i ‘luoghi’ odierni della croce di Cristo

“Croce di Cristo”

la preghiera-invettiva di papa Francesco

il testo integrale

 

 
al termine della via crucis del venerdì santo al Colosseo Papa Francesco ha letto una preghiera scritta da lui per questa occasione. Eccola in versione integrale:
crocifisso
O Croce di Cristo!O Croce di Cristo, simbolo dell’amore divino e dell’ingiustizia umana, icona del sacrificio supremo per amore e dell’egoismo estremo per stoltezza, strumento di morte e via di risurrezione, segno dell’obbedienza ed emblema del tradimento, patibolo della persecuzione e vessillo della vittoria.
O Croce di Cristo, ancora oggi ti vediamo eretta nelle nostre sorelle e nei nostri fratelli uccisi, bruciati vivi, sgozzati e decapitati con le spade barbariche e con il silenzio vigliacco.
O Croce di Cristo, ancora oggi ti vediamo nei volti dei bambini, delle donne e delle persone, sfiniti e impauriti che fuggono dalle guerre e dalle violenze e spesso non trovano che la morte e tanti Pilati con le mani lavate.
O Croce di Cristo, ancora oggi ti vediamo nei dottori della lettera e non dello spirito, della morte e non della vita, che invece di insegnare la misericordia e la vita, minacciano la punizione e la morte e condannano il giusto.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi in coloro che vogliono toglierti dai luoghi pubblici ed escluderti dalla vita pubblica, nel nome di qualche paganità laicista o addirittura in nome dell’uguaglianza che tu stesso ci hai insegnato.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei potenti e nei venditori di armi che alimentano la fornace delle guerre con il sangue innocente dei fratelli.armi
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei traditori che per trenta denari consegnano alla morte chiunque.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei ladroni e nei corrotti che invece di salvaguardare il bene comune e l’etica si vendono nel misero mercato dell’immoralità.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi negli stolti che costruiscono depositi per conservare tesori che periscono, lasciando Lazzaro morire di fame alle loro porte.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei distruttori della nostra “casa comune” che con egoismo rovinano il futuro delle prossime generazioni.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi negli anziani abbandonati dai propri famigliari, nei disabili e nei bambini denutriti e scartati dalla nostra egoista e ipocrita società.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nel nostro Mediterraneo e nel mar Egeo divenuti un insaziabile cimitero, immagine della nostra coscienza insensibile e narcotizzata.foto premio migranti
O Croce di Cristo, immagine dell’amore senza fine e via della Risurrezione, ti vediamo ancora oggi nelle persone buone e giuste che fanno il bene senza cercare gli applausi o l’ammirazione degli altri.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei ministri fedeli e umili che illuminano il buio della nostra vita come candele che si consumano gratuitamente per illuminare la vita degli ultimi.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei volti delle suore e dei consacrati – i buoni samaritani – che abbandonano tutto per bendare, nel silenzio evangelico, le ferite delle povertà e dell’ingiustizia.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei misericordiosi che trovano nella misericordia l’espressione massima della giustizia e della fede.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nelle persone semplici che vivono gioiosamente la loro fede nella quotidianità e nell’osservanza filiale dei comandamenti.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei pentiti che sanno, dalla profondità della miseria dei loro peccati, gridare: Signore ricordati di me nel Tuo regno!croce
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei beati e nei santi che sanno attraversare il buio della notte della fede senza perdere la fiducia in te e senza pretendere di capire il Tuo silenzio misterioso.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nelle famiglie che vivono con fedeltà e fecondità la loro vocazione matrimoniale.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei volontari che soccorrono generosamente i bisognosi e i percossi.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei perseguitati per la loro fede che nella sofferenza continuano a dare testimonianza autentica a Gesù e al Vangelo.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei sognatori che vivono con il cuore dei bambini e che lavorano ogni giorno per rendere il mondo un posto migliore, più umano e più giusto. 
In te Santa Croce vediamo Dio che ama fino alla fine, e vediamo l’odio che spadroneggia e acceca i cuori e le menti di coloro preferiscono le tenebre alla luce.
O Croce di Cristo, Arca di Noè che salvò l’umanità dal diluvio del peccato, salvaci dal male e dal maligno! O Trono di Davide e sigillo dell’Alleanza divina ed eterna, svegliaci dalle seduzioni della vanità! O grido di amore, suscita in noi il desiderio di Dio, del bene e della luce.mendicante
O Croce di Cristo, insegnaci che l’alba del sole è più forte dell’oscurità della notte. O Croce di Cristo, insegnaci che l’apparente vittoria del male si dissipa davanti alla tomba vuota e di fronte alla certezza della Risurrezione e dell’amore di Dio che nulla può sconfiggere od oscurare o indebolire.
Amen!

Papa Francesco

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di chi è la pasqua? “lettera ad un povero Cristo a cui son cadute le braccia”

la pasqua o è degli ultimi e degli impoveriti o non è

 

 

In questi giorni si celebra la dinofrisulloPasqua. Il giorno in cui coloro che si credono “bravi cristiani”(quelli che difendono le “radici cristiane” e che vogliono sempre stare nelle prime fila in chiesa la domenica mattina) si ritrovano tutti insieme a festeggiare nel caldo delle case tra agnello e cioccolata, seduti su tavole imbandite in case calde e comode.

Eppure pare che Tu sia nato al freddo e al gelo come un barbone qualsiasi. Quei barboni che puzzano e danno fastidio, chiedono sempre l’elemosina e non lavorano mai. Orrore e paura della gente bene! E infatti qualche mese fa si sono inventati la schedatura dei “senza fissa dimora” e il reato di clandestinità. Perché chi fugge dalla miseria e chi dalla povertà non riesce ad uscire sono nemici dell’ordine pubblico e della sicurezza. Eppure a Pasqua e Natale sono sempre i primi a festeggiare.

Pare che tu sia stato condannato a morte, incatenato,  scaraventato nel buio delle carceri. Negli ultimi anni in Italia ci sono stati centinaia di suicidi e di persone massacrate a morte.

Alla fine di marzo a Parma una persona è stata trovata morta assassinata sul ciglio della strada, in prossimità di una discarica. Aveva 29 anni. Non ha avuto alcun clamore mediatico. Era clandestina e transessuale e quindi la sua vicenda è stata trascurata da tutti.

Periodicamente  tornano a parlare di amore, dell’amore di Cristo e dei Vangeli. Bisogna amare, vivere e credere nell’amore. E, infatti, voleva solo poter amare Alfredo Ormano, poeta siciliano perseguitato in vita e in morte. Dopo l’ennesimo documento della Prefettura per la Congregazione della Fede che condannava l’omosessualità e discriminava tutte le forme di amore diverse da quello eterosessuale, il 13 gennaio 1998 si è dato  fuoco in piazza San Pietro ed è morto dopo dieci giorni di una dolorosa agonia. Su  specifici ordini del Vaticano gli organi di stampa hanno censurato le parole da lui scritte prima dell’addio e messo a tacere la sua vicenda, mentre negli anni per varie volte è stato impedito il suo ricordo.

Tutti gli anni la Quaresima è un fiorire, neanche fosse il prato di una canzone di Morandi, di fioretti e fiorellini. Spicca tra tutti la rinuncia alla carne nei venerdì. E’ la tradizione, la sacra tradizione da rispettare(è peccato!!). Nessun bravo cristiano trasgredirebbe mai (tanto si recupera la Domenica di Pasqua quando dell’Agnello ci sarà solo il sangue che scorrerà sulle tavole imbandite e nelle località del turismo di lusso), si rifiuterebbe sdegnato. Mentre in pochi, negli scorsi anni, hanno sentito la necessità e il dovere di rifiutarsi di azzannare l’animo sofferente del dolore che ha dilaniato nelle carni, due persone che hanno chiesto di veder leniti i loro calvari e rispettata la loro dignità. Non è stato considerato peccato il rifiutare il dolore di uno dei due per “un motivo di ordine logico”.

E’ peccato “mangiare la carne il venerdì di quaresima” ma in quante chiese si è sentito gridare che è peccato uccidere e lucrare sulle vite altrui? Mentre continuano a ribadire la loro vicinanza al Vaticano e a sbandierare croci, i governanti italiani stanno completando l’acquisto di 135 cacciabombardieri da guerra, strumenti di morte e di sterminio. Affermano di voler difendere le “radici cristiane” ma hanno chiuso le porte agli ultimi e agli impoveriti, a chi bussa alle porte di un’Europa sempre più trafficante d’armi (dalla Libia alla Turchia, dal Qatar alla Siria, senza dimenticare i conflitti in terra d’Africa) e protagonista di guerre permanenti. Eppure il Gesù Cristo che dicono di adorare, ancora in fasce, dovette fuggire “clandestino” in Egitto e, mentre l’ora della Crocifissione si avvicinava disse “chi di spada ferisce di spada perisce”.

Aveva 22 anni e tutto un futuro davanti. Non lo avrà più. Mentre le chiese italiane erano impregnate dell’incenso delle celebrazioni è morta, ennesima donna assassinata dal proprio lavoro. 5 euro l’ora in nero. Aveva 33 anni (incredibilmente gli stessi anni di Cristo), terza vittima nello stesso impianto. Il 17 ottobre 2007 era morto un altro operaio, lasciando a 32 anni un bambino di due anni e la moglie incinta del secondo figlio. Nel giugno 2008 è morto sul colpo, cadendo da 20 metri, un 24enne.

Alcuni anni fa mi è stata raccontata una storia. Non ricordo i dettagli precisi e quindi non posso raccontarla per intero. Si narrava di una festa enorme, con fuochi d’artificio, corandioli, banda musicale, tavole imbandite. Per ore e ore tutti parteciparono, mangiando, bevendo, divertendosi e godendosi lo spettacolo. Alla fine, quando tutti erano già andati via, in fondo alla sala fu trovato un bambino piangente. Era il festeggiato …

Se non sappiamo chinarci sul dolore delle tante Eluana e dei tanti Piergiorgio, se distrattamente passiamo oltre alle tante e ai tanti che ogni giorno muoiono, se non impariamo a rispettare l’amore di persone come Armando, se non sappiamo scandalizzarci davanti ai miliardi spesi in strumenti di morte (mentre per gli impoveriti e gli ultimi si riserva solo muri e fili spinati, ingiustizie, disumanità, diritti calpestati, cancellati, negati) e allo scandalo contro i più piccoli, aver festeggiato la  Pasqua è stata una bestemmia esecrabile, un atto disumano ipocrita e anticristiano.

Questo brano, in una versione che è stata modificata, era già stato pubblicato nel 2010 col titolo “lettera ad un povero Cristo a cui son cadute le braccia”. Alcuni riferimenti temporali sono ormai datati, ma la situazione è sempre quella. Se non peggiorata. In questi sei anni sempre più c’è stata xenofobie, odii, guerre, traffico di armi sono aumentati. Mentre la “crisi” si è abbattuta sempre più sugli impoveriti di ogni latitudine e longitudine, sui lavoratori, sugli ultimi e sui penultimi. Il crocifisso è stato ancora brandito come un’arma, contro e non per. “Oggi più di ieri domina l’ingiustizia” – riprendendo i versi del “Don Chisciotte” di Guccini – e la mancanza di umanità, l’ideologia capitalista di dominio e oppressione. Per questo quella “lettera ad un povero Cristo a cui son cadute le braccia” mi è apparsa ancora terribilmente attuale. E la ripropongo.  

 

Alessio Di Florio

 

Durante un tributo a Dé Andre Dori Ghezzi riservò duecentocinquanta posti per la Comunità San Benedetto. Qualcuno tentò dall’organizzazione di confinarli nel loggione. Don Andrea raccontò che fermò “il traffico della sala e come un vigile li feci sedere in platea, tre qui, due là, tossici, barboni, prostitute accanto a notai, dame e politici”. E continua nel racconto: “No, lì no. Lì ci va il Ministro della Cultura Giovanna Melandri” gli intimarono. Don Andrea rispose: “Allora le mettiamo accanto una puttana delle vecchie case, vedrai come esce arricchita dall’incontro!”. Concluse il racconto della serata: “Erano tutti molto preoccupati, mi chiedevano garanzie su ciò che sarebbe successo e io li tenevo sulle spine rispondendo che nn potevo saperlo, essendo io un prete, non un indovino. Invece sapevo benissimo ciò che poi accadde: i miei emarginati erano tutti quelli che durante le canzoni piangevano veramente!”

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anche i rom possono insegnare qualcosa alla chiesa

Lettera aperta al papa. Quello che i rom possono insegnare alla Chiesa

lettera aperta al papa

quello che i rom possono insegnare alla Chiesa

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 13 del 02/04/2016

Caro papa Francesco, siamo un gruppetto di laici, religiosi e sacerdoti che si è formato attraverso l’amicizia con rom e sinti: una lunga amicizia fatta di frequentazioni e di vita vissuta dentro i campi.

A vario titolo siamo stati un’espressione dell’UNPReS (Ufficio Nazionale Pastorale Rom e Sinti) della Migrantes, fino a quando, per una riforma infelice, non solo si è demandato alle diocesi la responsabilità pastorale, il che è più che giusto, ma si è abolito l’Ufficio nazionale che sensibilizzava e richiamava l’attenzione su questo ambito e che aveva il compito di preparare specificamente gli operatori pastorali e far sorgere una pastorale specifica e coordinata a livello nazionale. 

Ci siamo interrogati varie volte sull’utilità di scrivere queste nostre impressioni. A distanza di qualche mese abbiamo deciso di farlo e di diffondere questo nostro scritto, nella speranza che possa essere compreso e accolto.

Quello che ci spinge a scriverti, con spirito fraterno, è il discorso che hai tenuto all’udienza con i rom e sinti, al quale eravamo presenti, in occasione dell’anniversario del pellegrinaggio a Pomezia di cinquant’anni fa. 

Sostanzialmente, nelle parole che hai rivolto ai sinti e rom non abbiamo ritrovato lo Spirito di quel cammino pluridecennale di una Chiesa (sia pur piccola e fragile) che vive a contatto con questo popolo. Una Chiesa che con uno sguardo di Fede, cerca e trova anche in questo popolo, il riflesso del Volto Misericordioso di Dio. Siamo convinti che la loro vita continua ad essere per noi un “luogo teologico”, nel quale veniamo anche noi “evangelizzati” da loro. È possibile «vivere il Vangelo con i piedi dentro queste periferie», che in genere sono i campi rom-sinti. Lo stupore nello scoprire che c’è anche un “magistero” che fiorisce dalle periferie, da chi vive al margine della società. Non a distanza, ma da dentro: condividendo, accompagnando e custodendo amicizie, percorsi anche difficili, ma vissuti insieme. La nostra “missione” non è tanto quella di organizzare progetti, nemmeno quella di volerli integrare nei nostri schemi o di porci come risolutori del “problema rom”, anche per il fatto che per noi questo popolo non è affatto un “problema”, come lo è per i più, ma un’opportunità umana e spirituale. Desideriamo semplicemente essere una “presenza ponte” capace di accogliere, di bene-dire, di comprendere punti di vista diversi dai nostri e di raccogliere con cura e attenzione la voce dello Spirito che sussurra, attraverso le vite dei sinti e rom, il Suo Magistero. 

Tra di noi c’è chi ha speso la sua vita all’interno dei campi rom, imparando a conoscere e ad amare i suoi abitanti per come sono, con i loro difetti e le loro ricchezze, e alcuni vivono ancora in questi “mondi di mondi”.

Condividere la loro vita ha significato per ognuno di noi dei cambiamenti, graduali ma arricchenti, non sempre facili o scontati. Siamo loro riconoscenti perché ci hanno permesso di entrare nelle loro vite, ci siamo lasciati accompagnare da loro e questa fiducia ci ha permesso di vedere e leggere la realtà con occhi diversi, fino a scoprire, quasi con stupore e meraviglia, che anche “il punto di vista” di chi vive nelle carovane, nelle baracche dei campi merita attenzione, rispetto e ascolto. 

Siamo testimoni di perle di Vangelo, nascoste nelle loro esistenze, che nonostante il disprezzo e il pregiudizio di cui sono spesso vittime brillano e illuminano dando senso anche alle nostre vite. Ma per notare questa loro ricchezza, è importante spogliarsi dei pregiudizi presenti e radicati nella maggioranza, e che purtroppo non mancano neanche in chi li avvicina a fin di bene. Un processo che può avvenire a condizione di saper perdere le nostre rigidità mentali, sociali e religiose. La condizione, almeno per noi è “stare dentro” questo mondo. Non può certo avvenire a distanza. A distanza le cose si vedono sfocate, notiamo solo quello che a noi disturba, difficile percepire le sfumature, si rischia di non comprendere in profondità la realtà, le sue dinamiche.

