massacrare per puro piacere puro terrorismo i stato

GAZA

“ho colpito civili per puro piacere”

KAFAR AZZA, ISRAEL - JULY 28: An Israeli soldier sits on a tank on July 28, 2014 near Kafar Azza, Israel. As Israel's operation "Protective Edge" in Gaza continues, the international community struggles to find a truce agreement. (Photo by Andrew Burton/Getty Images)

Gruppo di soldati riuniti di fronte a un carro armato a Gaza

Ariè fa parte della sessantina di soldati che hanno accettato di testimoniare per l’Ong Breaking the Silence sul soggetto dell’operazione “Margine di protezione”, condotta nell’estate del 2014 nella striscia di Gaza. Ariè ha confidato al mondo la sua esperienza come tiratore a bordo di un carro armato. La sua testimonianza è confermata in numerosi punti dalla stessa Ong

«Sono tiratore a bordo di un carro armato. Ho seguito una formazione classica di quattro mesi, poi altri quattro di formazione specialistica. C’è molto balistica, calcolo delle distanze, esercizi pratici. Sei tu che controlli l’arma, occorre essere calmi e precisi. C’è un pulsante che permette di accendere il cannone. Quando si accende, significa che si è vicini al bersaglio. La regola elementare è: non si scherza, si spinge quel tasto solo se si deve sparare. Per farlo, serve l’ordine del comandante. Diventa istintivo. Ho anche appreso che tutto va messo a rapporto. Ho appreso a scannerizzare un paesaggio, da sinistra verso destra, e fare rapporto. La decisione di sparare è successivamente presa da un superiore. 
Quando sono stato chiamato nel luglio del 2014, siamo stati riuniti nel Golan (nord di Israele). Abbiamo atteso che i camion arrivassero, poi siamo partiti verso sud, in prossimità della striscia di Gaza. Abbiamo cominciato a preparare i carri. Nessuno ci ha parlato della missione. Tutto è sfogato, discutiamo tra soldati, parliamo delle nostre paure, condividiamo i nostri pensieri. Un generale si avvicina e ci dice: “Domani sera, entriamo nella striscia di Gaza. Dobbiamo, pensare alle nostre famiglie. È per loro che lo facciamo, per la loro sicurezza”. Ci ha parlato delle regole. “C’è un cerchio immaginario di 200 metri intorno alle nostre forze. Se vediamo qualcosa all’interno dobbiamo ucciderlo”.

Esplosione nel cuore di Gaza

Ero l’unico a trovare tutto questo bizzarro: “Se una persona vede un carro e non fugge, non è innocente deve essere uccisa”. Ai suoi occhi, non c’erano civili. Se qualcuno era in torto, doveva essere ucciso. Il margine di manovra era ampio. Dipendeva da me e dal mio comandante. Non indagavamo sul bersaglio come mi era stato insegnato durante la formazione. Era più tipo: vedo qualcosa di strano dalla finestra, quella casa è troppo vicina, ho voglia di sparare. “Ok!”, diceva il comandante. Era questa la catena di decisione nella nostra unità.Avevamo mitragliatrici calibro 50 e i 7-62, per le zone aperte. Non abbiamo mai visto umani vicini a noi, tranne nel caso in cui tornavano a casa in sicurezza. Ci vedevano, continuavano ad avanzare. Avevamo paura di possibili attentati kamikaze. Ho preso la mitragliatrice sparando vicino a loro per intimidirli, perché avevamo paura anche noi. Anche se i soldati politicamente di destra erano dispiaciuti per i civili, eravamo in mezzo a loro e ai combattenti di Hamas. Che i combattenti vadano a farsi fottere! Abbiamo sempre paragonato Hamas con lo Hezbollah libanese, che è visto come l’élite. Hamas, ci fa paura lo stesso. Vittime del conflitto a Gaza

