un giubileo universale

il Giubileo della misericordia

e il nuovo disordine mondiale


GIUBILEO

nel giorno numero mille dalla sua elezione, Papa Francesco apre il Giubileo, che rappresenta, assieme al Sinodo dei vescovi del 2014-2015, uno dei momenti forti del pontificato: un anno dedicato alla parola chiave scelta da Jorge Mario Bergoglio, “misericordia”. Si annuncia come un Giubileo in buona parte diverso dal Grande Giubileo del 2000 di Giovanni Paolo II

In primo luogo, la chiesa di Francesco sta andando incontro a un radicale “aggiornamento” aperto al futuro, molto più che verso un piano di oculate “riforme”: un aggiornamento di roncalliana memoria e di sapore conciliare. La scelta dell’apertura del Giubileo il giorno 8 dicembre, a cinquanta anni esatti dalla conclusione del concilio Vaticano II, non è casuale. Francesco ha le capacità dello stratega, ma non è un pianificatore: il concetto di “discernimento” ha molto più a che fare con un processo spirituale aperto alle novità e alle sorprese, come fu il Vaticano II, che con la razionalità burocratica. Invece il Giubileo di Giovanni Paolo II del 2000 arrivò dopo un lungo periodo di preparazione che era iniziato con la lettera apostolica “Tertio Millennio Adveniente” del 1994. Il Giubileo del 2000, in altre parole, fu pensato e programmato da Giovanni Paolo II nel suo lungo pontificato, rimase centrato sulla Roma del Papa, e cambiò alcune coordinate del rapporto tra la chiesa e la dimensione ad extra come con l’ebraismo (le conferenze di studio sponsorizzate dalla Santa Sede sulla storia dell’antigiudaismo, il documento Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah del 1998 legato alla “purificazione della memoria”) e l’ecumenismo (l’apertura della Porta Santa con leader di altre chiese), ma non ebbe grandi effetti all’interno della chiesa cattolica in quanto tale.

In altre parole, il Giubileo del 2000 faceva parte di un complesso piano teologico e spirituale di Giovanni Paolo II, in cui gli elementi ad extra (l’ecumenismo, il dialogo interreligioso, le richieste di perdono nei confronti del mondo esterno) erano molto più importanti degli sforzi di Giovanni Paolo II per riconciliare la Chiesa ad intra e per ricondurre ad unità le tensioni interne alla chiesa che già allora erano percepibili e che ora Francesco si trova a gestire. Quello di Giovanni Paolo II fu anche un Giubileo con alcuni elementi di contraddizione tipici di quel lungo pontificato. Il Giubileo del 2000 fu molto più romano che universale, in tutte le chiese locali, come sarà quello di Francesco. La logistica degli eventi giubilari del 2000 fu anche una grande opportunità per cementare il già poco trasparente rapporto tra il Vaticano, l’Italia, e la città di Roma: il Giubileo venne utilizzato non solo per spostare pellegrini a Roma, ma anche per spostare ingenti somme di denaro. La ferma intenzione di tenere a debita distanza i politici e la politica italiana è tipica di Papa Francesco e rende diverso il rapporto tra il Papa e l’Italia anche durante il Giubileo. La dislocazione del centro di gravità della cattolicità dal Vaticano alle periferie ha conseguenze anche per Roma e l’Italia.

In secondo luogo, il Giubileo del 2000 occupò la scena di una Chiesa cattolica che era allora molto più sicura di sé. Da questo punto di vista sembrano essere passati molto più di quindici anni. La chiesa cattolica dell’anno 2000 era molto più sicura di sé non solo a causa della popolarità della star globale Giovanni Paolo II, ma perché era una Chiesa in cui, per esempio, la stragrande maggioranza dei cattolici non era a conoscenza della dimensione della tragedia degli abusi sessuali commessi del clero in tutto il mondo (molti vescovi, cardinali, avvocati e canonisti sapevano ma non agirono). Nel 2000 la questione della corruzione in Vaticano era materia per pochi esperti o per gli storici, e non era sulle pagine dei giornali tutti i giorni come oggi. Il Giubileo della misericordia si apre invece in una Chiesa che negli ultimi anni, con Papa Francesco, ha visto preti in prigione, vescovi condannati dalla giustizia secolare, e in un caso anche un vescovo del servizio diplomatico della Santa Sede arrestato per ordine del Papa e condotto nelle prigioni del Vaticano. È finita l’epoca dei prelati (anche cardinali) sottratti alla giurisdizione, come accadde sotto Giovanni Paolo II.

Terzo elemento di differenza: la chiesa vive e opera nel mondo reale, e il mondo del 2015 è molto diverso dal mondo di soltanto quindici anni fa. Il mondo del 2000 era molto più ottimista e pieno di speranza: l’Unione europea stava preparando la transizione dalle monete nazionali all’Euro, e l’Unione europea era ancora un potente attore per l’unità e la stabilità del vecchio continente; in Medio Oriente la “seconda Intifada” iniziò solo verso la fine del 2000 e c’erano ancora speranze per la “soluzione dei due Stati” tra Israele e palestinesi; nel mondo occidentale gli Stati Uniti avevano ancora un ruolo di leadership, non offuscata dalle catastrofiche decisioni strategiche prese nel decennio successivo da Bush prima e da Obama poi; la questione ambientale non sembrava così disastrosa e potenzialmente apocalittica come oggi. Soprattutto, il giubileo del 2000 venne celebrato in un mondo pre-11 settembre, un mondo in cui il rapporto tra religione e violenza era importante in alcune aree geografiche del globo ma non pervasivo come oggi: il problema del legame tra religione e violenza sembra ora dominare l’immaginario sul ruolo delle fedi nel mondo globale.