Scusaci se te lo diciamo con franchezza, ma il tuo discorso ai sinti e ai rom ci è sembrato un po’ distante, perché abbiamo sentito riproporre più o meno gli stessi schemi della maggioranza che osserva le cose a distanza e che spesso si limita fare discorsi moralistici: dovete cambiare, scuola, minori, legalità, integrazione… ma senza accompagnamento. In altre occasioni e contesti, invece, sei riuscito a immergerti, capire le situazioni e fare una lettura diversa, coraggiosa e per niente scontata. Ecco questa lettura “altra” ci è sembrata assente nel tuo intervento, eppure il cammino della Chiesa che vive in carovana, da Pomezia ad oggi, ci ha reso sensibili a questa lettura altra e alta.

I campi rom e sinti sono quelle “periferie” di cui ci parli e a cui solleciti la Chiesa a prestare attenzione e ascolto. È un’immagine che ci piace tanto, stimolante ed arricchente: per noi i campi rom sono un “luogo teologico” da contemplare innanzitutto, perché sovente «lo Spirito Santo precede l’arrivo e l’azione dei missionari» (Evangelii nuntiandi).

Sì certo, siamo ben consapevoli delle difficoltà, delle ferite che ci sono all’interno e che ci sono, in modi diversi, in ogni gruppo sociale; alcune sono ben visibili, altre più nascoste e spesso passano inosservate, inascoltate. Contempliamo e celebriamo la vita, fatta di resistenze, di attenzione, di lotta, di fatiche, di paure, di violenza, di prevaricazioni, di riconciliazioni, di gioie, di attaccamento alla vita, nonostante tutto, di sogni e di delusioni. Come tutte le periferie, sono spazi dove il bello e il brutto convivono insieme, si attraversano, si contagiano, ma per noi rimangono spazi di Vita, perché riconosciamo che anche nei loro campi, ci sono manifestazioni di vita buona. Quasi mai questo emerge, si fa risaltare invece solo ciò che è brutto, si sottolinea esclusivamente la devianza o il maltrattamento di pochissimi. Eppure, questa periferia, la vita dei rom, ha qualcosa da insegnare nella Chiesa e con essa alla società. Così è successo a noi.

Tempo fa hai usato l’immagine (bellissima!) del pastore con l’odore delle pecore. L’abbiamo sentita adatta alla nostra esperienza, calzante con la nostra vita a fianco dei rom e sinti. Il loro “odore” è anche un po’ il nostro e il nostro si è trasmesso un po’ a loro e questo disturba non pochi, sia dentro la Chiesa che nella società. 

Sono molti oggi ad avvicinarsi a  queste periferie con in mano “deodoranti” per coprire il loro odore e renderlo simile al nostro presunto profumo, più presentabile ai nostri nasi, sentendosi incaricati, inviati a decidere cosa devono fare, cosa devono cambiare, decretando anche i tempi e le modalità. Quasi sempre ciò avviene sulle loro teste, senza coinvolgimento e partecipazione dei diretti interessati. La nostra esperienza invece, proprio perché cerchiamo di contemplare la vita che pulsa nei campi, ci dice che sinti e rom sanno cosa è meglio per il loro futuro, quali strade intraprendere e cosa cambiare.

Molti si avvicinano, entrano anche nei campi, ma fanno fatica ad accompagnare e a sedersi a mani vuote nelle loro esistenze per comprenderle meglio. È triste questo: non trovare la strada per saper riconoscere i valori che l’altro ci può comunicare.

Un’ultima nota riguarda il silenzio di una triste realtà che coinvolge migliaia di rom in Italia e non solo, e che senz’altro toccava la maggioranza di quelli che erano presenti all’udienza: la questione degli sgomberi e il suo uso politico. Ci saremmo aspettati almeno un accenno di condanna per il fatto che, sull’altare della sicurezza e del consenso elettorale, vengono scartati interi nuclei familiari, buttati per strada e abbandonati a se stessi, privati dei loro diritti riconosciuti anche dalla Legge: tanto sono “zingari”!

Caro papa Francesco ti abbracciamo forte, sappi che la nostra fiducia in te non è per nulla scalfita, ma ci preme farti conoscere anche questo lungo e arricchente cammino pastorale che stiamo portando avanti, anche grazie ai sinti e rom che ci accolgono e sostengono con la loro fiduciosa amicizia.

Ti auguriamo ogni bene e mentre ti chiediamo la benedizione del Signore, sappi che preghiamo per te, insieme a tanti sinti e rom che ti ammirano e ti guardano con amicizia,

suor Carla e suor Rita Viberti (campo Rom Torino), p. Luciano Meli (Lucca), don Piero Gabella (Brescia), don Agostino Rota Martir (campo Rom Pisa), Marcello Palagi e Franca Felici (Carrara – Avenza)

*Immagine di Nestor Galina, tratta dal sito Flickr, immagine originale e licenza. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza

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la ‘politica’ di papa Francesco

papa Francesco

c’è più politica nella ‘sua’ Lavanda dei piedi che nei deliri della guerra

 
Profilo blogger

 
Non occorre essere credenti e neppure cattolici per provare ammirazione per un uomo che si inginocchia davanti ad altri uomini e lava i loro piedi. Il rito della Lavanda dei piedi, ovviamente, non è nato con Francesco, ma lui ha deciso, anche quest’anno, di contrastare il triste “spirito dei tempi” e di recarsi nel centro di accoglienza dei richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto, Roma. Qui sono “ospitate” oltre 900 persone scappate da guerre, terrorismo, torture.

lavanda dei piedi

Molti di loro hanno un altro colore della pelle, pregano un altro Dio e  la maggioranza appartiene alla comunità musulmana. Quei piedi da lavare rappresentano la geografia della disperazione, dell’esclusione sociale, della cancellazione di ogni diritto e speranza nel futuro. La “radicalità” di Francesco sta proprio nell’aver scelto questo luogo e questi piedi e di averlo fatto mentre tutto intorno risuonano i venti della guerra, del terrore, del razzismo.
C’è più Politica, con la P maiuscola, in quella lavanda che nei deliri, trasmessi a reti unificate, di chi cerca di usare anche i morti pur di conquistare un voto in più. L’immagine di Francesco che lava piedi siriani, nigeriani, pakistani, raggiungerà milioni di persone nel mondo e saranno un pugno nello stomaco dei “Signori della guerra e del terrore” che hanno bisogno dei muri e delle armi per perpetuare il loro dominio.
Chi è abituato a tagliare teste, gambe e piedi non può sopportare che esistano altre persone che, invece, preferiscono curare le piaghe e lavare le ferite, e non solo quelle fisiche.
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il posto dei sacerdoti per papa Francesco

“I sacerdoti scelgano di stare con gli scartati e gli oppressi

“Siamo talora ciechi per spiritualità light e mondanità virtuale”

“Come sacerdoti, – ha detto – noi ci identifichiamo con quel popolo scartato, che il Signore salva, e ci ricordiamo che ci sono moltitudini innumerevoli di persone povere, ignoranti, prigioniere, che si trovano in quella situazione perché altri li opprimono. Ma ricordiamo anche che ognuno di noi sa in quale misura tante volte siamo ciechi, privi della bella luce della fede, non perché non abbiamo a portata di mano il Vangelo, ma per un eccesso di teologie complicate”.
“Sentiamo – ha proseguito papa Francesco – che la nostra anima se ne va assetata di spiritualità, ma non per mancanza di Acqua Viva, che beviamo solo a sorsi, ma per un eccesso di spiritualità ‘frizzanti’, di spiritualità ‘light’. Ci sentiamo anche prigionieri, non circondati, come tanti popoli, da invalicabili mura di pietra o da recinzioni di acciaio, ma da una mondanità virtuale che si apre e si chiude con un semplice click”.mendicante1
“Siamo oppressi, – ha proseguito – ma non da minacce e spintoni, come tanta povera gente, ma dal fascino di mille proposte di consumo che non possiamo scrollarci di dosso per camminare, liberi, sui sentieri che ci conducono all’amore dei nostri fratelli, al gregge del Signore, alle pecorelle che attendono la voce dei loro pastori”.croce
http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Papa-Francesco-sacerdoti-scelgano-di-stare-con-gli-scartati-e-gli-oppressi-3c399323-03ef-429f-99d2-40c9b6c64f4d.html
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il Dio cristiano preferisce i poveri

i preferiti da Dio 

 i poveri !

Gustavo Gutierrez

Gutierrez

Non stiamo con i poveri se non siamo contro la povertà, diceva Paul Ricoeur, molti anni fa.  Ovvero, se non rigettiamo la condizione che opprime una parte tanto importante  dell’umanità. Non si tratta di un rifiuto meramente emotivo, è necessario conoscere le  ragioni della povertà a livello sociale, economico e culturale.

Ciò esige strumenti di analisi  che ci sono forniti dalle scienze umane, ma come ogni pensiero scientifico, esse lavorano  con ipotesi che permettono di comprendere la realtà che cercano di spiegare; ciò equivale  a dire che sono chiamate a cambiare dinanzi a fenomeni nuovi.

E’ quando accade oggi di  fronte alla presenza dominante del neoliberismo, che giunge sulle spalle di una economia  sempre più autonoma dalla politica (e prima ancora dall’etica) grazie al fenomeno noto  con il termine, un po’ barbaro, di globalizzazione.

La situazione così designata, come sappiamo, viene dal mondo dell’informazione ma ha potenti ripercussioni sul terreno  economico e sociale, e in altri ambiti dell’attività umana. Tuttavia, la parola è ingannevole  perché fa credere che ci orientiamo verso un mondo unico, quando in realtà, è nel momento attuale, comporta ineluttabilmente una contropartita: l’esclusione di una parte  dell’umanità dal circuito economico e dai cosiddetti benefici della civiltà contemporanea.

Una asimmetria che diviene sempre più pronunciata. Milioni di persone vengono così trasformate in oggetti inutili, o gettabili dopo l’uso. Si tratta di coloro che sono rimasti fuori dall’ambito della conoscenza, elemento decisivo dell’economia dei nostri giorni e l’asse più  importante di accumulazione di capitale. Va notato che questa polarizzazione è  conseguenza della maniera in cui stiamo vivendo oggi la globalizzazione, la quale
costituisce un fatto che non necessariamente deve prendere l’odierna piega di una crescente disuguaglianza. E, lo sappiamo, senza uguaglianza non c’è giustizia. Lo sappiamo, ma il problema assume oggi un’urgenza sempre maggiore.

Il neoliberismo economico postula un mercato senza limiti, chiamato a regolarsi da solo, e sottopone qualunque solidarietà sociale in questo campo a una dura critica, accusandola non solo di essere inefficace nei confronti della povertà, ma addirittura di essere una delle cause. Che in questo campo vi siano stati abusi è chiaro e riconosciuto, ma qui siamo di fronte ad un rifiuto di un principio che lascia senza protezione i più fragili della società.

Uno dei corollari di questo pensiero, e fra i più dolorosi e acuti, è quello del debito estero, che opprime e tiene con le mani legate le nazioni povere. Debito che è cresciuto in maniera spettacolare, tra altri motivi, a causa dei tassi di interesse manipolati dagli stessi  creditori. La richiesta della sua cancellazione è stato uno dei punti più concreti e  interessanti della decisione di Giovanni Paolo II di celebrare un giubileo, nel senso biblico  del termine, per l’anno duemila. Questa disumanizzazione dell’economia, in atto già da tempo, che tende a trasformare tutto in merce, comprese le persone, è stata denunciata da una riflessione teologica che mostra il carattere idolatrico, nel senso biblico del termine, di questo fatto.  Le circostanze odierne non hanno solo reso più impellente questo richiamo ma anche fornito nuovi elementi di approfondimento. D’altra parte, assistiamo oggi a un  curioso tentativo di giustificazione teologica del neoliberismo economico che, ad esempio,  paragona le multinazionali al servo di Jahvé, da tutti vilipeso e attaccato, mentre da esse verrebbero la giustizia e la salvezza.

Per non parlare della cosiddetta teologia della  prosperità, che ha vincoli molto stretti con la posizione appena ricordata. Ciò ha talora  spinto a postulare un certo parallelismo tra cristianesimo e dottrina neoliberale. Senza  negare le intuizioni, bisogna interrogarsi sulla portata di un’operazione che ci ricorda quella  che, all’estremo opposto, è stata fatta, anni fa, per confutare il marxismo ritenuto anch’esso una sorta di “religione”, la quale peraltro avrebbe seguito, passo per passo, il messaggio cristiano (peccato originale e proprietà privata, necessità di un redentore e proletariato, ecc). Ma questa osservazione, è chiaro, non toglie nulla alla necessità di una  critica radicale alle idee dominanti oggi nell’ambito dell’economia.

Al contrario. Una  riflessione teologica a partire dai poveri, preferiti da Dio, si impone. Essa deve prendere in
considerazione l’autonomia della disciplina economica e al tempo stesso tenere presente la sua relazione con l’insieme della vita degli esseri umani, il che comporta, innanzitutto, prendere in considerazione una esigenza etica.

Analogamente, evitando di entrare nel gioco delle posizioni he abbiamo appena menzionato, non bisognerà perdere di vista che il rifiuto più fermo delle posizioni neoliberali, avviene a partire dalle contraddizioni di una economia che dimentica  cinicamente e, alla lunga, in maniera suicida, gli esseri umani, in particolare coloro che  non hanno difese in questo campo cioè, oggi, la maggior parte dell’umanità.

Si tratta di una questione etica nel senso più ampio del termine, la quale impone di entrare nei perversi meccanismi che distorcono dall’interno l’attività umana chiamata economia. Coraggiosi sforzi di riflessione teologica si fanno in questo senso tra noi. In questa linea, quella della globalizzazione e della povertà, dobbiamo collocare pure le  prospettive aperte dalle correnti ecologiste dinanzi alla distruzione, ugualmente suicida,  della natura. Esse ci hanno reso più sensibili a tutte le dimensioni del dono della vita, e ci  hanno aiutato ad ampliare l’orizzonte della solidarietà sociale che deve comprendere un rispettoso legame con la natura.

Il problema non tocca solamente i Paesi sviluppati, le cui  industrie causano tanti danni all’habitat naturale dell’umanità; coinvolge tutti, anche i paesi  più poveri. E’ impossibile oggi riflettere teologicamente sul  problema della povertà senza  tenere conto di queste realtà.

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il mistero pasquale secondo il card. Martini

la pasqua di Cristo 

p. Carlo Maria Martini

martini

verso la passione e la risurrezione di Gesù

Che cos’è la Pasqua?   La Pasqua, come tutti sappiamo, è una festa ebraica, la cui origine si  perde nella notte dei tempi; dapprima è stata semplicemente una  festa di pastori per l’inizio della nuova stagione, e si celebrava quando  si scorgeva la luna piena per la prima volta dopo il solstizio di primavera. In quella occasione si soleva sacrificare qualche animale  del gregge e in questo senso la festa ci ricorda le origini nomadiche  del popolo ebraico. Ciò che la rende però la festa caratteristica degli  Ebrei è la celebrazione della liberazione del popolo dall’Egitto, della  liberazione dalla schiavitù del faraone, avvenuta verso il 1800-1700  a.c. Proprio nel plenilunio che segue il solstizio primaverile, si faceva memoria dell’evento sacrificando un agnello. Così la Pasqua diviene il  grande momento che ricorda la nascita del nuovo popolo per l’azione
potente di Dio che lo libera.

ultima cena

Come tale, questa festa fino a oggi  rimane il grande riferimento religioso e nazionale degli ebrei; non la si  celebra più con i riti antichi, dal momento che il tempio è stato definitivamente distrutto nel I e poi nel II secolo d.C.; la si celebra  con un pasto, con una cena.

Assume la sua natura di principale festa cristiana perché nella giornata precedente il plenilunio che segue il
solstizio di primavera, Gesù Cristo, a Gerusalemme, viene ucciso sulla  croce e, dopo tre giorni, nel primo giorno della settimana dopo il  sabato, risorge. Quella stessa data che era e rimane la data della  liberazione degli Ebrei dal popolo egiziano, diviene, per il popolo  cristiano, la storia della liberazione dalla morte, quindi della  redenzione. E il mistero cristiano per eccellenza, il nucleo della fede  cristiana.

1600-1700 anni dopo l’esodo, la Pasqua è vissuta dai  cristiani prima nella tragedia della croce e poi nella proclamazione del  Risorto: il Cristo è veramente risorto ed è apparso a Pietro, ai Dodici, è apparso alle donne. La Pasqua cristiana è la festa delle feste, e  cristiano è colui che afferma: il Signore è veramente risorto.

