la chiesa austriaca e i migranti

Austria

il «Nein» del vescovo alle barriere anti-migranti

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Dopo il Brennero forte l’azione della Chiesa anche al confine con l’Ungheria.

Il vescovo Zsifkovics: «Ho sempre ricordato che la Sacra Famiglia è stata una famiglia di rifugiati e chi pensa altrimenti non rappresenta il Vangelo»

Maria Teresa Pontara Pederiva

Si fa sempre più aspra l’opposizione dei cattolici austriaci contro le decisioni del governo, in piena campagna elettorale, per limitare l’ingresso di migranti e rifugiati.
Una lotta che ormai dura da settimane e che vede fianco a fianco vescovi e laici uniti per affermare il rispetto dei diritti umani e il valore irrinunciabile dell’accoglienza contro quella che il cardinal Schönborn ha definito la «fortezza Europa».

A cominciare dal passo del Brennero che vede coinvolti, e contrari, sia i residenti del Tirolo (Austria) che del Sudtirolo (Italia) e dove il governo austriaco sembrerebbe aver l’intenzione di ripristinare un confine di fatto caduto da diciotto anni.

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Forte nei giorni scorsi la reazione di mons. Jakob Bürgler, amministratore apostolico di Innsbruck (dove si attende la nomina del vescovo a seguito della designazione di mons. Scheuer a Linz): «La reintroduzione del confine in una regione cosmopolita (leggi Euregio, Tirolo-Sudtirolo-Trentino) e nell’era della globalizzazione rappresenta un passo che annulla molti successi».
«La mia prima preoccupazione non risiede nel fatto che l’economia e il turismo potrebbero avere risvolti negativi, ma va soprattutto a quelle donne, a quegli uomini e a quei bambini in fuga che hanno bisogno del nostro aiuto» ha scritto in una lettera il vescovo di Bolzano-Bressanone, Ivo Muser. «Il loro grido di aiuto – la loro fuga non è nient’altro che questo! – richiede la nostra attenzione, il nostro cuore generoso.
A che cosa serve celebrare l’”Anno della misericordia”, se poi siamo duri di cuore nei confronti del prossimo?!».

E un altro segnale forte viene in queste ore dalla diocesi di Eisenstadt, nel Burgenland, la regione più orientale al confine con Ungheria e Slovenia, zona chiave per le rotte d’ingresso.
Non è un caso che il protagonista sia proprio mons. Ägidius Johann Zsifkovics, nella sua triplice veste di pastore della diocesi e di presidente della Commissione episcopale austriaca per i migranti e l’integrazione e dell’omonima dei vescovi accreditati presso la UE (artefice dell’incontro di febbraio dei vescovi Comece ad Heiligenkreuz insieme ai patriarchi d’Oriente, terre di provenienza dei migranti, e autore del documento dei vescovi europei).
Il vescovo Zsifkovics ha pronunciato un chiaro e deciso «Nein» nei confronti della costruzione di recinzioni e barriere sul suolo diocesano e il vescovo non ha timore di rappresaglie di sorta, magari da parte di alcuni cattolici xenofobi.

Intervistato da diverse testate ribadisce la sua decisione: «Con ogni fibra del mio corpo affermo che è impossibile per me accettare che nel 21° secolo si possano costruire dei recinti, destinate a diventare un feticcio». Ricorda di essere nato (nel 1963 a Güssing) e cresciuto all’epoca della cortina di ferro e di aver sperimentato «tutte le umiliazioni di una zona di confine» sempre con il desiderio di un’altra vita.
«Ho sempre ricordato che la Sacra Famiglia è stata una famiglia di rifugiati e chi pensa altrimenti non rappresenta il Vangelo» ripete con convinzione.

Anche il portavoce diocesano Dominik Orieschnig osserva che la costruzione della barriera di confine sarebbe una «chiara rottura con il messaggio della Chiesa» oltre che «del tutto contraria allo spirito del Vangelo».
La decisione della diocesi di Eisenstadt ha già raccolto numerose attestazioni di simpatia e solidarietà, ma anche alcune critiche.

Un cittadino ha ringraziato «in nome dell’umanità», mentre altri, che si dichiarano cattolici, ma simpatizzanti di organizzazioni xenofobe, hanno espresso arrabbiati tutta la loro contrarietà.

Ancora una volta, emerge, dunque, come la crisi dei rifugiati rappresenti quasi «una cartina al tornasole del cristianesimo», ha detto il portavoce diocesano che tiene a precisare come l’autentica carità cristiana si riveli in questi momenti di crisi quando le situazioni difficili dovrebbero veder unite le forze in un vincolo di solidarietà fattiva. Come Bürgler a Innsbruck, anche al confine orientale, punto di riferimento sono i gesti di papa Francesco nell’incontro di Lesbo con il Patriarca ecumenico Bartolomeo I e l’arcivescovo ortodosso di Atene Hieronymus II la settimana scorsa.

Ciò non significa affatto che la diocesi non abbia comprensione dei timori e delle preoccupazioni della gente, tutt’altro, e le proposte dei vescovi europei alle sedi di Bruxelles stanno a dimostrarlo.
Tuttavia tengono a precisare da Eisenstadt, «non sarebbe una testimonianza cristiana rispondere a queste paure con recinzioni e muri».
La risposta cristiana è un’altra, dicono da settimane in Austria, anche perché quando lo sconosciuto diventa un volto concreto, la realtà dei fatti ha dimostrato che i timori svaniscono.

E, per intanto, i 9 km di recinzione lungo il confine con l’Ungheria nei pressi di Moschendorf (previsti anche container, servizi igienici e quant’altro) non si faranno.




quale teologia per una vera liberazione: 50 anni di ‘Concilium’ e 50 anni del Cocilio Vaticano secondo

lotte per un mondo più inclusivo

Lungo i cammini della liberazione. Le gioie e le speranze di una teologia declinata al futuro

lungo i cammini della liberazione

le gioie e le speranze di una teologia declinata al futuro

 
 da: Adista Documenti n° 16 del 30/04/2016

Il suo primo numero la rivista internazionale di teologia Concilium lo ha pubblicato nel 1965 prima ancora della conclusione del Vaticano II, con la lucida consapevolezza – come evidenziano i teologi brasiliani Maria Clara Bingemer e Luiz Carlos Susinnell’editoriale del numero, il primo del 2016, che celebra il «duplice giubileo» – che, «per una Chiesa che si rinnovava in modo così radicale», fosse «necessaria una teologia ugualmente rinnovata». E non ci sono davvero dubbi che la rivista sia stata «una delle espressioni più qualificate di questo rinnovamento teologico».

Chiamata dunque a celebrare il doppio appuntamento, quello del cinquantesimo anniversario del Concilio, con tutto ciò che questo ha comportato per la vita della Chiesa, e quello del suo cinquantesimo compleanno, la rivista aveva organizzato, nel maggio del 2015, alla Pontificia Università Cattolica di Rio de Janeiro, un grande convegno internazionale, sul tema “Cammini di liberazione: gioie e speranze per il futuro”. Titolo, questo, che, oltre a recuperare «la bella e felice» espressione iniziale della Costituzione pastorale Gaudium et spes, voleva indicare la necessità non solo e non tanto di fare memoria di un evento passato, per quanto straordinaria sia stata la sua importanza per la Chiesa, quanto piuttosto, spiegano Bingemer e Susin, di «riscattare tutto il potenziale di innovazione e di appello che questa espressione conteneva, puntando al futuro» e dunque di domandarsi come quell’avvenimento «continui a invitarci a guardare avanti, attenti alle domande e alle inquietudini delle nuove generazioni e disposti a una fedele creatività nel tentativo di rispondere a esse». Con la convinzione, espressa dal teologo Jon Sobrino nel suo intervento, che «vi sono eventi passati che seppelliscono la storia e catene che la imprigionano. E vi sono eventi passati che liberano la storia dalle catene, come molle che spingono in avanti».