Pochi mesi dopo la conclusione del Giubileo del 2000 Giovanni Paolo II potè visitare i luoghi santi dei musulmani a Damasco. La Siria era già allora e da lungo tempo sotto una dittatura terribile e sanguinaria, ma quel paese era un modello di convivenza interreligiosa in Medio Oriente, un luogo sicuro per i cristiani, e non l’incubo odierno di una guerra apparentemente senza via di uscita. Diversa dal 2000 è la percezione di un cristianesimo che oggi è tornato all’epoca delle persecuzioni – “l’ecumenismo del sangue” di cui ha parlato Francesco: non solo le immagini delle decapitazioni trasmesse via internet, ma anche le conseguenze delle persecuzioni (guerre civili, rifugiati, minacce alla stabilità dell’intera area euro-mediterranea) fanno impallidire la memoria delle persecuzioni che i cristiani subirono nell’Impero romano prima della legalizzazione del cristianesimo da parte di Costantino nel quarto secolo. La pressione esercitata su di noi da quelle immagini e da quelle notizie rendono l’enfasi di Papa Francesco sul Dio della misericordia tanto psicologicamente paradossale quanto teologicamente necessaria.

Il Giubileo di Papa Francesco va a far parte della storia dei giubilei. Ma questo Giubileo della misericordia non è solo l’ennesima puntata di una storia già vista, e quello di Francesco non è un pontificato di transizione. Quello che si apre l’8 dicembre è un Giubileo con un ruolo significativamente ridotto per Roma e il Vaticano, paradossalmente in una chiesa che si affida oggi a un uomo solo, Papa Francesco, più di quanto i cattolici liberal e gli atei illuminati alla Scalfari siano disposti ad ammettere. È un giubileo che esprime la teologia e la visione di chiesa del primo Papa non euro-mediterraneo e post-Vaticano II. Tipica di Francesco è una ridefinizione mistica dei rapporti tra la Chiesa e il mondo. La decisione di Francesco celebrare il Giubileo della misericordia non si basa solo su considerazioni teologiche ed ecclesiali, ma esprime una profonda comprensione da parte del Papa di quello che è il mondo di oggi. Ed è un mondo più complicato di quello di soltanto pochi anni fa




è il Corano o la Bibbia ? indovina!

questo è quello che succede se leggi alle persone il Corano e poi gli dici che in realtà è la Bibbia

corano
da L’Huffington Post

(vedi sotto link video)

quello che emerge sono i pregiudizi e l’ignoranza. Fa discutere ma soprattutto riflettere l’esperimento realizzato dal canale youtube olandese “Dit Is Normaal”. In questi giorni di rabbia dopo gli attentati di Parigi e di San Bernardino hanno deciso di fare un esperimento dal titolo “The Holy Quran Experiment”. Funziona così: si prende una Bibbia, si applica la copertina del Corano e poi si va in giro a fare domande alla gente. Gli intervistatori leggono alcuni passaggi del libro (che ricordiamo è la Bibbia ma con la copertina del Corano) e la reazione della gente è stizzita, di scandalo e disapprovazione. Chiaramente, quelli scelti, sono alcuni fra i versi più “duri” del testo sacro.

http://www.huffingtonpost.it/2015/12/06/bibbia-corano-esperimento_n_8731290.html?utm_hp_ref=tw

 

 




il commento al vangelo

ECCO, CONCEPIRAI UN FIGLIO E LO DARAI ALLA LUCE

commento al vangelo della solennità della Immacolata Concezione di Maria (8 dicembre) di p. José María CASTILLO

Castillo

Lc 1,26-38

Al sesto mese l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di  Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».  A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato  grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore  Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo  ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha  concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del  Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

1. È un fatto che la festa dell’Immacolata Concezione è una delle celebrazioni più importanti istituite e conservate dalla Chiesa per quanto riguarda Maria,  la madre di Gesù. La devozione e la pietà del popolo cristiano verso Maria sono elemento costitutivo ed importante nella spiritualità di molti cattolici  e di non poche istituzioni e congregazioni religiose a partire dal Medioevo. Una spiritualità che si è intensificata nei secoli XIX e XX, soprattutto in  occasione delle definizioni dogmatiche dell’Immacolata (1854) e dell’Assunzione (1950). In questi secoli hanno avuto rilievo speciale le apparizioni della  Vergine e i numerosi santuari che richiamano migliaia di fedeli.

2. La esemplarità di Maria, madre di Gesù, così come di lei parlano i vangeli, è più importante di tutto quello che possono esprimere le immagini popolari  ed i libri di pietà mariana. Non si tratta solo dell’umiltà di una giovane che di sé pensa di essere una “schiava” (Lc 1,38) nei confronti del Signore
e della vita. Maria aveva un sentimento profondo: essere una persona umile, che apparteneva al gradino più basso della scala sociale in Israele (la tapéinosis,  Lc 1,48) (W. Grundmann). Ed a partire da tale condizione pronuncia il suo Magnificat, l’inno che “evoca i pericoli del potere e della proprietà”. E che annuncia la trasformazione che farà il Signore: abbattere i potenti ed esaltare quelli che non contavano nulla (Lc 1,52-53) (F. Bovon).