Il cristianesimo non è, come talora si pensa, una dottrina morale, per  esempio sul primato dell’amore; non è nemmeno una dottrina su Dio.  Esso nasce e si sviluppa da questa fondamentale proclamazione: Gesù
Cristo crocifisso è davvero risorto. Se studiamo i testi del Nuovo  Testamento, i testi più antichi scritti nel I secolo della nostra era,  ritroviamo tale certezza: il Cristo crocifisso è risorto, noi l’abbiamo visto, noi l’abbiamo incontrato. Ma se Gesù è risorto, è perché Dio Padre l’ha risuscitato; se è risorto, è lui che dona lo Spirito santo  all’uomo; dunque Dio è Padre Figlio e Spirito santo. Se Cristo è risorto, l’uomo è liberato dai propri peccati, e il cristianesimo è  redenzione, liberazione dal peccato. Se Cristo è risorto, lo è per tutti
gli uomini.  Dalla risurrezione di Cristo deriva perciò tutto il resto del messaggio  cristiano; senza la risurrezione, il messaggio sarebbe semplicemente  una dottrina religiosa, non sarebbe ciò che è, un evento, un fatto che  comporta una concezione di Dio e dell’uomo, di Dio Trinità e dell’uomo  amato e redento e chiamato alla vita per sempre

Il Natale, che nel  mondo occidentale è celebrato tradizionalmente con grande solennità per motivi storici e folkloristici, segna l’inizio della vita di Gesù sulla  terra, vita che ha il suo culmine nella croce e nella risurrezione. La  festa della Pentecoste fa memoria del dono dello Spirito santo che  viene effuso dal Crocifisso risorto. E anche le feste della Madonna e  dei santi non sono che riflessi di questo grande mistero centrale.

Giustamente la Pasqua è il contenuto stesso della fede cristiana, è il cuore della vita della Chiesa, perché ci dice chi è Dio, chi è Gesù Cristo, chi siamo noi. È la gloriosa manifestazione di un Dio amante  della vita, che vuole la vita e non la morte, di un Dio che anche dalla  morte fa scaturire la vita. La Pasqua rivela chi è Gesù di Nazaret, il  Cristo Figlio unico del Padre; proclama che in lui, morto e risorto,  converge la storia di Israele e la storia dell’umanità.

La Pasqua fa scoprire chi è l’uomo, chi siamo noi, chiamati a risorgere  con Gesù, a superare con lui il dramma della morte, per essere con lui  nella vita per sempre. La Pasqua è il nodo risolutivo, il perno attorno a  cui gira tutto il piano di Dio riguardante l’uomo e il cosmo; è il centro  a cui tutto guarda e da cui tutto riparte.

La liturgia della Chiesa vive la Pasqua nell’ arco di un’intera  settimana: essa inizia con la Domenica cosiddetta delle Palme, quando si acclama Cristo quale vincitore e re e ha il suo momento forte nel
Triduo del giovedì, venerdì, sabato e domenica di risurrezione. Nel  giovedì santo contempliamo Gesù nell’ultima cena, dove presenta il  pane e il vino come segno della sua decisione di dare la vita per  l’uomo; il venerdì santo è il giorno della morte di Gesù; nel sabato  santo si fa memoria del sepolcro in cui Gesù si lascia rinchiudere per  sigillare il suo amore per il mondo. Finalmente, nel giorno di Pasqua  risuona il grido dell’alleluia, della vittoria definitiva del bene sul male,  un grido già nascosto e implicito nei riti delle giornate precedenti.

 La Domenica delle Palme

Nella Domenica delle Palme viene letta una pagina tratta dal vangelo secondo Giovanni:  «La grande folla che era venuta per la festa» – la festa della Pasqua ebraica – «udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di  palme e uscì incontro a lui gridando: Osanna! Benedetto colui che  viene nel nome del Signore, il re d’Israele! Gesù, trovato un asinello,  vi montò sopra, come sta scritto: “Non temere, figlia di Sion! / Ecco, il  tuo re viene, / seduto sopra un puledro d’ asina”. Sul momento i suoi  discepoli non compresero queste cose; ma quando Gesù fu glorificato,  si ricordarono che questo era stato scritto di lui e questo gli avevano
fatto» (12, 12-16).

crocifisso

Può sembrare strano cominciare con un’acclamazione a Cristo come  vincitore e come re, ma la liturgia non conosce la malinconia. L’evento  della passione è di fatto una vittoria, perché ormai Gesù ha vinto la  morte e ne ha superato la paura. Ciò spiega perché lo contempliamo  mentre entra deliberatamente e coraggiosamente nella città che  trama contro di lui.

L’episodio riportato dal vangelo di Giovanni indica chiaramente  la circostanza: la folla è venuta a Gerusalemme per la festa ebraica di  Pasqua che si celebrerà tra pochi giorni.  I soggetti del racconto sono tre: la folla, appunto, Gesù, i discepoli.

– La folla, assai grande, è composta di gente buona, semplice, devota;  gente che si è recata nella città santa in anticipo proprio per  “purificarsi”, cioè per vivere la Pasqua con purità cultuale, rituale e  morale. Questa gente soffre per i mali di sempre, per i mali di tutti i  tempi: le malattie, la povertà, la disoccupazione, i drammi delle  famiglie. Soffre inoltre a causa dell’ oppressione politica del proprio paese, dell’ oppressione fiscale eccessiva, delle tante corruzioni e  ruberie che contaminano la terra. E la sofferenza la porta ad aspettare  qualcosa di più e di meglio, a guardare a ogni evento nuovo con  speranza; perciò è pronta a entusiasmarsi. La notizia – riferita nel  vangelo di Giovanni al capitolo Il – che Gesù ha risuscitato l’amico
Lazzaro non può non riaccendere i sogni messianici e la voglia di  rivedere Gesù che da qualche tempo si era ritirato e non si mostrava  in pubblico.  E, a un tratto, la folla viene a sapere che Gesù salirà a Gerusalemme  per la festa. Altre volte era stato nella città santa, ma questa sua  venuta, che sarà l’ultima, costituisce un gesto ardito, audace, carico di  pericoli. Pochi giorni prima l’apostolo Tommaso, sentendo che Gesù  intendeva recarsi a Betania che si trova sulla strada verso  Gerusalemme, aveva esclamato: «Andiamo anche noi a morire con  lui»(Giovanni 11, 16), perché comprendeva che la vicina città era gravida di minacce per il Maestro. Eppure Gesù arriva, sfidando  l’ordine dato dai sommi sacerdoti e dai farisei di denunciare la sua  presenza così che potessero prenderlo.  Egli dunque accetta il pericolo, e la folla al vederlo si commuove, gli  corre incontro con entusiasmo e con rami di palma. La palma, fin  dall’antichità, è segno di vittoria, e veniva agitata in qualche festa  ebraica per acclamare Dio, il Dio del cielo e della terra, il Dio che  salvava il suo popolo. Ora questa festa è improvvisata dalla gente lungo le strade, in onore  di Gesù che ha fama di essere il rappresentante di Dio: «Osanna!»,  che significa: «Dona, Signore, la tua salvezza, la tua vittoria»; e poi:  «Benedetto colui che viene nel nome del Signore!».  L’accoglienza fatta a Gesù, l’acclamarlo come re e Messia, non è una  semplice esaltazione religiosa; è un preciso riferimento alle attese  culturali e sociali della gente che non ha paura di osannarlo  pubblicamente, nella capitale, sotto gli occhi delle autorità perché è  ormai stanca di una politica fatta sulla sua pelle da uomini lontani;  vuole qualcuno a cui poter dare piena fiducia.

– Che cosa fa Gesù? Non si sottrae a questa manifestazione, come  invece si era sottratto in Galilea, dopo la moltiplicazione dei pani,  quando erano venuti per proclamarlo re. Egli esprime un gesto di  umiltà, senza parlare, senza dire nulla: invece di entrare in città a  piedi, sceglie di montare sopra un asino, l’animale più umile che ci sia,  un animale di servizio, per far capire che la sua non è una regalità di  guerra o di dominio, bensì di servizio.

– I discepoli però «non compresero». Da un lato Gesù non spegne  l’entusiasmo della folla, come loro potevano pensare avendolo già  visto altre volte fuggire; dall’altro lato Gesù non si concede a tale
entusiasmo. Forse qualche discepolo sperava che cogliesse l’occasione  per mettersi a capo di un movimento popolare e restaurare il regno di  Israele contro i nemici. Gli apostoli intuiscono, in modo generico, che  nella vita di Gesù ci sono due parti: nella prima agisce, compie gesti di liberazione dell’uomo, guarisce, opera miracoli, vince le potenze  avverse. E la parte che piace anche a noi, che ci avvince e che ci
sembra di capire.

In una seconda parte – che inizia con la Domenica  delle Palme – Gesù non fa nulla per l’uomo, non compie miracoli, non  pronuncia discorsi, non si difende. Infatti, egli accetta il senso  religioso dell’ entusiasmo della folla che lo acclama, non il senso  politico, e opera un attento discernimento che gli apostoli non  comprendono. Soltanto più tardi capiranno che entrando a  Gerusalemme quel giorno Gesù si era mostrato Re messianico, Signore della storia, però Signore umile e servitore dell’umanità.  È molto importante osservare che Gesù entra in Gerusalemme come  un uomo libero, disteso, sciolto, sereno. Libero perché non ha  condizionamenti umani, non teme nessuno, nemmeno la morte; la  sua è quella sovrana libertà che tutti vorremmo avere. Essere liberi di  essere davvero ciò che siamo, nella verità di noi stessi: non avere  paura per ciò che altri possono dire o fare di noi. Soltanto un’ esistenza libera è capace di amare, di dedicarsi e di donarsi.  Il mistero di Gesù che si va svelando, mistero di umiltà, di sofferenza  e poi di gloria, è anche il mistero della nostra vita, se lo accogliamo e  quindi lo sperimentiamo a poco a poco. È il mistero – come dice san  Paolo – «nascosto a tutti i potenti di questo mondo; altrimenti non avrebbero crocifisso il re della gloria». È il mistero – come dice  l’evangelista Matteo – «rivelato ai piccoli e ai semplici», a coloro che si  trovano in situazione di sofferenza e di oppressione e che  percepiscono qual è il vero volto di Dio. Ma il discorso della passione e  della croce, realtà inevitabile nella vita di ciascuno, non costituisce né
il primo né l’ultimo passo: sta in mezzo a due momenti positivi di  inizio e di conclusione, di creazione e di definitiva salvezza. La croce  non è l’ultima parola e per questo è possibile essere nella sofferenza e  contemporaneamente nella gioia.  Il primato della coscienza .

Tra i tanti racconti biblici che la liturgia della Chiesa ci propone nei  giorni precedenti il triduo del giovedì, venerdì, sabato santo e  domenica di risurrezione, ne scelgo anzitutto uno dell’ Antico  Testamento, tratto dal Libro di Tobia. Tobia  è un ebreo che, nel tempo  della distruzione della città di Gerusalemme, viene deportato insieme  con altri suoi connazionali in oriente, a Ninive, nelle pianure del Tigri e  dell’Eufrate, e là vive come esule una vita  modesta e però ricca di  speranza.  «Sotto il regno di Assarhaddon ritornai a casa mia e mi fu restituita la  compagnia della moglie Anna e del figlio Tobia. Per la nostra festa di  pentecoste, avevo fatto preparare un buon pranzo e mi posi a tavola:  la tavola era imbandita di molte vivande. Dissi a mio figlio Tobia:  “Figlio mio, va’ e se trovi tra i nostri fratelli deportati a Ninive qualche  povero, che sia però di cuore fedele, portalo a pranzo insieme con noi.  lo resto ad aspettare che tu ritorni”. Tobia uscì in cerca di un povero  tra i nostri fratelli. Di ritorno disse: “Padre!”. Gli risposi: “Ebbene,  figlio mio”. “Padre, rispose, uno della nostra gente è stato strangolato  e gettato nella piazza, dove ancora si trova”. Allora mi alzai, lasciando  intatto il pranzo; tolsi l’uomo dalla piazza e lo posi in una camera in  attesa del tramonto del sole, per poterlo seppellire. Ritornai e,  lavatomi, presi il pasto con tristezza, ricordando le parole del profeta  Amos su Betel: “Si cambieranno le vostre feste in lutto, tutti i vostri  canti in lamento”. E piansi. Quando poi calò il sole, andai a scavare  una fossa e ve lo seppellii. I miei vicini mi deridevano dicendo: “Non  ha più paura! Proprio per:. questo motivo è già stato ricercato per  essere ucciso. E dovuto fuggire ed ora eccolo di nuovo a seppellire i  morti”» (Tobia 2, 1-8).  Il testo continua poi con la lunga storia delle sofferenze di Tobia, uomo  fedele, caritatevole, pieno di attenzione agli altri, che entra in una  grande prova dalla quale uscirà soltanto attraverso una serie di eventi  tutti raccontati nel Libro. Il messaggio che giunge a noi attraverso il  brano della Scrittura è quello del primato della coscienza. C’è un uomo  povero, esiliato, che potrebbe giustamente aver paura di essere  nuovamente ricercato e imprigionato; tuttavia, posto di fronte a un  fatto che tocca il suo prossimo, un fratello ucciso che nessuno vuole  più toccare, egli, obbedendo alla coscienza, lo seppellisce affrontando  ,tutte le possibili conseguenze del suo gesto. È dunque un gesto che  sottolinea il primato della coscienza, il primato di ciò che l’uomo sente  dentro inderogabilmente come valore.

Sarebbe bello poter seguire  questo cammino fino alla descrizione della storia della passione, nel
momento in cui Gesù di Nazaret, trovandosi di fronte al sinedrio e  interrogato sulla sua identità, obbedisce alla testimonianza della  propria verità e si dichiara apertamente Figlio di Dio, affrontando così  la morte. Sono sempre elementi dell’identico primato della coscienza.  E un aspetto assai importante sul quale mi pare opportuno  intrattenerci brevemente perché ritorna vivo nella condizione  contemporanea. Talora abbiamo della coscienza una concezione  riduttiva e se ne parla in termini scettici, un po’ deprezzativi,  confondendola con il puro soggettivismo: agisco secondo quello che a  me sembra giusto, che a me piace o che mi torna utile.  In realtà la coscienza ci fa conoscere quella legge che trova il suo  compimento nell’amore di Dio e del prossimo. Una legge  fondamentale, messa da Dio nei nostri cuori. La coscienza non è ciò che mi viene in mente; è il principio supremo allargato a misura divina  (potremmo chiamarlo il principio della solidarietà, il principio del  rispetto dell’ altro, il principio dell’ onore, del dovere, il principio della  coerenza). E Dio stesso come amore, come fedeltà, come garante  ultimo di ogni verità, che entra nell’intimo dell’uomo e diviene  sorgente di azione e di discernimento.

Per questo la coscienza è  qualcosa di inviolabile, e tuttavia non è qualcosa di fantasioso, di  strano, di imprevedibile. E il riconoscimento del grande  comandamento dell’ amore di Dio e del prossimo, il riconoscimento  dei grandi valori – verità, onestà, giustizia, carità – in quanto sono  intuiti, compresi e diventano fonte di vita, di giudizio e di azione, in  dialogo con Dio e di fronte a Dio. Scrive il Concilio Vaticano II: «Nella  fedeltà alla coscienza, i cristiani si uniscono agli altri uomini per  cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali,  che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto in quella  sociale» (Gaudium et spes, 16). La coscienza non soltanto non è  fenomeno di dispersione, ma opera l’unità; in nome della stessa  coscienza, credenti e non credenti si mettono insieme per cercare  come oggi si possono realizzare valori quali il servizio, l’onore, la  lealtà, il rispetto del prossimo. Spesso si interpreta la coscienza  semplicemente come la voce che ci ricorda una legge già fatta, che  basta applicare. Ci viene invece detto che la vita dell’uomo presenta  situazioni inedite, problemi nuovi, per i quali non è sufficiente  appellarsi a una legge astratta, bensì occorre cercare, sulla base del  principio fondamentale dell’ amore di Dio e del prossimo e di tutti i  valori che ne derivano, quel modo di agire che meglio promuove la  vita, serve l’unità tra i popoli, crea relazioni pacifiche; in una costante  armonia e in un costante dialogo e scambio tra tutte le persone di  buona volontà.

Possiamo allora comprendere perché, per esempio, Giovanni XXIII  cominciò a indirizzare alcune sue encicliche, oltre che ai vescovi e ai  cristiani, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Perché tutti gli  uomini hanno in comune questa coscienza, questa percezione di  valori. Di qui la necessità di educare le nuove generazioni a compiere  certe scelte e a evitarne altre, a guardarsi da certi comportamenti e  ad acquisirne altri. Soprattutto è importante formare la coscienza dei  giovani attraverso tutte le istanze di valore autentico della persona  (silenzio, preghiera, raccoglimento, riflessione…). Le istanze di  massificazione, di frastuono, di considerazione anonima della persona,  invece, ottundono la coscienza, impediscono di prendere coscienza di  sé, escludono la possibilità di sentirsi e di ascoltarsi.

Noi siamo a una svolta della civiltà occidentale e della civiltà mondiale in cui l’avvenire sarà nella chiarezza delle coscienze. Ho sovente  ripetuto che il futuro del mondo è nella interiorità. Infatti, poiché il  futuro sarà sempre più affidato alle informazioni, alla buona gestione  delle informazioni, e poiché tutte le decisioni umane saranno prese a  partire da scelte sempre più coscienti e capaci di programmare il  futuro, la sorte di questo futuro sarà nella coscienza, nell’interiorità,  nella capacità di riconoscere il valore. Se un tempo si poteva pensare  di guidare masse con slogan generici, di poterle tenere sottomesse  semplicemente con delle imposizioni, oggi abbiamo visto il crollo di  sistemi che duravano da decenni; la gente ha ritrovato il senso della  libertà, della propria entità e si è ribellata a delle imposizioni  puramente esteriori.