Non sorprende allora come, raccogliendo in questo primo numero del 2016, il cui titolo riprende esattamente quello del convegno, le riflessioni tenute a Rio de Janeiro nel maggio del 2015, la rivista Concilium dimostri nella maniera più chiara come la teologia da essa elaborata nel corso di questi cinquant’anni abbia «sempre seguito da vicino i cambiamenti epocali avvenuti nella cultura e l’avvento di nuovi paradigmi che hanno orientato l’intelligenza della fede verso inevitabili trasformazioni». Trasformazioni che, come evidenzia nel suo intervento André Torres Queiruga,portano con sé sfide di enorme portata, a cominciare da quella «lanciata al pensiero religioso dalla Modernità con la scoperta dell’autonomia». Una questione di fronte a cui la teologia si rivela ad oggi piuttosto impreparata, non avendo ancora trovato parole che presentino le questioni religiose «che ci interessano realmente» in maniera «davvero significativa, al di là della semplice ripetizione di formule o di concetti che non parlano affatto o dicono molto poco». Basti pensare, spiega il teologo spagnolo, a quanto sia difficile parlare, «in un ambiente mediamente critico», di questioni come la Trinità, o di Gesù Cristo, del male, della preghiera e di molti altri temi che costituiscono il nucleo del messaggio cristiano.

Deriva da qui, secondo il teologo indiano Felix Wilfred, la necessità per la teologia di diventare «umile nel mezzo della situazione di crisi che l’umanità sta affrontando» e di cooperare con svariate altre forze, focalizzandosi «sugli elementi essenziali». Perché proprio come, di fronte alla casa in fiamme, si ha il tempo di salvare solo le cose fondamentali, così, «quando l’umanità e la natura sono in crisi profonda e immerse nella diseguaglianza e nell’esclusione, abbiamo bisogno di elaborare delle teologie, sia nel Nord che nel Sud del mondo, che si occupino esplicitamente della situazione di crisi dell’umanità e del creato». Una sfida che, per la teologia, presuppone anche la disponibilità, come sottolinea la teologa tedesca Regina Ammicht Quinn, a lasciarsi interpellare e «interrompere» da dubbi e domande, da inquietudini e provocazioni.

di seguito alcuni stralci della riflessione di Wilfred
 da: Adista Documenti n° 16 del 30/04/2016

 

L’intera vita è un viaggio; così anche la liberazione. Eguaglianza e inclusione sono i due occhi della liberazione; sono anche i mezzi per valutare la distanza che abbiamo percorso sulla strada della libertà: maggiori sono l’eguaglianza e l’inclusione, più grande è la liberazione. L’assenza di eguaglianza e di inclusione implicherebbe un mondo di crescente violenza e di crescenti contraddizioni. (…)

Nel mondo in via di globalizzazione il neoliberismo e il capitalismo avanzato, come grandi metanarrazioni, pervadono e controllano – sia come prassi che come ideologia – tutti gli ambiti della vita. L’umanità e la natura hanno bisogno di essere progressivamente liberate dalla loro morsa. (…). In questo cammino di lotta e di liberazione (…) da parte di donne e uomini di ogni nazione, le religioni e le teologie potrebbero svolgere un ruolo importante, con tutte le loro risorse.

Il ruolo della teologia si pone nel contesto della lotta per l’eguaglianza e l’inclusione ispirate dalla compassione e dalla solidarietà. Sulle orme di Gesù, una teologia genuina affronterà le questioni pressanti che toccano l’umanità e la natura, e intreccerà con questi temi la questione di Dio, dal momento che l’umano, il divino e l’universo sono inestricabilmente interconnessi a formare un unico mistero. (…).

UNA TEOLOGIA FOCALIZZATA SUGLI ELEMENTI ESSENZIALI

Senza un contatto diretto con la realtà; la teologia rischia la propria credibilità, per quanto brillantemente possa spiegare gli assunti dottrinali in riferimento alla Scrittura e alla tradizione. È necessario che la teologia diventi umile nel mezzo della situazione di crisi che l’umanità sta affrontando e sia pronta a cooperare con svariate altre forze. In un mondo segnato dalla frammentazione – della conoscenza, del sé, della comunità, dell’economia, della politica ecc. – la teologia, credo, potrebbe offrire un qualche senso di speranza. Una teologia correttamente orientata (…) possiede il potenziale per una visione olistica e mistica e per un approccio integrale. Questo è ciò che si richiede oggi per rispondere alla diseguaglianza e all’esclusione, all’oppressione e all’ingiustizia.

Quando la casa ha preso fuoco, si ha il tempo di salvare solo le cose essenziali. Quando l’umanità e la natura sono in crisi profonda e immerse nella diseguaglianza e nell’esclusione, abbiamo bisogno di elaborare delle teologie – sia nel Nord che nel Sud del mondo – che si occupino esplicitamente della situazione di crisi dell’umanitå e del creato. La teologia è tenuta a rispondere e ha una responsabilità nei confronti dell’umanità e della creazione di Dio. Può essere interessante compiere studi sulla verginità di Maria e fare sottili distinzioni teologiche tra la verginità ante partum, in partu, post partum ecc. Può essere stimolante discutere sul riavvicinamento tra i protestanti e i cattolici in merito alla interpretazione della dottrina della giustificazione. Ma tali interessi dottrinali che hanno impegnato e continuano a impegnare tanta attenzione del mondo teologico, devono retrocedere in secondo piano di fronte alla vastità dei problemi che l’umanità sta affrontando: problemi di diseguaglianza, esclusione, violazione della dignità e dei diritti umani, violenza, guerra, oppressione delle donne e discriminazione nei loro confronti, questioni ambientali. Purtroppo, un’ampia parte della teologia odierna – anche tra i teologi che asseriscono di trarre ispirazione dal Vaticano II  – è spesso evasiva sulla questione della povertà, della diseguaglianza e dell’esclusione.

Questi teologi spesso si perdono nelle discussioni se il Vaticano II sia in continuità con la tradizione o rappresenti una rottura e focalizzano la loro attenzione su minuzie esegetiche nell’ermeneutica dei testi conciliari. Una teologia che si limitasse a spiegare e a interpretare gli aspetti dottrinali del cristianesimo e il suo sistema simbolico non renderebbe un buon servizio all’umanità. La teologia ha bisogno di puntare il suo sguardo sul mondo e di cercare di rispondere alle questioni cruciali che gli esseri umani individualmente e collettivamente trovano proprio al centro della loro esistenza.

Vi è un grande divario fra la teologia classicista e l’empirica esperienza della vita quotidiana e delle sue lotte. Dio ha identificato il sé di Dio con l’umanità (verbum caro factum est). Giustamente, dunque, Nicolò Cusano ci ricorda che Dio è un cerchio infinito il cui centro è dovunque e la cui circonferenza non è da nessuna parte. Esiliare Dio e il prossimo dall’orizzonte dell’economia per perseguire un egoismo e un individualismo grossolani costituisce la più grande sfida da affrontare per la teologia odierna. Se il sabato (…) rappresenta un’interruzione, una pausa per pensare al tutto in vista di una trasformazione creativa, allora il ruolo della teologia sarebbe quello di promuovere la pratica del sabato in ogni campo della vita umana, personale e collettiva. Ciò significherà aiutare a connettere ogni frammento con il tutto; connettere ogni giorno con il giorno che non avrà fine.

Per seguire l’umanità nel suo cammino di liberazione, la teologia ha bisogno di attuare una riallocazione del sacro, rispetto agli spazi e agli oggetti tradizionalmente venerati; ha bisogno di nutrire rispetto per l’intera creazione e per tutte le forme di vita, dal filo d’erba agli esseri umani. Una delle intuizioni fondamentali della Bibbia è che la qualità di una comunità si misura dal modo in cui si prende cura dei suoi membri più deboli e più vulnerabili, e per tutto questo l’eguaglianza e la giustizia sono essenziali e centrali. Tale visione ricorre nell’intero corpus della tradizione biblica, in cui l’idolatria e l’ingiustizia sono interconnesse. Infatti, abbandonare il Signore ha provocato ingiustizia e diseguaglianza nella società; e, inversamente, l’ingiustizia sociale ha allontanato dal Signore e ha portato agli idoli.