Non ho mai visto un combattente di Hamas. Si spostano nei tunnel. Entri in una zona aperta, e di colpo, ti sparano sopra. Ti giri, e non c’è più nessuno. E poi ci sono i cecchini sui tetti. Ne ho ucciso uno. Il cecchino è un semi-combattente. Spesso, vediamo persone sui tetti, che parlano al telefono. Verifichiamo se siano uno dei nostri e poi sparavamo. È successo molto spesso nella mia zona. Non potevamo prendere rischi.Sparavamo sui palazzi ma non era permesso sparare su quello delle Nazioni Unite. Nemmeno puntare il cannone nella loro direzione, poteva partire un colpo per sbaglio. Stessa cosa per l’ospedale o la centrale elettrica e i palazzi internazionali. Ci serviva l’autorizzazione per rispondere.Siamo entrati nella Striscia di Gaza il 19 luglio. Cercavamo dei tunnel di Hamas costruiti tra Gaza e Israele. Dovevamo distruggere le infrastrutture di Hamas e causare danni importanti al paesaggio, all’economia e alle infrastrutture per far pagare il prezzo più alto ad Hamas. Ufficialmente, ci dicevamo di dover evitare vittime civili ma nello stesso tempo dovevamo fare più danni possibili. Ero l’unico nel mio battaglione che era turbato dalla cosa. Tutti gli altri dicevano: “Dobbiamo farlo, o loro o noi, finiremo per essere uccisi altrimenti”. Era veramente triste. Tentavo di capire perché. Forse sono più maturo di loro, o è semplicemente la mia educazione. Molti cercavano solo di sopravvivere, giorno per giorno.Siamo entrati nella notte a Gaza, era molto caotico. C’erano molte discussioni in radio. Avevamo paura. Dopo qualche ora nelle quali sparavamo senza mai essere stati sparati, la mia vigilanza era meno stretta. Un giorno abbiamo tentato di uscire dal carro armato perché avevamo un problema al motore. In quell’istante diversi proiettili hanno sfiorato il mio orecchio e mi sono gettato a terra. La prima settimana uscivamo solo per pisciare e una volta ci siamo fatti un caffè. Dormivamo nel carro armato. Faceva un caldo terribile, non avevamo aria condizionata.


Siamo entrati all’interno della striscia di Gaza. Ci dividevamo e partivamo per missioni di qualche ora, verso il sud e verso Al-Bourej. Ho visto un tunnel di attacco di Hamas. Era talmente largo che praticamente poteva entrarci un carro. Ho anche visto piccoli tunnel a Juhor ad-Dik, sotto un palazzo che ospitava una farmacia della CroceRossa. Siamo rimasti in quella zona due settimane e mezza. La maggior parte del tempo, i carri pattugliavano la zona. Avevamo molta paura delle incursioni di Hamas.

Per tutta l’operazione, i tiratori nei carri armati erano felici di poter sparare dato che non potevano farlo normalmente poiché costa troppo. Io l’ho fatto solo a sei riprese durante la ma formazione. Era una buona occasione per verificare le nostre competenze. Durante l’operazione ho sparato 20-25 volte dal carro.

Nella terza settimana, ci eravamo appostati in un luogo in cui vedevamo la strada per Salaheddine, la grande arteria che attraversa la striscia di Gaza da nord a sud. La gente circolava perché era in una zona fuori dal conflitto. Eravamo in tre nel carro. Ci siamo detti: “Ok vediamo chi colpisce un veicolo o una bicicletta”. Il comandante ha detto: “Ok, rendetemi fieri!”. Il mio carro armato era datato 1980, non poteva raggiungere i bersagli spostandosi velocemente. Dovevo calcolare tutto nella mia testa in cinque secondi per anticipare la traiettoria. E non vedevo una parte della strada. C’era un ciclista. Lo abbiamo puntato con la mitragliatrice calibro 50. Ho sparato davanti e dietro, senza colpirlo. Ha iniziato a pedalare più veloce di Armstrong. È l’episodio del quale mi vergogno di più.