Dunque, tutto ciò che migliora l’uomo in forma permanente deve passare per la convinzione interiore, per la
coscienza, che si educa, ripeto, attraverso momenti di silenzio, di  raccoglimento, di riflessione, e con tutti quei rapporti umani in cui  prevalgono la ragionevolezza, l’atteggiamento di vera stima della  persona, la promozione dei valori e, da parte di chi esige tali  comportamenti, la coerenza, la fedeltà, la lealtà. La coscienza si  propaga per contagio. Attraverso personalità di forte coscienza vengono formate persone di coscienza. Nei giorni che ci avvicinano  alla Pasqua, la Chiesa compie certamente un grande lavoro di
formazione della coscienza, in quanto invita ciascuno a guardare la coscienza di Cristo, che è la più alta realizzazione dell’interiorità, della  coerenza di una morte, della chiarezza dei fini, dell’ ampiezza di visione umana e divina dei destini dell’uomo. La coscienza di Gesù è la  più limpida, la più leale, fino al sacrificio della vita; è quella nella  quale il mistero di Dio, dell’ amore di Dio si traduce in linguaggio  umano in maniera inequivocabile.

La coscienza oscura di Caifa

Dopo il brano del Libro di Tobia, è interessante vedere un brano del  vangelo secondo Giovanni che, di fatto, precede quello dell’ entrata di  Gesù in Gerusalemme, acclamato dalla folla .  La liturgia però lo fa  leggere nei giorni successivi alla Domenica delle Palme, perché  esprime la forte decisione di uccidere Gesù.

«I sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: “Che  facciamo? Quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così,  tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro
luogo santo e la nostra nazione”. Ma uno di loro, di nome Caifa, che  era sommo sacerdote in quell’anno, disse loro: “Voi non capite nulla e  non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera”. Questo però non lo disse da  se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva  morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno dunque  decisero di ucciderlo. Gesù pertanto non si faceva più vedere in  pubblico tra i Giudei; egli si ritirò di là nella regione vicina al deserto,  in una città chiamata Efraim, dove si trattenne con i suoi  discepoli» (Giovanni 11, 47-54).

I sommi sacerdoti e i farisei erano molto preoccupati per il fatto che  Gesù aveva risuscitato Lazzaro e perciò riuniscono il Sinedrio, la più  alta magistratura giudaica, istituita alla fine del II secolo avanti Cristo.
Siamo davanti a un testo teologicamente molto denso, forse uno dei  più densi di teologia della storia.

– La reazione dei capi del popolo è allarmante, disorientata: che cosa  facciamo? se continua così dove andremo a finire?  Prevale quindi l’emotività, la paura; la reazione è priva di analisi  oggettiva della situazione. Non c’è nessun ascolto dell’ altro, nessun  tentativo di rimettere in ordine gli avvenimenti. C’è soltanto  l’insorgere di timori che si accavallano, che rimbalzano dall’uno all’altro durante la riunione.  Le reazioni emotive si caricano reciprocamente fino a lasciare tutti  smarriti: « Verranno i Romani, distruggeranno il nostro, luogo santo e  la nostra nazione» (Giovanni lt 48). E il caso tipico dell’impazzimento
di un consiglio, di un parlamento, di una sessione pubblica, dove,  perso il controllo e il contatto con la situazione reale, le emozioni  rimbalzano l’una sull’altra. In tale situazione interviene il  suggerimento di Caifa.

– Le parole di Caifa, apparentemente, tendono a chiarire la situazione, a dare la chiave di ciò che sta succedendo: voi non capite nulla, ve lo  spiego io! C’è qui una luce, una soluzione semplice che emerge da
tutto questo.  Il suggerimento di Caifa può essere letto e riletto, perché è gravido di  contenuti, alla luce della storia precedente del popolo di Israele.  Viene anzitutto in mente il consiglio di Achitofel nella storia di Davide  (cfr. II Samuele 17). Achitofel consiglia ad Assalonne, figlio di Davide,  qualche cosa di simile: la situazione è tale che uno deve morire per  tutti. In realtà, colui che deve morire, secondo il consiglio di Achitofel,  è lo stesso padre di Assalonne! C’è già una proiezione messianica: uno  dovrebbe morire per tutti affinché il popolo abbia pace.  Risalendo più indietro nella storia biblica, possiamo percepire la natura
diabolica del consiglio di Caifa, confrontandolo con la suggestione del  serpente nel paradiso terrestre. li serpente parla a Eva partendo da  una falsa ipotesi: Dio vi ha comandato di non mangiare di nessun
albero. Pone quindi un elemento di emozione, di ripulsa. E ne deriva  una falsa tesi: In realtà, se voi mangiaste di questo frutto  diventereste come dèi.  Analogamente, il ragionamento di Caifa parte da una falsa ipotesi, da  un falso dilemma: bisogna sacrificare o uno solo o tutto il popolo.  Comprendiamo quanto questo dilemma abbia di vergognoso ricatto,  perché pone di fronte a quelle situazioni in cui qualunque cosa si  scelga si va a cadere nell’ angoscia mortale. Preferisci che muoia uno  o tutto il popolo? Come si fa a rispondere a una simile drammatica  domanda? La diabolicità del consiglio sta proprio nello spingere in un  vicolo cieco, per cui, per uscirne, bisogna alla fine avere l’apparenza di  scegliere il minore male. Dal falso dilemma si giunge alla falsa tesi: Se  ucciderete quest’uomo, non verranno i Romani! Il suggerimento di  Caifa si colora di aperture politiche, di necessità di stato, di necessità  di sopravvivenza, e coinvolge passionalmente la gente così legata al  proprio popolo, ricattandola in ciò che ha di più vivo.  Pur se i rappresentanti non sono forse molto degni, è certo che amano  il popolo, la nazione e non vogliono assumersi la responsabilità di  andare contro all’avvenire, al futuro della loro gente. Ma sono appunto  intrappolati in un diabolico ragionamento: se volete salvare il popolo,  sarà necessario sacrificare Gesù. Siamo di fronte alle vie di satana,  che ci muove verso vicoli ciechi, ci confonde con emozioni improprie,  ci impedisce di prendere contatto con la realtà e di considerarla sobriamente, e alla fine ci pone davanti ad azioni che appaiono sì non  buone, ma inevitabili per ragioni più alte.

– Dopo il drammatico consiglio di Caifa, ci stupiamo ancora di più per  il commento dell’evangelista.
Giovanni non lo fa in senso morale, come noi ora cerchiamo di fare (è  un consiglio malvagio, ricattatorio). Il suo è un salto teologico,  dottrinale inatteso e insperato: «non da se stesso… profetizzò».  C’è un piano di azione che è quello delle contingenze umane, dove  avvengono cose vergognose, innominabili; parallelamente e non prescindendo da esso, corre il piano della provvidenza di Dio.  Per questo dicevo che un simile brano è una delle più dense elevazioni di teologia della storia.  Lungo il piano delle contingenze umane, anche errate, corre il piano  della provvidenza salvifica, del disegno divino. Accanto al consiglio  diabolico c’è il consiglio di salvezza. È con un tale legame che  addirittura il consiglio umano di Caifa assurge al rango di profezia, pur  se il termine ha, in certo senso, un significato ironico, quasi  sarcastico, ma reale. «Non da se stesso disse queste cose», bensì in  virtù del suo ufficio, della sua capacità di capo del popolo.  C’è un grande rispetto per le funzioni gerarchiche, una grande  attenzione all’ ordine delle situazioni, che la potenza di Dio non  rovescia immediatamente e utilizza per il suo fine.

«Profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione, e non per la  nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano  dispersi» (Giovanni 11,51-52). Non si potrebbe esprimere con parole  più forti il senso dell’ agire di Gesù e la teologia della redenzione.  «Morire per la nazione» è l’espressione che nel «Credo» è stata  trasmessa: «Per noi morì», per la nostra salvezza.  E lo fece «per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi».

Dovremmo meditare a lungo su queste parole, partendo dal termine greco: congregare, mettere in unità. Vengono alla mente altre parole  di Gesù: «Gerusalemme, quante volte ho voluto radunare i tuoi figli  come la gallina raduna i suoi pulcini e non mi avete  ascoltato» (Matteo 23,37; Luca 13,34). Oppure la parabola della rete  misteriosa gettata nel mare, che raduna tutti i generi di pesci per la  pienezza dell’ultimo giorno (Matteo 13,47). O ancora: «Dove sono due  o tre radunati nel nome mio, io sono in mezzo a loro» (Matteo 18,20).

Gesù tende a mettere insieme le persone, a radunarle in unità, e  questo è il suo disegno, che potremmo chiamare storico, non soltanto teologico o spirituale: radunare tutti i popoli in unità, fare una sola  cosa di tutti. Tale disegno ha le sue radici nella visione di unità che  parte dall’Antico Testamento, per esempio il cap. 31 di  Geremia: «Ecco, io li riconduco dal paese del settentrione, li raduno  dall’estremità della terra» (v. 8). Già la versione greca dei LXX aveva  aggiunto, di questo brano famoso del profeta: «Li raduno dalle  estremità della terra nella festa di pasqua». Nella tradizione greca il  radunare i dispersi aveva un legame con la festa di pasqua.

Noi comprendiamo perciò lo sfondo teologico, messianico, salvifico,  nel quale vengono pronunziate e raccolte dall’ evangelista le parole di Caifa: la Pasqua è prossima e, nel momento in cui si consuma un
delitto politico, civile, sociale Dio raduna il suo popolo secondo la  promessa, nel suo Figlio, nell’unità della sua vita e della sua morte, in  un’unità che sarà come quella del Padre col Figlio. «Così che essi siano  una cosa sola, come tu, Padre, in me e io in te» (Giovanni 17, 21).

– Come risposta alla visuale altissima dell’ evangelista, c’è una frase  drammatica che ci richiama alle parole del prologo: «Venne tra i suoi  ma essi non l’hanno accolto» (Giovanni l, 11). Qui si dice: «Da quel  giorno dunque decisero di ucciderlo» (Giovanni 11,53).  La luce e le tenebre, la vita e la morte, l’unità e la divisione, la volontà  di comunione e l’opposizione totale a questo desiderio di unità.

– La frase con cui termina il brano (Giovanni 11, 54) ci insegna che,  alla vigilia di eventi drammatici che lo riguardano strettamente, Gesù  sente il bisogno, ancora una volta, di ritirarsi in silenzio, per un  momento di familiarità con i suoi, così da affrontare con pienezza di  coscienza i giorni che lo attendono. Noi pure abbiamo bisogno di  silenzio e di raccoglimento per capire se siamo davvero dalla parte di  Gesù o dalla parte di coloro che, confusi e smarriti dalle esigenze della  fede, non riescono più a riconoscere e a vivere la verità.

 

L’istituzione dell’Eucaristia

Nel giovedì precedente la sua morte, Gesù si siede a tavola con i suoi  apostoli per consumare con loro l’ultima cena e, nello svolgersi di essa  anticipa profeticamente, attraverso dei gesti e delle parole, la
consegna di sé all’uomo, che opererà definitivamente sulla croce.  Egli infatti voleva suscitare un gesto, uno strumento che attuasse  l’efficacia universale della Pasqua, l’energia, la forza di riconciliazione  e di comunione sprigionata nella sua Pasqua storica; questo gesto è  l’Eucaristia che, nella liturgia della Chiesa, si presenta appunto come  la maniera sacramentale che rende perenne in ogni tempo il sacrificio  pasquale di Gesù dischiudendo all’umanità l’accesso alla vita senza  fine. Nell’Eucaristia è presente non soltanto la volontà di Gesù che  istituisce un gesto di salvezza, ma Gesù stesso.

Cerchiamo di leggere due brani del Nuovo Testamento che narrano  quanto avvenne nell’ultima cena.

– «Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la  benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: “Prendete e  mangiate; questo è il mio corpo”. Poi prese il calice e, dopo aver reso
grazie, lo diede loro dicendo: “Bevetene tutti, perché questo è il mio  sangue dell’ alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati. lo  vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al  giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre  mio”» (Matteo 26, 26-29).

– Il secondo brano lo troviamo nella I Lettera di Paolo ai Corinzi: «lo  ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il  Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo
aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per  voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver  cenato, prese anche il calice dicendo: “Questo calice è la nuova  alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in  memoria di me”. Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e  bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli  venga» (11,23-26).

Questo passo della lettera di san Paolo è parte di una lunga  esortazione da lui tenuta alle assemblee cristiane di Corinto. Nelle  assemblee c’erano problemi, disordini, malumori e Paolo, per chiarire  e mettere ordine, si richiama alla tradizione più antica che si conosca  sull’Eucaristia, una tradizione che gli ,è stata consegnata a pochi anni  dalla morte di Gesù. E la prima testimonianza in assoluto che noi  possediamo sulla celebrazione dell’Eucaristia e notiamo che c’è una  triplice dimensione: un riferimento al passato («fate questo in  memoria di me»); una proclamazione per il presente (oggi è qui il  corpo e il sangue del Signore); un orientamento al futuro («finché egli  venga», nell’attesa del ritorno del Signore).

– Memoria del passato. La stessa cena pasquale ebraica era ed è  vissuta come una memoria che attualizza i fatti della liberazione del  popolo dall’Egitto. Nell’Eucaristia la relazione non è soltanto con un  fatto passato, bensì con una persona, con Gesù salvatore crocifisso e  risorto. In ogni Eucaristia viene annunciata la sua morte, che ha  distrutto la malvagità umana scatenatasi contro di lui perdonandola e  ha vinto la paura della morte, e viene annunciata la sua risurrezione.

– Per quanto riguarda il presente, il Corpo e il Sangue di Cristo è  veramente dato a noi nell’ oggi, la nuova alleanza nel Sangue di Gesù  si realizza adesso creando o rafforzando il rapporto dell’uomo con Dio,  rapporto di figliolanza e di amicizia. Tutta la storia umana si concentra  nel momento straordinario della celebrazione eucaristica.

– Inoltre, l’Eucaristia proclama il futuro  dell’uomo e dell’umanità, preannuncia quel giorno senza tramonto nel
quale la nostra vita sarà uno stare a mensa con Dio, un vivere con lui  una familiarità immediata. L’Eucaristia è dunque obbedienza e fedeltà a un comando preciso di  Gesù, è comunione con Dio e tra gli uomini, è apertura a tutte le  genti, anticipazione e segno della gloria futura.

Il significato dell’Eucaristia

Dei due racconti di Matteo e di Paolo, che ho ricordato, vorrei  soffermarmi su alcune parole che ci aiutano a comprendere meglio il  mistero.

– La prima è comune a entrambi i testi: «il mio sangue dell’ alleanza». Gesù si colloca sullo sfondo dell’alleanza di Dio con il  popolo d’Israele, alleanza che lo faceva appunto popolo di Dio: il dono  del sacrificio di Gesù ha come fine la creazione del nuovo popolo, che  non toglie nulla al primo, ma si estende a tutta l’umanità.  Dire “alleanza” equivale a dire l’instancabile amore con cui Dio, a  partire dalla creazione, ha trattato l’uomo come un amico, ha  promesso una salvezza dopo il peccato, ha liberato Israele dall’Egitto,
l’ha accompagnato nel cammino attraverso il deserto, l’ha introdotto nella terra promessa segno dei misteriosi beni futuri, l’ha aperto alla  speranza con la promessa del Messia. Collegando l’istituzione  dell’Eucaristia con l’alleanza, Gesù vuole significare che essa dona a  noi la forza di lasciarci totalmente attrarre nel movimento dell’ amore  misericordioso di Dio annunciato nell’ Antico Testamento, celebrato definitivamente nella Pasqua e culminante nella pienezza del suo  ritorno: «finché egli venga», nell’ attesa della sua venuta.

– La seconda parola è riportata solo da Paolo: «nella notte in cui  veniva tradito». Il riferimento è a Giuda ed è a tutti noi. Il Signore  dona il suo corpo e il suo sangue a coloro che lo tradiranno,  fuggiranno, lo rinnegheranno. I nostri tradimenti, le fughe, le infedeltà  degli uomini, non possono che esaltare la grandezza del suo amore,  come la profondità della valle fa vedere l’altezza del monte.  Dio ci ama in questo modo. L’unica misura del suo amore smisurato è  il bisogno della persona amata: il povero, l’infelice, il peccatore, il  perduto sono amati persino più degli altri. Come una madre che ama  il figlio perché è suo figlio e, se è disgraziato, lo ama ancora di più  sapendo che potrà diventare più buono sentendosi tanto amato.  E Dio, che ci è più padre di nostro padre e più madre di nostra madre,  che ci ha tessuto nel grembo materno, fa della misericordia la realtà  che ci avvolge dall’ alto e dal basso, dall’oriente all’occidente. Nella
sua misericordia noi siamo ciò che siamo e la nostra miseria diventa il  recipiente e la misura su cui riversa la sua misericordia.