A sua volta, l’esclusione è diametralmente opposta alle dinamiche di interdipendenza che ci vengono presentate nella Genesi dal racconto della creazione. Nella creazione Dio connette tutte le creature fra loro in armonia; la creazione, tuttavia, conferisce a ogni creatura anche la propria peculiarità, unicità e identità. Quando l’esclusione viene messa in pratica come assimilazione dell’altro, nega la legittima diversità e pluralità. Ciò che Dio ha esercitato nella creazione dovrebbe caratterizzare anche le comunità umane. Qui sta un compito importante per la teologia: quello di contribuire a creare comunità senza esclusione, comunità che rispettino le differenze e la pluralità. Ed è un compito di importanza cruciale in questi tempi in cui il sistema economico imperante è diventato una forza di divisione e di conflitto fra comunità.

La liberazione e il perseguimento dell’eguaglianza e dell’inclusione saranno ispirati da un nuovo senso del sacro e nutriti dalla profonda fede di Gesù. In un mondo che ha sacralizzato la gerarchia e il potere, che ha coltivato la diseguaglianza e praticato l’esclusione, Gesù ha difeso e propugnato la dignità di ogni essere umano come nuovo tempio di Dio: l’esclusione dei poveri dalla conoscenza, dalla libertà, dalla dignità, dalla partecipazione e dalla comunità era il vero sacrilegio. I vangeli ci dicono che Gesù era più interessato alle sofferenze e alle privazioni degli esseri umani che al peccato. Purtroppo, la soteriologia cristiana giunse a essere costruita intorno al peccato e non sugli aspetti più importanti delle azioni di Gesù per il bene (salus) di esseri umani e comunità. La visione gesuana della liberazione era radicata nell’esperienza del divino inteso come un Dio compassionevole e solidale con l’umanità sofferente. L’esperienza della sofferenza, della povertà, delle privazioni e dell’asservimento degli esseri umani lo toccava profondamente. La compassione e la solidarietà gli sgorgavano dall’intimo, dalle viscere. Una teologia che segue le orme di Gesù incorporerà la sua visione, la sua passione e la sua prassi. Come Gesù, metterà in discussione quello che viene accettato come lampante e fuori di ogni dubbio.

FECONDAZIONE INCROCIATA DI TEOLOGIE

C’è stato un tempo in cui le questioni teologiche venivano impostate in Occidente e coloro che venivano dall’Asia, dall’Africa, dall’America Latina e dall’Oceania potevano dare un senso alla teologia solo nella misura in cui partecipavano dei dibattiti teologici di matrice occidentale. Oggi, la teologia occidentale, salvo alcune lodevoli eccezioni, è alle prese con una profonda crisi. I suoi approcci teologici pretenziosi e altisonanti si pongono in netto contrasto con la realtà effettiva di un cristianesimo occidentale logoro, dal quale i fedeli si allontanano in massa. Sembra esserci ben poca corrispondenza fra questa teologia e la situazione sul campo. La teologia occidentale dominante mi appare come un esercizio intellettuale per chi ha tempo libero, svincolata dalle problematiche urgenti dell’umanità e della natura. Ci si comincia a chiedere a chi sia rivolta questa teologia, e cui bono – cioè: a chi giova? Porrò la questione in maniera chiara e semplice: la teologia europea non ha futuro se non è disposta ad avviare un dialogo serio con le teologie emergenti in diverse parti del mondo, sulla base dell’esperienza di oppressione, di sofferenza, di diseguaglianza e di esclusione. (…).

CONCLUSIONE

Il cammino di liberazione è distribuito su molti deserti che devono essere attraversati con grande speranza. Sono i movimenti di resistenza in tutto il mondo contro la diseguaglianza e il rifiuto di abbattere l’esclusione a offrire speranza per il futuro. Questa resistenza è portata avanti da vari movimenti sociali, globali e locali. Sono oggi la coscienza del mondo e incarnano l’etica nella pratica.

In questo cammino di lotta e di liberazione, che deve essere intrapreso nella speranza congiuntamente da donne e uomini di ogni nazione, un giusto tipo di teologia potrebbe avere un ruolo molto significativo. Si potrebbe chiedere: “Che cosa si intende con giusto tipo di teologia?”. Risponderò ricordando una parabola di Buddha di 2.500 anni fa: la parabola della freccia avvelenata. Un uomo era stato colpito da una freccia mentre stava attraversando una foresta. Mentre i suoi amici e i suoi parenti si stavano dando da fare per aiutarlo, egli non volle in alcun modo che la freccia gli fosse tolta finché non gli fosse ben chiaro chi era stata la persona che lo aveva preso di mira con il dardo, quale fosse il suo nome, la sua età, il suo villaggio, la sua corporatura, la lunghezza dell’arco che aveva usato. E insistette nel voler sapere se le penne della freccia utilizzata fossero quelle di un avvoltoio, di una cicogna, di un falco o di un pavone! Questa parabola era una tagliente critica di Buddha contro l’alta casta dei brahmini del suo tempo, con la loro teologia piena di astruse speculazioni metafisiche, gravemente fallimentari dal punto di vista pratico. Buddha invitava ogni persona a rispondere alla sofferenza e all’oppressione con karuna (compassione e misericordia) e senza indugio. Nei suoi insegnamenti, Buddha sostenne l’eguaglianza di ogni uomo e di ogni donna senza distinzione, in virtù del fatto che ognuno è egualmente capace di illuminazione. Spezzò la stratificazione sociale delle caste che escludeva delle persone. Tuttavia, quando gli fu chiesto di Dio, Buddha tacque. L’enigmatico silenzio di Buddha costituisce in sé un grande tema.

Cinquecento anni dopo Buddha, Gesù si è identificato con l’umanità sofferente. Quello che colpisce è che Gesù ha rotto il silenzio di Buddha. Gesù ha aperto la sua bocca per parlare di un Dio, un Dio Padre-e-Madre profondamente coinvolto nella vita degli esseri umani e nelle loro sofferenze. Questo Dio non è una realtà alienante, ma un Dio compassionevole, misericordioso e solidale, che tratta con eguaglianza tutti i suoi figli e le sue figlie. Abbiamo così un grande messaggio di speranza per continuare a lottare per l’eguaglianza e l’inclusione e per proseguire sul cammino delle lotte per la liberazione, in questi tempi in cui la vita umana e la convivenza sono minacciate dal mercato liberista e dal suo modello di sviluppo. Una teologia sensibile alla questione dell’ineguaglianza e dell’esclusione nel nostro mondo odierno ha il compito liberatore di desacralizzare il “vitello d’oro” del libero mercato. La teologia cercherà costantemente di intrecciare la questione di Dio con i problerni epocali che affliggono l’umanità e di fornire una visione che si basi sull’unità di fondo del mistero dell’umano, del divino e dell’universo.




macché invasione!

L’INVASIONE CHE NON C’È

i dati ci dicono che tra i 5 milioni di stranieri residenti in Italia quasi il 54% è cristiano e il 32,2% islamico. Il 47% degli italiani vive comunque come una minaccia il pluralismo religioso e l’islamofobia resta la principale nemica all’apertura

«Occorre “biblizzare” il Corano e “coranizzare” la Bibbia in modo da percorrere un sentiero che ci porterà a riconoscere la nostra comune vocazione mediterranea in un Mare nostrum inteso come alveo di comunicazione e costruzione di una casa comune»

(prof. Zannini)

di Danilo Giannese

nella foto fedeli musulmani riuniti in preghiera a Palermo in occasione dei festeggiamenti per l’ultimo giorno del Ramadan

 

Se pronunciata dalle labbra di papa Francesco, anche una espressione come «invasione araba» – che spesso e volentieri certi politici e organi di informazione utilizzano per instillare timori infondati nella pubblica opinione – acquista una valenza positiva.
«Quante invasioni l’Europa ha conosciuto nel corso della sua storia! E ha saputo sempre superarsi e andare avanti per trovarsi, infine, come ingrandita dallo scambio tra le culture», ha detto papa Bergoglio, in un recente colloquio con il settimanale francese La Vie, riferendosi ai flussi migratori in corso verso l’Europa e alle opportunità di incontro e di dialogo che questi portano con sé.