3. A partire da queste convinzioni Maria ha educato Gesù, il figlio delle sue viscere. Gli ha contagiato quello che lei viveva e sentiva così fortemente.
Questo è l’aspetto più evangelico e geniale che possiamo ammirare in Maria Immacolata.




i ‘nostri’ desaparecitos

le mamme dei desaparecidos di casa nostra o meglio di “mare nostrum” sono e saranno una continua provocazione per tutti noi

 

migranti

sono le madri delle migliaia di migranti che, spinti dalla disperazione, sono partiti dal Nordafrica senza mai raggiungere l’altra riva, l’altro approdo. Persone che per noi rischiano di essere solo numeri: 24.000 dal 2000 al 2014, più di 2.800 in quest’anno ancora in corso. Per le madri non possono essere numeri e per questo hanno deciso di apprendere la lezione argentina delle Madres de Plaza de Mayo

ogni giovedì si incontreranno dalle 18 alle 19 in una piazza di Roma, Palermo, Torino e Messina per girare in tondo in silenzio lasciando parlare solo i volti delle foto dei loro figli desaparecidos. Una provocazione alle nostre coscienze e a quelle dell’Europa intera che non consente corridoi umanitari, che considera le merci più importanti delle persone, che non riesce ad adottare misure in grado di salvare vite umane. Preferisce lasciarle in balia delle mafie che ringraziano e lucrano sulla pelle dei più poveri tra i poveri. Non ci pare che finora ci sia stato alcun TG a parlarne e per questo vogliamo contribuire a dare voce al loro silenzio dignitoso che chiede semplicemente pietà e giustizia, memoria e solidarietà, oppure soltanto una lacrima. Con cuore di madre.

http://www.mosaicodipace.it/mosaico/i/3053.html




la miseria umana di un cattolicesimo ottuso e disumano

Adinolfi contro la madre surrogata: «è una puttana»

sulle pagine de ‘il Giornale’ le augurano la morte: «ti possa scoppiare quell’utero maledetto»

dopo il clamoroso insuccesso del suo sciopero (a cui non ha partecipato praticamente nessuno) Mario Adinolfi pare aver scelto di rispondere con la sua solita violenza. Ed è così che dalla sua pagina Facebook, l’esponente dell’integralismo cattolico ha pensato bene di dare della «puttana» alle donne che osano dare dei figli alle coppie gay

non pervenuta è la definizione riservata alle madri di coppie etero che accedono alla maternità surrogata e che, oltre a costituire la quasi totalità di chi ricorre a quelle pratica, può anche avere  la garanzia di non veder riportato il nome della madre naturale sull’atto di nascita se si reca da Putin (l’uomo che l’integralismo cattolico indica come la massima rappresentazione della cristianità).

Commentando un articolo di Repubblica in cui una donna ha raccontato di non essere stata assolutamente sfruttata (così come Adinolfi è solito sostenere, forte della sua abitudine di mettere le sue parole nella bocca di altri) ha scritto:

Repubblica intervista una donna americana che ha affittato l’utero a due gay italiani: “Mi hanno pagata 20mila euro, l’ho fatto per amore”. Quando “l’amore” costa 20mila euro ha un nome ben preciso, completabile con “di alto bordo”. Giochi di società per ricchi borghesi annoiati, in cerca di emotive novità. C’è chi si vende, c’è gente con i soldi che compra: il mestiere più vecchio del mondo. Essere genitori, davvero, è un’altra cosa.

Certo, cos’è una famiglia lo deve decidere quella stessa persona che riempito le pagine del suo blog e della sua pagina Facebook con messaggi rivolti alle figlie per scusarsi (per via telematica) se non sarà presente ai loro compleanno o ai loro concerti perché ha cose più importanti da fare che badare a loro. E lo sa anche chi si è sposato in scarpe da ginnastica e tuta, forse poco interessa a garantire un minimo di rispetto alla consorte. O chi fotografa la moglie mentre si fa massaggiare i piedi per poi mettere lo scatto in rete.
Tutto cose che sarebbero fatti suoi, se solo non si fosse dinnanzi ad uno che pontifica contro le famiglie altrui senza nemmeno conoscerle. Il tutto con lo scopo di alimentare odio sulla base di giudizi morali, peccato che a spararli sia una persona che non pare avere le carte in regola per farlo (un po’ come quando lo troviamo a dichiararsi contro il divorzio nonostante lui sia divorziato). E questo senza notare come lui stesso proposto le unioni gay quando era deputato e la cosa gli avrebbe potuto portare un guadagno, così come ora le combatte solo perché si è venduto all’integralismo e alla convenienza del mercato dell’odio (quello contro gli anziani era fallito con il fallimento del suo giornaledenominato The Week in cui attaccava chiunque avesse più ani di lui). Che diceva di chi si vende?

Ovviamente anche Il Giornale si è accodato alla propaganda anti-gay di Adinolfi, sostenendo che sia una vergogna che i gay possano avere figli (dato che in Russia o in India ci devono poter andare solo gli eterosessuali). Il tutto sollevando la solita reazione violenta dei suoi lettori, divertiti ad insultare la madre. C’è chi dice che «si sente donna ma si comporta consenzientemente da mucca» o chi commenta: «Amor amore, del puttanesco sentimento… chissà chi dei due se la sarà trombata». Non manca poi il ritornello del «ma non si pensa mai al futuro del nascituro» prima di sentenziare «Vi dovete semplicemente vergognare, feccia dell’umanità».
Il ritornello più ricorrente è però il chiedersi come sia nato il figlio e c’è molto dissenso verso l’idea che nessuno abbia divaricato le gambe della donna per penetrarla con violenza. Qualcuno dice che si sia ricorsi ad una siringa che «si usa per inseminare le mucche con la fecondazione artificiale». Qualcun altro sentenzia: «Non solo nessuno dei due se l’è trombata, ma nessuno dei due è attratto dalle donne, proprio gli fanno schifo e nessuno dei due, pur impotente, starebbe un po’ di anni con una donna che potrebbe dargli il figlio che tanto desidera, anzi “vuole”. La donna non è portatrice di una mentalità e un sentire diverso e interessante con cui avere il piacere di interagire, ma una mera riproduttrice da poter magari prendere in giro e sfruttare per il suo piacere di essere madre fine a sé stesso, come sembra sia in questo caso. Con qualche moina di circostanza».
Non manca chi cita la Bibbia e scrive: «Ma quel bambino che male ha fatto? Non vivrà in una famiglia naturale, non avrà un padre ed una madre come vuole Dio che ha istituito il matrimonio (…a sua immagine lo creò, maschio e femmina li creò….Genesi 1). Sarà figlio dell’egoismo più incredibile e crescerà in un inganno continuo perché non tutto ciò che è possibile è anche lecito».
Immancabile, infine, è che augura la morte alla madre del piccolo e scrive: «Ti possa scoppiare quell’utero maledetto».