L’Eucaristia non è quindi un dono offerto a persone elette, giunte alla perfezione.

– La terza parola, ricordata da Matteo, è infatti: «il mio sangue è versato per molti», cioè per tutti gli uomini e per gli uomini di tutti i  tempi, «in remissione dei peccati». Nella notte della disperazione,  della prigionia, del nostro egoismo, dell’ aridità, della freddezza del  cuore, Gesù si dona a noi per strapparci dalle tenebre, per invitarci a  credere in un Dio che non ha il volto rabbuiato, stizzito, amareggiato,  deluso dalle nostre non  corrispondenze, ma che ha il volto pieno di  tenerezza, di fiducia, di passione per ogni creatura, il volto  mitissimo  del Crocifisso.

L’Eucaristia nella vita dei cristiani

Per noi cristiani è fondamentale capire che il “sì” totale e fedele di Gesù al Padre e agli uomini, che celebriamo nell’Eucaristia, significa il  nostro “sì” al Padre e il nostro “sì” a tutti i fratelli e le sorelle,
compresi coloro che ci criticano, non ci accettano, ci disprezzano, si  oppongono a noi. L’Eucaristia sarebbe un segno vuoto se in noi non si  trasformasse in forza di amore per gli altri, perché le parole: «Fate
questo in memoria di me», non sono magiche. Pronunciandole, Gesù  ci chiede di donare corpo e sangue, di offrire la nostra vita per tutti, di  consegnarci.  E consegnarsi vuol dire avere una mentalità nuova, che prende il  posto della vecchia mentalità propria di chi pensa soltanto a se stesso  senza occuparsi degli altri.

Per questo la «cena del Signore» che la  Chiesa celebra ogni giorno, non tollera di essere messa a servizio di  interessi mondani, ma esige un cuore indiviso dal momento che è  destinata a formare nel tempo un unico corpo di Cristo. Essa deve  accettare e assecondare l’agire misericordioso di Dio. Spesso, troppo
spesso, ci avviciniamo all’Eucaristia senza la seria volontà di  interrogarci lealmente sul senso della nostra vita; intendiamo fare un  gesto religioso, ma siamo ben lontani dal lasciare mettere in  questione la nostra esistenza dal dono totale di Gesù.  Eppure nella Messa Gesù ci raggiunge con la sua Pasqua e, se ne prendiamo seriamente coscienza, pone in noi ogni volta il dinamismo  dell’ amore, la forza di quella carità che è riverbero dell’ essere stesso  di Dio. Perché l’Eucaristia ci accoglie dalle oscure regioni della nostra
lontananza spirituale, ci unisce a Gesù e agli uomini e ci sospinge con  Gesù e con gli uomini verso il Padre; è come un sole che attira a sé  l’umanità e con essa cammina per raggiungere un termine misterioso,  ma certissimo.

Il cibo eucaristico configura nel tempo un popolo che esprime a livello  sociale, non solo individuale, la forza dello Spirito di Cristo che  trasforma la storia. In tale prospettiva è importante una riflessione  sull’unità concreta che la vita umana trova nell’Eucaristia. Bisogna  certo evitare artificiosi conformismi tra la trascendente, misteriosa  unità, attuata dall’Eucaristia e le forme di unificazione create e  realizzate dagli sforzi umani nei diversi ambiti di convivenza.

Ma tra la prima e le seconde esistono delle relazioni. I cristiani, che  vivono nell’Eucaristia una singolare esperienza di attrazione di tutta la  loro esistenza nel mistero unificante dell’ amore di Dio, devono
sentirsi impegnati non solo a ricavarne le conseguenze per i rapporti  entro la comunità cristiana, bensì anche a favorire l’irraggiamento di  questo mistero in ogni ambito di convivenza. D’altro canto, ogni passo
compiuto con buona volontà verso un dialogo tra le persone, verso un  costume di comprensione e di collaborazione, verso l’intesa su  un’immagine di uomo di ampio respiro, costituisce un segno e una
preparazione dell’unità degli uomini in Cristo. Sarà così possibile  portare all’interno della celebrazione la ricchezza di tutti gli sforzi  umani di unificazione.

Cristo muore crocifisso

croce

Il tremendo mistero del venerdì santo, del momento cioè in cui Gesù  muore, è tale da farci temere di incrinarlo pronunciando parole proprio  quando la Parola tace. Possiamo però lasciarci guidare dai testi biblici  che vengono letti nella liturgia della Passione.
– I primi due brani sono tratti dal profeta Isaia:

«Il Signore mi ha dato una lingua da iniziati, perché io sappia  indirizzare allo sfiduciato una parola», cioè una lingua propria di chi  ascolta cose sconosciute per poterle manifestare ad altri. «Il Signore mi ha aperto l’orecchio e io non mi sono tirato indietro. Ho presentato  il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la  barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio  mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia  faccia dura come pietra, sapendo di non restare  deluso» (50,4-7).

Isaia sta parlando di un personaggio misterioso, il Servo di JHWH, che accetta dolori e persecuzioni fidandosi di Dio. Di un Servo che  prefigura in sé i segni e le vicende della Passione di Gesù. E continua:
«Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori, che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia. Era  disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato  delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori, e noi lo  giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto  per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci  dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati  guariti» (Isaia 53,3-5).

Queste parole, che ci colpiscono, ci sgomentano e che affermano  come un messaggero respinto sia capace di salvare l’umanità intera,  sono una chiave interpretativa della storia di Gesù e raggiungono il
loro massimo di intensità nella morte di Cristo.  Esse ci aiutano a cogliere il significato del fuoco della croce, la  dimensione interiore dell’ evento della Passione. Gesù è il misterioso Servo del Signore che si offre, con piena e libera obbedienza, a un  destino di sofferenza e di morte. Il Cristo sofferente, di cui leggiamo
nel racconto evangelico di Matteo (cfr. 27, 1-55), è colui che prega il  Padre e gli si affida. Questo profondo affidamento di Gesù, che  traspare da alcuni momenti e parole del vangelo, è bene illustrato  dalle letture profetiche. Il Servo sofferente che si affida al Padre non è  soltanto un segno luminoso dell’ amore di Dio per tutti gli uomini,  bensì diventa il rappresentante degli uomini davanti a Dio. E l’uomo  vero, obbediente, riconciliato con il suo Signore; l’uomo che soffre per  la tragedia del peccato, che dischiude agli altri uomini il cammino del  ritorno a Dio. Ancora, il Servo di JHWH appare solidale con tutto il  popolo, prende su di sé tutti i peccati, coinvolge gli uomini nello stesso  cammino di amore doloroso ed espiatore.

– Del lungo racconto della passione di Gesù, tratto dal vangelo di  Matteo, racconto che bisognerebbe leggere per intero e con grande  attenzione, considero soltanto l’ultima parte:

«Gesù, emesso un alto grido, spirò. Ed ecco il velo del tempio si  squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si  spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti  risuscitarono… Il centurione e quelli che con lui facevano la guardia a  Gesù, sentito il terremoto e visto quel che succedeva, furono presi da  grande timore e dicevano: “Davvero costui era Figlio di Dio!”» (Matteo  27,50-54).

Il velo che si squarcia, la terra che si scuote, le rocce che si spezzano,  i sepolcri che si aprono sono il simbolo di un grande sconvolgimento  cosmico e di un’immane lotta tra le forze del bene e le forze del male,
tra la vita e la morte. Fin dall’inizio la storia umana è storia di  peccato, è segnata dal succedersi di tanti mali personali, sociali,  cosmici. A un certo punto tutto il male si condensa nella passione di  Gesù. Egli è schernito, deriso, oltraggiato, percosso, flagellato perché  vuole vivere l’angoscia dell’umanità, la solitudine dell’uomo, vuole  sentire su di sé le violenze, le crudeltà, i soprusi, gli inganni, le  maldicenze che si compiono nel mondo. Gesù vuole anzi vivere  l’abbandono del Padre come il dolore più grande dell’uomo, per  espiare tutti i peccati. È il suo amore per noi che lo porta al confine  della desolazione umana così da riscattarla in se stesso e da  ricondurre l’uomo all’ amore del Padre. Per questo muore, arrestando  per così dire la morte che diventa il trionfo dell’ amore di Dio.

Cerchiamo di immedesimarci nello stato d’animo del centurione  romano che, di fronte allo sconvolgimento cosmico avvenuto dopo la  morte di Gesù e, soprattutto, avendo visto di persona l’atteggiamento  di inermità e di mitezza con cui Gesù muore, esclama: «Davvero  costui era Figlio di Dio!». È la prima professione di fede davanti alla  croce; una strana professione se pensiamo che viene da parte di un  uomo incaricato ufficialmente di condurre a morte il Signore.  Eppure noi stessi, come quell’antico soldato, siamo implicati nella  morte e nel calvario di Gesù; noi stessi siamo protagonisti e non solo  spettatori di questo evento. E, come il centurione, sentiamo di non  avere le disposizioni adatte a comprendere ciò che sta accadendo.
È probabile che all’inizio il centurione abbia preso parte quasi  sbadatamente a quella serie di avvenimenti, per un ordine puramente  formale che aveva ricevuto. Certamente si sarà stupito sentendo la  folla che gridava: «Vogliamo Barabba!» e avrà notato l’assurdità della  scelta: da una parte, un uomo di aspetto sereno, quasi regale, che  veniva condannato e, dall’ altra parte, un uomo che al centurione,  pratico com’era di questa gente, appariva chiaramente per ciò che  era, un malfattore e che però veniva messo in libertà.  Tutto questo l’avrà indotto a riflettere. In seguito, lungo il calvario,  avrà visto i maltrattamenti che i soldati infliggevano a Gesù e  probabilmente, essendo abituato a vedere tali crudeltà, non avrà  capito molto. Ma forse la pazienza di Gesù avrà incominciato a  penetrargli nel cuore. Via via che la croce, portata prima da Gesù e  poi da Simone, saliva verso il luogo della crocifissione, qualcosa si  muoveva già nell’ animo di questo soldato testimone.  In ogni caso, ci fu un momento in cui il suo sguardo incominciò a
fissarsi su Gesù in maniera nuova e sorprendente, per giungere quindi  all’intuizione di una misteriosa grandezza di questo condannato.  Il suo, in fondo, è il cammino di tutti noi che contempliamo il  Crocifisso, compresi coloro che non fossero pienamente partecipi della  vita della Chiesa o, addirittura, venissero da sponde lontane, proprio  come il centurione pagano. Il venerdì santo è destinato a ogni uomo,  a ogni persona di questo mondo e ciascuno di noi, anche se cristiano,  deve rifare il cammino di contemplazione della croce, guardando negli  occhi Gesù. Perché ciascuno di noi, oggi, può maturare nel cuore  questa esclamazione, quasi fosse la prima volta: Tu sei, Gesù, il Figlio  di Dio!

Come il centurione, guardiamo il volto di Gesù e vediamo i  passanti che scuotono il capo e che non credono alla sua divinità.  Sono tanti i nostri contemporanei che vanno frettolosamente, senza  fermarsi davanti a lui. Forse hanno altri impegni, altre mete da  raggiungere, e l’evento Gesù sembra marginale per loro. Per alcuni, la  Settimana santa e la Pasqua sono semplicemente date del calendario,  che hanno riferimento alla primavera, alle vacanze, alle feste.  Forse, persino in noi c’è qualcosa di superficiale; per un verso, ci  scopriamo un poco passanti che vanno frettolosi davanti a Gesù che  muore. Forse abbiamo nel cuore pensieri, desideri, impegni,  preoccupazioni, che sono al di fuori della salvezza che oggi ci viene
donata. Gesù però ci invita a sostare e a guardarlo crocifisso, a fare  come il centurione che non passa oltre ma si ferma a fissarlo, si pone  di fronte a lui e diventa in tal modo capace di vivere quel grande venerdì santo di salvezza.

L’antico soldato finisce con il comprendere  anche gli eventi che accadono intorno a Gesù – le tenebre, il  terremoto – come legati alla sublime maestà di colui che muore con  amore e per amore. Perché è questo amore che il centurione pagano  ha colto, ben al di là dei fatti straordinari che avrebbero potuto  spaventarlo soltanto. Egli, invece, rimane inchiodato davanti al  crocifisso e intuisce il mistero dell’ amore di quell’uomo che va  incontro alla morte come mai nessun altro uomo ha fatto.  Lo intuisce da tante piccole circostanze: il modo con cui Gesù  raccoglie le offese, i brevi gesti e segni del capo verso chi gli allunga  la spugna con l’aceto, la preghiera gemente e santa al Padre, il grido  potente con cui, passa dalla vita alla morte. È  davvero troppo grande il  mistero di amore che la persona di Gesù rivela in ogni suo palpito  dalla croce,. perché chiunque abbia il coraggio di sostare un momento  in silenzio davanti a lui non se ne senta coinvolto nel profondo dell’ essere. Da questo punto, non conta tanto chi siamo, chi pensiamo di essere; conta ciò che guardiamo, conta il sublime mistero del  Crocifisso.

Il centurione diventa un simbolo della verità del credente:  avendo posto i suoi occhi su Gesù crocifisso, il resto si è offuscato,  non conta più, ed egli rimane solo con colui che è salvatore di tutti.

– Il messaggio di Gesù crocifisso è molto chiaro. Dio, che avrebbe  potuto annientare il male annientando tutti i malvagi,  preferisce entrare in esso con la carne del suo Figlio, in Gesù,  proclamando il perdono e il ritorno e subendo su di sé le conseguenze  del male per redimerlo nella propria carne crocifissa. E la legge della  croce, il principio secondo cui il male non viene eliminato, ma  trasformato in bene sull’ esempio e per la forza della morte di Cristo.

In questo modo la croce diviene la suprema legge dell’amore e chi  vuol far parte del cammino di rigenerazione inaugurato da Gesù deve entrare nel male del mondo per trame il bene della fede, della
speranza, della carità, dell’ amore per i nemici. La legge della croce è  formidabile, ha un’ efficacia sovrana nel regno dello spirito ed è  applicabile a tutte le vicende umane; è il mistero del regno di Dio, è il mistero del Vangelo. Non è una legge accettabile dalla semplice intelligenza umana naturale, non la si può dimostrare prescindendo da  Cristo. L’intelligenza umana naturale la rifiuta, non riesce a coglierla  fino a quando non si è decisa per la fede.

Tuttavia il Signore crocifisso è centro di attrazione per ogni uomo e  donna che viene in questo mondo, centro di attrazione per la storia, centro di attrazione per tutte le religioni del mondo. Ogni religione  trova in questa croce il suo punto di arrivo, il suo termine, la fine di  un suo eventuale mandato provvisorio; perché tutto culmina nella  regalità universale ed eterna di Cristo Gesù, nell’alleanza di Dio con  l’umanità, per sempre. Nel cuore del crocifisso, tutto ciò che è “no”  può diventare “sì” e dal tradimento può nascere l’amicizia, dal  rinnegamento il perdono, dall’ odio l’amore, dalla menzogna la verità.

Questa è la forza di Gesù nella e dalla croce.

La nuova azione di Dio nel mondo

L’evento della risurrezione di Cristorisorto

Allo straziante grido di derelizione risuonato sulla bocca di Gesù in  croce – «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» -, grido che  riassume tutte le situazioni di afflizione dell’umanità, risponde nella  notte del sabato santo e nel giorno di Pasqua, un gioioso grido di fede  e di speranza: Cristo è risorto! Di fede perché annuncia ciò che per  sempre è accaduto in Cristo; di speranza perché annuncia ciò che  attende tutti gli uomini e le donne della terra quando lo vedranno  risorto nella pienezza della sua sfolgorante gloria.

La risurrezione di Gesù, infatti, non è come quella di Lazzaro  (raccontata nel vangelo di Giovanni al capitolo 11) che era tornato per  poco in mezzo ai suoi; è una nuova azione di Dio, che non riusciremo  mai a immaginare con la nostra mente, con la nostra fantasia, come  non possiamo immaginare la stupenda realtà che Dio farà di noi alla  nostra morte e al momento della nostra risurrezione. Un’azione di Dio  su Gesù e su di noi, tale che la morte non avrà più alcun potere.  La certezza di quel grido di gioia proclama che ogni abisso di male del  mondo è stato inghiottito da un abisso di bene, che ogni morte ha già il suo contrappeso di vita, che ogni crisi ha già il suo superamento e  ogni tristezza ha già la sua gioia. La nostra esistenza umana è incline  a rimpicciolire le speranze, a ridurle di giorno in giorno di fronte alle  delusioni, e la nostra tristezza ci porta sovente a rifiutare parole di  conforto, perché non abbiamo un’idea esatta della liberazione portata  da Gesù risorto. Il Risorto ha davvero inaugurato un mondo nuovo,  che entra in mezzo a noi in quanto la Pasqua è una ri-creazione, una nuova creazione dell’umanità. La risurrezione di Gesù è un fatto
storico, di significato cosmico, è l’inizio della trasformazione globale  del mondo; è un evento di significato epocale perché trasforma il  senso della storia e ne indica la vera direzione. Un evento unico e  insieme un evento che rivela un’attesa costante e universale, scritta  nel cuore di ogni uomo e di ogni donna.

