuova antropologia non cristiana e relativista che prescinde del concetto di verità: l’uomo odierno si vede obbligato a vivere perennemente nel dubbio. Di più: l’affermazione che la Chiesa non può giudicare situazioni personali si basa su una falsa soteriologia, cioè che l’uomo è il suo proprio salvatore e redentore.

Nel sottomettere l’antropologia cristiana a questo riduzionismo brutale, l’ermeneutica della realtà che da ciò deriva adotta soltanto gli elementi che interessano o sono convenienti all’individuo: alcuni elementi delle parabole, certi gesti benevoli di Cristo o quei passaggi che lo presentano come un semplice profeta del sociale o un maestro in umanità.

E al contrario si censura il Signore della storia, il Figlio di Dio che invita alla conversione o il Figlio dell’Uomo che verrà a giudicare i vivi ed i morti. In realtà, questo cristianesimo semplicemente tollerato si svuota del suo messaggio e dimentica che il rapporto con Cristo, senza la conversione personale, è impossibile.

CHI PUÓ FARE LA COMUNIONE

Papa Francesco dice nella “Evangelii gaudium” (n. 47) che l’eucaristia “non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli”. Vale la pena analizzare questa frase con profondità, per non equivocarne il senso.

In primo luogo, bisogna notare che questa affermazione esprime il primato della grazia: la conversione non è un atto autonomo dell’uomo, ma è, in se stessa, un’azione della grazia. Tuttavia da ciò non si può dedurre che la conversione sia una risposta esterna di gratitudine per ciò che Dio ha fatto in me per conto suo, senza di me. Nemmeno posso concludere che chiunque possa accostarsi a ricevere l’eucaristia sebbene non sia in grazia e non abbia le dovute disposizioni, solo perché è un alimento per i deboli.

Prima di tutto dovremmo chiederci: che cos’è la conversione? Essa è un atto libero dell’uomo e, nello stesso tempo, è un atto motivato dalla grazia di Dio che previene sempre gli atti degli uomini. È per questo un atto integrale, incomprensibile se si separa l’azione di Dio dall’azione dell’uomo. […]

Nel sacramento della penitenza, per esempio, si osserva con tutta chiarezza la necessità di una risposta libera da parte del penitente, espressa nella sua contrizione del cuore, nel suo proposito di correggersi, nella sua confessione dei peccati, nel suo atto di penitenza. Per questo la teologia cattolica nega che Dio faccia tutto e che l’uomo sia puro recipiente delle grazie divine. La conversione è la nuova vita che ci è data per grazia e nello stesso tempo, anche, è un compito che ci è offerto come condizione per la perseveranza nella grazia. […]

Ci sono solo due sacramenti che costituiscono lo stato di grazia: il battesimo e il sacramento della riconciliazione. Quando uno ha perso la grazia santificante, necessita del sacramento della riconciliazione per ricuperare questo stato, non come merito proprio ma come regalo, come un dono che Dio gli offre nella forma sacramentale. L’accesso alla comunione eucaristica presuppone certamente la vita di grazia, presuppone la comunione nel corpo ecclesiale, presuppone anche una vita ordinata conforme al corpo ecclesiale per poter dire “Amen”. San Paolo insiste sul fatto che chi mangia il pane e beve il vino del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore (1 Cor 11. 27).

Sant’Agostino afferma che “colui che ti creò senza di te non ti salverà senza di te” (Sermo 169). Dio chiede la mia collaborazione. Una collaborazione che è anche regalo suo, ma che implica la mia accoglienza di questo dono.

Se le cose stessero diversamente, potremmo cadere nella tentazione di concepire la vita cristiana nel modo delle realtà automatiche. Il perdono, per esempio, si convertirebbe in qualcosa di meccanico, quasi in una esigenza, non in una domanda che dipende anche da me, poiché io la devo realizzare. Io andrei, allora, alla comunione senza lo stato di grazia richiesto e senza accostarmi al sacramento della riconciliazione. Darei per scontato, senza nessuna prova di ciò a partire dalla Parola di Dio, che mi è concesso privatamente il perdono dei miei peccati tramite questa stessa comunione. Ma questo è un falso concetto di Dio, è tentare Dio. E porta con sé anche un concetto falso dell’uomo, col sottovalutare ciò che Dio può suscitare in lui.