E dinnazni a tutto ci, difficile è non costatare come l’integralismo cattolico stia riuscendo nel suo intento di sposare il dibattito dalle unioni civili ad un qualcosa che non contemplato dalla legge. Un po’ coems e domani qualcuno so svegliasse e chiedesse che i diritti di Adinolfi siano immediatamente aboliti (e che sua figlia sia strappata dalle sua mani perché la Bibbia non tollera figli nati fuori dal matrimonio e il suo primo matrimonio non poteva essere sciolto secondo la sua stessa propaganda) e da partisse un dibattito sulle scie chimiche a da cui si farebbe dipendere le sorti della prima richiesta.
Follia? Sì, ma nell’Italia catto-fascista in cui gente come Adinolfi va in televisione al posto di essere affidata ad un assistente sociale, tutto questo è possibile!




il commento al vangelo

OGNI UOMO VEDRA’ LA SALVEZZA DI DIO 

commento al vangelo della seconda domenica di avvento (6 dicembre 2015) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Lc   3,1-6

Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetràrca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetràrca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Càifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccarìa, nel deserto.
Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaìa: «Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!
Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate. Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!».

Quando leggiamo il vangelo, per gustarne la ricchezza dobbiamo metterci nei panni dei primi lettori o dei primi ascoltatori che non sapevano come andava a finire. E vedremo nel brano di questa domenica, 6 dicembre, seconda di Avvento, i primi sei versetti del capitolo terzo del vangelo di Luca, come l’evangelista crea la sorpresa.
Scrive l’evangelista: Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare… l’inizio di questo brano è ridondante, solenne, perché poi l’evangelista vuole destare la sorpresa e sarà veramente una sorpresa. Inizia con Tiberio Cesare. A quel tempo i potenti si consideravano degli dei, quindi l’evangelista inizia con la persona che è più vicina a Dio, ed è un Dio lui stesso, l’imperatore.
Mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetràrca dell’Iturèa e della Traconìtide, vediamo come è solenne e pomposo questo inizio, l’evangelista va a pescare anche un certo Lisània, personaggio semi sconosciuto, tetràrca dell’Abilène, cioè dell’anti Libano,  sotto i sommi sacerdoti Anna e Càifa.
Perché “sommi sacerdoti”? Il sommo sacerdote era uno. Ma l’evangelista ne pone due, Anna e Caifa. Perché tutto questo? L’evangelista vuole raggiungere il numero sette. Il numero sette, nel linguaggio  della Bibbia, rappresenta quello che è pieno, quello che è completo, quello che è totale. Potremmo dire con un linguaggio comprensibile a noi oggi “era il G7 del tempo”, i massimi potenti della terra.
Ebbene ecco la sorpresa:   la parola di Dio venne su … Su chi scenderà la parola di Dio? Qui abbiamo Tiberio Cesare, l’imperatore, Dio  lui stesso, abbiamo anche i sommi sacerdoti che erano i rappresentanti di Dio sulla terra. A chi si rivolgerà Dio per manifestare la sua parola? Ebbene, quando Dio deve intervenire nella storia – questa è la sopresa – evita accuramente luoghi e persone sacri e religiosi perché sa che notoriamente sono ostili e refrattari al suo messaggio.
Infatti ecco la sorpresa, la parola di Dio venne su … nessuno dei potenti, ma su un certo Giovanni, figlio di Zaccarìa, nel deserto. Ma che ci fa Giovanni nel deserto? Giovanni, in quanto figlio di un sacerdote, all’età di diciotto anni doveva presentarsi al tempio per essere esaminato per verificare che non avesse nessuno dei difetti che impedivano l’esercizio del sacerdozio e poi continuare, perpetuare il sacerdozio del padre.
Giovanni no. Giovanni è il bambino che fin dal seno della madre è stato ripieno di Spirito Santo, lui è l’uomo dello Spirito, non l’uomo del rito.
Per cui rompe con la società e va nel deserto, lontano da Gerusalemme e lontano dal tempio. La parola di Dio scende proprio su di lui.
Egli percorse tutta la regione del Giordano, il Giordano ci ricorda il fiume che il popolo ebraico ha dovuto attraversare per entrare nella terra promessa; ora la terra promessa è diventata una terra di schiavitù dalla quale il popolo deve uscire.  Predicando un battesimo … il termine “battesimo” non ha il nostro significato liturgico, era un rito nel quale – il termine significa immersione – ci si immergeva completamente nell’acqua, si moriva simbolicamente a quello che si era stato, e si usciva come una persona nuova.
Quindi Giovanni predica questo segno come immagine di un cambiamento di conversione. Nella lingua greca la conversione si esprime in due maniere: una è la conversione religiosa, il ritorno a Dio, il ritorno alla religione e gli evangelisti evitano accuratamente questo termine. L’altro, adoperato dall’evangelista, è il cambiamento di comportamento, un cambiamento radicale nella propria esistenza.
Ecco perché questo messaggio di cambiamento non poteva essere rivolto alla casta sacerdotale al potere, che non ama i cambiamenti. Ma Giovanni dice: “Cambiate vita”. Cosa significa conversione? Se fino ad ora hai vissuto per te, da adesso vivi per gli altri.
Ebbene questo avviene per il perdono dei peccati. Quello che fa  Giovanni è inaudito, è una sfida tremenda, perché i peccati venivano perdonati andando al tempio di Gerusalemme, portando delle offerte a Dio. Giovanni non è d’accordo. Lui, l’uomo dello Spirito, dice che il perdono dei peccati non avviene attraverso un rito liturgico, offrendo dei doni al Signore, ma attraverso un cambiamento radicale di vita – vivendo per gli altri, e questo ottiene la cancellazione dei peccati.
Com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaìa, e qui l’evangelista cita quello che si chiama “il libro della consolazione”, la seconda parte del profeta Isaia ed è stata scritta da un profeta anonimo, alla fine  dell’esilio, ed è un invito a lasciare la terra della schiavitù.  «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!
Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate. Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!».
Il testo del profeta Isaia diceva: “Ogni uomo vedrà la gloria di Dio”. L’evangelista lo modifica: “Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio”. La gloria di Dio si manifesta nella salvezza di ogni uomo. E’ importante quest’accezione “ogni uomo”. Non ci sono persone escluse dall’amore di Dio. Non ci sono persone escluse da quest’invito alla conversione per realizzare il regno di Dio. Ogni uomo è destinato a sperimentare la gloria del Signore, l’amore del Signore.
Dirà poi Pietro negli Atti degli Apostoli, ricollegandosi a tutto questo, che Dio gli aveva rivelato che nessun uomo poteva essere considerato immondo, cioè impuro, escluso dall’amore di Dio. Ecco questo è l’annunzio della buona notizia: la parola di Dio si rivolge su Giovanni per un invito a un cambiamento di vita e questo è un messaggio offerto a tutta l’umanità.
Nessuno se ne può sentire escluso.

