la positività delle crisi: fanno male ma sono opportune

la crisi come opportunità

per definizione l’essere umano tende alla progressione, all’evoluzione e perciò alla crisi. In definitiva tutta la vita è un susseguirsi di crisi e tentativi di ricomposizione.

Non esiste la stabilità, perlomeno non per periodi lunghi.

Eventi interni o esterni scandiscono passaggi di stato che necessitano di nuovi equilibri. La nascita, i primi passi, l’ingresso a scuola, la pubertà, l’adolescenza, le prime relazioni sentimentali, il matrimonio, la genitorialità, sono solo alcune delle eventualità critiche che una persona si trova ad affrontare nella vita

Quello che poi fa con la sua crisi determina il risultato della stessa perché ogni crisi esistenziale può generare indifferentemente una condizione prolungata di sofferenza o un cambiamento evolutivo. Anche una volta raggiunti certi obiettivi una crisi si può sempre presentare:
– nella relazione sentimentale, qualcosa che non abbiamo bene focalizzato ci ha allontanato dal partner o lo ha allontanato da noi;
– nell’attività professionale, non ci soddisfano più le condizioni lavorative o economiche;
– nelle abitudini di vita, siamo stanchi delle solite cose;
– nella salute, una malattia ci può costringere all’inattività e con essa alla riflessione su dove siamo e che tipo di vita stiamo vivendo;
– in qualche altro settore della vita.

Le sue manifestazioni saranno più o meno concrete – cioè andare dal malessere fisico alla sofferenza psicologica – in base al personale modo di essere, al livello di sofisticazione raggiunto dalle nostre capacità emotive e cognitive.

Una crisi rappresenta la rottura dell’equilibrio psichico precedente e spinge verso il cambiamento e la ricerca di un nuovo equilibrio. Ogni volta che siamo toccati da eventi significativi, positivi o negativi, o anche ogni volta che raggiungiamo nuove consapevolezze, siamo costretti a ricercare equilibri di ordine superiore, più sofisticati e articolati.

Una crisi è contemporaneamente un momento critico e un’opportunità. Immaginiamo un’insoddisfazione a livello lavorativo che non si trasforma nella ricerca di un miglioramento oppure un disagio di coppia che non si trasforma in un aumento della comunicazione tra i partner o un’adolescenza che non sfocia nella maturità: ogni volta c’è il rischio di perdersi o di rimanere bloccati. Ma il più delle volte ci si riesce e la crisi diventa un cambiamento di vita.

A volte attraverso soluzioni pratiche, a volte con la riflessione, a volte con il dialogo, con la condivisione, con il confronto.

p.s.: non ricordo più dove ho trovato questa bella riflessione; mi è piaciuta e l’ho pubblicata, chiedendo scusa all’autore se non ne pubblico il nome




il senso universale di un ‘anno santo della misericordia’

misericordia

un appello rivolto a tutti

di Vito Mancuso

in “la Repubblica” del 2 dicembre 2015

oggi si è perlopiù convinti che pensare in modo rigoroso conduca necessariamente al conflitto perché già la natura nella sua intima essenza è considerata come conflitto, mentre ogni prospettiva che invita all’armonia viene sentita come evasione e incapacità di cogliere la realtà

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Il Papa e l’Occidente ferito. “Avere cura dei poveri” non è esclusiva cristiana. Le parole chiave sono due: giubileo e misericordia. La domanda invece è una sola: ci sono sensati motivi oggi perché una mente razionale faccia sua la prospettiva di vivere all’insegna del giubilo e della misericordia? Dicendo “oggi” non mi riferisco solo al clima di paura dentro cui siamo immersi ogni giorno di più; mi riferisco anche e soprattutto alla filosofia di vita che pervade la mente occidentale da qualche secolo a questa parte rendendola incapace di generare pace perché concepisce l’esistenza come “guerra di tutti contro tutti” (Hobbes), “lotta per la sopravvivenza” (Darwin), “volontà di potenza” (Nietzsche). Oggi si è perlopiù convinti che pensare in modo rigoroso conduca necessariamente al conflitto perché già la natura nella sua intima essenza è considerata come conflitto, mentre ogni prospettiva che invita all’armonia viene sentita come evasione e incapacità di cogliere la realtà. Dalla destra liberista alla sinistra neodarwinista il pensiero occidentale oggi si muove all’insegna del detto di Eraclito “il conflitto è padre di tutte le cose e di tutte è re” (fr. 14). Si dimentica però quanto il grande filosofo aggiungeva, cioè che “da elementi che discordano si ha la più bella armonia” (fr. 24) e che “armonia invisibile è migliore della visibile” (fr. 27).

piazza_san_pietro-vaticano Il Giubileo straordinario della misericordia indetto da Francesco è una celebrazione di quell’armonia invisibile nominata da Eraclito e a cui tutti gli esseri umani, se aprono il cuore e la mente, possono partecipare. Nella bolla di indizione il Papa scrive che la misericordia “è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita” (Misericordiae vultus 2). Sono parole di intenso ottimismo secondo cui ogni essere umano, se prende sul serio la luce che pervade lo sguardo dell’altro, si apre alla dinamica della relazione interpersonale e può superare il conflitto che abita la superficie dell’essere. Francesco fonda l’appello alla misericordia in prospettiva cristiana dicendo che “Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre”. Ma non si tratta di un’esclusiva cristiana. La Bibbia ebraica istituisce il giubileo nel Levitico e celebra la misericordia divina nei Salmi. L’islam apre ognuna delle 114 sure del Corano “nel nome di Dio clemente e misericordioso”. Il buddhismo insegna la misericordia mediante la dottrina delle quattro dimore divine: gentilezza amorevole verso tutti, compassione infinita verso i sofferenti, gioia compartecipe, equanimità. Tutte le religioni genuinamente interpretate hanno al centro l’ideale di pace e misericordia. Si tratta di una prospettiva cui può giungere anche la pura ragione. Guardare gli altri con occhi sinceri significa infatti praticare l’imperativo categorico kantiano: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo” (Fondazione della metafisica dei costumi, BA 67). La misericordia solidale non è buonismo dolciastro, è applicazione della legge etica fondamentale dell’umanità. La quale a sua volta è riproduzione dell’armonia relazionale che informa l’energia primordiale caotica portandola a comporre sistemi sempre più complessi sotto forma di atomi, molecole, cellule, organi, apparati, organismi, fino allo splendore della mente che pensa e del cuore che ama. Papa Francesco è una mente che pensa e un cuore che ama, e per questo le sue parole e i suoi gesti giungono come un balsamo sulle piaghe della sfiduciata mente occidentale. Egli invita a prendersi cura dei poveri: facendo così forse scopriremo che la vera povertà non riguarda le tasche, riguarda gli occhi e la loro incapacità di guardare gli altri in modo sincero




la guerra si può abolire

aboliamo insieme la guerra

un’utopia da realizzare adesso

di Gino Strada

Strada

in “Avvenire” del 1 dicembre 2015

è possibile un mondo senza guerra per garantire un futuro al genere umano? Molti potrebbero eccepire che le guerre sono sempre esistite. È vero, ma ciò non dimostra che il ricorso alla guerra sia inevitabile, né possiamo presumere che un mondo senza guerra sia un traguardo impossibile da raggiungere. Il fatto che la guerra abbia segnato il nostro passato non significa che debba essere parte anche del nostro futuro. Come le malattie, anche la guerra deve essere considerata un problema da risolvere e non un destino da abbracciare o apprezzare