PROTESTANTIZZAZIONE DELLA CHIESA

Strettamente parlando, noi cattolici non abbiamo alcun motivo per festeggiare il 31 ottobre 1517, cioè la data considerata l’inizio della Riforma che portò alla rottura della cristianità occidentale.

Se siamo convinti che la rivelazione divina si è conservata integra ed immutata attraverso la Scrittura e la Tradizione, nella dottrina della fede, nei sacramenti, nella costituzione gerarchica della Chiesa per diritto divino, fondata sul sacramento del sacro ordine, non possiamo accettare che esistano ragioni sufficienti per separarsi dalla Chiesa.

I membri delle comunità ecclesiali protestanti guardano a questo evento da un’ottica diversa, poiché pensano che sia il momento opportuno per celebrare la riscoperta della “parola pura di Dio”, che presumono sfigurata lungo la storia da tradizioni meramente umane. I riformatori protestanti arrivarono alla conclusione, cinquecento anni fa, che alcuni gerarchi della Chiesa non solo erano corrotti moralmente, ma avevano anche travisato il Vangelo e, di conseguenza, avevano bloccato il cammino di salvezza dei credenti verso Gesù Cristo. Per giustificare la separazione accusarono il papa, presunto capo di questo sistema, di essere l’Anticristo.

Come portare avanti, oggi, in modo realistico, il dialogo ecumenico con le comunità evangeliche? Il teologo Karl-Heinz Menke dice il vero quando asserisce che la relativizzazione della verità e l’adozione acritica delle ideologia moderne sono l’ostacolo principale verso l’unione nella verità.

In questo senso, una protestantizzazione della Chiesa cattolica a partire da una visione secolare senza riferimento alla trascendenza non soltanto non ci può riconciliare con i protestanti, ma nemmeno può consentire un incontro con il mistero di Cristo, poiché in Lui siamo depositari di una rivelazione sovrannaturale alla quale tutti noi dobbiamo la totale ubbidienza dell’intelletto e della volontà (cfr. “Dei Verbum”, 5).

Penso che i principi cattolici dell’ecumenismo, così come furono proposti e sviluppati dal decreto del Concilio Vaticano II, sono ancora pienamente validi (cfr. “Unitatis redintegratio”, 2-4). D’altra parte, il documento della congregazione per la dottrina della fede “Dominus Iesus”, dell’anno santo del 2000, incompreso da molti e ingiustamente rifiutato da altri, sono convinto che sia, senza alcun dubbio, la magna carta contro il relativismo cristologico ed ecclesiologico di questo momento di tanta confusione.

SACERDOZIO FEMMINILE

La domanda se il sacerdozio femminile sia una questione disciplinare che la Chiesa potrebbe semplicemente cambiare non tiene, poiché si tratta di una questione già decisa.

Papa Francesco è stato chiaro, come anche i suoi predecessori. Al riguardo, ricordo che san Giovanni Paolo II, al n. 4 dell’esortazione apostolica “Ordinatio sacerdotalis” del 1994, rafforzò con il plurale maiestatico (“declaramus”), nell’unico documento nel quale quel papa utilizzò questa forma verbale, che è dottrina definitiva insegnata infallibilmente dal magistero ordinario universale (can. 750 § 2 CIC) il fatto che la Chiesa non ha autorità per ammettere le donne al sacerdozio.

Compete al Magistero decidere se una questione è dogmatica o disciplinare; in questo caso, la Chiesa ha già deciso che questa proposta è dogmatica e che, essendo di diritto divino, non può essere cambiata e nemmeno rivista. La si potrebbe giustificare con molte ragioni, come la fedeltà all’esempio del Signore o il carattere normativo della prassi multisecolare della Chiesa, tuttavia non credo che questa materia debba essere discussa di nuovo a fondo, poiché i documenti che la trattano espongono a sufficienza i motivi per respingere questa possibilità.

Non voglio mancare di segnalare che c’è una essenziale uguaglianza tra l’uomo e la donna nel piano della natura ed anche nel rapporto con Dio tramite la grazia (cfr. Gal 3, 28). Ma il sacerdozio implica una simbolizzazione sacramentale del rapporto di Cristo, capo o sposo, con la Chiesa, corpo o sposa. Le donne possono avere, senza nessun problema, più incarichi nella Chiesa: al riguardo, colgo volentieri l’occasione di ringraziare pubblicamente il numeroso gruppo di donne laiche e religiose, alcune della quali con qualificati titoli universitari, che prestano la loro indispensabile collaborazione nella congregazione per la dottrina della fede.