 




la saggia posizione del vescovo di Padova sul presepe a scuola

reazioni scalmanate invece a proposito delle sue parole …

gesù bambino

è stata volutamente mal interpretata la proposta, – invece, molto saggia e per niente rinunciataria (‘un passo indietro’) – del vescovo di Padova a proposito del presepe e dei segni religiosi a scuola né può interpretarsi come un’autocorrezione la precisazione che ha rilasciato in seguito alle reazioni scalmanate e ultrastrumentali che sono seguite alle sue parole

presepe

lui stesso precisa:«Non ho mai detto “rinunciamo al presepe” e non ho fatto riferimento ad alcun luogo specifico». E chiarisce: «Fare un passo indietro non significa creare il vuoto o assecondare intransigenze laiciste, ma trovare nelle tradizioni, che ci appartengono e alimentano la nostra fede, germi di dialogo…” ( qui peraltro si può scorgere il vero rispetto per le tradizioni: non ripeterle come qualcosa di mummificato, ma di ripensarle e ritradurle nell’oggi in un contesto di dialogo e di arricchimento e di modificazione reciproci)

di seguito alcuni articoli (con i rispettivi link) di rassegna stampa che il sito ‘rassegna stampa – finesettimana’ ha raccolto:
  • Di fronte al “significato” del presepe, è chiaro che quello evocato dal Vescovo di Padova è un passo avanti e non un passo indietro. Mentre ciò che il Governatore del Veneto difende come un soprammobile, è la propria più clamorosa smentita e contestazione.
“la ricetta prospettata dal vescovo – “i tanti passi indietro”… (non  sembra che il vaticanista de il Foglio colga il senso di quanto detto dal neovescovo di Padova: più che di passi indietro parla di passi da compiere insieme e quindi rivedendo le proprie tradizioni con uno sguardo diverso…)
«Non ho mai detto “rinunciamo al presepe” e non ho fatto riferimento ad alcun luogo specifico». E chiarisce: «Fare un passo indietro non significa creare il vuoto o assecondare intransigenze laiciste, ma trovare nelle tradizioni, che ci appartengono e alimentano la nostra fede, germi di dialogo…” (ndr.: ecco il vero rispetto per le tradizioni: non ripeterle come qualcosa di mummificato, ma di ripensarle e ritradurle nell’oggi in un contesto di dialogo e di arricchimento e di modificazione reciproci)



questa volta è Gesù bambino che scrive una letterina

caro preside, cari politici e genitori,

scusate se vi disturbo mentre vi state azzuffando per me ma volevo dire anch’io la mia

gesù bambino

è da duemila anni che si festeggia la mia nascita e negli ultimi tempi sembra essere diventata un problema. Più che unire ora vi divido. Ma siete così sicuri che mi interessino i vostri canti? Natale è solo un brindisi, il taglio del panettone, i lavoretti, il Tu scendi dalle stelle cantato dai vostri bambini mentre scattate quelle immemorabili fotografie del piccolo che alla recita è sicuramente il più bravo? Serve a voi grandi o serve ai bambini questa festa?

Ho letto che da giorni l’Italia intera discute se è giusto o meno festeggiare il Natale a scuola, ma forse dovremmo tornare a chiederci cos’è il Natale?

Non voglio pensare che senza pandoro al cioccolato, regali, dolci nenie e stelline, non si riconosca più il senso del mio essermi fatto carne tra voi. Non credevo nemmeno, sinceramente, di essere venuto sulla terra solo perché un giorno avreste potuto, grazie a me, affermare un’identità. L’unica identità che conosco è quella umana.