Io sono un chirurgo. Ho visto i feriti (e i morti) di vari conflitti in Asia, Africa, Medio Oriente, America Latina e Europa. Ho operato migliaia di persone, ferite da proiettili, frammenti di bombe o missili. A Quetta, la città pakistana vicina al confine afgano, ho incontrato per la prima volta le vittime delle mine antiuomo. Ho operato molti bambini feriti dalle cosiddette ‘mine giocattolo’, piccoli pappagalli verdi di plastica grandi come un pacchetto di sigarette. Sparse nei campi, queste armi aspettano solo che un bambino curioso le prenda e ci giochi per un po’, fino a quando esplodono: una o due mani perse, ustioni su petto, viso e occhi. Bambini senza braccia e ciechi. Conservo ancora un vivido ricordo di quelle vittime e l’aver visto tali atrocità mi ha cambiato la vita. Mi è occorso del tempo per accettare l’idea che una ‘strategia di guerra’ possa includere prassi come quella di inserire, tra gli obiettivi, i bambini e la mutilazione dei bambini del ‘Paese nemico’. Armi progettate non per uccidere, ma per infliggere orribili sofferenze a bambini innocenti, ponendo a carico delle famiglie e della società un terribile peso. Ancora oggi quei bambini sono per me il simbolo vivente delle guerre contemporanee, una costante forma di terrorismo nei confronti dei civili. Alcuni anni fa, a Kabul, ho esaminato le cartelle cliniche di circa 1.200 pazienti per scoprire che meno del 10% erano presumibilmente dei militari. Il 90% delle vittime erano civili, un terzo dei quali bambini. È quindi questo ‘il nemico’? Chi paga il prezzo della guerra?

Strada1 Nel secolo scorso, la percentuale di civili morti aveva fatto registrare un forte incremento passando dal 15% circa nella prima guerra mondiale a oltre il 60% nella seconda. E nei 160 e più ‘conflitti rilevanti’ che il pianeta ha vissuto dopo la fine della seconda guerra mondiale, con un costo di oltre 25 milioni di vite umane, la percentuale di vittime civili si aggirava costantemente intorno al 90% del totale, livello del tutto simile a quello riscontrato nel conflitto afgano. Lavorando in regioni devastate dalle guerre da ormai più di 25 anni, ho potuto toccare con mano questa crudele e triste realtà e ho percepito l’entità di questa tragedia sociale, di questa carneficina di civili, che si consuma nella maggior parte dei casi in aree in cui le strutture sanitarie sono praticamente inesistenti. Negli anni, Emergency ha costruito e gestito ospedali con centri chirurgici per le vittime di guerra in Ruanda, Cambogia, Iraq, Afghanistan, Sierra Leone e in molti altri Paesi, ampliando in seguito le proprie attività in ambito medico con l’inclusione di centri pediatrici e reparti maternità, centri di riabilitazione, ambulatori e servizi di pronto soccorso. L’origine e la fondazione di Emergency, avvenuta nel 1994, non deriva da una serie di principi e dichiarazioni. È stata piuttosto concepita su tavoli operatori e in corsie d’ospedale. Curare i feriti non è né generoso né misericordioso, è semplicemente giusto. Lo si deve fare. In 21 anni di attività, Emergency ha fornito assistenza medico-chirurgica a oltre 6,5 milioni di persone. Una goccia nell’oceano, si potrebbe dire, ma quella goccia ha fatto la differenza per molti. In qualche modo ha anche cambiato la vita di coloro che, come me, hanno condiviso l’esperienza di Emergency. Ogni volta, nei vari conflitti nell’ambito dei quali abbiamo lavorato, indipendentemente da chi combattesse contro chi e per quale ragione, il risultato era sempre lo stesso: la guerra non significava altro che l’uccisione di civili, morte, distruzione. La tragedia delle vittime è la sola verità della guerra. Confrontandoci quotidianamente con questa terribile realtà, abbiamo concepito l’idea di una comunità in cui i rapporti umani fossero fondati sulla solidarietà e il rispetto reciproco. In realtà, questa era la speranza condivisa in tutto il mondo all’indomani della seconda guerra mondiale. Tale speranza ha condotto all’istituzione delle Nazioni Unite, come dichiarato nella Premessa dello Statuto dell’Onu: «Salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, riaffermare la fede nei diritti  fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole».

Strada2 Il legame indissolubile tra diritti umani e pace e il rapporto di reciproca esclusione tra guerra e diritti erano stati inoltre sottolineati nella Dichiarazione universale dei diritti umani, sottoscritta nel 1948. «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti» e il «riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». 70 anni dopo, quella Dichiarazione appare provocatoria, offensiva e chiaramente falsa. A oggi, non uno degli Stati firmatari ha applicato completamente i diritti universali che si è impegnato a rispettare: il diritto a una vita dignitosa, a un lavoro e a una casa, all’istruzione e alla sanità. In una parola, il diritto alla giustizia sociale. All’inizio del nuovo millennio non vi sono diritti per tutti, ma privilegi per pochi. La più aberrante in assoluto, diffusa e costante violazione dei diritti umani è la guerra, in tutte le sue forme. Cancellando il diritto di vivere, la guerra nega tutti i diritti umani. Vorrei sottolineare ancora una volta che, nella maggior parte dei Paesi sconvolti dalla violenza, coloro che pagano il prezzo più alto sono uomini e donne come noi, nove volte su dieci. Non dobbiamo mai dimenticarlo. Solo nel mese di novembre 2015, sono stati uccisi oltre 4mila civili in vari Paesi, tra cui Afghanistan, Egitto, Francia, Iraq, Libia, Mali, Nigeria, Siria e Somalia. Molte più persone sono state ferite e mutilate, o costrette a lasciare le loro case. In qualità di testimone delle atrocità della guerra, ho potuto vedere come la scelta della violenza abbia – nella maggior parte dei casi – portato con sé solo un incremento della violenza e delle sofferenze. La guerra è un atto di terrorismo e il terrorismo è un atto di guerra: il denominatore è comune, l’uso della violenza. Sessanta anni dopo, ci troviamo ancora davanti al dilemma posto nel 1955 dai più importanti scienziati del mondo nel cosiddetto Manifesto di Russel-Einstein: «Metteremo fine al genere umano o l’umanità saprà rinunciare alla guerra?». È possibile un mondo senza guerra per garantire un futuro al genere umano? Molti potrebbero eccepire che le guerre sono sempre esistite. È vero, ma ciò non dimostra che il ricorso alla guerra sia inevitabile, né possiamo presumere che un mondo senza guerra sia un traguardo impossibile da raggiungere. Il fatto che la guerra abbia segnato il nostro passato non significa che debba essere parte anche del nostro futuro. Come le malattie, anche la guerra deve essere considerata un problema da risolvere e non un destino da abbracciare o apprezzare. Come medico, potrei paragonare la guerra al cancro. Il cancro opprime l’umanità e miete molte vittime: significa forse che tutti gli sforzi compiuti dalla medicina sono inutili? Al contrario, è proprio il persistere di questa devastante malattia che ci spinge a moltiplicare gli sforzi per prevenirla e sconfiggerla.