D’altra parte non sarebbe serio avanzare proposte in merito partendo da semplici calcoli umani, dicendo per esempio che “se apriamo il sacerdozio alle donne superiamo il problema vocazionale” o “se accettiamo il sacerdozio femminile daremmo al mondo un’immagine più moderna”.

Credo che questo modo di porre il dibattito è molto superficiale, ideologico e soprattutto antiecclesiale, perché omette di dire che si tratta di una questione dogmatica già definita da chi ha il compito di farlo, e non di una materia meramente disciplinare.

CELIBATO SACERDOTALE

Il celibato sacerdotale, così contestato in certi ambienti ecclesiastici odierni, ha le sue radici nei Vangeli come consiglio evangelico, ma ha anche un rapporto intrinseco con il ministero del sacerdote.

Il sacerdote è più di un funzionario religioso al quale sia stata attribuita una missione indipendente dalla sua vita. La sua vita è in stretto rapporto con la sua missione evangelica e pertanto, nella riflessione paolina come anche nei Vangeli stessi, chiaramente il consiglio evangelico appare legato alla figura dei ministri scelti da Gesù. Gli apostoli, per seguire Cristo, hanno lasciato tutte le sicurezze umane dietro di loro e in particolare le rispettive spose. Al riguardo, san Paolo ci parla della sua esperienza personale in 1 Cor 7, 7, ove sembra considerare il celibato come un carisma particolare che ha ricevuto.

Attualmente, il vincolo tra celibato e sacerdozio in quanto dono peculiare di Dio attraverso il quale i ministri sacri possono unirsi più facilmente a Cristo con un cuore indiviso (can. 277 § 1 CIC; “Pastores dabo vobis”, 29), si trova in tutta la Chiesa universale, anche se in forma diverso. Nella Chiesa orientale, come sappiamo, riguarda solo il sacerdozio dei vescovi; ma il fatto stesso che per loro lo si esiga ci indica che tale Chiesa non lo concepisce come una disciplina esterna.

Nel suddetto menzionato ambiente di contestazione al celibato, è molto diffusa la seguente analogia. Alcuni anni fa sarebbe stato inimmaginabile che una donna potesse fare il soldato, mentre oggi, invece, gli eserciti moderni contano su un gran numero di donne soldato, pienamente atte a un compito considerato, tradizionalmente, come esclusivamente maschile. Non succederà lo stesso con il celibato? Non è un inveterato costume del passato che bisogna rivedere?

Tuttavia la sostanza dell’attività militare, a parte alcune questioni di tipo pratico, non esige che chi la esercita appartenga a un determinato sesso; mentre il sacerdozio è invece in intima connessione con il celibato.

Il Concilio Vaticano II e altri documenti magisteriali più recenti insegnano una tale conformità o adeguazione interna tra celibato e sacerdozio che la Chiesa di rito latino non sente di avere la facoltà di cambiare questa dottrina con una decisione arbitraria che romperebbe con lo sviluppo progressivo, durato secoli, della regolamentazione canonica, a partire dal momento in cui è stato riconosciuto questo vincolo interno, anteriormente alla suddetta legislazione. Noi non possiamo rompere unilateralmente con tutta una serie di dichiarazioni di papi e di concili, come neppure con la ferma e continua adesione della Chiesa cattolica all’immagine del sacerdote celibe.

La crisi del celibato nella Chiesa cattolica latina è stato un tema ricorrente in momenti specialmente difficili nella Chiesa. Per citare qualche esempio, possiamo ricordare i tempi della riforma protestante, quelli della rivoluzione francese e, più recentemente, gli anni della rivoluzione sessuale, nei decenni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Ma se qualcosa possiamo imparare dallo studio della storia della Chiesa e delle sue istituzioni è che queste crisi hanno sempre mostrato e consolidato la bontà della dottrina del celibato.




lo danno come possibile papa nero: in che mani saremmo!

il cardinale Sarah

“Teoria del gender e matrimonio gay sono una deviazione”

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Sarah, che molti indicano come possibile primo Papa nero e africano,  contro cardinali e vescovi che “attaccano la famiglia dall’interno della Chiesa”

 

“a tutti va riconosciuta la libertà di amare: chi vieta agli altri la libertà di amare è più tiranno di chi vieta la libertà di parola”

(che differenza rispetto alla saggia, rispettosa e realistica posizione di E. Bianchi, priore di Bose!)