Spero che il ricordo della mia nascita non sia solo tradizione, recite e presepi. Sono convinto pure io di non essere troppo di disturbo ai nostri fratelli musulmani, ai buddisti, agli induisti. Ho letto, tra l’altro, che ora il paladino del Natale è quel signore che si chiama Matteo Salvini che vorrebbe le ruspe contro le grotte del giorno di oggi, senza accorgersi che io son nato in un luogo simile a quelle baracche proprio perché nessuno mi ha voluto: ero un profugo.

A difendere il Natale ci ha pensato anche quell’altro tizio, Roberto Formigoni, che non mi risulta essere uno stinco di santo. Come sono finito male!

A Rozzano hanno fatto presidi davanti alla scuola ma vi prego, lasciate in pace i bambini. Ve lo immaginate un presidio davanti alla capanna di Betlemme?

Forse, care mamme e caro preside, sarebbe stato utile a tutti sedersi e chiedersi: come possiamo dare un senso ancora al Natale, anche in una scuola?

Se per quei genitori è davvero importante celebrare la mia nascita, portare la mia Parola in un’aula, farla ascoltare e vivere anche a fratelli di religione diversa (magari festeggiando poi una loro festa), perché non provare a fare qualcosa di diverso da qualche canto e un lavoretto? Magari la semplice condivisione, nei giorni prenatalizi, di un tempo con gli anziani della casa di riposo; la visita ad una casa d’accoglienza. Perché sia davvero Natale, se ci credete e non una spruzzata di buonismo e folclore.

Permettetemi di suggerirvi la lettura di un testo che un uomo che ha davvero vissuto il Natale ha scritto per voi qualche anno fa. Si chiamava don Tonino Bello.

Carissimi, non obbedirei al mio dovere di vescovo se vi dicessi “Buon Natale” senza darvi disturbo. Io, invece, vi voglio infastidire. Non sopporto infatti l’idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla routine di calendario. Mi lusinga addirittura l’ipotesi che qualcuno li respinga al mittente come indesiderati. Tanti auguri scomodi, allora, miei cari fratelli! Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali e vi conceda di inventarvi una vita carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio. Il Bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finché non avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un marocchino, a un povero di passaggio. Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la vostra carriera diventa idolo della vostra vita, il sorpasso, il progetto dei vostri giorni, la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate. 

Maria, che trova solo nello sterco degli animali la culla dove deporre con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti a sospendere lo struggimento di tutte le nenie natalizie, finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che il bidone della spazzatura, l’inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa. Giuseppe, che nell’affronto di mille porte chiuse è il simbolo di tutte le delusioni paterne, disturbi le sbornie dei vostri cenoni, rimproveri i tepori delle vostre tombolate, provochi corti circuiti allo spreco delle vostre luminarie, fino a quando non vi lascerete mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza salute, senza lavoro. Gli angeli che annunciano la pace portino ancora guerra alla vostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che poco più lontano di una spanna, con l’aggravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfratta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano popoli allo sterminio della fame. I Poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’oscurità e la città dorme nell’indifferenza, vi facciano capire che, se anche voi volete vedere “una gran luce” dovete partire dagli ultimi. Che le elemosine di chi gioca sulla pelle della gente sono tranquillanti inutili. Che le pellicce comprate con le tredicesime di stipendi multipli fanno bella figura, ma non scaldano. Che i ritardi dell’edilizia popolare sono atti di sacrilegio, se provocati da speculazioni corporative. I pastori che vegliano nella notte, “facendo la guardia al gregge ”, e scrutano l’aurora, vi diano il senso della storia, l’ebbrezza delle attese, il gaudio dell’abbandono in Dio. E vi ispirino il desiderio profondo di vivere poveri che è poi l’unico modo per morire ricchi. Buon Natale! Sul nostro vecchio mondo che muore, nasca la speranza.

Gesù Bambino.

Ps: sia chiaro che l’autore di questa fantasiosa lettera è faticosamente ateo, crede nella laicità della scuola e nel rispetto di ogni cultura, anche quella cattolica cristiana. 

 




i giovani rom delineano un paese nuovo

il manifesto dei giovani Rom

‘primavera romanì’

«questa è l’Italia che vogliamo»

giovani rom1

di Paola Grechi

Immaginare insieme l’Italia che si vorrebbe. Dove sia possibile costruire rispetto e diritti, per tutti. Sono i sogni molto concreti di venti giovani attivisti rom e sinti di diverse città italiane, da nord a sud. Alle spalle hanno ognuno una storia diversa, alcuni risiedono nei “campi”, altri in casa, ma hanno in comune un obiettivo: contribuire a rendere l’Italia un paese in cui le discriminazioni e l’intolleranza cedano il posto al dialogo e all’inclusione. Hanno raccolto le loro idee in un manifesto lanciato dopo la due giorni di discussione “Primavera Romanì. I giovani rom e l’Italia di domani”, promossa dall’Associazione 21 luglio. Si sono suddivisi in quattro gruppi e con altri ragazzi italiani hanno ragionato su come dovrebbero cambiare le politiche sulla casa, i giovani, il lavoro e la scuola.

I venti protagonisti dell’incontro, il primo in Italia interamente dedicato alla voce dei giovani rom e sinti, provengono da Vicenza, Torino, Lucca, Roma, Oristano, Cagliari e Mazara del Vallo. E per spiegare chi sono hanno utilizzato il mezzo migliore, ci hanno messo la faccia. 