gino-strada-3 Concepire un mondo senza guerra è il problema più stimolante al quale il genere umano debba far fronte. È anche il più urgente. Gli scienziati atomici, con il loro Orologio dell’apocalisse, stanno mettendo in guardia gli esseri umani: «L’orologio ora si trova ad appena tre minuti dalla mezzanotte perché i leader internazionali non stanno eseguendo il loro compito più importante: assicurare e preservare la salute e la vita della civiltà umana». L a maggiore sfida dei prossimi decenni consisterà nell’immaginare, progettare e implementare le condizioni che permettano di ridurre il ricorso alla forza e alla violenza di massa fino alla completa disapplicazione di questi metodi. La guerra, come le malattie letali, deve essere prevenuta e curata. La violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, uccide il paziente. L’abolizione della guerra è il primo e indispensabile passo in questa direzione. Possiamo chiamarla ‘utopia’, visto che non è mai accaduto prima. Tuttavia, il termine utopia non indica qualcosa di assurdo, ma piuttosto una possibilità non ancora esplorata e portata a compimento. Molti anni fa anche l’abolizione della schiavitù sembrava ‘utopistica’. Nel XVII secolo, ‘possedere degli schiavi’ era ritenuto ‘normale’, fisiologico. Un movimento di massa, che negli anni, nei decenni e nei secoli ha raccolto il consenso di centinaia di migliaia di cittadini, ha cambiato la percezione della schiavitù: oggi l’idea di esseri umani incatenati e ridotti in schiavitù ci repelle.
Quell’utopia è divenuta realtà. Un mondo senza guerra è un’altra utopia che non possiamo attendere oltre a vedere trasformata in realtà. Dobbiamo convincere milioni di persone del fatto che abolire la guerra è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile. Questo concetto deve penetrare in profondità nelle nostre coscienze, fino a che l’idea della guerra divenga un tabù e sia eliminata dalla storia dell’umanità. Ricevere il Premio Right Livelihood Award incoraggia me personalmente ed Emergency nel suo insieme a moltiplicare gli sforzi: prendersi cura delle vittime e promuovere un movimento culturale per l’abolizione della guerra. Approfitto di questa occasione per fare appello a voi tutti, alla comunità dei colleghi vincitori del Premio, affinché uniamo le forze a sostegno di questa iniziativa. Lavorare insieme per un mondo senza guerra è la miglior cosa che possiamo fare per le generazioni future.




tempi brutti per il pacifismo

 

 pacifismo

facile bersaglio


NONVIOLENZA
 

presidente nazionale del Movimento Nonviolento

Valpiana

uno degli effetti collaterali dell’allarme terrorismo, è certamente la bocciatura definitiva del pacifismo da parte di una fetta consistente dell’opinione pubblica. Se ne è fatto portavoce l’editorialista Antonio Polito: con i terroristi non si può dialogare, ci vogliono le armi.
non voglio fare il difensore d’ufficio, poiché è del tutto evidente che un certo pacifismo che si limita a sventolare bandiere arcobaleno e a convocare marce periodiche, rituali, sempre uguali a se stesse, è del tutto superato. Lo abbiamo detto noi stessi già qualche decennio fa, a partire da un convegno dal titolo esplicativo “Crescere dal pacifismo alla nonviolenza” .
che differenza c’è tra pacifismo e nonviolenza? La stessa che c’è tra chi ha paura di morire, e chi ha paura di uccidere: volere la pace (nel senso di voler essere lasciati in pace), o cercare la pace (nel senso di costruirla insieme agli altri). Il dibattito non è nuovo. Lo affrontarono già Gandhi, che distingueva tra nonviolenza del debole e nonviolenza del forte, e Aldo Capitini, che differenziava il “pacifismo relativo” dal “pacifismo integrale”. La nonviolenza dunque è una forza costruttiva per opporsi alla distruttività della guerra.

Il centro di questa discussione sta proprio nei due termini “guerra” e “forza”. Essere contro la guerra non significa escludere la forza. Infatti, la nonviolenza si basa proprio sull’uso della forza per combattere la violenza: la verità contro la menzogna, la legge dell’amore contro la legge della giungla. Se la nonviolenza assoluta non è ancora possibile, diceva Gandhi, cerchiamo almeno di raggiungere il minor grado possibile di violenza; e faceva l’esempio, attualissimo, di un cecchino che spara sulla folla. Per fermarlo (se necessario, abbatterlo) bisogna usare una forza che servirà ad evitare una violenza maggiore.

La nonviolenza insiste su due punti chiave: la correlazione tra mezzi e fini e l’efficacia dell’azione. Nel caso dei bombardamenti in Siria non si realizza nessuna delle due condizioni. Le bombe non fermano Daesh (anzi enfatizzano il fanatismo dello Stato Islamico) e colpiscono anche la popolazione civile innocente. La prova è nei fatti: dall’inizio della guerra con l’intervento in Iraq nel 2003, il terrorismo internazionale è aumentato. Perciò il mezzo-guerra non ottiene il fine-pace, e dunque non è efficace.

Le vicende in atto, quanto accaduto in Iraq, in Libia, e ora in Siria con l’avanzata di Isis, sono ben più complesse di un manicheo “o con le bombe o con i terroristi”. Certo, la neutralità o l’ignavia in questo caso sarebbero peccati di omissione, perché lascerebbero popolazioni intere come gli yazidi o i curdi alla mercé dell’esercito di un criminale come il sedicente Califfo Abu Bakr al-Baghdadi, e dunque bisogna intervenire. Ma bisogna intervenire con strumenti che possano davvero fermare gli assassini, senza creare nuovi assassini.

La domanda di oggi è: bombardare Raqqa in Siria, serve a fermare i terroristi che tengono in scacco Parigi in Europa? La risposta è no. Da nonviolento, invece, sono favorevole ai bombardamenti sui pozzi di petrolio nei territori conquistati da Daesh, per tranciare la fonte di finanziamento del terrorismo: un sabotaggio. Non sarebbe una guerra, ma un’operazione militare, da fare sotto egida Onu, mirata a danneggiare economicamente i fuori legge, senza mirare a stroncare vite umane innocenti. Eppure in questi anni si è scelta una strategia diversa, con i bombardamenti sulle città. E nonostante tutta la potenza di fuoco a disposizione (America, Russia, Europa insieme) non si riesce a farla finita con qualche decina di migliaia di tagliagole. Come mai?