Quando ho lasciato Gaza, ero triste di quello che era successo. Ma ero sollevato di tornare alla vita civile. La maggior parte dei componenti della mia compagnia sono di destra. Considerano Breaking the Silence come un’organizzazione antisionista. “Crimini di guerra?” Sono grandi parole. Ma ho la percezione di aver fatto cose orribili sul piano internazionale. Ho colpito civili, solo per il gusto di farlo.

Ho provato a parlarne. Ma nel mio ambiente, nessuno vuole sentire queste cose. “Sei un eroe, hai fatto quello che dovevi…”. Anche i miei mi hanno detto la stessa cosa. Lì, tutto il sistema dei valori era capovolto. La gente per strada mi diceva che ero un eroe. Io, ero seduto all’interno di un carro armato tutto il giorno. Mi sono abituato a sparare. Non avevo una finestra. Il mio mondo a Gaza, era una scatola di 20 centimetri. Vedevo tutto attraverso un mirino, con una croce. Avevo la consapevolezza di fare qualcosa di male. Non c’era legge. Certo non è che stupravamo donne o uccidevamo bambini. Ma potevamo sparare su palazzi vuoti o sparare su una strada. Se uccidevamo qualcuno, potevamo avere qualche complicazione. Ma niente di più.




un giubileo che non rinuncia alle spettacolarizzazioni

Ermanno Olmi

“il Giubileo? poteva essere quello dei pellegrini, mentre è stato quello dei fotografi”

ERMANNO OLMI

 “Avrei voluto vedere più un Giubileo di pellegrini, piuttosto che di fotografi”. È questo il commento del regista Ermanno Olmi – in un’intervista al Fatto Quotidiano – alla cerimonia di inaugurazione del Giubileo tenutasi a Roma l’8 dicembre. Olmi fu il regista dell’apertura del Giubileo voluto da Giovanni Paolo II nella notte di natale del 1999

 

“Avrei desiderato il vero Giubileo dei pellegrini. Avrei chiesto di aprire contemporaneamente tutte le porte di San Pietro, assieme a quella di Papa Francesco, per fare entrare la gente. Quelli partiti da chissà dove, non i cardinali, i vescovi, i politici. Nel ’99, dentro la Chiesa di San Pietro c’erano già i fedeli, non soltanto i fotografi come accaduto stavolta. Ma era molto suggestivo il fascio di luce che ha avvolto Bergoglio”.

 
Il momento più apprezzato da Olmi è stato il saluto tra Bergoglio e Ratzinger.

“È qualcosa di straordinario. Ho notato che la telecamera ha indugiato su Francesco, ormai vicino agli scalini che precedono l’ingresso in Basilica. Invece di leggere il testo che annuncia il Giubileo, Bergoglio è andato verso Ratzinger, che aspettava in piedi con un’aria contenta e rilassata. Mi è sembrata quasi una maniera per splanacare la porta assieme. Non è avvenuto e questo mi dispiace”.

Il regista ha spiegato di essere stato colpito dall’emotività di Francesco.

“Era molto emozionato. Come gli uomini che nei giorni fondamentali si sentono inadeguati: è un eccezionale sintomo di umiltà. Mi è piaciuto molto scoprire il rapporto di amicizia con Benedetto XVI, esibito in piazza, ripetuto all’Angelus, fatto di stima reciproca e complicità”.

 
E Ratzinger?

“Con le dimissioni ha compiuto un atto eroico. Si è posto nella storia del pontificato come un punto di riferimento per il coraggio dimostrato e il valore spirituale”.

 




dove nascerà Gesù bambino secondo Erri De Luca

NATALE

di Erri De Luca

Erri-De-Luca

Nascerà in una stiva tra viaggiatori clandestini.
Lo scalderà il vapore della sala macchine.
Lo cullerà il rollio del mare di traverso.
Sua madre imbarcata per tentare uno scampo o una
fortuna,
suo padre l’angelo di un’ora,
molte paternità bastano a questo.
In terraferma l’avrebbero deposto
nel cassonetto di nettezza urbana.
Staccheranno coi denti la corda d’ombelico.
Lo getteranno al mare, alla misericordia.
Possiamo dargli solo i mesi di grembo, dicono le madri.
Lo possiamo aspettare, abbracciare no.
Nascere è solo un fiato d’aria guasta. Non c’è mondo
per lui.