«Molti di noi vengono da una storia di disagio, soprusi ed esclusione, ma non ci siamo fermati e non ci fermeremo. Nella storia dei nostri nonni, dei nostri padri e delle nostre madri ci sono state persecuzioni, deportazioni, crimini contro l’umanità. Anche oggi molti di noi vivono la fuga dalle guerre, la ghettizzazione e il dolore del rifiuto, e ci sembra che quella storia non finisca mai. Questo non ci impedisce di essere qui e di scrivere insieme una nuova pagina per la nostra Italia, perché vogliamo andare oltre ed essere attori di un cambiamento di cui tutti possano giovare».

 

E continuano:

«Non accettiamo più che i nostri figli vivano in un paese di ghetti, separazioni, disuguaglianze, povertà, odio e razzismo, né oggi, né domani. La memoria di ciò che è stato, e la consapevolezza di ciò che è, sono per noi la spinta verso la costruzione di una storia diversa. Sogniamo per l’Italia un risveglio di umanità. Vogliamo essere un esempio di società unita e libera, come l’Italia dovrebbe essere. Un paese orgoglioso dei suoi valori, aperto verso i deboli, che consenta a ciascuno di essere apprezzato, amato e riconosciuto per le proprie passioni e qualità. Un’Italia che abbracci le differenze e si consideri fortunata per la ricchezza di tutte le culture che la compongono. Un’Italia serena».

@CorriereSociale




la vera integrazione è ‘annusare’ e ‘lasciarsi annusare’

immigrati

integrazione cosa è?

migranti

c’è un solo modo per far comprendere all’altro che non ho troppa paura di lui: andargli incontro, parlargli, annusarlo (con tutto rispetto per gli animali) e lasciarsi annusare. Avvicinarsi a lui, ma consentire anche a lui di avvicinarsi a noi, perché possa farci sentire la sua paura e la sua rabbia. La rabbia e l’invidia che inevitabilmente gli provengono dal vederci vivere in un mondo di pace, magari con agio e in un’indubbia posizione di superiorità. È bene non dimenticare che se loro sono ‘stranieri’ per noi, anche noi siamo ‘stranieri’ per loro…

 

Che il linguaggio moderno si avvii progressivamente verso la sintesi e rifugga dall’analisi è realtà anche troppo nota. Ma che cosa questo produca è un po’ meno noto. Un processo conoscitivo ‘analitico’ conduce a differenziare i termini di un problema, a coglierne i significati in profondità fino alle aree inconsce della mente. Un processo conoscitivo ‘sintetico’ accelera sicuramente la ‘presa’ sulla situazione, ma ne ostacola l’approfondimento e quindi ne compromette sia la diagnosi che la cura. Invale il binomio immigrazione/integrazione sino a stabilirli come termini pressoché equivalenti.

un problema secolare

In realtà l’immigrazione è fenomeno che appartiene a una realtà secolare e ora più che mai attuale, mentre l’integrazione è una categoria che appartiene al sociale e all’emotivo, più attuale che mai: basti questa considerazione per comprendere che ci troviamo su livelli molto distanti fra loro. Tuttavia il pensiero ‘sintetico’ li unifica, li semplifica, vorrei dire li banalizza. Questo conduce a non vedere le differenze sostanziali fra queste due realtà per cui, di fronte a un fenomeno di così vasta portata e complessità, subentrano confusione e sensazione di impotenza. Non è difficile comprendere che di qui a considerazioni massimaliste e dicotomiche il passo è breve. Ne discende la formazione dei due partiti: i favorevoli e i contrari. Ovvero chi apre indiscriminatamente le frontiere a chiunque, chi eleva muri e fili spinati. Se è vero che la realtà integrazione è strettamente interconnessa con la realtà immigrazione, allora sarà bene partire dal dato fondante di base, «integrazione», che costituisce il tessuto emotivo-sociale sul quale si poggia il dato fenomenico esterno, «immigrazione». Ma allora occorre un discernimento chiaro fra le due realtà e soprattutto una conoscenza reale, analitica di «integrazione». Quando avrò capito che cosa significa «integrazione» (diagnosi), solo allora sarò in grado di comprendere in quale misura e con quali strumenti (cura) potrò affrontare l’«immigrazione». Le posizioni non saranno più del ‘favorevole’ o del ‘contrario’, ma del ‘possibile’ o del ‘non possibile’. Mi pare facile vedere che questa è la via per ridurre posizioni partitiche o, ancor più, conflittuali, che logorano, usurpano energie e soprattutto difficilmente aiutano a risolvere. Allora: che cosa significa integrazione? Di che cosa è fatta? Che cosa si vuole integrare? Perché si presenta così difficile da realizzare?

che cosa significa?

L’integrazione, nella relazione umana, significa in primis avvicinare e ritrovare una nuova modalità di essere del razionale con l’irrazionale. Quando due creature iniziano un processo di condivisione, più o meno estesa, il primo problema che si pone è l’accostamento del loro reciproco cognitivo e dei loro reciproci comportamenti (il razionale). E appresso si presenta la difficoltà di far convivere il reciproco emotivo, affettivo, pulsionale (l’irrazionale). La vita di ogni persona si intesse ogni giorno di questa combinazione interna. Impresa non facile, per ognuno di noi. Per la realtà che stiamo osservando, si tratta di trovare una convivenza che dall’individuo si estende al gruppo e alle istituzioni. Impresa ancor più ardua. Andiamo oltre: integrazione del noto, del conosciuto con l’ignoto, con lo sconosciuto. Se già è sconosciuto il vicino di casa, ancor più è facile pensare che lo sia il vicino di continente. L’irrazionale fa paura, l’ignoto fa paura. Se il sentimento della paura è il più diffuso nel mondo umano e animale, possiamo ben comprendere che ogni movimento di integrazione smuove, inizialmente a livelli subliminali, questo scomodo stato di essere con il quale, è molto importante saperlo, occorre fare i conti. Senza arretrare, ma anche senza atteggiamenti di non curanza e men che mai di sfida.

di che cosa è fatta?