Il prossimo 8 aprile sarà pubblicata la “Amoris Laetitia”, con la posizione ufficiale del Papa su unioni gay e comunione ai divorziati

di Michele M. Ippolito

 

“La teoria del gender, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, la negazione delle differenze tra uomo e donna sono una deviazione e non capisco come la cultura europea, impregnata di cristianesimo, sia arrivata a questo punto. In Francia mi hanno corretto, mi hanno detto che non posso usare la parola ‘deviazione’, ma non saprei quale altra parola usare. Noi non possiamo dimenticare che Dio ha creato uomo e donna”

In uno dei suoi rari interventi pubblici per la presentazione del suo libro “Dio o niente”, un vero e proprio bestseller della stampa cattolica, il cardinale guineano Robert Sarah, prefetto della Congregazione del Culto Divino e della Disciplina dei Sacramenti, si è espresso a Portici, in provincia di Napoli a pochi giorni dalla pubblicazione del testo “Amoris Leatitia” di papa Francesco, che affronterà anche i temi delle unioni gay e della comunione ai divorziati risposati. “Anche gli scemi – ha continuato Sarah senza giri di parole – riconoscono che tra uomo e donna c’è differenza e complementarietà. L’uomo non è niente senza la donna e viceversa. Questa non è la mia posizione, è la posizione della Chiesa e contro questa deviazione tutti i cristiani, tutte le famiglie devono lottare.” Il cardinale Sarah, nativo della Guinea, da molti viene considerato come il principale punto di riferimento dei tradizionalisti nella Curia romana e, secondo alcuni osservatori, potrebbe diventare in futuro il primo Papa nero ed africano della storia. Nel corso dell’incontro, a cui hanno partecipato oltre cinquecento persone, Sarah ha riferito che, dopo il plauso giuntogli da Benedetto XVI, al termine della messa per la Domenica delle Palme, papa Francesco gli ha detto ‘ho finito di leggere il suo libro, mi è piaciuto molto’. Parole che possono essere messe a confronto con quelle, simili, usate due anni da dal Papa per commentare il principale esponente dell’area progressista, il cardinale Walter Kasper, che, in suo scritto sulla misericordia, aveva aperto alla possibilità di riammettere ai sacramenti i divorziati che avessero contratto una nuova unione civile.    Una tesi che, per Sarah, va contro l’istituto della famiglia “attaccata dall’interno della Chisa, una cosa che rappresenta il peccato più grave. Dobbiamo solo sperare che la Chiesa riprenda il suo compito di essere luce. Siamo noi stessi i responsabili del senso di insicurezza che si è creato dopo il Sinodo sulla Famiglia.” Il primo Sinodo, quello del 2014, che sancì una profonda spaccatura tra tradizionalisti e progressisti, per Sarah “è stato una catastrofe: abbiamo fatto uscire un documento inqualificabile. Se noi stessi non siamo sicuri di quello che dobbiamo insegnare, il mondo non può considerare la famiglia come il tesoro della società.” Dopo il secondo Sinodo sul tema delle nuove sfide della famiglia, tenutosi a Roma lo scorso ottobre, ci si aspettava che il Papa rendesse noto in tempi rapidi un documento a sua firma in cui prendeva posizione sulle questioni più spinose. Il documento papale è molto atteso perché finalmente sarà chiara qual è la posizione di Francesco su temi sui quali il pontefice spesso si è espresso in modo non del tutto chiaro, e soprattutto, è necessario perché i padri sinodali, proprio per non creare ulteriori spaccature, al termine dell’assemblea avevano redatto un testo ambiguo proprio sui temi considerati più spinosi. Era stato anche detto che il pontefice avrebbe “battuto il ferro finchè era caldo”. Invece sono passati oltre sei mesi, in cui le bozze dell’esortazione post-sinodale sono stato oggetto di più stesure e continue riscritture, al punto che anche la Congregazione per la Dottrina della Fede, l’ex Santo Uffizio, avrebbe chiesto numerose modifiche al testo originale. Lo stesso Kasper, che pochi giorni fa aveva parlato di un “documento rivoluzionario”, nelle scorse ore ha fatto marcia indietro chiarendo che non ci sarà nessuna rivoluzione, ma, al massimo, qualche riforma.