In Italia, d’altra parte, la tanto paventata “invasione islamica” non trova nemmeno fondamento nella realtà, a dispetto di slogan politici propagandistici e titoli di giornale sensazionalistici: degli oltre 5 milioni di immigrati attualmente residenti nel nostro paese, infatti, 2 milioni e 700 mila (53,8% del totale) sono cristiani, mentre i musulmani ammontano a 1 milione e 600 mila (32,2%), con una incidenza di appena il 2,9% sulla popolazione totale in Italia, seguiti da 330 mila fedeli di religioni orientali, 221 mila atei e agnostici, 84 mila appartenenti a gruppi religiosi difficilmente identificabili, 55 mila immigrati provenienti da aree dove sono diffuse religioni tradizionali e, infine, 7 mila ebrei.
A dirlo sono i dati 2015 contenuti nel Dossier statistico immigrazione a cura del Centro studi e ricerche IDOS, che raccontano, anche, come l’insediamento dei musulmani in Italia sia più recente rispetto al resto d’Europa e che gli islamici provengono soprattutto da Marocco, Albania, Bangladesh, Egitto, Pakistan, Tunisia e Senegal.

Dal rapporto, del resto, si evince come l’immigrazione stessa sia il fattore principale che contribuisce ad allargare, in Italia, i confini della scena religiosa nell’ottica di un nuovo pluralismo, «per trovarsi infine come ingrandita dallo scambio tra le culture», per usare ancora le parole del papa.

Eppure, secondo dati riportati nel Dossier immigrazione, il pluralismo religioso viene ancora percepito come una minaccia dal 47% degli italiani. Soprattutto «nei confronti dell’islam, il sentimento più comune è quello di ridurre drasticamente l’apertura culturale, fino a vivere la sindrome del “fortino assediato”, quando il nuovo che avanza pare minacciare le proprie appartenenze di fondo e le conquiste acquisite», afferma il teologo e docente di Teologia del dialogo presso la Facoltà teologica dell’Emilia Romagna, Brunetto Salvarani.

L’islamofobia – la «forte avversione, dettata da ragioni pregiudiziali, verso la cultura e la religione islamica», come viene definita dall’enciclopedia Treccani – appare allo stato attuale, dunque, come il principale nemico all’apertura verso il pluralismo religioso, anche nel nostro paese. Intervenendo a un incontro di riflessione sull’appartenenza religiosa degli immigrati in Italia, tenutosi a marzo a Roma presso il Pontificio istituto di studi arabi e d’islamistica, il professor Francesco Zannini, docente di Storia dell’islam contemporaneo, ha messo in guardia dai rischi dell’islamofobia, che «si nutre di paure e di cliché, può arrecare danni irreparabili e sfociare nel rifiuto dell’incontro dell’altro». «Inoltre – ha proseguito – l’ostilità porta alla ghettizzazione e nella ghettizzazione può trovare terreno fertile la radicalizzazione».

Per vincere la battaglia contro l’islamofobia e a favore del dialogo interreligioso, oltre a dare maggiore spazio e a raccontare sui media il lato positivo del fenomeno migratorio, secondo il professor Zannini è quanto mai opportuno che cristianesimo e islam camminino insieme: «Occorre “biblizzare” il Corano e “coranizzare” la Bibbia in modo da percorrere un sentiero che ci porterà a riconoscere la nostra comune vocazione mediterranea in un Mare nostrum inteso come alveo di comunicazione e costruzione di una casa comune».




la nonviolenza evangelica e la chiesa cattolica: incontro su non violenza e pace giusta

la seguente dichiarazione è stata rilasciata dai partecipanti all’incontro su Nonviolenza e Pace giusta tenutosi a Roma, nei giorni 11-13 aprile 2016. L’incontro è stato convocato congiuntamente da Pax Christi International, il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, UISG/USG e molte altre organizzazioni cattoliche internazionali

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Appello alla Chiesa Cattolica per promuovere la centralità della nonviolenza evangelica

Come cristiani impegnati per un mondo più giusto e pacifico siamo chiamati a prendere una posizione chiara a favore di una nonviolenza creativa e attiva e contro tutte le forme di violenza. Con questa convinzione, e nel riconoscimento del Giubileo della Misericordia proclamato da Papa Francesco, persone provenienti da molti paesi sono convenute alla Conferenza per la Nonviolenza e Pace giusta, promossa dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace e da Pax Christi International l’11-13 Aprile 2016 A Roma.

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La nostra assemblea, popolo di Dio proveniente dall’Africa, le Americhe,  l’Asia, l’Europa, il Medio Oriente, l’Oceania ha incluso laici, teologi, membri di congregazioni religiose, sacerdoti e vescovi. Molti di noi vivono in comunità che sperimentano la violenza e l’oppressione. Tutti noi siamo praticanti della giustizia e della pace. Siamo grati per il messaggio di Papa Francesco alla nostra conferenza: “Le vostre riflessioni su come rivitalizzare gli strumenti della nonviolenza, e in particolare della nonviolenza attiva, saranno un contributo necessario e positivo”.

Guardando al nostro mondo di oggi

Viviamo in un tempo di enorme sofferenza, di trauma e paura diffusi, dovuti alla militarizzazione, all’ingiustizia economica, ai cambiamenti climatici e a una miriade di altre forme specifiche di violenza. In questo contesto di violenza normalizzata e sistematica, coloro fra noi che stanno dalla parte della tradizione cristiana sono chiamati a riconoscere la centralità della nonviolenza attiva nel progetto e nel messaggio di Gesù; nella vita e nella pratica della Chiesa cattolica; e nella nostra vocazione a lungo termine per guarire e per riconciliare sia le persone che il pianeta.

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Ci rallegriamo delle ricche esperienze concrete di persone impegnate nel lavoro per la pace in tutto il mondo, molte delle cui storie abbiamo ascoltato durante questa conferenza. I partecipanti hanno condiviso le loro esperienze di negoziati coraggiosi con i soggetti armati in Uganda e Colombia; o lavorando per proteggere l’Articolo 9, la clausola di pace nella Costituzione giapponese; o l’accompagnamento in Palestina; o l’educazione nazionale alla pace nelle Filippine. Essi illuminano la creatività e la potenza delle pratiche nonviolente in molte situazioni diverse di potenziale o reale conflitto violento.  La ricerca accademica recente, infatti, ha confermato che le strategie di resistenza nonviolenta sono due volte più efficaci di quelle violente.

È giunto il momento per la nostra Chiesa di essere una testimonianza vivente e di investire risorse umane e finanziarie molto maggiori nella promozione di una spiritualità e di una pratica della nonviolenza attiva e nella formazione e addestramento delle nostre comunità cattoliche a pratiche nonviolente efficaci. In tutto questo, Gesù è la nostra ispirazione e il nostro modello.

Gesù e la nonviolenza

Ai suoi tempi, pieni di violenza strutturale, Gesù ha proclamato un nuovo ordine nonviolento radicato nell’amore incondizionato di Dio. Gesù ha chiamato i suoi discepoli ad amare i loro nemici (Matteo 5:44), che comprende il rispetto dell’immagine di Dio in tutte le persone; a non offrire alcuna resistenza violenta a chi fa il male (Matteo 5:39); a diventare operatori di pace; a perdonare e pentirsi; e ad essere abbondantemente misericordiosi (Matteo 5-7). Gesù ha incarnato la nonviolenza resistendo attivamente alla disumanizzazione sistematica, come quando ha sfidato la legge del Sabato per guarire l’uomo dalla mano secca (Marco 3:1-6); quando ha affrontato i potenti al Tempio e lo ha purificato (Giovanni 2:13-22); quando pacificamente, ma con determinazione, ha sfidato gli uomini che accusavano una donna di adulterio (Giovanni 8:1-11); quando la notte prima di morire ha chiesto a Pietro di mettere giù la sua spada (Matteo 26:52).

Né passiva né debole, la nonviolenza di Gesù era il potere dell’amore in azione. Nel progetto e nelle opere, egli è la rivelazione e l’incarnazione del Dio Nonviolento, una verità particolarmente illuminata nella croce e nella risurrezione. Egli ci chiama a sviluppare la virtù della pace nonviolenta.

Chiaramente, la Parola di Dio, la testimonianza di Gesù, non dovrebbero mai essere usate per giustificare la violenza, l’ingiustizia o la guerra. Confessiamo che il popolo di Dio ha tradito questo messaggio centrale del Vangelo tante volte, partecipando a guerre, persecuzioni, oppressione, sfruttamento e discriminazione.