– Un evento unico: non è mai accaduto un fatto simile di fede nella  risurrezione definitiva e gloriosa di un uomo di cui è stata  documentata la vita, la morte e la sepoltura. Non è accaduto in  nessuna altra religione, benché vi siano state premesse somiglianti a  quelle presenti nella vita terrena di Gesù: capi religiosi da tutti
stimati, dottrine spirituali elevate. Sono tanti gli uomini, nel corso dei  secoli, dei quali si sarebbe voluto sperimentare che vivevano ancora.  Eppure soltanto di Gesù di Nazaret i discepoli, e anche gli avversari,
hanno affermato di averlo incontrato risorto e hanno creduto che egli  vive ora nella pienezza della vita divina mentre resta vicino a noi con  la potenza del suo Spirito.

– Un evento straordinario, ma che manifesta una legge universale.  Esso rivela che la risurrezione di Cristo risponde alle intuizioni, alle  speranze di un destino umano aperto al futuro, viene incontro al  nostro desiderio che la morte non sia l’ultima parola della vita, che la  posa di una pietra tombale non sia l’ultimo atto della nostra  esistenza.

Tale segreta premonizione, tale irrinunciabile speranza appartiene alla  storia degli uomini, è nel cuore di tutti e di ciascuno; ogni persona  umana, a prescindere dalla fede religiosa, vive una sorta di atto di
speranza nella propria durata oltre la morte, e lo vive e lo compie o nel modo della libera accettazione, della fiducia oppure del libero  rifiuto, della sfiducia, dello scetticismo. Ma l’atto di fiducia nella  propria sopravvivenza, anche quando è posto, rimane un protendersi  verso un avvenire ignoto; e quando è negato fa rinchiudere in se  stessi, lascia insoddisfatti, quasi disperati. È lo scoppio storico della  notizia che Gesù è risorto ed è apparso ai suoi, che trasforma le  trepide attese umane in una luce sfolgorante permettendoci di vedere  in lui la primizia della nostra risurrezione, la certezza in una vita che  non verrà mai meno. Nel Risorto è glorificato un frammento di storia,  di cosmo, quale segno e inizio del destino del genere umano e
dell’intero cosmo, dell’uomo e della donna chiamati a formare il  grande corpo dell’umanità risorta in Cristo.

La risurrezione di Gesù ha  quindi il senso di un definitivo essere salvata dell’ esistenza umana, a  opera di Dio e davanti a lui. È vero che nel nuovo orizzonte derivato  dalla risurrezione di Cristo è ancora presente la sofferenza, l’ostilità, la  fatica, la violenza, le guerre, per cui ci si domanda: Ma dov’è il  cambiamento che avrebbe operato il Risorto?

La risposta è semplice:  la Pasqua di Gesù non ci trasferisce automaticamente nel regno dei sogni; ci raggiunge nel cuore per farci percorrere con gioia e speranza  quel cammino di purificazione e di autenticità, di verifica del nostro  comportamento, che ha come traguardo la certezza di una vita che  non muore più. La Pasqua non ci restituisce a un mondo irreale, bensì  a un’ esistenza autentica, un’ esistenza di fede, di speranza, di amore:  una fede che è fonte di gioia e di pace interiore, una speranza che è  più forte delle delusioni, un amore che è più forte di ogni egoismo.

Il  Risorto è con noi e insieme a lui siamo in grado di vincere il male con  il bene, di trarre dal male il bene più grande. Questa è la forza e la  novità della Pasqua.

Il racconto delta risurrezione di Gesù

Nessuno è stato testimone della risurrezione di Gesù; nessuno era  presente nel momento in cui è uscito dal sepolcro. L’evangelista Marco  racconta come Gesù, dopo la sua morte, fu sepolto in una tomba scavata nella roccia. A questa tomba si recano, passato il giorno del  sabato, delle donne che vogliono imbalsamare il corpo del Signore.  Giungono al sepolcro al levare del sole, ma scoprono con sorpresa che  il grande masso posto all’entrata della tomba era stato già rotolato.  Entrano ed ecco un giovane seduto sulla destra, vestito di una veste  bianca, che dice loro: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù  Nazareno, il crocifisso. E risorto, non è qui. Ecco il luogo dove  l’avevano deposto. Ora andate, dite ai discepoli e a Pietro che egli vi
precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto» (Marco 16, 6-7).

Come gli altri evangelisti, Marco si preoccupa di riferire i fatti e le parole; non aggiunge nulla di suo. Qualcuno tuttavia potrebbe  obiettare: ma sarà vero quello che ha detto? la risurrezione di Gesù
non potrebbe essere una leggenda?

Le apparizioni del Risorto

In realtà noi abbiamo delle testimonianze storiche inconfutabili che  attestano le apparizioni di Gesù risorto. I quattro vangeli – di Matteo,  di Marco, di Luca, di Giovanni – descrivono gli incontri con il Risorto  proprio per sottolineare che egli vive ancora in mezzo a noi, cammina  con l’umanità lungo tutti i secoli.

Matteo riferisce l’incontro di Gesù con delle donne (28, 9-10) e con gli  undici apostoli (28, 16-20), Marco l’incontro con Maria di Magdala, con  due discepoli e con gli undici apostoli (16) 9-18); Luca riporta l’incontro di Gesù con i discepoli di Emmaus e con gli apostoli (24, 13- 53); Giovanni l’incontro con Maria Maddalena, con gli apostoli, con  l’incredulo Tommaso e con i discepoli sul lago di Tiberiade (20, 11-29; 21, 1-23).
Luca, nel Libro degli Atti, scrive che Gesù apparve ai suoi per quaranta giorni, parlando del regno di Dio (1-8).

Il più antico documento che possediamo della fede cristiana nella  risurrezione, è un passo della I Lettera di Paolo ai Corinzi: «Vi ho  trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è  risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Pietro  e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in  una sola volta; la maggior parte di essi vive ancora. Inoltre apparve a  Giacomo e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo tra tutti apparve anche a
me» (15, 3-8).

Notiamo che dei quattro verbi attribuiti a Cristo tre sono, nel testo originale greco, in un tempo che indica un fatto avvenuto nel passato  (morì, fu sepolto, apparve); il quarto invece, «è risuscitato», nel testo  greco ha un tempo che indica il permanere di un evento accaduto in  passato, ma che continua ad avere effetti nel presente, nell’ oggi.

Dunque Gesù non solo è risorto, bensì vive ancora adesso per noi e  per il mondo intero. Potremmo dire che, se la risurrezione è il  momento culminante della pienezza della vita e di amore di Dio che si  comunica agli uomini in Cristo Gesù, tale pienezza continua a crescere  attraverso l’accoglienza della grazia del Risorto, che viene fatta  dall’umanità nel suo cammino.

E il Risorto appare ricostituendo una serie di rapporti: con singole  persone, con gruppi, con la folla, donando a tutti la capacità di vivere  relazioni autentiche, di perdonare, di superare le conflittualità presenti
nelle famiglie, nella società, nelle nazioni.

Fermiamoci allora sull’ episodio dell’ incontro di Gesù con Maria di  Magdala:

«Maria stava all’esterno del sepolcro e piangeva, Mentre piangeva, si  chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno  dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato deposto il corpo
di Gesù. Ed essi le dissero: “Donna, perché piangi?”. Rispose loro:  “Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto”,  Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma  non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: “Donna, perché piangi? Chi  cerchi?”. Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse:  “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a  prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”. Essa allora, voltatasi verso di lui,  gli disse in ebraico: “Rabbuni!”, che significa “Maestro!”, Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma  va’ dai miei fratelli e di’ loro: lo salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio  mio e Dio vostro”. Maria di Magdala andò subito ad annunziare ai  discepoli: “Ho visto il Signore” e anche ciò che le aveva  detto» (Giovanni 20) 11-18).

– Maria Maddalena è giunta al sepolcro di buon mattino, ha visto con  sorpresa la tomba vuota e resta presso il sepolcro a piangere perché il  suo amico e Maestro è morto; si accontenterebbe di sapere dove
l’hanno messo. Ella rappresenta l’umanità sempre alla ricerca di un salvatore, ma con una speranza inibita e ristretta, che non osa. La sua  ricerca di Gesù è ancora molto umana: cerca Gesù tra i morti, dove  non c’è. Sovente noi cerchiamo Dio dove non c’è, attraverso modelli di  efficacia umana, di successo, di potere, di soddisfazioni facili.  La ricerca di Maria Maddalena è anche l’immagine di una società  afflitta e smarrita, che desidererebbe almeno riflettere un poco, per  comprendere le ragioni dei suoi mali, per vedere quali sono gli errori  che ha commesso.

– Gesù non è irritato dalla ricerca sbagliata e imperfetta della donna  perché sa che in lei c’è molto amore e un profondo anelito. E, a un  tratto, Maria Maddalena vede con i suoi occhi colui che non credeva  più di vedere, ascolta una voce intensa che non avrebbe mai più  pensato di udire, si sente chiamare per nome: «Maria! ». È significativo che Gesù si riveli a lei non annunciandole l’evento che  lo riguarda: “sono risorto, sono vivo”, ma pronunciando il nome:  “Maria!”. Si tratta di una rivelazione personale, esistenziale, che  infonde non solo la certezza che Cristo è vivo, bensì la coscienza di  essere da lui conosciuta veramente, nella sua pienezza e dignità.  Quello di Gesù è un appello discreto di libertà, espresso con il nome  che indica meglio l’interiorità. Così Gesù vuole incontrare ogni uomo:  avvicinandosi, correggendo le ricerche incerte, confuse, maldestre,  rivelando il suo amore e chiamando per nome. Ciascuno di noi può  fare l’esperienza del Risorto, scoprirne i segni pur se sente nel cuore  poca speranza e se sul suo volto scendono lacrime. È nell’interiorità  che possiamo scoprire l’amore di Dio; è dentro di noi che possiamo
sentirci chiamati e restituiti alla nostra identità profonda, alla nostra  vocazione di figli di Dio.

Dunque l’evangelista Giovanni ci trasmette che la prima creatura a  scoprire i segni del Risorto è stata una donna piena di sensibilità, di  affetto, di tenerezza. Una donna colma di quell’anelito, di quel  desiderio di andare al di là della morte e della finitudine umana, che   sperimenta ogni persona quando, per esempio, nelle sue giornate  prende delle decisioni coraggiose e oneste, senza che da esse gli  venga alcun vantaggio per la vita presente, traendone anzi perdita e  talora danno. E in occasione di simili atti che comprendiamo di dover  compiere in maniera assoluta, senza ritorni umani e senza costrizioni  esterne, che affermiamo, almeno implicitamente, l’esistenza di  qualcosa al di là, che magari non riconosciamo ancora in parole o in  concetti religiosi e tuttavia guida ogni azione onesta e disinteressata  facendoci intuire come i conti che quaggiù non tornano, alla fine  torneranno.

Questa forza interiore e questa speranza sono un grido verso il  Risorto, sono la ricerca coltivata da Maria presso la tomba: la sua  ricerca confusa e incerta è preziosa, è esperienza ineliminabile di una  persona umana giunta a un minimo di autenticità e di onestà con se stessa e con la vita. La forza interiore e la speranza sono l’antidoto di  cui abbiamo bisogno contro il decadimento sociale, morale, civile e  politico, un decadimento che tende a mandare in frantumi l’unità  culturale e civile di un popolo, che tende a far perdere il senso delle  ragioni per stare insieme e lavorare per lo stesso scopo, nella stessa  direzione.

Per uscire dal cerchio infernale del degrado sociale e politico occorre  che il cuore appesantito, come quello di Maria Maddalena che piange,  sia mosso da una grande e concreta speranza, non legata a  circostanze contingenti, a rimedi di corto livello sui quali siamo fin troppo portati allo scetticismo. Gesù che appare alla donna ci invita a  cambiare modo di pensare e di vedere, ad accettare che l’amore di Dio  dissolve la paura, che la grazia rimette il peccato, che l’iniziativa di  Dio viene prima di ogni sforzo umano e ci rianima, ci rigenera  interiormente.

– Un’altra apparizione del Risorto può essere ricordata: l’incontro con  due discepoli:

«In quello stesso giorno – quello della scoperta della tomba vuota, la  domenica della risurrezione – due discepoli erano in cammino per un  villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome  Emmaus, e conversavano di tutto quello che era accaduto. Mentre  discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e  camminava con loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. Ed  egli disse loro: “Che sono questi discorsi che state facendo tra voi  durante il cammino?”. Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di  nome Clèopa, gli disse: “Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da  non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?”. Domandò: “Che  cosa?”. Gli risposero: “Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu  profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo;  come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo  condannare a morte e poi l’hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse  lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando  queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno  sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo
corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i  quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al  sepolcro e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non  l’hanno visto”.
Ed egli disse loro: “Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei  profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per  entrare nella sua gloria?”. E cominciando da Mosè e da tutti i profeti
spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Quando furono  vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare  più lontano. Ma essi insistettero: “Resta con noi perché si fa sera e il
giorno già volge al declino”. Egli entrò per rimanere con loro. Quando  fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo  diede loro. Allora si aprirono gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì
dalla loro vista. Ed essi si dissero l’un l’altro: “Non ci ardeva forse il  cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando  ci spiegava le Scritture?”» (Luca 24, 13-32).

Possiamo cogliere in questo racconto quattro esperienze umane  fondamentali: il camminare, l’ospitalità, la frazione del pane,  l’apertura degli occhi.

– Tutto si svolge durante un cammino, cioè nell’esperienza  dell’itineranza, dell’andare verso un luogo: «due di loro erano in  cammino». L’evangelista Luca parla spesso di Gesù come “colui che fa  cammino”, che è in cammino. Anche il particolare che quando Gesù  pone la domanda, i due si fermano e poi riprendono a camminare,  rivela che viene data molta importanza a questa esperienza sotto la  quale può essere vista la storia di ogni uomo. La vita umana è un  dinamismo, va in avanti, è protesa verso una direzione e Dio viene
incontro all’uomo per accompagnarlo e per camminare con lui.

– L’ospitalità, l’accoglienza è un altro simbolo primario e antichissimo  dell’uomo che supera l’istintivo timore del viandante che bussa alla  porta. Qui è espressa con parole meravigliose: «Rimani con noi»,  dicono i due a Gesù, non andartene, vogliamo stare insieme. La loro  diffidenza iniziale verso lo sconosciuto si scioglie lentamente sino a  diventare fraternità: vieni a casa mia, che tu sia mio ospite. In oriente  l’ospitalità è uno dei pilastri del costume, è il modo di essere uomini  veri: saper accogliere chiunque, a qualunque ora, in qualunque  tempo, senza mai irritarsi, preparando subito tutto con gioia, è un  preciso dovere dell’ orientale. Ed è un simbolo che ci interpella, che  interpella gli abitanti delle nostre grandi città che, vivendo magari  nello stesso caseggiato, con gli appartamenti sulle stesse scale, si  ignorano per anni, non avvertono il bisogno di frequentarsi, di  conoscersi, di accogliersi.

– Anche la frazione del pane ha una sua simbologia umana e storica:  «Mentre si sedevano con lui, prese del pane, lo benedisse, lo spezzò e  lo diede loro». La partecipazione del medesimo pane è più dell’ospitalità, è la condivisione della mensa che rende veramente fratelli,  è come una cerimonia di alleanza, di amicizia: metto in comunione  con te il pane che è un mio bene. Luca, con la frase, «spezzò il pane»
ha in mente l’Eucaristia, vuole sottolineare che Gesù, ormai Risorto e vivo, si dona ai due manifestandosi nella carità perfetta dell’Eucaristia.  Ma la condivisione è, di fatto, un simbolo umano e per questo Gesù
l’ha scelto come simbolo eucaristico, come segno del dono della sua  vita all’uomo.

– L’apertura degli occhi è in opposizione al tema della chiusura degli  occhi: «i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo», erano come accecati. Anche Maria di Magdala, in un primo momento, aveva  scambiato Gesù per il custode del giardino. Come mai, pur  conoscendo bene il suo volto, pur essendo suoi fedeli discepoli, non  capivano che era Gesù? Gli occhi di Maria erano chiusi dalle lacrime,  dal dolore, dalla ricerca sbagliata; i due di Emmaus sono accecati dall’ aver perso ogni speranza, dal non aver compreso le parole di Dio  contenute nella Scrittura. A un tratto «si aprirono i loro occhi e lo  riconobbero». L’uomo, immerso nella quotidianità pesante, non vede  le meraviglie dell’ amore di Dio che lo circondano, non sa leggere la  Scrittura in modo retto, teme che il Dio di Gesù Cristo, di cui sente  parlare, gli impedisca di essere felice, di vivere come intende vivere.