La convulsione storica che stiamo vivendo non è scoppiata improvvisamente, come un terremoto, ma è cresciuta per decenni, nei quali nulla si è fatto per evitarne l’esplosione, né per preparare una valida alternativa. È come trovarsi davanti ad un incendio devastatore senza aver mai fatto prevenzione e senza avere in mano neppure un secchio d’acqua per spegnerlo. Che si potrebbe fare? Nulla. Oggi le proposte della nonviolenza sembrano solo teoriche, perché per anni, per decenni, non hanno ottenuto nessun credito. Tutte le energie, tutti i finanziamenti, tutta la politica è stata indirizzata a preparare esclusivamente la macchina bellica, che infatti oggi è pronta e aggressiva, con portaerei, bombe, truppe, elicotteri, carri armati; tutto ben organizzato, costruito e finanziato in anni e anni. Ma non funziona! E dopo aver speso migliaia di miliardi nell’apparato tecnico-scientifico-militare e non aver mai investito nemmeno un euro nella preparazione nonviolenta, come si può chiedere agli amici della nonviolenza una possibile soluzione della tragedia in corso?

Come nonviolenti sappiamo ben vedere la differenza che c’è tra la guerra e un intervento armato, tra l’esercito e la polizia. Da anni siamo impegnati nella ricerca per la soluzione nonviolenta dei conflitti, sosteniamo il Tribunale Internazionale davanti al quale bisogna portare Bush, Blair e al-Baghdadi per crimini contro l’umanità, lavoriamo per l’istituzione di Corpi Civili di Pace, chiediamo di investire in intelligence, in diplomazia e favoriamo processi di pacificazione, riconciliazione, convivenza. Da sempre vogliamo la diminuzione dei bilanci militari e il sostegno finanziario alla creazione della Polizia Internazionale, che intervenga nei conflitti a tutela della parti lese, per disarmare l’aggressore. Contemporaneamente al sostegno di questi progetti, lavoriamo contro la preparazione della guerra, che è una forma di terrorismo su larga scala, per bloccare il commercio di armi e smantellare gli arsenali. È un lavoro, indispensabile e ineludibile, di prevenzione.




un incontro con la cultura e il popolo rom

da Zingaro a cittadino

tre giorni di studio e dibattiti sui Rom

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tre giorni  a Cagliari per esplorare i percorsi di conoscenza e di inclusione sociale già avviati e gli interventi che ancora possono essere posti in atto

Si terranno a Cagliari dal 3 al 5 dicembre prossimi per iniziativa della Caritas diocesana. Il titolo della tre giorni, “Da Zingaro a cittadino. Percorsi di conoscenza e inclusione sociale”, indica la volontà di sostenere e promuovere iniziative per limitare, sino a rimuoverli, i fattori culturali, strutturali e sociali che concorrono a determinare l’esclusione sociale del popolo Rom. Sarà un seminario articolato in più sessioni di lavoro, ognuna dedicata ad un tema specifico: l’informazione, la pastorale, il ruolo delle amministrazioni locali, i diritti negati, la salute e la storia, con particolare riferimento alla drammatica esperienza delle famiglie Rom, confinate a Perdasdefogu durante il Fascismo.

Si comincia giovedì 3 dicembre alle 9.30 nell’aula magna del Seminario arcivescovile (in via Mons. Cogoni 9, Cagliari) con il tema dell’informazione, fondamentale nella costruzione di immagine e stereotipi fonte di pregiudizi discriminatori.
Ai saluti dell’arcivescovo, mons. Arrigo Miglio, del direttore della Caritas diocesana, don Marco Lai, del sindaco, Massimo Zedda, della Presidenza della Giunta regionale e di Saltana Ahmetovic, membro della Consulta immigrazione del Comune di Cagliari, seguiranno gli interventi di Carlo Stasolla, presidente dell’associazione “21 luglio” di Roma, impegnata nella promozione dei diritti delle comunità rom in Italia e nella lotta contro ogni forma di discriminazione e intolleranza; Giovanni Maria Bellu, giornalista, presidente dell’Associazione “Carta di Roma”, nata per dare attuazione al protocollo deontologico per una informazione corretta sui temi dell’immigrazione, del diritto d’asilo e delle minoranze; Anthony Muroni, direttore dell’Unione Sarda, Bianca Stancanelli, giornalista e scrittrice. Chiuderà i lavori mons. Paolo Lojudice, vescovo ausiliare della Diocesi di Roma, in prima linea nella battaglia contro gli sgomberi indiscriminati dei campi rom che si stanno moltiplicando alla periferia della capitale. Coordina il presidente dell’Ordine dei giornalisti della Sardegna, Francesco Birocchi.

Nel pomeriggio, alle 16.00, sempre nell’aula magna del Seminario arcivescovile di Cagliari, si approfondirà il tema della sollecitudine pastorale della Chiesa di Cagliari per i Rom, nella ricorrenza del cinquantenario della visita di Paolo VI ad un campo di zingari che furono definiti dal Papa: “cuore della Chiesa”.
Con il coordinamento di Padre Stefano Messina (OMI) direttore Migrantes della Diocesi di Cagliari, dopo il saluto dell’arcivescovo mons. Arrigo Miglio, di don Marco Lai, direttore della Caritas diocesana e di Sulejmanovic Rubino, attivista dell’Associazione 21 luglio, Lucia Mallus e Renato Pierpaoli presenteranno il dialogo recitato “Santo e Zingaro; El Pelè, un uomo semplice”. Interverranno quindi il vescovo ausiliare della Diocesi di Roma, mons. Paolo Lojudice, don Francesco Megale, parroco di Arghillà (Reggio Calabria) e Carla Osella presidente nazionale dell’AIZO (Associazione italiana Zingari oggi). Seguirà una tavola rotonda sul tema: “Esperienze con i Rom: percorsi di vita”. Porteranno le loro esperienze Marcello Porceddu, Caritas di Cagliari, suor Maria Claudia Biondi responsabile della Caritas ambrosiana (Milano), sul disagio femminile, Mario Agostino, del gruppo Mosaico che opera nel campo Rom di Sesto Fiorentino e Lucia Mallus, insegnante di scuola media inferiore.
Chiuderà la giornata, alle 21.00 al Cinema Spazio Odissea di viale Trieste 84, la proiezione del film: “Io rom romantica”, di Laura Halilovic.