Noi crediamo che non vi sia alcuna “guerra giusta”. Troppo spesso la “teoria della guerra giusta” è stata utilizzata per appoggiare, piuttosto che prevenire o limitare la guerra. Suggerire che una “guerra giusta” è possibile compromette anche l’imperativo morale di sviluppare strumenti e capacità per la trasformazione nonviolenta dei conflitti.marcia dell pace

Abbiamo bisogno di un nuovo quadro che sia coerente con la nonviolenza evangelica. Un percorso diverso si sta chiaramente delineando nella recente dottrina sociale cattolica. Papa Giovanni XXIII ha scritto che la guerra non è un modo adatto per ripristinare i diritti; Papa Paolo VI ha legato pace e sviluppo, e ha detto alle Nazioni Unite “mai più guerra”; Papa Giovanni Paolo II ha detto che “la guerra appartiene al passato tragico, alla storia”; Papa Benedetto XVI ha detto che “amare il nemico è il nucleo della rivoluzione cristiana”; e Papa Francesco ha detto che “la vera forza del cristiano è il potere della verità e dell’amore, che porta alla rinuncia di ogni violenza. Fede e violenza sono incompatibili “. Ha anche sollecitato “l’abolizione della guerra”.

Noi proponiamo che la Chiesa cattolica sviluppi e prenda in considerazione il passaggio a un approccio di Pace giusta basato sulla nonviolenza evangelica. Un approccio di Pace giusta offre una visione e un’etica per costruire la pace, come pure per evitare, sdrammatizzare e sanare i danni del conflitto violento. Questa etica comprende un impegno per la dignità umana e lo sviluppo di relazioni, con criteri, virtù e pratiche specifiche per guidare le nostre azioni. Ci rendiamo conto che la pace richiede giustizia e che la giustizia richiede di operare per la pace.

Vivere la nonviolenza evangelica e la Pace giusta

In questo spirito ci impegniamo a promuovere la comprensione e la pratica della nonviolenza attiva cattolica sulla via di una pace giusta. Come aspiranti discepoli di Gesù, messi alla prova e ispirati da storie di speranza e di coraggio in questi giorni, chiediamo alla Chiesa che amiamo:

-   di continuare a sviluppare l’insegnamento sociale cattolico sulla nonviolenza. In particolare, chiediamo a Papa Francesco di condividere con il mondo un’enciclica sulla nonviolenza e la Pace giusta;

-  di integrare esplicitamente la nonviolenza evangelica nella vita, compresa la vita sacramentale, e nell’opera della Chiesa attraverso le diocesi, le parrocchie, le agenzie, le scuole, le università, i seminari, gli ordini religiosi, le associazioni di volontariato, e altri;

-   di promuovere pratiche e strategie nonviolente (ad esempio, resistenza non violenta,  giustizia riparativa, risanamento del trauma, protezione civile non armata, trasformazione dei conflitti e strategie di costruzione della pace);

-  di avviare una confronto globale sulla nonviolenza all’interno della Chiesa, con persone di altre fedi, e con un mondo allargato per rispondere alle crisi monumentali del nostro tempo con la visione e le strategie della nonviolenza e della Pace giusta;

-  di non utilizzare o insegnare più la “teoria della guerra giusta”; di continuare a sostenere l’abolizione della guerra e delle armi nucleari;

–   di levare la voce profetica della chiesa per sfidare gli ingiusti poteri mondiali e per sostenere e difendere quegli attivisti nonviolenti il cui lavoro per la pace e la giustizia mette a rischio la loro vita.

In ogni epoca, lo Spirito Santo dà alla Chiesa la grazia della saggezza per rispondere alle sfide del suo tempo. In risposta a ciò che si può definire un’epidemia globale di violenza, che Papa Francesco ha etichettato come una “guerra mondiale a pezzi”, siamo chiamati ad invocare, pregare, insegnare e intraprendere un’azione decisiva. Con le nostre comunità e con le nostre organizzazioni ci auguriamo di continuare a collaborare con la Santa Sede e la Chiesa globale per portare avanti la nonviolenza evangelica.

 




il capo dei guerriglieri colombiani scrive a papa Francesco

la guerriglia colombiana a Papa Francesco

 

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Tonio Dell’Olio

Non s’era mai visto. Una specie di miracolo. Il capo temibile delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia), la più longeva formazione guerrigliera della storia, si rivolge al Papa perché si adoperi per la positiva conclusione degli accordi di pace che porrebbero fine a più di 50 anni di guerra in Colombia 

Timoleon Jimenez, alias Timochenko, ha proprio scritto una lettera aperta a Francesco in cui tra l’altro dice:

“Crediamo che mai come ora – la nostra patria richiede la semina dell’amore dove cresce l’odio, la forza del perdono dove prevale l’offesa, il calore dell’unione dove si annida la discordia, la fede dove regnano i dubbi, la verità dove c’è l’errore. E proprio in tale frangente è chiamata ad avere un ruolo da protagonista la Chiesa di Cristo”.
“Sua Santità – prosegue il testo – ha mostrato in modo evidente questo apostolato, andando da un luogo all’altro del Pianeta con il suo messaggio di amore. Pensiamo che la Chiesa potrebbe dispiegare uno sforzo analogo in Colombia, dalla più umile parrocchia alla più alta gerarchia, e risvegliare nel cuore di quanti sono confusi la forza della pace e della riconciliazione”.

Ed è proprio questa la Chiesa che amiamo, quella che si pone al servizio del sogno di Dio per la pace. Come ci insegna questo guerrigliero marxista.

 




contro una politica che sa solo condannare a morte!

Lesbo: i gesti simbolici che salvano. E le politiche che condannano. Intervista a don Pierluigi Di Piazza

Lesbo: i gesti simbolici che salvano e le politiche che condannano

intervista a don Pierluigi Di Piazza

 
da: Adista Notizie n° 16 del 30/04/2016

 «L’opinione mondiale non può ignorare la colossale crisi umanitaria che ha avuto origine a causa della diffusione della violenza e del conflitto armato, della persecuzione e del dislocamento di minoranze religiose ed etniche, e dallo sradicamento di famiglie dalle proprie case, in violazione della dignità umana, dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo». «Da Lesbo facciamo appello alla comunità internazionale perché risponda con coraggio, affrontando questa enorme crisi umanitaria e le cause ad essa soggiacenti, mediante iniziative diplomatiche, politiche e caritative e attraverso sforzi congiunti, sia in Medio Oriente sia in Europa».

Ecco scolpiti in due soli periodi la tragedia più grande dopo l’ultimo evento bellico mondiale e l’appello alla comunità internazionale per farvi fronte. Sono tratti dalla Dichiarazione congiunta di papa Francesco, del patriarca di Costantinopoli Bartolomeo e dell’arcivescovo di Atene Hieronymos, firmata a Lesbo il 15 aprile scorso, dove le tre autorità hanno visitato il campo profughi di Moria e, come ha detto il pontefice parlando ai giornalisti, «un cimitero: il mare». «Siamo venuti – ha detto ai rifugiati – per richiamare l’attenzione del mondo su questa grave crisi umanitaria e per implorarne la risoluzione. Come uomini di fede, desideriamo unire le nostre voci per parlare apertamente a nome vostro. Speriamo che il mondo si faccia attento a queste situazioni di bisogno tragico e veramente disperato, e risponda in modo degno della nostra comune umanità».Auspicio, quello del papa all’accoglienza insieme all’appello del 17 giugno («Chiedete tutti perdono per le istituzioni e le persone che chiudono le loro porte a gente che cerca aiuto e cerca di essere custodita»), che in qualche caso è caduto nel vuoto e respinto. In Italia, al leader del Carroccio Matteo Salvini – che su Facebook ha scritto: «Il papa vuole invitare altre migliaia di immigrati in Italia? Un conto è accogliere i pochi che scappano dalla guerra, altro conto è incentivare e finanziare un’invasione senza precedenti. Caro Santo Padre, la catastrofe è a due passi dal Vaticano, è in Italia!» – ha risposto dal telegiornale di Tv2000 (18/4) il segretario generale della Cei, mons. Nunzio Galantino, ricordando che quella del papa è «politica evangelica»: «Chi ha un minimo d’intelligenza, cioè è in grado di leggere la storia e gli eventi», ha rimarcato, «capisce che i veri motivi che spingono le persone ad uscire dalle proprie nazioni sono altri. Non è l’accoglienza, ma la guerra e le condizioni economiche disastrose. Chi incentiva e continua ancora a provocare l’immigrazione sono tutte quelle realtà; e l’Europa e gli Usa non sono assolutamente senza colpa, che hanno provocato le guerre e impoverito queste nazioni. La povertà e la guerra mettono in moto queste persone».Resta da vedere da vedere – come ha commentato il quotidiano cattolico francese La Croix (18/4) – se il gesto spettacolare di Francesco di recarsi a Lesbo e di tornarne conducendo con sé 12 migranti, peraltro tutti musulmani (tre famiglie accolte dalla Comunità di Sant’Egidio, economicamente supportata dal Vaticano), «produrrà opinione per stimolare una risposta all’altezza della crisi», come dire dalla profezia alla politica.Ne abbiamo parlato con don Pierluigi Di Piazza, del Centro di accoglienza “Ernesto Balducci” di Zugliano (Ud), la cui principale attività è l’accoglienza concreta delle persone immigrate e rifugiate. Di seguito il colloquio che abbiamo avuto con lui.