presepe 2
Niente della sua vita è una parabola.
Nessun martello di falegname gli batterà le ore dell’infanzia,
poi i chiodi nella carne.
Io non mi chiamo Maria, ma questi figli miei
che non hanno portato manco un vestito e un nome
i marinai li chiamano Gesù.
Perché nascono in viaggio, senza arrivo.
Nasce nelle stive dei clandestini,
resta meno di un’ora di dicembre.
Dura di più il percorso dei Magi e dei contrabbandieri.
Nasce in mezzo a una strage di bambini.
Nasce per tradizione, per necessità,
con la stessa pazienza anniversaria.
Però non sopravvive più, non vuole.
Perché vivere ha già vissuto, e dire ha detto.
Non può togliere o aggiungere una spina ai rovi delle
tempie.
Sta con quelli che vivono il tempo di nascere.
Va con quelli che durano un’ora.




il presepe: un invito a a cambiare il mondo con una ‘tenerezza combattiva’

il presepe è una casa accogliente non escludente

presepe-tuttacronaca

è giusto difendere pubblicamente il Natale (e ogni altra festa). Negli spazi pubblici, e quindi anche a scuola, le feste religiose possono essere tutte vissute e raccontate in un clima formativo come scambio di esperienze e ricerca comune. La laicità è inclusiva, espressione delle identità (in dialogo). E’ giusto, quindi, esporre pubblicamente il presepio (o il crocifisso) come segno di un’identità relazionale-universale

Ma i militanti di alcuni partiti o gruppi lo usano per scopi ristretti, contrari al suo significato. Manifestano con uno stile rivendicativo di contrapposizione escludente. Non si può pensare di affondare i barconi di disperati, di gridare contro l’islam, di chiamare alle armi, tenendo il presepe (o il crocifisso) in mano.
presepi Tra l’altro, molte esibizioni sono del tutto esterne, agitatorie, estranee alle dinamiche della scuola e del paese. Troppe sono le polemiche strumentali: a  Rozzano c’è un bravo preside come un bravo vescovo è quello di Padova, strapazzato da troppe persone superficiali, mentre cerca di far riflettere sul significato dei simboli.
Il presepe racconta una storia di povertà (abissale), di accoglienza (mancata) e di vita (gioiosa). Ai cristiani ricorda il mistero di un amore infinito.
Salvini ruspa Non è una “diga identitaria” ma una casa accogliente aperta allo stupore dei “piccoli” (pastori) e dei “popoli” (magi). E’ l’invito a cambiare il mondo con una “tenerezza combattiva” (Evangelii gaudium 85).
Sergio Paronetto



quale natale? quello di Salvini?

il presepe che Salvini non conosce

di Piergiorgio Cattani
in “Trentino” del 13 dicembre 2015

Salvini1

Natale è ormai una festa globale. La prima festa globale. Da non confondere con un altro Natale, quello religioso cristiano, ormai ricordato da sempre meno persone. Intendiamoci, la ricorrenza cade nello stesso giorno, il 25 dicembre. Una data fissa, circostanza indispensabile per programmare il marketing, per organizzare i pacchetti vacanza, per addobbare i centri commerciali. I due natali si sovrappongono e qualche eco dell’eco dell’antica festa religiosa permane ancora. Tuttavia, sempre di più, l’idolo del Natale, un vecchio nonno ciccione, opulento, vestito di rosso, ricco di regali sfarzosi, spodesta l’inerme, povero, avvolto in fasce neonato Gesù