La seconda giornata di lavori, venerdì 4 dicembre, si aprirà con la sessione dedicata al ruolo delle amministrazioni locali. Alle 9.30 nella Spazio Search, nel sottopiano del Palazzo civico, nel Largo Carlo Felice 2. Dopo l’introduzione di don Marco Lai e i saluti dell’arcivescovo mons. Arrigo Miglio,  Anna Puddu e Jasmina Mahmutcehajic della Caritas di Cagliari coordineranno il confronto con Massimo Zedda, sindaco di Cagliari, Stefano De Lunas, sindaco di Quartu S.E., Carlo Stasolla dell’Associazione 21 luglio, Luigi Minerba, assessore alle politiche sociali del Comune di Cagliari, Marina Del Zompo, assessore alle politiche sociali del Comune di Quartu S.E., Pina Puddu, assessore alle politiche sociali e all’integrazione del Comune di Monserrato, Daniela Sitzia, assessore alle politiche sociali del Comune di Selargius e Barbara Cadeddu, Assessore alla pianificazione strategica e Istituti di partecipazione del Comune di Cagliari.

I lavori proseguiranno nel pomeriggio alle 15.30 presso la Facoltà di scienze economiche, giuridiche e politiche, aula A, in via Sant’Ignazio 76, sul tema “I diritti (negati) della cittadinanza”. Dopo l’introduzione di don Marco Lai, e i saluti dell’arcivescovo mons. Arrigo Miglio, del presidente della facoltà, Stefano Usai, Gianni Loy, presidente della Fondazione Anna Ruggiu onlus, introdurrà e coordinerà il dibattito con  Amela Sulejmanovic, della comunità Rom di Selargius, Giuliana Perrotta, prefetto di Cagliari, Eva Rizzin, cofondatrice di OsservAzione e ricercatrice dell’Università di Mantova, Anna Cao, sostituto procuratore del Tribunale dei minori di Cagliari, Giorgio Altieri, giudice del Tribunale di Cagliari e Rita Dedola, presidente dell’Ordine degli avvocati di Cagliari.
La giornata si concluderà in Piazza San Sepolcro, alle 20, con la degustazione di piatti tipici della tradizione dei Romà Khorakhanè.

Ultima giornata di lavori sabato 5 dicembre. Alle 9.00, nella sala Pippo Orrù dell’Ordine provinciale dei medici e degli odontoiatri di Cagliari, in via Carroz 14, il seminario si svilupperà sul tema: “I Rom e la salute: conoscere per curare”. Dopo l’introduzione di don Marco Lai e i saluti dell’arcivescovo mons. Arrigo Miglio e di Marco Sulejmanovic della comunità rom di Cagliari, interverranno l’assessore all’igiene, sanità e politiche sociali della Regione, Luigi Arru, l’assessore alle politiche sociali del Comune di Cagliari, Luigi Minerba, il presidente della Commissione Sanità del Consiglio regionale, Raimondo Perra, il presidente dell’Ordine provinciale dei medici e odontoiatri di Cagliari, Raimondo Ibba; coordineranno i lavori Anna Cerbo e P. Amalia Menneas della Caritas di Cagliari. Seguiranno le relazioni di quattro medici impegnati a livello nazionale nella tutela della salute dei Rom: Anna Cerbo, responsabile del Progetto salute Rom della Caritas di Cagliari, Fulvia Motta, responsabile dell’area Rom e Sinti della cooperativa Roma solidale promossa dalla Caritas di Roma, Lorella Vassallo, dirigente del Centro salute immigrati e nomadi della Asl di Palermo, e Annunziata La Rocca, del Policlinico universitario di Messina.
Nella stessa giornata, alle 9.30, al Liceo Michelangelo, in via del Donoratico, verrà proiettato il film “Dimmi che destino avrò”, alla presenza del regista Peter Marcias, dell’attrice protagonista Luli Bitri e dello sceneggiatore Gianni Loy.

Nel pomeriggio, alle 15.30, nella sala convegni della Fondazione Banco di Sardegna, in via S.Salvatore da Horta, saranno gli storici ad approfondire il tema “Rom: una storia ancora da ricostruire”. Introdurrà don Marco Lai e, dopo i saluti dell’arcivescovo mons. Arrigo Miglio, lo scrittore Alberto Melis, coordinerà gli interventi di: Vesna Bajramovic, della comunità rom di Monserrato,  Luca Bravi, dell’Università di Firenze, che ha approfondito la triste esperienza dei Rom confinati in Sardegna durante il Fascismo, Massimo Aresu, ricercatore all’Ehess di Parigi e Martina Giuffré, dell’Università di Sassari.

Alle 18, il seminario si concluderà con la consegna delle borse di studio della Fondazione Anna Ruggiu onlus. Coordinerà Gianni Loy, presidente della Fondazione Anna Ruggiu e interverranno i docenti dei giovani rom e delle giovani romnì, vincitori delle borse. Parteciperà l’attrice protagonista del film ‘Dimmi che destino avrò’ Luli Bitri.
La serata si concluderà, alle 20.00 al Teatro Sant’Eulalia, in vico del Collegio 2, “Dialoghi e musiche sulle vie dei Rom, con il presidente del Conservatorio di musica di Cagliari, Gianluca Floris e del violinista Valentin Furtuna.
Il seminario “Da Zingaro a cittadino”, è accreditato dagli ordini professionali dei giornalisti, degli avvocati e dei medici, nelle rispettive sessioni, ai fini della formazione permanente.




è possibile un ripensamento a fondo dell’Islam?

Islam

religione e laicità

di Michele Martelli

un Islam europeo non può che nascere da un confronto aperto e spregiudicato, questo sì «senza se e senza ma», con la moderna cultura europea. Quindi con la laicità. Il che implica la necessità dell’avvio (o della ripresa) sia di un processo di reinterpretazione del Corano sia di un dibattito pubblico sul suo rapporto con la laicità

«L’Isis non è l’Islam e l’Islam non è l’Isis», «il Corano è un libro di pace», «l’Islam è religione di pace»: questi e simili gli slogan principali dei manifestanti islamici nelle piazze di Roma e Milano. Simile il messaggio trasmesso dalle coraggiose orazioni dei rappresentanti della comunità islamica di Venezia alla cerimonia laica dei funerali di Valeria Solesin. Questo anche il contenuto essenziale dei numerosi interventi e interviste di fedeli e imam italiani in vari programmi radio, nei talk show televisivi e sui maggiori quotidiani nazionali. Dunque una dissociazione netta, precisa, inequivocabile, dai terroristi jihadisti del Bataclan emissari dell’Isis, a smentita della campagna mediatica dei nostrani islamofobi fallaciani, che di tutt’erba fanno un fascio.

La condanna pubblica del terrorismo da parte delle comunità islamiche italiane dopo le stragi di Parigi sono il sintomo di una svolta decisiva nella storia dell’Islam in Occidente. Forse si sta assistendo in Italia ad un’efficace strategia di isolamento degli stragisti («Not in my name», lo slogan più diffuso), ma forse anche ad un tentativo di ripensare a fondo l’Islam per adattarlo alle democrazie europee, per europeizzarlo.