Papa Francesco insiste nel fare gesti simbolici per manifestare lo scandalo sulle stragi dei migranti, per richiamare l’attenzione sulla dignità di ogni vita umana, per scuotere le coscienze dei politici della comunità internazionale che erigono barriere e prosperano sul commercio delle armi e su interessi geopolitici spesso inconfessabili, alimentando guerre e povertà estreme che generano la migrazione di tanti esseri umani verso porti più sicuri. Il viaggio a Lampedusa, nel 2013, non ha generato nessun sussulto verso un atteggiamento di accoglienza. Lesbo riuscirà dove Lampedusa sembra aver fallito?

A mio sentire, la presenza di papa Francesco a Lampedusa nel luglio 2013 è stato un segno molto importante, profetico: l’atteggiamento penitenziale; l’incontro con le persone, la celebrazione dell’Eucarestia sulla mensa costituita da una barca, con il calice di legno; l’interrogativo drammatico rivolto a tutti di dove sono i nostri fratelli e sorelle, qual è la cura o il disinteresse nei loro confronti; il monito a non lasciarci irretire nella globalizzazione dell’indifferenza; la provocazione a riflettere se noi siamo ancora capaci di piangere o se invece diventiamo indifferenti al dramma dei tanti che muoiono in mare: sono tutte questioni che ad esempio personalmente qui nel centro Balducci di Zugliano e in tanti incontri pubblici ho ripreso diverse volte commentando come fosse importante sottoscriverle ogni giorno data la loro attualità. Ritengo che come me tante altre persone vi abbiano fatto riferimento.

Non vi hanno certo fatto riferimento i politici europei.

Se l’esito di quella presenza si constata nella posizione dell’Europa e in quella di tanti nostri territori è indubbiamente desolante. L’incapacità e la non volontà dell’Europa sono vergognose; la successione di tanti incontri inconcludenti e mortificante; l’emergere di nazionalismi, populismi; la realizzazione di muri, di fili spinati; i gas lacrimogeni, le pallottole di gomma contro i migranti, anche i bambini, costituiscono una evidente violazione dei diritti umani e della Convenzione di Ginevra sui richiedenti asilo. La situazione di Idomeni al confine fra Grecia e Macedonia, con 14mila persone di cui 4mila bambini nelle tende appoggiate sul fango costituiscono una vergogna per l’Europa e per tutta l’umanità. L’accordo con la Turchia ha realizzato la mercificazione dell’umanità di coloro che sono in fuga e vengono ricacciati; avrebbe dovuto suscitare lo sdegno di tante persone e comunità, non reazioni limitate e tiepide, com’è avvenuto, o del tutto assenti.A Lesbo papa Francesco si è recato non solo per visitare ma soprattutto per vedere e ascoltare con gli occhi e gli orecchi del cuore, coinvolgendosi con i loro sguardi. Ha concordato insieme a lui la presenza del patriarca Bartolomeo e dell’arcivescovo Hieronymus; era presente anche il presidente Alexis Tsipras. E poi in modo sorprendente per tutti ha dato la concreta possibilità a 3 famiglie, 12 persone, fra cui 6 bambini, tutti i musulmani, di andare con lui a Roma per essere accolti. Che siano tutti musulmani, ha detto, non costituisce problema perché tutti siamo figli di Dio, tutti apparteniamo alla stessa famiglia umana.

Un gesto in un certo senso caduto nel vuoto, per lo meno sinora.

A mio sentire, i commenti dei politici in genere sono stati tiepidi, dovuti, senza coinvolgimento, quelli di qualcuno poi non sono neanche oggettivabili perché anche dire squallidi è poco. Le parole e i gesti concreti di Papa Francesco intendono abbattere i muri, tagliare i fili spinati, fermare lacrimogeni e proiettili di gomma. Ma la sua provocazione può essere colta da chi è in qualche modo e per qualche aspetto già disponibile a recepirla anche se inizialmente in modo tenue ed embrionale. Se anche le ripetute stragi in mare, le migliaia di morti, centinaia di bambini, non feriscono il cuore, non scuotono le coscienze, purtroppo per tanti le parole e i gesti di papa Francesco sono considerati da lui dovuti: in ultima analisi è pur sempre il papa; anche se diverso e coraggioso a lui spettano queste posizioni e scelte, ma poi si pensa che la realtà è un’altra, il realismo anche, la politica anche.

E se il papa passasse a gesti più concreti, tipo richiamare i nunzi dai Paesi più sordi ad un trattamento umanitario dei migranti?

Papa Francesco orienta con la profezia dell’accoglienza; spetterebbe alle Chiese locali, alle diocesi e alle parrocchie riproporla nei diversi territori d’Italia e d’Europa; ugualmente anche i responsabili con le comunità di altre fedi religiose comprese certamente quelle di fede musulmana, dato anche che in grande percentuale i profughi vivono questa fede, pensando magari all’incontro, al dialogo, alla collaborazione operativa fra comunità di fede religiosa diversa. A mio avviso per chi si riferisce al Vangelo di Gesù la questione che si apre è dirimente: è possibile, e come, dichiararsi cristiani e respingere i profughi, diffondere mentalità, parole, atteggiamenti di indifferenza, di diffidenza, di razzismo? Non è possibile, è contrario al Vangelo in cui Gesù afferma: “Ero forestiero e mi avete accolto”. Nelle diocesi, nelle diverse comunità questa affermazione dovrebbe risuonare con molta forza, in tante neanche si nomina. Le strumentalità al riguardo in questi anni e ancora maggiormente oggi sono state e sono evidenti e vergognose.

Potrebbe non sorprendere, da parte di Francesco, il ricorso ad altre iniziative. Per esempio quella suggerita al papa da quattro sacerdoti (don Luigi Ciotti, fondatore dell’associazione “Libera”, don Gino Rigoldi, cappellano dell’istituto penale per minori “Beccaria”, don Virginio Colmegna, presidente della “Casa della carità”, e il missionario comboniano p. Alex Zanotelli) dalle pagine de L’Espresso di un anno fa (30/4/15): i cosiddetti “visti del papa”, permessi rilasciati dalla Santa Sede, nelle sue rappresentanze diplomatiche nei vari Paesi, un “corridoio umanitario” per salvare migliaia di bambini, donne e uomini, anche se non certo per risolvere il problema che è ormai strutturale. Il Vaticano li potrebbe accogliere in proprie strutture ed in altre ecclesiali per poi consentire loro di raggiungere con altri visti il Paese dove vogliono recarsi. Sarebbe un esempio che altri Paesi possono seguire. È pensabile questo passo in più?