Sembra assurdo dirlo, ma prima di tutto di separazione. Si possono integrare parti ben distinte e separate fra loro. Pena la confusione e, per conseguenza inevitabile, il conflitto. Questo modo di procedere è il più disatteso, perché la diversità fa paura. E torniamo al punto di prima. Niente più allontana che il vedere il diverso come uguale. Non potrò mai capirlo, né aiutarlo, perché non vedo in che cosa lui si distingue da me e in che cosa io mi distinguo da lui. Nel tentativo di vederlo, illusoriamente, speculare a me stesso.

che cosa si vuole integrare?

Nel 1967 Christiaan Barnard tentò il primo trapianto di cuore: il paziente morì diciotto giorni dopo. Il chirurgo non aveva tenuto sufficientemente conto dell’azione di rigetto. Ci vollero otto anni di studi per arrivare al nuovo, riuscito trapianto. Accostare un ‘sistema’ umano a un altro ‘sistema’ umano, per di più non solo individuale, ma sociale e istituzionale, è operazione ancor più complessa che inserire un organo in un corpo. In un processo di integrazione, per il fenomeno che stiamo studiando, si vogliono integrare: – modalità di ‘sentire’ emozioni e affetti, che possono essere profondamente diversi da cultura a cultura; – modalità di gestire le pulsioni di base (sessualità e aggressività), che trovano espressioni talora antitetiche; – sistemi valoriali, sia civili che religiosi, che provengono da storie talora millenarie molto lontane fra loro temporalmente e geograficamente e che possono essersi anche combattuti; – sistemi abitativi: la capanna, la baracca, il condominio, il grattacielo.

perché è così difficile?

E qui veniamo al grande capitolo delle resistenze. Un percorso psicoterapeutico, chiunque lo sa, è un processo di cambiamento. Quando un paziente si presenta a me per la prima volta, esaurita la doverosa parte psicodiagnostica, il primo aspetto cui presto attenzione è la resistenza che questa persona opporrà al nostro lavoro. Si pensa che questo non dovrebbe esistere, visto che la persona sta male e desidera stare bene. Il fatto è che cambiare significa allontanarsi da un terreno di sofferenza, ma conosciuto e relativamente sicuro, per avviarsi verso un mondo non conosciuto e non ancora sperimentato come sicuro. Se ben si pensa, non è strano che al desiderio di cambiamento si opponga, ancora una volta, la paura. A chi spetta il compito di affrontarla e trattarla? In psicoterapia ovviamente al terapeuta: il paziente lo spia a ogni istante per vedere se e come la affronta. Perché così potrà fare anche lui.

e nei fenomeni migratori?

Ovviamente questo compito appartiene, prima di tutti, a chi ospita. E il comportamento dei Paesi europei, in quest’ultimo paio d’anni, ci ha mostrato con molta chiarezza chi è capace di trattare questo scomodo sentimento, chi si è aperto e chi si è chiuso. E c’è un solo modo per far comprendere all’altro che non ho troppa paura di lui: andargli incontro, parlargli, annusarlo (con tutto rispetto per gli animali) e lasciarsi annusare. Avvicinarsi a lui, ma consentire anche a lui di avvicinarsi a noi, perché possa farci sentire la sua paura e la sua rabbia. La rabbia e l’invidia che inevitabilmente gli provengono dal vederci vivere in un mondo di pace, magari con agio e in un’indubbia posizione di superiorità. È bene non dimenticare che se loro sono ‘stranieri’ per noi, anche noi siamo ‘stranieri’ per loro… Dove si vede che la testa è di scarso aiuto, mentre le emozioni possono contribuire a farci comprendere la realtà dei fatti assai più che tanti ragionamenti. E l’altro, il migrante, il rifugiato politico, lo ‘straniero’, se si realizzano queste condizioni, impiegherà poco tempo a ‘sentire’, perché l’apparato emozionale è universale e, tanto meno sarà acculturato, tanto più i suoi sensori emotivi, non ostacolati dalle infrastrutture intellettive, gli permetteranno di capire se il terreno su cui si sta poggiando è sicuro o infido.

qualche esempio

A Gioiosa Jonica, in provincia di Reggio Calabria, sono stati avviati quindici tirocini formativi presso aziende private (imprese artigiane, vivai, pizzerie…) per imparare mestieri fruibili in aree che non risentano in modo importante della crisi dell’occupazione. In Alto Adige, in occasioni di festeggiamenti locali, uomini e donne di colore sono stati invitati a preparare cibi dei loro paesi, serviti contemporaneamente ai piatti altoatesini. In provincia di Verona, a Buttapietra, il Sindaco ha organizzato tornei giovanili di calcio per ragazzi del Comune e giovani del Ghana, della Costa d’Avorio, della Nigeria. Gli stessi ragazzi, il sabato, si ritrovano per pulire le strade del paese e curare il verde cittadino. Di singolare interesse l’iniziativa di una Scuola di Treviso dove una maestra in pensione insegna a cinesi, magrebini, albanesi il dialetto locale. Intervistata ha detto: «Va bene insegnare l’italiano, ma qui quasi tutti i ragazzi, in Parrocchia e al bar, parlano in dialetto… Prima che la lingua, a questi ragazzi che arrivano dall’Africa o dal Medio Oriente, bisogna insegnare il nostro linguaggio, perché possano capirci».

Piero Ferrero