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intervista a Sarah un cardinale dalle idee troppo pericolosamente e disumanamente chiare!

“non possiamo lasciare l’Uomo senza una strada sicura”

intervista al cardinale Sarah

una perla fra le altre del suo integralismo:

“L’uomo è fatto per la donna. La donna è fatta per l’uomo. Nel mio libro lo dico chiaramente, perché in fondo è un concetto molto chiaro di per sé: l’uomo è niente senza la donna, e viceversa. Ma soprattutto, tutti e due non sono niente senza un terzo elemento che è il frutto che nasce dal loro amore: una nuova vita, un bambino.  Il cosiddetto “matrimonio omosessuale” è egoismo puro. Nessun frutto. Un amore che non fa nascere niente non può che distrugge la vera felicità, la vera complementarietà. Un uomo non può completare un altro uomo; per quanto può provarci, non ci riuscirà mai. È la natura. Anche gli uccelli lo sanno”
che differenza e disumanità rispetto a questa considerazione di E. Bianchi, priore di Bose:
“a tutti va riconosciuta la libertà di amare: chi vieta agli altri la libertà di amare è più tiranno di chi vieta la libertà di parola”
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“’Sono la Via, la Verità, e la Vita’. È questo che è stabile. È questo che io cerco di testimoniare”. L’Occidentale ospita una intervista al Cardinale Robert Sarah, uomo dalla fede ardente, prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, e autore del libro “Dio o niente”.

Il Cardinale Burke, tempo fa ha detto: “Se per fondamentalista si intende qualcuno che insiste sulle cose fondamentali, sono un fondamentalista.” Rispondeva ad una provocazione data la sua nota e ripetuta opposizione a ogni mutamento della prassi pastorale in discussione al Sinodo. Si sente di sposare questo stesso sentire?

Papa Benedetto XVI ha sottolineato senza sosta il problema della dittatura del relativismo. Oggi tutto è possibile. Non abbiamo più radici. Niente di stabile. Eppure noi una Dottrina stabile l’abbiamo, abbiamo una Rivelazione.  Far sì che la gente torni alle radici delle cose, della Rivelazione è un dovere per noi Vescovi. Non possiamo lasciare la gente senza una strada sicura. Senza una roccia su cui appoggiarsi. Nella parrocchia la roccia su cui appoggiarsi è il parroco, nella diocesi è il Vescovo, nella Chiesa universale, è il Papa. E noi cerchiamo di aiutare il Santo Padre ad assicurare la gente che una stabilità esiste. Che c’è una strada. E la strada è Gesù Cristo. Lo ha detto chiaramente: “Sono la Via, la Verità, e la Vita”. È questo che è stabile. È questo che io cerco di testimoniare. Abbiamo davvero una roccia, abbiamo una strada, abbiamo una Verità che ci salva. È inutile spostarsi da lì.

Quindi è anche lei un “fondamentalista”, nel senso che ha attribuito Burke al termine?

Sì, sicuramente. (Sorride di gusto)

La parola ‘fondamentalismo’ è ormai associata all’islam. Tema che ha invaso le nostre conversazioni quotidiane. L’islam identifica il mondo politico e quello religioso, convinto che solo il potere politico possa moralizzare l’umanità. Qui si rende manifesta tutta la differenza e la novità del cristianesimo, il cui Dio non è il Re di un banale regno temporale. In quest’ottica, non è forse vero, quanto diceva, quando era ancora Cardinale, il Papa Emerito? “Nella pratica politica il relativismo è il benvenuto perché ci vaccina della tentazione utopistica”. La Chiesa Cattolica del 2016 ha conservato questo stesso atteggiamento nei confronti della politica, oppure è convinta che in fondo, il Paradiso in terra si possa sempre realizzare?