Quando invece, nel suo cammino di ricerca faticosa, apre gli occhi, per  la grazia del Risorto, allora scopre con stupore e con gioia che Dio gli  è amico, gli è Padre, che Gesù gli è fratello, che la fede è chiave di
vita veramente umana. I due discepoli conoscevano le Scritture, ma  non ne avevano colto il significato più profondo. Gesù gliele spiega,  spiega il mistero dell’uomo, della storia, degli avvenimenti, delle vicende ed ecco che il loro cuore arde: «Non ci ardeva forse il cuore  nel petto… quando ci spiegava le Scritture?». TI fuoco che brucia  produce scuotimento, sconvolgimento interno, emozione forte; è  l’esperienza che nasce dall’ ascolto vero della Parola di Dio. Ora hanno capito che ogni pagina della Bibbia, dal primo all’ultimo Libro, contiene  quella Parola vivente che è Gesù morto e risorto.  Ne consegue un insegnamento prezioso: è fondamentale conoscere la  Scrittura per scoprire l’amore di Dio per l’uomo e la sua lunga storia  d’amore per noi che si è dispiegata nella storia della salvezza.

Nell’insieme, l’apparizione di Gesù ai due discepoli ci ricorda che  l’uomo è un essere in cammino e bisognoso di significato; che in  questo cammino è chiamato a riconoscere la Parola di Dio che lo
incalza, lo interpella continuamente sulla direzione del suo viaggio per  spiegargliene il senso; che la libertà e la felicità dell’uomo consiste  nell’ accogliere questa Parola, nel non rifiutarla, nell’ aprire gli occhi e
il cuore al disegno di Dio rivelatoci pienamente nel mistero del suo Figlio Gesù morto e risorto per noi, vivo e operante in mezzo a noi.

Il Risorto crocifisso e l’eternità nel tempo storico

L’evento della Pasqua – che si rinnova in ogni celebrazione eucaristica  – chiede ai cristiani di essere persone capaci di dire all’umanità: Non  temere, donna, non piangere! Ora sai dove conduce il cammino della  vita, ora sai che il tuo Signore è con te. Non dobbiamo tuttavia  dimenticare che il Risorto è per sempre il Crocifisso e sta davanti al Padre come colui che è passato per amore attraverso la passione e la
morte di croce. Il Risorto, infatti, allorché apparve agli apostoli  «mostrò loro le mani e il costato» trafitti, come sappiamo dal vangelo  di Giovanni, al capitolo 20,19-29. E tornando da loro dopo otto giorni,
all’apostolo Tommaso, che alla prima apparizione di Gesù non era  presente e si rifiutava di credere che era ancora vivo, disse: «Metti  qua il tuo dito e guarda le mie mani, stendi la tua mano e mettila nel mio costato, e non essere più incredulo ma credente!».

Il mistero pasquale comprenderà dunque per tutta l’eternità,  inscindibilmente, morte e risurrezione perché Dio ha scelto di salvarci  così, si è manifestato amico dell’uomo attraverso l’amore crocifisso del
Figlio, si è spogliato nel Figlio diventato povero per rendere credibile il  suo amore per noi. Alla domanda antica e nuova dell’uomo – che cosa  sarà di me dopo la morte? -la fede cristiana non risponde quindi
assicurando semplicemente che tutto continuerà dopo la fine del  tempo, che tutto ci verrà restituito; sarebbe una risposta incompleta.

La fede cristiana afferma che l’eternità, la vita nuova, vera e definitiva è già entrata con la Pasqua di Cristo nella mia esperienza, è da me  vissuta qui e adesso nella indistruttibilità dei gesti che io pongo – di
fedeltà, di pace, di amore, di perdono, di amicizia, di onestà, di libertà  responsabile.

Sono gesti in cui, nel tempo, l’uomo supera il tempo raggiungendo  l’eternità, nella misura in cui si affida alla vita e all’ eternità del  Crocifisso Risorto che ha vinto la morte. La Risurrezione di Gesù non è  soltanto ciò che ci attende dopo la morte; è un fatto pasquale  presente, che si attua giorno dopo giorno in colui che crede e che  spera, che soffre e che ama, che si lascia guidare dalla Parola nel  quotidiano per seguire Gesù il quale, mediante la passione e la morte,  compie il passaggio da questo mondo al Padre.

Ogni volta che prendiamo coraggiosamente una decisione buona, eticamente rilevante, noi interiorizziamo l’eternità grazie all’ eternità  di Gesù entrata in mezzo a noi. Possiamo allora riscattare l’angoscia  del tempo sapendo che i nostri atti di dedizione hanno un valore  definitivo, depositato nella pienezza del corpo risorto di Cristo.  E riusciamo, in qualche modo, a cogliere anche il dramma di  comportamenti non etici, perché pure in essi si attua l’irrevocabilità.  Possono essere atti compiuti dall’uomo per leggerezza, per  incoscienza e allora vengono riscattati dalle fatiche e dai dolori che  ogni vita comporta. Possono essere invece atti che afferrano la   persona nella sua totalità, che la “fissano” nel male, nel rifiuto di Dio e  degli uomini. Da tali atteggiamenti globali negativi dell’uomo ci si  salva solo per la strapotenza del Crocifisso Risorto. E se ci fossero  situazioni di ribellione permanente e ostinata nei riguardi di Dio, il  Risorto ci lascia comunque sperare, contro ogni speranza, che la  misericordia divina è infinita. Perché Dio è il Padre che ci ama per
primo, che si dona a noi in Gesù ancor prima di ogni attesa e speranza  umana, che ci perdona gratuitamente; Dio è Colui da cui tutto viene,  tutto dipende, a cui tutto tende e tutto ritorna.

Tratto da : RITROVARE SE STESSI  – “UN PERCORSO QUARESIMALE”

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il commento al vangelo della domenica

PERCHE’ CERCATE TRA  MORTI COLUI CHE E’ VIVO? 

risorto

 

commento al vangelo della domenica di pasqua (27 marzo 2016) di p. Alberto Maggi:

maggi

Lc 24,1-12

Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato. Trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro; ma, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù. Mentre erano ancora incerte, ecco due uomini apparire vicino a loro in vesti sfolgoranti.
Essendosi le donne impaurite e avendo chinato il volto a terra, essi dissero loro: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea, dicendo che bisognava che il Figlio dell’uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno». Ed esse si ricordarono delle sue parole.
E, tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri. Erano Maria di Màgdala, Giovanna e Maria di Giacomo. Anche le altre che erano insieme lo raccontarono agli apostoli. Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento e non credettero ad esse.
Pietro tuttavia corse al sepolcro e chinatosi vide solo le bende. E tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto.

Il capitolo 24 è il capitolo dove l’evangelista ci descrive la risurrezione di Gesù e il suo impatto con la fede dei discepoli, la loro difficoltà nel comprendere questo. Ma il capitolo 23 terminava con questa annotazione: Il giorno di sabato osservarono il riposo secondo il comandamento. Sono le donne che erano andata al sepolcro a vedere dove Gesù era stato seppellito, ma non procedono all’unzione, all’imbalsamazione di Gesù perché è già sabato. E di sabato non si può fare alcun lavoro.
L’evangelista denuncia come la comunità faccia difficoltà ad abbandonare l’antico, ancora osservano il comandamento del riposo del sabato, per aprirsi alla novità portata da Gesù. L’osservanza della legge impedisce di fare l’esperienza del Cristo risorto. Scrive l’evangelista al capitolo 24:  Il primo giorno della settimana. Questo primo giorno richiama il primo giorno della creazione. E’ una creazione nuova, dove l’uomo ha una vita che è capace di superare la morte.
Al mattino presto essi si recarono al sepolcro, portando con sé gli aromi che avevano preparato. Appunto il giorno di sabato non erano riusciti a farlo per l’osservanza del comandamento. Trovarono che la pietra  era stata rimossa dal sepolcro. L’evangelista non specifica le modalità. E, entrati, non trovarono il corpo del Signore Gesù. E’ chiaro che non trovano il corpo del Signore Gesù perché cercano Gesù nell’unico posto dove non può stare. Gesù è il vivente, il vivificante e non può stare nel regno della morte, nel luogo dei morti.
Mentre si domandavano che senso avesse tutto questo, ecco due uomini …. Questi due uomini già li abbiamo visti nell’episodio della trasfigurazione. Erano Mosè e Elia; è una tecnica dell’evangelista Luca di nominarli soltanto la prima volta che appaiono. Quindi indicano Mosè e Elia.
Presentarsi a loro in abito sfolgorante, lo stesso della trasfigurazione. Le donne impaurite tenevano il volto chinato a terra, ma quelli dissero loro … E quello che adesso l’evangelista mette in bocca a questi due personaggi è una grandissima verità di fede che riguarda non solo l’esperienza del Cristo risorto, ma riguarda la vita di tutti i credenti e il loro impatto con la morte. “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?” Il sepolcro è l’ultimo posto dove potevano trovare Gesù. Se si crede che la morte, non solo non interrompe, ma permette all’individuo di entrare in una condizione nuova, piena e definitiva, il sepolcro, la tomba è l’ultimo posto dove lo si può trovare.
Quando muore una persona cara, anche se doloroso, bisogna scegliere se piangerla come morta o sperimentarla come viva. Se si piange come morta si va al sepolcro, ma lì al sepolcro non c’è, bisogna sperimentarla come viva. Ecco allora il monito di questi due. “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?” Non si può cercare tra i morti colui che continua a vivere.
“Non è qui, è risorto. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea”, e rimanda le donne, le discepole all’insegnamento di Gesù. “Dicendo che bisognava… “, questo termine in lingua greca indica la volontà di Dio, il disegno di Dio, “… che il Figlio dell’uomo”, non si parla del messia, ma del Figlio dell’uomo, cioè l’uomo che ha raggiunto la condizione, che non è una caratteristica esclusiva di Gesù, ma una possibilità per tutti coloro che lo seguono. E qui l’evangelista mette un’accusa tremenda nei confronti della casta sacerdotale al potere.
“… Per tutti  sia consegnato in mano ai peccatori”. Quando Gesù in Galilea aveva annunziato la sua morte, aveva detto: “Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti, dagli scribi”, cioè i componenti del sinedrio, il massimo organo giuridico di Israele, “essere messo a morte e risorgere il terzo giorno”.
Quelli che Gesù aveva indicato come i componenti ora in bocca a questi due personaggi sono i peccatori. Le persone che si ritenevano le più vicine a Dio, le più lontane dal mondo del peccato, in realtà queste sono i peccatori, perché hanno ucciso la vita, hanno agito contro la vita.
Ed esse si ricordarono delle sue parole. Ricordare nel senso di comprendere.  E, tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo agli Undici. Non sono più dodici, il numero non sarà ricostituito. E a tutti gli altri. Erano Maria Maddalena, che l’evangelista ci ha presentato come la donna dalla quale sono usciti i sette demoni, Giovanna, la moglie di Cusa, esattore delle finanze di Erode, e Maria madre di Giacomo. Anche le altre che erano con loro raccontarono queste cose agli apostoli.
Ecco la reazione degli apostoli. Queste parole parvero loro come un vaneggiamento e non credevano ad esse. Perché? Perché le donne non sono credibili come testimoni. Secondo la tradizione ebraica Dio non aveva mai parlato con nessuna donna. E’ vero, aveva parlato a una donna, Sara, ma siccome questa gli  aveva risposto con una bugia, una innocua bugia, da quel momento Dio non rivolse più la parola a nessuna donna.
E per la bugia di Sara le donne non erano ritenute testimoni credibili. Ebbene l’annuncio della risurrezione viene fatto proprio a persone che non sono credibili. Pietro tuttavia si alzò, corse al sepolcro … ha appena detto che nel luogo dei morti non ci può essere Gesù, ma Pietro ancora non comprende e corre al sepolcro.
E chinatosi vide soltanto i teli. E tornò indietro pieno di stupore per l’accaduto. Il credere che Gesù è risuscitato non viene andando a vedere un sepolcro vuoto, ma incontrando un vivente. E si incontra il vivente, e poi l’evangelista continuerà nel prossimo episodio di Emmaus, quando Gesù spezza il pane. Quando si spezza la propria vita per gli altri lì c’è la possibilità di sperimentare colui che è risorto.

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la guerra è sempre sporca

il comunicato di Pax Christi International e il commento del segretario generale della Cei

 

la guerra sporca

Tonio Dell’Olio

Tonio Dell'Olio

Quella in atto è una guerra sporca. Non che ce ne siano di pulite. Ma così bisogna definire la guerra condotta in maniera indiscriminata che colpisce senza selezionare troppo gli obiettivi secondo la strategia tipica del terrorismo. Duole dirlo in queste ore, proprio mentre si sta facendo ancora il conto preciso delle vittime degli attacchi all’aeroporto e alla metropolitana di Bruxelles, ma la logica è la stessa dei bombardamenti che colpiscono dall’alto senza riuscire a discriminare con assoluta esattezza gli obiettivi. Per questo dobbiamo prendere coscienza di trovarci all’interno di una guerra sporca.
Perché è lontana più di mille anni luce persino da quelle norme internazionalmente riconosciute per regolare i conflitti (jus in bello) e non ha nulla a che vedere con la guerra in cui solo pochi cavalieri si affrontavano sul terreno a nome e per conto della loro fazione. “Siamo” in guerra significa che non siamo solo vittime ma anche soggetti attivi. La stiamo combattendo. E forse c’è da pentirsi per aver investito molte più risorse nel rendere sempre più mortali e invincibili i sistemi di combattimento piuttosto che affinare strategie e mezzi di spionaggio e prevenzione. Ci rendiamo conto oggi che questi si sarebbero rivelati molto più utili di quegli altri. Ci rendiamo conto che se ci fossimo impegnati di più a controllare commercio e traffico delle armi… Ci rendiamo conto che se non avessimo condotto un’economia di rapina e avessimo piuttosto – noi europei – rafforzato cooperazione e dialogo, avremmo meno nemici e più alleati in giro per il mondo.
(fonte: Mosaico dei giorni 22 marzo 2016)
Pax Christi Italia è una sezione di Pax Christi International che ha la sua sede a Bruxelles.
 
In queste ore con loro abbiamo condiviso il dolore, la preoccupazione, la solidarietà con le vittime degli attentati e il rinnovato impegno per non cedere alla logica di una violenza cieca che porta solamente ad altra violenza e alla distruzione dell’umanità.
Firenze, 22 marzo 2016  Pax Christi Italia
 
Comunicato di Pax Christi International
sugli attacchi terroristici di Bruxelles
 
Pax Christi International, con il suo Segretariato internazionale a Bruxelles, in Belgio, è scioccata dagli attacchi violenti che hanno ucciso molte persone e provocato centinaia di feriti in aeroporto e nelle stazioni della metropolitana di Bruxelles, soprattutto nella metro di Maelbeek che è vicino alle istituzioni dell’Unione europea.
 
Pax Christi International condanna con forza questi atti terroristici e esprime profonda solidarietà alle vittime e alle loro famiglie.
 
Preso atto, di fronte a questa tragedia, di quanto l’uomo sia in grado di distruggere la vita e calpestare la dignità umana, riaffermiamo il nostro impegno ad essere guidati non dalla paura e l’odio, che sono i semi del terrore e della guerra, ma dalla carità e dalla nonviolenza.
 
Nonostante la tragedia e la perdita di vite umane, non perderemo la speranza. Siamo convinti che il terrore non prevarrà, e la memoria di coloro che sono stati uccisi ispirerà soluzioni efficaci in risposta alla violenza cieca.
 
Confermiamo la nostra determinazione a sostenere le vittime della violenza e del terrore in molti paesi del mondo; a continuare a promuovere le condizioni per la pace; e a sostenere lo sviluppo di una comunità umana che includa la giustizia sociale, lo stato di diritto e la sicurezza umana. Chiediamo il rafforzamento di metodi nonviolenti per la gestione dei conflitti e contro il terrore e che gli autori siano ritenuti responsabili.
 
Preghiamo per le vittime, le loro famiglie e le loro comunità, e siamo solidali con le persone e organizzazioni in tutto il mondo per cercare di affrontare le cause profonde della violenza e del terrore.
 
Nell’anno della misericordia, noi ci impegniamo come Movimento a promuovere la riconciliazione in questo mondo devastato.
Bruxelles, 22 Marzo 2016  Pax Christi International
 
La Chiesa italiana si unisce al coro di condanna del nuovo, efferato episodio di violenza terroristica di Bruxelles. Mons. Nunzio Galantino ribadisce: la violenza si combatte con politiche di integrazione, non di respingimento. Il commento del segretario generale della Cei 
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cos’è propriamente ‘spiritualità cristiana’

“la vita spirituale : incontro con Gesù”

Carlo Molari

Molari

A che cosa ci riferiamo quando parliamo di spiritualità?  Nell’uso comune a volte la riduciamo ad una pratica religiosa o all’osservanza di un insieme di leggi e quindi a comportamenti morali. Spiritualità è qualcosa di più profondo.