Ma un Islam europeo non può che nascere da un confronto aperto e spregiudicato, questo sì «senza se e senza ma», con la moderna cultura europea. Quindi con la laicità. Il che implica la necessità dell’avvio (o della ripresa) sia di un processo di reinterpretazione del Corano sia di un dibattito pubblico sul suo rapporto con la laicità.

A) L’Islam religione di pace? Il Corano libro di pace? Sì, ma purtroppo anche il contrario. Innanzitutto una questione metodologica: può osare, chi non è né arabo né islamico né credente, leggere criticamente e in una buona traduzione il Corano, ritenuto dai fedeli un libro sacro dettato da Allah a Muhammad per tramite dell’Arcangelo Gabriele nell’arabo coreiscita, ritenuto a sua volta la lingua di Dio?

Io penso di sì. Altrimenti perché tante traduzioni in tante lingue del mondo, tra cui quelle occidentali, tra cui quella italiana (tra le varie edizioni italiane del Corano, quella fatta dal dirigente dell’Ucoii Hamza Roberto Piccardo è stata riconosciuta come «traduzione ufficiale» dall’Arabia Saudita, custode dell’ortodossia salafita).

Del resto, poiché solo il 10 per cento dei musulmani (ne sono 1 milione e 600 mila nel mondo) conosce l’arabo, del Corano sono state fatte traduzioni più o meno ufficiali in varie e numerose lingue nazionali. Deassolutizzando di fatto la stessa sacralità del testo, adattato alle diverse culture nazionali. E prefigurando, paradossalmente, non uno, ma molti Islam. Come è avvenuto sin dalle origini nell’Islam arabo, ben presto dilaniato dal conflitto tra sunnismo e sciismo.

Dunque l’Islam predica solo la pace? No. Proviamo a rifarci al concetto di Jihad. Nel Corano, che, come tutti i testi religiosi, è complesso, prismatico, il concetto, che equivale a «sforzo sulla via di Allah», ha, come è noto, almeno tre significati: a) di sforzo interiore, fatto di meditazione e preghiera, di lotta con se stesso per la purificazione dal peccato (Sura 25, v. 52); b) di guerra di difesa («Combattete sulla via di Dio coloro che vi combattono», Sura 2, v. 190); c) infine di guerra di espansione dell’Islam contro gli infedeli («Uccidete gli idolatri dovunque li troviate, prendeteli, circondateli, appostateli ovunque in imboscate», Sura 9, v. 5): da qui la divisione (nella tradizione giuridica musulmana) del mondo in due parti contrapposte: Dar al-Islam, o «dimora dell’Islam», e Dar al-Harb, o «dimora della guerra», quella degli infedeli, miscredenti e idolatri da conquistare e assoggettare con la spada.

In tutti e tre i sensi il profeta promette la santificazione e il paradiso dopo la morte. Se nel primo senso la teologia del Jihad contempla e incoraggia il rapporto diretto interiore, spirituale del fedele con Allah, nel secondo (difficile stabilire sempre, in una guerra armata, la difesa dall’aggressione) e soprattutto nel terzo autorizza l’espansionismo religioso, politico e militare, e quindi la «missione» dell’islamizzazione del mondo, che ha caratterizzato nei secoli prima la storia araba dei Califfi (=successori, vicari, luogotenenti di Muhammad), poi quella turca dell’Impero ottomano. Non si appellano al Jihad, pur in parte distorcendolo (nel Corano c’è sì la figura del martire combattente, ma non quella del terrorista suicida), sia i criminali drogati jihadisti delle stragi di Parigi sia Al-Baghdadi, appeso al folle sogno della rinascita del Califfato? Una Guerra santa che vede oggi contrapporsi nel Medio Oriente musulmano, in Libia, Siria, Yemen e Iraq, con armi, attentati terroristici e bombardamenti indiscriminati, in nome dello stesso dio unico Allah e dello stesso libro sacro, Stati comunità e tribù sunnite e sciite, in una complicata guerra politico-religiosa, che dura ininterrotta da decenni, almeno dalla nascita dell’Iran khomeinista nel 1979?

«Not in my name» dovrebbe significare per i musulmani d’Italia anche l’inizio (o la ripresa) di una lettura storico-critica del Corano, per dissociarsi dalla Teologia politica del Jihad che oggi più che mai ha assunto, in vari paesi e continenti, l’aspetto di una vera e propria Teologia del Terrore. So bene che il processo di storicizzazione, reinterpretazione e relativizzazione dei testi sacri riguarda anche, e tuttora, gli altri due monoteismi ebraico e cristiano. Ma questo non è una scusante per nessuno.

B) L’Islam e la laicità. In che cosa consiste la laicità delle moderne democrazie? In due principî fondamentali e complementari, a cui l’Islam arabo ed extraeuropeo è rimasto quasi ovunque estraneo e/o ostile: a) la separazione tra Stato e religione; b) l’uguaglianza dei diritti umani e civili. Se l’Islam è religione di Stato, unica o privilegiata che sia, è evidente che chi non è musulmano (l’altrimenti credente o il non credente) o non gode della cittadinanza o è un cittadino di serie b; e perciò o è privo di diritti o i suoi diritti sono limitati e ristretti.

Il Corano non è solo un libro di preghiera, ma contiene (al pari della Bibbia ebraica) una minuta precettistica sull’intera vita del credente, privata e civile, da cui è nata la sharia, ossia la tradizione giuridica musulmana presunta interprete della Legge di Dio. La Carta araba dei diritti dell’uomo (che sanciva l’uguaglianza dei cittadini, la libertà di pensiero, coscienza e religione, la parità uomo-donna, ecc.), sottoscritta dalla Lega araba nel 2004 e modellata sulla Dichiarazione del 1948 dell’Onu, è rimasta pressoché lettera morta, mera dichiarazione di intenti. Perché? Perché incompatibile con molti aspetti, regole, divieti e prescrizioni della sharia (che prevede l’inferiorità della donna, la lapidazione dell’adultera, la pena di morte per l’apostasia e la blasfemia, la condanna dell’omosessualità, l’esclusione e la repressione del pensiero critico, ecc.).