Penso che dall’inizio noi dobbiamo dividere l’uomo. Separare cioè la sua identità propria e il suo lavoro, la sua politica. Non dobbiamo mischiare la religione con la politica. Però, allo stesso tempo, l’uomo è uno. Non puoi essere un cristiano in chiesa, e fuori un’altra persona. E come dunque radicare il Vangelo nel mio operare, nella politica, nell’economia? Questo è il problema fondamentale. Perché se divido, cosa succede? Sono un cristiano in chiesa, ma un passo fuori dalla chiesa e il mio comportamento è da pagano, da uomo che non crede a niente. Un uomo che crede solo nel suo avere, nel potere. Ma la vera fede opera nella carità.  La vera fede si manifesta nella carità, cioè nella concretezza delle azioni. E dunque penso che il problema stia tutto nell’essere ‘cristiani veramente veri’ nell’attualità, nell’economia nella politica, nell’arte, nella cultura, nella vita familiare. È impossibile dire sono cristiano e poi non mi sposo in chiesa, per esempio. (Sorride). È difficile dire sono un cristiano però non vado a messa. L’esser cristiano deve riflettersi per forza nella vita pratica. E ognuno di noi è immerso nella società. Dobbiamo vedere nella nostra vita il Vangelo. C’è una trasparenza che deve vedersi nella vita quotidiana, e questo è la vera cristianità.

Nel suo libro lei ha ampiamente affrontato l’argomento “teologia della liberazione”. Quella teologia che ha trasformato, e continua a farlo, il Vangelo in ricetta politica, con l’assolutizzazione di una posizione per cui solo questa sarebbe la ricetta per liberare e dare progresso. Convinti, in questo modo, che lo stato sia l’ultimo potere. Crede che il pensiero marxista stia tornando in svariate altre forme nel nostro tempo?

Quando si concepisce la cristianità in modo orizzontale, come se solo nell’azione umanitaria, sociale, politica ci sia quel che conta, è lì che sbagliamo. E si sbaglia perché prima di fare, devo attingere dall’alto per trovare il giusto modo di agire. Cioè devo essere ispirato da Dio. La “teologia della liberazione” voleva solo fare una ‘teologia dell’azione’ che non ispira al Vangelo e che, soprattutto, non si ispira dal Vangelo. E dunque penso che anche oggi siamo tentati di vedere la nostra opera cristiana come un’opera sociale. Non critico nessuno, non dico che è male fare … Ma, per esempio. Insistiamo tanto nell’accogliere i rifugiati, bene. Non dovremmo farlo soltanto per dare loro cibo, lavoro, una casa. Loro hanno un bisogno più alto, cioè Dio. Pensiamo a questo? O è soltanto un discorso ‘orizzontale’ il nostro? Questo è il problema. La “teologia della liberazione” sta rientrando di nuovo nella pratica della vita sociale della Chiesa. Non dico che non dobbiamo occuparci materialmente della gente povera. Però l’ingiustizia più grave è di dare soltanto cibo ai poveri, loro hanno bisogno del Vangelo. Hanno bisogno di Dio. Lo dice anche Papa Francesco.

In effetti, pare che la povertà sia diventata il centro di tutto l’apostolato nel cattolicesimo. Almeno è quello che percepiscono i fedeli. Una volta Benedetto XVI ha detto: “La povertà puramente materiale non salva, […] il cuore della persone che non posseggono niente può essere indurito, avvelenato, malvagio – colmo all’interno di avidità di possesso, dimentico di Dio e bramoso solo di beni materiali.” Lei ha raccontato l’episodio della rimozione del baldacchino dalla Cattedrale di Conakry. In un’ottica malsana e ipocrita, le chiese, oggi, si preferisce ‘spogliarle’ piuttosto che ‘vestirle’. Perché?

Perché abbiamo perso la maestà, la dignità, la Grandezza di Dio. Dio ora è niente. (Sorride con ironia. Gioca da solo con il titolo del suo libro). E siccome è niente dobbiamo spogliare la sua casa. Il che è mera ingiustizia. È davvero ingiusto! Ognuno di noi desidera abitare in una casa bella. Perché ci permettiamo di privare Dio della bellezza? Abbiamo perso il senso della sacralità, della bellezza. Dio che è Bello, che ha il Bello, merita una casa bella. Non è povertà spogliare la chiesa. (Sorride ancora. ‘Spogliare la Chiesa’ gli suona ridicolo) È solo segno di desacralizzazione, di disprezzo di Dio. Proprio per questa ragione, per questo rischio latente, che Benedetto XVI ha prestato tanta cura nella Liturgia. A partire dal “vestimento” del sacerdote, fino alla bellezza dell’altare e della chiesa tutta. Questo è segno della religiosità, della sacralità. Pensiamo a come era bello il tempio di Gerusalemme, eppure erano poverissimi a quel tempo. Oppure pensiamo a quando in Campania avete costruito queste meravigliose chiese, la gente non era povera, era poverissima. Eppure hanno voluto dare tutto per Dio. Perché niente è troppo ricco per Dio.