Quando parliamo di spiritualità ci riferiamo ad una qualità di vita, ad una modalità di vedere la realtà e di vivere le esperienze, di impostare quindi il proprio cammino. La qualità della vita che chiamiamo spiritualità non è caratteristica di per sé delle religioni. Esistono anche spiritualità atee. Cerchiamo quindi di precisare.

 1. Il nuovo orizzonte culturale

Affrontiamo il problema in una prospettiva dinamica ed evolutiva a differenza di quanto avveniva nei secoli scorsi nei quali dominava la prospettiva statica. Il Vaticano II ha riconosciuto che “l’umanità sta passando da una concezione piuttosto statica della realtà ad una più dinamica ed evolutiva” ed ha previsto che tale cambiamento avrebbe suscitato “una congerie di problemi che avrebbero richiesto nuove analisi e nuove sintesi” (GS. 5).

Si tratta di un grande cambiamento. Nella visione statica della realtà si pensava che la natura delle cose fosse già determinata e fissata fin dall’inizio in modo perfetto. Quanto all’uomo poi si pensava che l’anima fosse creata immediatamente da Dio per ogni persona e fosse spirituale e per natura immortale. In alcuni ambienti sotto l’influsso di Platone si pensava addirittura che fosse già preesistente.

Il problema era capire come si stabiliva il rapporto tra anima e corpo. La spiritualità era quindi la vita dell’anima, già “infusa” o “creata” fin dall’inizio. Tutte le formulazioni dottrinali della nostra fede sono sorte in questo orizzonte. Il lavoro che la Chiesa sta facendo in questi decenni nasce proprio dall’esigenza di riformulare le dottrine di fede in modo corrispondente ai nuovi modelli culturali dato che la prospettiva evolutiva è un dato essenziale della nostra cultura.

Non mi riferisco direttamente alle teorie evoluzioniste di Darwin, ma alla visione complessiva della realtà. Nei mesi scorsi è uscito un libro dal titolo “Nati per credere”, di tre professori universitari secondo i quali anche la fede in Dio è risultato dell’evoluzione della specie. Nati per credere (Torino, Codice 2008) ed è scritto a sei mani da uno psicologo esperto dei processi cognitivi (Vittorio Girotto Università IUAV di Venezia), da un filosofo della scienza esperto di evoluzionismo (Telmo Pievani, Universi¬tà Milano Bicocca) e da un etologo esperto di cognizione animale e neuroscienze comparate (Giorgio Vallortigara, Università di Trento). Essi sono convinti che “la teoria darwiniana dell’evoluzione rappresenta uno dei maggiori successi scientifici di ogni tempo” (p. VII), ma debbono costatare che “il nostro cervello sembra «specificamente progettato per fraintendere il darwinismo»” (ib., La citazione tra virgolette è del noto biologo inglese neodarwinista Richard Dawkins, che essi citeranno più volte).

Secondo la prospettiva darwiniana c’è un progetto nella natura, ma non c’è un progettista, perché il progetto si costruisce casualmente, attraverso tentativi spesso infruttuosi. Dobbiamo accettare questo orizzonte culturale. L’azione di Dio non può essere accolta compiutamente in un istante dalla creatura in processo, ma solo a frammenti nella successione del tempo. Per questo il male e l’imperfezione accompagna il cammino umano finché “Dio non sarà tutto in tutti” (1 Cor. 15,28). Nei processi della creazione e della storia ci sono anche situazioni insensate. La sfida che oggi come credenti dobbiamo accogliere è quella di saper affrontare la sfida della casualità e del nonsenso.

La spiritualità in questi casi, come vedremo, significa introdurre il senso che non c’è.

2. Vita spirituale

Sviluppare la vita spirituale significa sviluppare quelle qualità nuove di vita che fioriscono quando si scopre che in gioco nella vita c’è una  forza più grande di noi e che nessuna creatura risponde alla tensione profonda che l’uomo porta con sé.

Quando si giunge a questa scoperta, che è già un traguardo di maturità, cambia completamente la prospettiva con cui si affronta la vita e si attraversano le diverse situazioni. Comincia a svilupparsi un atteggiamento di fiducia nella “forza arcana”, come l’ha chiamata il Concilio (cfr. Vat. II Nostra Aetate, n. 2) che tutte le religioni in vario modo riconoscono.

Nel cammino della nostra esistenza scopriamo che abbandonandoci con fiducia a questa forza arcana, cominciamo a vivere le esperienze in modo nuovo. A quel punto si sviluppa la dimensione spirituale della persona. Parlando quindi di vita spirituale non ci riferiamo tanto a pratiche religiose, ad alcune modalità di preghiera, o all’osservanza di leggi morali, quanto ad una qualità nuova dell’esistenza, ad un modo particolare di vedere la realtà, di vivere le relazioni. E’ possibile pertanto praticare la religione anche con una certa continuità, ma non sviluppare una vera e propria attitudine spirituale.

Agli scribi e ai farisei Gesù rimprovera proprio di osservare leggi morali con fedeltà, ma di non vivere un autentico rapporto con Dio. Emblematica a questo proposito è la parabola del capitolo 18 del terzo Vangelo. Cfr. Lc. 18: “la differenza tra i due che salgono al tempio a pregare è molto netta. Il fariseo in piedi prega Dio dicendo: ti rendo grazie, Padre, perché non sono come gli altri. Elenca le opere che egli compie. Gesù dice: tornò a casa non giustificato, non in corretto rapporto con Dio. Il pubblicano invece, piegato a terra invoca misericordia: “abbi pietà di me peccatore”. Ha un atteggiamento di accoglienza, di ascolto, di interiorizzazione, consapevole che c’è una forza più grande in gioco nella storia degli uomini e nella vita personale. Gesù dice che “tornò a casa giustificato”.

Il passaggio dalla vita psichica all’uomo spirituale (cfr. Paolo 1Cor. 2, 14-16) avviene proprio quando non si è più centrati su di sé, ma ci si affida ad una forza più grande e si assume un particolare atteggiamento di accoglienza fiduciosa.

Quando avviene questo passaggio non scompare la vita psichica, ma comincia a fiorire una dimensione nuova, si è “condotti dallo Spirito” come dice Paolo (Rom. 8,14): “Coloro che sono condotti dallo Spirito, costoro sono figli di Dio”.

Questo passaggio avviene attraverso una conversione, attraverso un  cambiamento profondo di vita. Non avviene all’inizio, richiede un lungo cammino, a meno che non ci siano condizioni particolari (Si pensi ad es. alle particolari condizioni famigliari in cui è cresciuta S. Teresa di Gesù Bambino). Questo atteggiamento può essere anche ateo, anche laico, perché non sempre questa forza arcana viene concepita in modo personale ed è chiamata Dio.

 3. Come si qualifica la spiritualità cristiana.

La spiritualità cristiana è teologale: riconosce che la forza arcana della vita si esprime come amore e ha quindi carattere personale. Inoltre è cristologica, si sviluppa cioè in riferimento alla modalità con cui Gesù ha vissuto il rapporto con il Padre: “tenendo fisso lo sguardo su di lui”.

La lettera agli ebrei utilizza due volte questa espressione: “Fissate bene lo sguardo in Gesù, l’apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo” (Eb. 3,2); “tenete fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede” (Eb 12, 2). Vivere il rapporto con Dio tenendo fisso lo sguardo su Gesù caratterizza in modo particolare l’esistenza cristiana immergendola nel tempo. Ne consegue che la spiritualità cristiana ha una triplice modulazione corrispondente alle tre dimensioni del tempo: passato, presente e futuro. Non siamo in grado di accogliere tutta la grandezza della parola in un solo istante. Noi siamo frammento che si succede. Possiamo accogliere il dono di Dio solo nel tempo. È la legge dell’incarnazione. Siamo chiamati a vivere l’atteggiamento di affidamento fiducioso in rapporto al tempo, non cercando di uscire dalla storia.

Questo spiega perché il rapporto con Dio vissuto in riferimento a Gesù si è tradotto in tre modulazioni: fede, speranza, carità. Già S. Paolo nel primo documento scritto pervenutoci dell’esperienza cristiana nelle prime righe ricorda questa triade: Scrive ai tessalonicesi nel 50 e.v.: “memori del vostro impegno nella fede, della vostra operosità nella carità, e della vostra costante speranza nel Signore nostro Gesù Cristo” (1 Tess. 1,3). Poco tempo dopo scrivendo ai Corinzi Paolo afferma che queste sono “le tre cose che rimangono” (1Cor. 13,13).  Secondo le tre dimensioni del tempo la dimensione teologale si esprime come fede, speranza, carità.

La fede è l’accoglienza della parola di Dio come ci viene testimoniata dalle generazioni precedenti e volge perciò lo sguardo al passato. Con la speranza ci rivolgiamo al futuro per attendere il compimento e rendere possibile il divenire della  salvezza. Tutto questo a vissuto nel piccolo istante del presente nel quale l’eterno si affaccia al nostro camino offrendoci il dono di vita da offrire ai fratelli, che è appunto la carità.

Questo processo si realizza non in un luogo sacro, bensì in ogni momento. Si tratta di imparare attraverso la preghiera a rimanere in sintonia con l’azione di Dio, altrimenti rischiamo di cadere nell’idolatria, cioè di considerare quale fonte o ragione della nostra esistenza le ricchezze, la tecnica, il cibo, il potere ecc. Nella preghiera invece diciamo che la ragione della nostra vita è l’incontro con Dio, per non perdere  l’atteggiamento di questa forza che ci fa crescere come figli di Dio.

Il cammino teologale, infatti, ha come traguardo la nostra identità di figli di Dio. Siamo già figli, ma in modo ancora incompiuto e provvisorio: “ciò che saremo non è stato ancora rivelato” (1 Gv 3, 3). Possiamo anche fallire nel cammino del compimento e non pervenire all’identità filiale. La possibilità del fallimento è uno degli insegnamenti innegabili del NT, che si è sviluppato come la dottrina dell’inferno, secondo la visione del mondo che allora avevano. Ma il nucleo essenziale afferma la possibilità di fallire nel nostro processo di crescita spirituale, di vivere solo in superficie e di non sviluppare le strutture dell’eternità.

Noi non siamo ancora viventi in modo definitivo: siamo un tentativo provvisorio che Dio fa di renderci sue immagini permanenti. In questa fase dobbiamo sviluppare la dimensione spirituale, le strutture della vita eterna, altrimenti non siamo in grado di attraversare la morte e di pervenire alla forma ultima di esistenza umana.

4. Spiritualità adulta.

In questa prospettiva comprendiamo qual è il criterio fondamentale per giudicare una spiritualità adulta, che ha superato i limiti delle fasi precedenti della vita. La persona raggiunge la sua maturità quando è in grado di confrontarsi con la morte, quando cioè ha maturato quelle capacità che gli consentono di vivere tutte le situazioni in modo da saper morire.

Ci chiediamo quindi quali sono i criteri con cui valutare se possiamo vivere la morte in modo umano, da figli di Dio. Quali sono i criteri che consentono di attraversare le molte situazioni dell’esistenza che sono anticipazioni della morte. Ci sono situazioni disordinate, caotiche nella storia, ingiuste. C’è il peccato. Dobbiamo imparare a vivere tutte  le situazioni in modo positivo e salvifico. Non perché siano sempre positive o corrispondano ad un progetto divino. Perché ci sono molte situazioni insensate. Ma l’amore di Dio ci offre la possibilità di attraversare quelle situazioni sviluppando la nostra dimensione spirituale, in modo da rendere sensate anche le situazioni insensate, e salvifiche anche le situazioni ingiuste.

Se uno è odiato è una situazione ingiusta. Ma se l’odio è un fatto dobbiamo chiederci come viverlo in modo da crescere. Come vivere la croce, che come tale è contraria al volere di Dio, ma che pure esiste. Gesù afferma esplicitamente di essere venuto (Mc. 1, o di essere stato mandato Lc. 4, 42) “per predicare il regno di Dio”. Ma gli uomini hanno rifiutato l’annuncio del regno e Gesù si è trovato ad annunciare il Regno di Dio in una situazione ingiusta, contraria, violenta, insensata.

Anche a noi è chiesto di essere capaci di dare senso alle situazioni insensate, di attraversare la violenza e l’odio annunciando l’amore.

4.1 I criteri della maturità desunti dalla morte.

Se morte è il traguardo della nostra avventura terrena, essa ci offre anche i criteri per l’orientamento del cammino. Ne possiamo esaminare cinque.

– il criterio dell’identità. Di fronte alla morte non sarà importante che cosa abbiamo realizzato nel mondo, quali opere abbiamo compiuto, bensì chi siamo diventati attraverso tutto quello che abbiamo vissuto. La morte ci chiederà: chi sei? chi sei diventato? Che nome stai abitando? Questo è il criterio fondamentale. Oggi perciò non serve chiedersi: cosa sto realizzando? Che risonanza ha quello che faccio? Dobbiamo piuttosto chiederci: chi sto diventando vivendo questa esperienza? questo fallimento, questa calunnia, o questo successo?

– il criterio del distacco. La morte ci chiederà di abbandonare tutto, di aver imparato a distaccarci dalle cose, dalle persone, dalle situazioni, perché dovremo abbandonare tutto. Più ci alleniamo al distacco e più acquistiamo l’identità filiale, cioè accogliamo il dono di Dio che ci rende figli.

– l’interiorizzazione nei rapporti. La morte ci chiederà di partire in solitudine, ma pieni di presenze. Ci chiede perciò di vivere i rapporti in modo tale da portarci gli altri dentro, senza condurli con noi per mano. Il bambino piccolo nei primi tempi non è capace di interiorizzare i suoi genitori, quando diventa capace è in grado di allontanarsi da loro, di andare a scuola perché porta dentro l’immagine dei suoi.  Nelle difficoltà può pensare: “poi lo dico a mia mamma, poi viene mio papà” e trova la forza di andare avanti. A mano a mano che cresce la persona ha bisogno sempre più di interiorizzare presenze. Esse costituiscono la nostra risorsa, perché noi diventiamo attraverso i rapporti. La morte ci chiederà di partire senza condurci nessuno per mano, ma portando in noi tutti coloro che abbiamo amato o ci hanno amato.

– l’oblatività, cioè la capacità di donare vita. Tutti cominciamo l’esistenza con atteggiamenti possessivi, succhiando vita dagli altri. Da adulti non possiamo più essere persone che succhiano la vita, ma persone che la consegnano. La morte ci chiederà di consegnare tutto, persino il nostro corpo che ci è servito per diventare noi stessi. Tutto dobbiamo restituire, tutto dobbiamo diffondere intorno a noi. Lo potremo fare solo se siamo diventati totalmente oblativi.

– l’abbandono fiducioso. La morte ci chiederà di essere così capaci di fidarci della vita da saperla perdere per ritrovarla. E’ l’atto supremo di fiducia. Tutte le situazioni che viviamo ci allenano a fidarci così dell’azione di Dio, da saper crescere anche nelle situazioni negative, perché come dice Paolo in Rom. 8,37 segg. “nessuno può separarci dall’amore di Dio”. Noi possiamo vivere tutte le situazioni in modo da crescere come figli. Nessuno ci può separare dall’amore. In tutto questo noi siamo più che vincitori… Nessuno potrà mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù. In tale modo possiamo vivere tutte le situazioni dell’esistenza, favorevoli e sfavorevoli, accogliendo il dono di Dio e testimoniando l’amore del Padre.

In questo senso non ci sono spazi sacri cioè riservati a Dio: tutta l’esistenza diventa una “offerta del proprio corpo” “un sacrificio gradito a Dio” “un culto spirituale” (Rom 12, 1). I momenti di preghiera sono palestra, allenamento per imparare a vivere tutte le situazioni come occasione di incontro con Dio, come ambito di vita teologale. Dobbiamo ricordare che il dono di Dio ci previene sempre attraverso creature. È molto facile, soprattutto all’inizio del cammino identificare la creatura come il dono da accogliere, mentre il dono è un altro. Ci perviene attraverso la creatura ma la trascende.

Analogamente spesso ci illudiamo di essere noi ad offrire vita ai fratelli. Noi invece siamo un vuoto sempre riempito, siamo un nulla che viene attraverso dall’energia creatrice. Non siamo noi ad offrire, a donare, ad amare, ma è il bene che in noi diventa amore. E’ la verità che in noi diventa parola, nei limiti dei nostri modelli.

Così comprendiamo perché Gesù rimprovera il notabile che lo chiama buono. Nessuno è buono. Dio solo è buono. E’ l’espressione chiara della profondità spirituale di Gesù: la consapevolezza del nulla, continuamente riempita dal tutto che è Dio.

Io non faccio nulla da me stesso. Se noi vivessimo in questo modo, noi potremmo vivere la spiritualità cristiana ed essere testimoni efficaci dell’amore di Dio che si è rivelato in Gesù.

Quaderno di “Strade Aperte” – 10/07/2009

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