Personalmente non ho la presunzione di esprimere suggerimenti, tantomeno indicazioni. Vivo da anni in questo Centro Balducci che sento come un laboratorio di convivenza fra le diversità, con 50 persone immigrate e profughe. Avverto che questo fenomeno mondiale è attualmente il criterio dirimente della lettura del mondo e di questa nostra società, e nello stesso tempo che solo una minoranza condivide questa considerazione fondamentale. Di fronte alla realtà così spesso drammatica c’è l’esigenza di scelte inedite e coraggiose che aprono nuove possibilità. Se si riuscisse ad aprire nuove strade come quelle indicate che altri possano poi seguire questo risulterebbe molto importante per le istituzioni e la politica perché farebbe emergere la vergogna della non volontà e incapacità di agire. La Chiesa del Vangelo è coinvolta nella fedeltà al Vangelo, alle storie delle persone, alla propria coscienza.

Nell’estate scorsa, il papa ha anche sollecitato diocesi e parrocchie ad ospitare, nelle possibilità di ognuno, gruppi e famiglie di migranti. Secondo lei, la risposta è stata soddisfacente?

Non sono in grado di rispondere con dati certi. Mi pare che, in Italia, molte esperienze di accoglienza si aprono nelle diocesi e nelle parrocchie; ma anche che, nello stesso tempo, una parte consistente di coloro che si dicono cristiani sono indifferenti ed esprimono contrarietà e avversione. C’è insieme un uso politico strumentale del riferimento alle radici cristiane alla cultura cattolica per fortificare identità chiuse, di per sé difensive e aggressive, che di fatto smentiscono in modo clamoroso il Vangelo a cui pretendono di riferirsi.* Campo profughi di Idomeni.

eni.



anche questo, sì, è un padre!

 

 

SE QUESTO E’ UN PADRE

se questo

Noi che viviamo sicuri
Nelle nostre tiepide case,
Noi che troviamo tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Consideriamo se questo è un padre,
Che cammina nella tempesta e nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un nostro sì o un nostro no.
Consideriamo se questo è un padre,
Senza nome, senza casa, senza patria
Senza più forza di ricordare
Lo sguardo vuoto di passato vuoto di futuro
Le labbra sulla sua bimba
Che stringe al grembo freddo
Freddo come una rana d’inverno.
Meditiamo che questo è stato ed è ancora
Comandiamoci queste parole
Scolpiamole nel nostro cuore
Stando in casa andando per via
Coricandoci alzandoci
Ripetiamole ai nostri figli
Così si rinsalderà la nostra casa
Così la gioia ravviverà i nostri corpi
Così nostri figli volgeranno il viso sul nostro
Così ci riconosceranno come padri.

Ignazio Punzi
(ispirata a Se questo è un uomo di Primo Levi)




oggi è la festa della terra

chiesa cattolica e ambiente

dai gesuiti al Sudamerica, i religiosi che vogliono proteggere il Creato

Indubbiamente, la recente campagna referendaria ha visto nell’interesse specifico della Chiesa Cattolica per il tema ambiente, uno degli elementi di novità. Questo è il frutto della politica adottata da Papa Francesco che con l’enciclica “Laudato Sì” ha richiamato il tema ambientale all’attenzione del mondo cattolico e non solo. Papa Francesco ha dimostrato vivo interesse per i temi sociali della contemporaneità; per quanto riguarda il tema ambientale, il suo interesse deriva sicuramente anche dal fatto di appartenere all’Ordine dei Gesuiti, che da decenni hanno affrontato il tema.

Si comincia a parlare di “ecogesuiti” nel 1983, quando durante la 33a Congregazione Generale vengono prodotti i primi documenti di riflessione sulle teorie e modalità di produzione economica. La svolta è però del 1999, quando viene pubblicato il documento “Noi viviamo in un mondo frantumato” che pone in evidenza come l’uomo si sia separato dalla natura e come la frattura stia danneggiando il Pianeta e l’uomo stesso. Nel 2008, la 35a Congregazione Generale ritorna sul tema ambientale e nel 2011 arriva il documento: “Ricomporre un mondo frantumato” che ragiona sulle possibili soluzioni ai mali ambientali della nostra epoca.

Inoltre, c’è da sottolineare come la Chiesa Sudamericana – da cui proviene l’attuale Pontefice – sia spesso schierata in difesa dell’ambiente e delle popolazioni indigene: padre Erwin Krautler, della diocesi brasiliana di Xingù, lotta da anni contro il progetto della centrale idroelettrica di Belo Monte ed è stato incaricato da Papa Francesco di collaborare all’enciclica sui poveri e sul creato. Per le sue posizioni a favore delle tribù indigene vive sotto scorta; l’Arcivescovo peruviano Pedro Barreto, presidente del Dipartimento di Giustizia e Solidarietà del Consiglio Episcopale Latinoamericano, si è schierato contro il complesso metallurgico Doe Run-La Oroya. Per le sue attività a favore dei più poveri è stato insignito di diversi premi; il sacerdote argentino Omar Quinteros ha lottato accanto agli abitanti di Famatina per impedire l’apertura di una miniera che avrebbe contaminato l’area con cianuro e ridurrebbe la disponibilità di risorse idriche per la popolazione locale; il vescovo brasiliano di Roraima, Roque Paloschi (autore di un documento che denuncia decine di progetti di centrali idroelettriche in Amazzonia) ha parlato del problema ambientale davanti alla Comision Interamericana de Derechos Humanos, assieme a Pedro Barreto e al Vescono guatemalteco di Huehuetenango, Alvaro Ramazzini, che tuona da tempo contro 4 miniere legali e le 168 non autorizzate che stanno deturpando il suo paese. Nella chiusura del progetto minerario contro cui si battevano gli abitanti di Famatina, in Argentina, fondamentale è stato l’intervento del Vescovo della diocesi Monsignor Marcelo Daniel Colombo che ha a lungo insistito sulla necessità del consenso da parte delle popolazioni locali in situazioni in cui lo sviluppo economico può causare danni all’ambiente e alla salute.

Durante la recente campagna referendaria diversi vescovi e Conferenze Episcopali hanno espresso un forte richiamo alla necessità di intraprendere in modo convinto la strada delle rinnovabili e di uno sviluppo compatibile con l’ambiente.

Tuttavia, non tutta la Chiesa sembra avere intrapreso con coraggio questa strada.
È di poche settimane fa la polemica che ha investito la diocesi di Siracusa in Sicilia, dopo che il Vescovo aveva deciso di rimuovere il parroco di Augusta, Don Palmiro Prisutto, reo di aver introdotto un’innovazione nella liturgia della messa domenicale: resosi conto di quanti funerali celebrava, ha deciso di elencare, ogni settimana, i nomi dei parrocchiani morti di tumore e altre patologie. È il modo che il parroco ha trovato per denunciare l’impatto sull’ambiente e sulla salute del polo petrolchimico di Augusta-Priolo-Melilli. Tutte le istituzioni, tra cui il Sindaco del paese e il sostituto procuratore che segue l’inchiesta sull’impatto ambientale delle imprese dell’area, si sono schierate a sostegno del parroco che già aveva il sostegno dei fedeli. Alla fine il Vescovo ha dovuto fare marcia indietro.

 




“un dono per tutti noi”

coerenza evangelica e coraggio

di Orazio La Rocca in “Trentino”

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Ha avuto un bel coraggio papa Francesco a definire «un dono per tutti noi» l’arrivo di rifugiati ed immigrati «in fuga da guerre, fame e malattie»