Il cattolico fervente del ventunesimo secolo è tacciato continuamente di essere un retrogrado e nemico della libertà. Della libertà arbitraria ed individualista.  La Chiesa si lascerà percuotere dal mito condito della libertà d’amore? Tutto sarà sottomesso al principio di maggioranza perché si cancellerà la differenza tra bene e male?

Io spero che la Chiesa rimanga sempre la Luce. La Luce e la Verità. Cristo ha detto la Verità ci libererà. La vera libertà è la Verità. Cioè, una libertà che mi permette di fare tutto ciò che mi piace, non è vera libertà. È solo schiavitù.  La vera libertà è quella che impegna a cercare il Vero, il Bello, la Giustizia, ciò che è in grado di far progredire ognuno di noi. Essere liberi è possibile solo in Cristo. Solo Lui ci libera.
Non ha niente a che fare con ciò che mi piace. E la Chiesa deve mantenere questa strada. La più autentica libertà è fuggire ciò che ci tiene in schiavitù. Siamo schiavi del danaro, del potere, di un’infinità di cose che non sono il nostro bene. Chi può illuminare l’uomo a cercare la vera libertà? Penso solo il Vangelo. La Libertà viene dal Figlio di Dio. E la Verità purtroppo non è più considerata. Ciascuno ha la sua verità e quindi la sua libertà. Oggi verità è ‘ciò che mi conviene’. Ma la libertà è una cosa oggettiva. E mi lega a volere la libertà che è Dio. Senza amore non c’è libertà. L’amore è rispettare l’altro. Dio è libertà, è amore. L’amore è incapace di imporre e Dio è l’origine della libertà perché è incapace di imporre. E Dio è l’origine della libertà perché è incapace di imporre una sua visione, ma ci lascia scegliere per amore. Questo è amore.

Un po’ di tempo fa lei ha detto l’Africa in materia di omosessualità, potrebbe diventare la punta di lancia della Chiesa nella sua opposizione alla decadenza occidentale; continua ad essere dello stesso avviso?

Il futuro è nelle mani di Dio. Però l’Africa lotterà in modo energico per non accettare questa deviazione. Perché è contro natura. Nessun pagano può pensare e credere davvero ciò che vediamo qui in occidente. Nessuno. L’uomo è fatto per la donna. La donna è fatta per l’uomo. Nel mio libro lo dico chiaramente, perché in fondo è un concetto molto chiaro di per sé: l’uomo è niente senza la donna, e viceversa. Ma soprattutto, tutti e due non sono niente senza un terzo elemento che è il frutto che nasce dal loro amore: una nuova vita, un bambino.  Il cosiddetto “matrimonio omosessuale” è egoismo puro. Nessun frutto. Un amore che non fa nascere niente non può che distrugge la vera felicità, la vera complementarietà. Un uomo non può completare un altro uomo; per quanto può provarci, non ci riuscirà mai. È la natura. Anche gli uccelli lo sanno.

Un’ultima domanda. Se potesse fare lei un’intervista ad un personaggio del passato, con chi si siederebbe a parlare?

Sceglierei forse, Sant’Agostino. Agostino è l’uomo che ha vissuto una vita difficile da ragazzo. Forse oggi tutti noi viviamo la stessa esperienza. Proprio lui ci saprebbe dare una lezione, a partire dalle sue vicende esistenziali. Come l’uomo possa cambiare la rotta della propria esistenza, uscire dall’errore e convertirsi, solo Sant’Agostino, per me, può indicarlo alla perfezione. Ma la conversione, dirà lui, non avviene senza la preghiera. La sua mamma ha pregato tanto, ed è riuscita a cambiare la sua vita. Agostino è per me un modello dell’uomo moderno.