Molti credenti dell’Islam d’Italia, compresi imam e altre autorità religiose, hanno in questi giorni affermato pubblicamente di essere e sentirsi senza contraddizione musulmani e cittadini laici, rispettosi della Costituzione. Mi chiedo se ciò sia possibile senza dissociarsi dalla lettura, interpretazione e applicazione acritica (e talvolta distorsiva) del Corano e della sharia, che è tipica dell’estremismo terroristico, ma anche dell’integralismo religioso premoderno di tanta parte del mondo musulmano.




gender: una parola autorevole e pacata per uscire dalle demonizzazioni

ma sesso e gender non sono nemici

di Giannino Piana

Piana

in “Il Mattino”

originata dalla preoccupazione (legittima) di spiegare la pluralità di identità delle persone, non riducibile al semplice dato biologico, la questione del gender è andata soggetta a interpretazioni fuorvianti. Soprattutto all’interno di alcune correnti del femminismo americano. In alcuni casi ha infatti assunto i connotati di un’ideologia assoluta, che arriva a negare la rilevanza del sesso biologico, riducendo di fatto l’identità a un costrutto socioculturale e a realtà del tutto intercambiabile. L’allarme che queste posizioni estreme suscitano non deve tuttavia condurre a eludere le istanze vere che da essa scaturiscono, e che rinviano a una visione complessa della formazione della personalità umana, nella quale il sesso biologico, che ne costituisce la base imprescindibile, si intreccia con la presenza di altri fattori, che vanno dalle dinamiche psicologiche ed educative alle diverse forme di socializzazione, fino al contesto culturale entro il quale ha luogo il suo sviluppo

Considerata in questa ottica la questione non è nuova. Si tratta, in realtà, del rapporto tra «natura» e «cultura», che ha alle spalle una lunga tradizione filosofica, la quale ha le sue radici nel pensiero greco e che è stata ripresa, successivamente, da quello medioevale e moderno. Ma si deve riconoscere che l’attuale proposta del gender si sviluppa entro un contesto culturale diverso da quello del passato. A determinarne la nascita sono stati infatti, da un lato, lo sviluppo di una visione individualistica della vita, che insiste con forza sull’autocostruzione individuale del soggetto umano; e, dall’altro, il pensiero femminile (almeno in alcune aree della propria elaborazione), che è passato, nella fase più recente, dal teorizzare il valore delle differenze nel segno della reciprocità tra i sessi, alla loro negazione, aprendo la strada a un intreccio indefinito di possibilità espressive. Ha perciò luogo un vero e proprio salto qualitativo, che coincide con l’assegnazione del primato ai fattori ambientali – sociali e culturali – e che mette radicalmente in discussione i modelli relazionali del passato, aprendo la strada a nuove (e molteplici) forme di incontro e di reciproco riconoscimento. I risvolti antropologici e sociali di questa svolta sono senza dubbio pesanti. Ha ragione Mauro Magatti a rilevare, in un articolo apparso ieri sul Corriere della sera, le gravi implicazioni che la traduzione sul terreno legislativo di questa visione possono avere sul futuro della vita associata, accentuando le spinte individualiste e autoreferenziali e distorcendo significati originari dell’umano con il rischio di nuove forme di alienazione. Questa lettura, per quanto largamente diffusa, non è tuttavia l’unica possibile. Se infatti si abbandona una prospettiva rigidamente ideologica, che soggiace tanto alle posizioni estreme dell’ipotesi del gender quanto ad alcune posizioni allarmistiche di segno opposto – gli opposti estremismi come recita il titolo dell’intervento di Magatti – e si fa spazio a una visione più attenta alla globalità dell’umano, lo scontro risulta tutt’altro che inevitabile. Sesso e gender, lungi dal dover essere concepiti come realtà del tutto alternative, sono fattori che possono (e devono) reciprocamente integrarsi. Non si tratta di optare per l’uno o per l’altro, ma di rimetterli correttamente in circolazione tra loro. Si tratta di riconoscere l’importanza fondamentale che riveste la differenza uomo-donna, che ha anzitutto la propria radice nel sesso biologico e che costituisce l’archetipo irrinunciabile da cui ha origine l’umano, e di non esitare, nello stesso tempo, ad ammettere l’importante ruolo delle strutture sociali e della cultura nella definizione dell’identità soggettiva. I riflessi di questa concezione in campo etico sono immediatamente evidenti. La lettura del mondo umano che viene dall’acquisizione corretta degli stimoli provenienti dalla riflessione proposta dal gender obbliga a una revisione degli orientamenti tradizionali della scienza morale, prestando maggiore attenzione alla complessità delle dinamiche che presiedono alla costruzione dei comportamenti e delle scelte soggettive. La ricerca di soluzioni, che rispettino tutte le dimensioni dell’umano, è allora la via da percorrere per contribuire alla crescita di una società libera e solidale.




una pacata riflessione sul presepe a scuola in tempi di Isis

scuola pubblica

fare o non fare il presepe?

È giusto o meno fare il presepe nelle scuole italiane? Dopo la polemica sui canti di Natale a Rozzano, la domanda non è senza senso. Mentre noi ragioniamo in astratto, però, nelle scuole il conflitto si vive direttamente ogni giorno. E gli educatori sono costretti a prendere decisioni molto concrete, come quella del dirigente dell’Istituto Garofali. Se hai il venti per cento di bambini musulmani e magari la metà senza nessuna educazione religiosa (mai dimenticare che l’Italia i praticanti sono una piccola minoranza) è più che sensato chiedersi se un canto di Natale che racconta episodi del Vangelo sia realmente comprensibile, o se – soprattutto – il presepe stesso sia una rappresentazione adatta per tutti.

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A mio avviso, una scuola dovrebbe sempre mantenere un profilo rigorosamente laico, come nel caso del crocifisso sul muro – ormai la maggioranza dei bambini non sa di che si tratti ed è difficile spiegare loro cosa significa quell’uomo appeso a una croce e sanguinante. Potrebbe anche trattarsi però, di una laicità non tanto per sottrazione, ma per moltiplicazione. Nel caso del Natale, ad esempio, si tratterebbe non di togliere tutti i simboli, ma accostarne diversi. Se è difficile trovare un equivalente musulmano del presepe, non sarà complicato invece trovare – rinunciare al bellissimo canto corale è un peccato – canti musulmani da cantare insieme agli altri. E se non si trovano, o se non si è capaci di spiegarle, meglio adottare canzoni che celebrino altri simboli del natale più neutri, come l’albero di Natale. Ma non solo per i bambini immigrati musulmani, anche per gli italianissimi bambini che di religione non sanno più nulla. Altre sono le sedi per imparare la religione: l’ora di religione, per chi la sceglie (da noi c’è fin dalla scuola materna, mentre non c’è l’ora di inglese) oppure la famiglia.   Chi sostiene come Matteo Salvini, più presente in tv che in Chiesa, che così ci indeboliamo di fronte all’Isis, non capisce che la laicità vera – sia nella variante per sottrazione che per moltiplicazione dei simboli – porta con sé un universalismo etico forte e insieme inclusivo. Non fare il presepe dunque non ci rende più deboli. Né quella del dirigente scolastico è una scelta di comodo, anzi. Esprime voglia di inclusione, di integrazione reale e di eguaglianza tra bambini provenienti da tradizioni troppo diverse perché se ne celebri una sola. Meglio sarebbe celebrarle tutte. Oppure nessuna, se mancano gli strumenti culturali che gli insegnanti dovrebbero cominciare ad avere. E pure gli alunni, magari in quell’ora di religione che dovrebbe diventare un’ora di storia delle religioni, se potesse essere sottratta all’intoccabile dominio della Chiesa cattolica sulla scuola italiana. In tempi di Isis, sarebbe davvero un’ora preziosa.