Va bene che il pontefice argentino parlava – martedì scorso – praticamente in “casa”, al Centro Astalli, l’organismo dei gesuiti preposto all’accoglienza e all’assistenza di migranti ed itineranti. Ma le sue parole hanno fatto immediatamente il giro del mondo e segnato non poche coscienze. Un dialogo fraterno da gesuita – come notoriamente è papa Jorge Mario Bergoglio – a gesuiti, che certamente non avranno avuto niente da ridire su quella parola “dono”, che altrettanto certamente sarà stata causa di non pochi fastidi alle orecchie di benpensanti, fautori del politicamente corretto, difensori dei confini nazionali e – perchè no? – di inguaribili nostalgici di difesa della purezza della razza. Un variopinto “esercito” di paladini di politiche dei respingimenti e delle erezioni di muri e di fili spinati, che ormai non sembra più disposto a stare in silenzio di fronte ai ripetuti appelli che il Papa lancia a favore degli immigrati, spingendosi persino a chiedere loro “scusa” per l’ “indifferenza” con cui nel ricco Occidente – sono parole di Bergoglio – si guarda alle tragedie che da «troppo tempo ormai» si stanno abbattendo su intere popolazioni vittime di guerre e di quanti «si arricchiscono col commercio di armi e ordigni di morte». Parole che nel pieno delle recenti celebrazioni pasquali trovarono concrete anticipazioni nelle prolusioni del Venerdì Santo e nell’omelia della Pasqua, ma che nel rito della Lavanda dei Piedi del Giovedì Santo ha toccato il culmine con papa Francesco che – ripreso in mondovisione – si inginocchia davanti a 12 immigrati, tra cui molti musulmani e diverse donne, per lavare e baciare i loro piedi con atteggiamento di paterno servizio. Gesti eloquenti più di mille discorsi, che hanno poi trovato nuova e rinnovata conferma nel viaggio-lampo all’isola di Lesbo, in Grecia, per visitare, incoraggiare e benedire i profughi, arrivando persino ad ospitarne in Vaticano 12 (tre famiglie di musulmani). Ma, con l’eco del viaggio a Lesbo ancora nell’aria, ecco che al Centro Astalli arriva ancora da papa Bergoglio un nuovo inaspettato intervento a favore di profughi ed immigrati definiti «dono di Dio» , «nostri fratelli nel dolore», che «ogni uomo e ogni donna di buona volontà deve accogliere». Troppo, agli occhi e alle orecchie di fanatici delle politiche dei muri che ormai in quasi tutta Europa incominciano a fare proseliti! Troppo persino per quell’indomita ala di ecclesiastici conservatori e tradizionalisti presenti anche nella Curia vaticana, dove ormai incomincia a fare capolino anche qualche cardinale che non esita a dichiararsi pentito per aver dato il proprio consenso all’elezione di Bergoglio, il quale – però – va avanti come un treno senza lasciarsi intimidire da nessuno, incurante dei mal di pancia sui suoi appelli alla difesa degli immigrati che spuntano sia dentro che fuori dal Vaticano. Il Papa – assicurano Oltretevere i suoi più stretti collaboratori – «è sereno», «non si cura delle critiche», anzi quando si tratta di difendere poveri, bisognosi e ultimi dà il meglio di sé, perchè si muove col Vangelo alla mano, applicando alla lettera gli insegnamenti di Cristo, con particolare fedeltà, attenzione, afflato verso quelle pagine evangeliche che raccontano dell’infaticabile azione di Gesù nel riscatto di quanti vivevano nel bisogno, senza guardare ai colori politici, a ceti sociali e, tanto meno, a eventuali peccati commessi da chi gli si rivolgeva per essere aiutato. Come la peccatrice Maddalena, l’adultera, l’esattorestrozzino Matteo insegnano. Gesù – notano al di là delle Sacre Mura – spiazzò i benpensanti del suo tempo chiedendo ai suoi seguaci di amare i loro nemici e di «porgere l’altra guancia se vi schiaffeggiano», arrivando persino a perdonare i suoi carnefici («Padre perdonali perchè non sanno quello che fanno»): papa Francesco ha fatto, finora, molto meno, ha “solo” chiesto all’Europa e all’Occidente tutto di «accogliere quanti scappano dalle guerre perchè sono nostri fratelli e per tutti noi sono doni del Signore». Pura e semplice coerenza evangelica. Ma se qualcuno non lo capisce, pazienza.




il commento al vangelo della domenica

 

 

VI DO UN COMANDAMENTO NUOVO, CHE VI AMIATE GLI UNI GLI ALTRI

commento al vangelo della quinta domenica di pasqua (24 aprile 2016) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Gv 13,31-35

Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

Nel capitolo 13 del vangelo di Giovanni, l’evangelista presenta l’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli e Gesù fino all’ultimo prova a offrire il suo amore anche al discepolo che lo tradirà, a Giuda. Gli offre il pane, che rappresenta la sua vita, ma Giuda non mangia questo pane, cioè non assimila Gesù. Lo prende ed esce. L’evangelista dice che “sprofondò nella notte”. Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], quindi ha preso il boccone, non l’ha assimilato, ma è andato per tradire la persona di Gesù, Gesù disse: “Ora …” In tutto il vangelo è stata annunziata questa ora di Gesù e l’evangelista dice che adesso si sta realizzando. “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato”. Perché Gesù afferma questo dopo che Giuda l’ha tradito per farlo condannare a morte? Perché nell’amore incondizionato che viene offerto anche al nemico lì si manifesta la gloria di Dio, cioè la gloria è la manifestazione visibile di quello che Dio è. E cos’è Dio? Dio è amore che si offre anche al nemico, al traditore. Gesù parla di se stesso come del “Figlio dell’Uomo”, perché usa questa espressione che gli è molto cara? “Figlio dell’Uomo” significa l’uomo con la condizione divina. Quindi Gesù è il figlio di Dio, Dio nella condizione umana, ed è il figlio dell’Uomo, cioè l’uomo con la condizione divina. “E Dio è stato glorificato in lui”. L’evangelista presenta una continua dinamica nella vita di Gesù, che deve essere anche quella del credente, di amore ricevuto e amore comunicato. Poi c’è un versetto che è omesso in molti manoscritti, dove l’evangelista non fa altro che ripetere lo stesso concetto. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Come lo glorificherà 1 subito? Dandogli la capacità di affrontare la morte, dove non sarà una fine, ma un inizio, perché nella morte di Gesù si effonderà lo Spirito sulla sua comunità. Poi Gesù, per la prima volta, l’unica volta, ha un’espressione di tanta, profonda tenerezza verso i suoi discepoli. Li chiama “Figlioli”, letteralmente “figliolini o bambini miei”. “Figlioli, ancora per poco sono con voi. Voi mi cercherete, ma come ho detto ai Giudei – ecco qui Gesù sta equiparando i discepoli ai suoi avversari, le autorità – ora lo dico anche a voi: “Dove vado io voi non potete venire”. Perché non possono andare? Perché i discepoli sono pronti a morire per Gesù, ma non a morire come Gesù, a dare al vita con lui e come lui. Ecco perché Gesù dice che per adesso non possono andare dove lui va. E poi ecco la conclusione di questo capitolo straordinario, il capitolo 13, la novità di Gesù. “Vi do un comandamento nuovo”. Gesù non dice: “Vi do un nuovo comandamento”, cioè ci sono quelli di Mosè e adesso vi do il mio. “Vi do un comandamento nuovo”, il termine greco che indica “nuovo” significa il migliore, che sostituisce tutto il resto. L’evangelista l’aveva detto nel Prologo “La legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù”. Il nuovo rapporto che Gesù ha instaurato con il Padre e i discepoli non poteva rientrare nei termini dell’antica alleanza e ha bisogno di una nuova alleanza che si esprime in un unico, nuovo comandamento. Quindi “nuovo” in quanto la qualità di questo comandamento eclissa tutti gli altri. “Che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi”. E’ importante che Gesù non parla con verbi al futuro, non dice “come io vi amerò”. Gesù non sta annunziando la morte, il sacrificio totale che lui farà sulla croce, ma dice “come io vi ho amato”. E com’è che Gesù ha amato? Siamo nel contesto dell’ultima cena secondo Giovanni, quando Gesù si mise a lavare i piedi ai discepoli. L’amore non è reale se non si trasforma in un servizio che purifica la vita degli altri. Questo è l’amore che Gesù ci richiede. “Come io ho amato voi”. “Così amatevi anche voi gli uni gli altri”. Il servizio è l’unico distintivo del credente della comunità di Gesù e infatti Gesù conferma: “Da questo”, cioè dall’amore che si fa servizio, “Tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”. Gesù, con questa dichiarazione molto chiara, esclude ogni altro distintivo. Quindi NO a stemmi, abiti, segni o decorazioni che vogliono mostrare la relazione che uno ha con il Signore, ma soltanto un amore che si mette a servizio degli altri. E quando si ricorre a questi surrogati è una lampadina d’allarme che si accende, una spia che si accende, che forse questo amore che si trasforma in servizio non è talmente abituale da essere l’unico distintivo della comunità cristiana. Quindi Gesù lascia un unico comandamento, lui che l’evangelista aveva presentato come la parola di Dio, il verbo si fece carne, e questa parola di Dio si formula e si esprime con un unico comandamento che eclissa tutti gli altri.