 




il preservativo contro l’aids non è un problema per papa Francesco

papa Francesco:

“Il preservativo per arginare il diffondersi dell’Aids? É uno dei metodi, ma non è il problema”


PAPA

 “Il preservativo per arginare il diffondersi dell’Aids? E’ uno dei metodi”

un’apertura quella di Papa Francesco su uno dei principi più controversi che anima il dibattito all’interno della morale cattolica. La risposta di Bergoglio, data ai giornalisti durante il viaggio di ritorno dall’Africa, è circostanziata e precisa. Non deliberativa, ma certamente rivoluzionaria.

“L’Aids colpisce fortemente in Africa, la cura aiuta più gente a vivere più a lungo, ma l’epidemia continua, soltanto in Uganda ci sono state 135 mila nuove infezioni di HIV, e in Kenya la situazione è anche peggiore”, introduce il giornalista. “Lei ha incontrato i bambini sieropositivi, ha ascoltato delle testimonianze commoventi, ma ha detto ancora poco sulla questione dell’Aids”, continua, “Sappiamo che la prevenzione è una chiave, sappiamo anche che i preservativi non sono l’unico modo per fermare l’epidemia, ma è una parte importante per la risposta. Non è forse il tempo di cambiare la posizione della Chiesa? E permettere l’uso dei preservativi?”

 

“La domanda mi sembra troppo piccola, mi sembra anche una domanda parziale, si è uno dei metodi”, risponde il Papa e poi argomenta. “La morale della Chiesa si trova in questo punto davanti a una perplessità: il quinto o il sesto comandamento? Difendere la vita o il rapporto sessuale aperto alla vita? Ma questo non è Il problema più grande. Mi fa pensare alla domanda che rivolsero a Gesù: è lecito guarire il sabato? Non parliamo se si può usare questo o quel cerotto per una piccola ferita. La grande ferita è l’ingiustizia sociale, lo sfruttamento dell’ambiente, la malnutrizione, il lavoro schiavo, la mancanza d’acqua potabile, il traffico d’anni.. A me non piace scendere a riflessioni così casistiche. Le guerre sono il motivo di mortalità più grande. Non pensare se è lecito o no guarire il sabato. Io dirò all’umanità: fare giustizia. E quando tutti siano guariti, quando non ci sia ingiustizia, possiamo parlare del sabato”.




un libro sul gender per dire che il gender non è il diavolo

‘Papà, Mamma e Gender’

un nuovo libro di Michela Marzano

per riconoscere le differenze

cop (1)

Ho avuto il piacere di presentare l’ultimo libro di Michela Marzano, intitolato Papà, Mamma e Gender (Utet, 2015) al Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli, sabato scorso a Roma. L’opera nasce da una considerazione – la profonda spaccatura tra due visioni della società, tra spiriti relativisti e fronte antigay – e dall’analisi di una paura: quella della deviazione della nostra prole a partire dalla loro educazione. Michela Marzano, insegnante universitaria a Parigi, deputata del Pd e donna eterosessuale e cattolica, parte da una considerazione complessiva: quanto c’è di vero dietro la campagna montata sul cosiddetto “gender”?

Per affrontare l’argomento, Marzano denuncia in primo luogo le contraddizioni insite nel discorso messo in campo dal fronte contrario, che si configura sempre più come realtà omofoba. La prima, tra tutte: se siamo d’accordo sulla fine delle discriminazioni, dobbiamo porre le diverse sessualità sullo stesso piano. Ne consegue che cade di per sé l’obiezione sul fatto che si vuole sdoganare l’omosessualità: «Lottare contro le discriminazioni» si legge nel libro «significa innanzi tutto smetterla di pensare che esista un orientamento sessuale “buono” e un orientamento sessuale “cattivo”». Le sessualità non normative, in altri termini, non vanno “sdoganate”: più semplicemente, vanno riconosciute.
Punta poi l’attenzione sul linguaggio utilizzato per la narrazione del fenomeno. Molto spesso si sente utilizzare dai leader del fronte opposto e dai loro sostenitori, parole come “gaystapo” soprattutto quando si affronta il delicato argomento sulle discriminazioni a scuola. Non solo, in quel termine, c’è un insulto verso le persone Lgbt – quel nomignolo richiama al nazismo e migliaia di gay e lesbiche vennero sterminati nei lager – ma si confonde volutamente la lotta all’omofobia nelle nostre aule per una sorta di violenza contro insegnanti e allievi. E così non è.

Svela, infine, Marzano il corto circuito logico su cui si basano stereotipi e pregiudizi e oppone l’argomentazione (e quindi il ragionamento) allo schema precostituito. Perché pensare è faticoso, ci suggerisce, ma è l’unica cosa che va fatta per sconfiggere certi fanatismi.

Per portare avanti questo triplice filone, si affrontano – in un testo dalla lettura scorrevole, limpida e pur densa di stimoli intellettuali – le tematiche della pluralità delle famiglie, del rispetto della diversità, della violenza insita negli stereotipi di genere: quelle gabbie mentali, per fare due soli esempi, che ci suggeriscono in modo acritico che una ragazza non potrà mai fare il camionista (perché è cosa da uomini) e che per un ragazzo è sconveniente prendere lezioni di danza, se vuole mantenere integra la sua mascolinità. Stereotipi che poi inducono il “maschio” a considerare la donna non soggetto dotato di autonomia esistenziale, ma soggetto destinato al possesso. Il suo. E ciò va evitato, in una società che vuole essere pienamente egualitaria.

Affronta, ancora, la differenza tra “identità” e “uguaglianza”. Volere un’educazione di genere, basata sul rispetto tra ragazzi e ragazze e sull’accoglienza delle diversità, anche sessuali, non significa voler abbattere l’identità di cui siamo portatori e portatrici, ma è prendere posizione rispetto a valori imprescindibili. Uomo e donna sono sì biologicamente diversi (hanno, cioè, caratteristiche distinte), ma nell’accesso ai diritti sono uguali. Lo dice anche la Costituzione. Le associazioni quali Manif pour tous, Provita, ecc, sembrano invece far confusione tra questi due elementi. Se per ignoranza o volutamente, è poi da capire.

Eppure, di fronte a questi elementi di verità – verità fatta dall’osservazione del reale e non da certezze precostituite – Marzano non è mai assoluta, perentoria. Si fa molte domande, nel suo libro. E le restituisce a noi. Non fornisce soluzioni facili, ma si interroga e ci interroga di fronte a temi cruciali per la società contemporanea. Fino ad arrivare, nel cuore del libro, a una narrazione più privata, intima: come se volesse dischiudere la propria umanità rispetto ad un tema che, per come viene trattato, tende a disumanizzare le differenze e chi ne è testimone. E questo, credo, è il suo punto di forza. Si mette in gioco, Michela Marzano, e lo fa senza paura. E si mette a nudo, con il pudore di chi sa perché ha vissuto. Il resto va valutato secondo le emozioni e i saperi che riuscirete a trovare leggendo Papà, Mamma e Gender