presepi

Babbo Natale è simbolo della società globalizzata, del consumo globalizzato. Del bene assoluto, ossia la crescita economica, quella misurata tramite il PIL. Anche in Cina si festeggia il Natale del consumo. Ma tra la gente questo giorno di spese in cui si fanno i regali non è ancora molto sentito. Il governo ha cercato di introdurre una “festa dei regali”: in stile americano, i grandi magazzini vorrebbero cogliere l’occasione per moltiplicare gli affari, per dare slancio a quel consumo interno che per ora non mantiene il passo del boom economico del Dragone. Le feste tradizionali, come quella di primavera (in cui si scambiano i regali), resistono; ma tutti scommettono che sarà per poco. Così come Halloween, anche il Natale del consumo comincia a farsi strada. Bene o male, in maniera massiccia o ancora poco presente, Babbo Natale – figura di cui non si possono dimenticare i legami con la Coca Cola – è noto ai quattro angoli del pianeta. In Africa ci sono addirittura monumenti alla Coca cola. E anche in quei due “nuovi continenti” virtuali che sono Google e Facebook.

Salvini ruspaHa sicuramente soppiantato Gesù bambino che un tempo portava qualche povero dono, sempre una cosa utile, un pennino per scrivere, un quaderno, qualche indumento. Eppure si discute ancora intorno al presepe. In Francia, la “cattolica” Marion Le Pen vuole difendere le tradizioni religiose, quando, secondo un recente sondaggio, solo il 4% dei francesi va a Messa la domenica: forse a Natale qualcuno di più ci andrà, ma la percentuale è in costante discesa. Poi arriva Salvini, devoto del presepe solo quando pensa di finire in televisione per difendere le “radici cristiane” dell’Italia. Del presepe, della sua simbologia e del suo inventore, Salvini non sa ovviamente nulla. Non sa nulla di quel San Francesco che ha varcato il mare con grande pericolo per incontrare il sultano d’Egitto Al Malik Al Kamil, nipote del più noto Saladino. E non va d’accordo con un altro Francesco, il vescovo di Roma, che parla di povertà, accoglienza, sobrietà, misericordia, pace. Intanto salta fuori la solita scuola che vuole festeggiare il Natale a modo suo, per non “offendere” i bambini non cristiani, con bizzarrie al limite del ridicolo, anch’esse scaturite da un’ignoranza diffusa. Da anni si ripete il rito leghista, che torna puntuale come l’inverno, nonostante la svolta nazionalista e post fascista impressa dal “giovane” Matteo (non bastava Renzi). Una scuola aveva però pensato a qualcosa di davvero originale: posticipare la festa al ritorno dalle vacanze. Apriti cielo. Ma in fondo l’idea era buona. In questo modo magari il Natale dei consumi, rimasto al 25 dicembre (data super convenzionale per la nascita di Gesù, non certo dedotta dai racconti evangelici, ma scaturita da una antecedente festa pagana del Sol Invictus), non offuscherebbe il Natale religioso. Pensate se venisse spostato al 20 gennaio, o prima, al 20 novembre quando non c’è neppure la neve (artificiale)… Probabilmente lo celebrerebbero soltanto i credenti. È ormai consuetudine che il carnevale si protragga anche in Quaresima. Nessuno dice nulla, non ho mai visto una manifestazione leghista per marcare questa “gravissima” offesa alla religione, o ai tempi liturgici che con tutta evidenza non sono conosciuti dalla maggior parte dei difensori della fede. “Padania cristiana, mai musulmana”. Uno slogan sempre verde, come il simbolo del Carroccio. E così si propaganda la bufala dei musulmani che impedirebbero l’allestimento del presepe, notizia inventata simile a quella degli “zingari che rapiscono i bambini”. Tranquilli però, in Regione Trentino Alto Adige, i segni natalizi non mancheranno. Si dà il caso però che proprio i fedeli musulmani siano più vicini allo spirito del Natale vero, rispetto a tanti occidentali ormai ignari della stessa narrazione biblica della nascita di Gesù. Si dà il caso che proprio gli islamici abbiano una grande devozione per Maria (assente nel presepe leghista). Ma forse proprio questo infastidisce i presunti guardiani della tradizione, essere “sorpassati” da quanti si vogliono dipingere come pericolosi sovvertitori, invasori pronti a “convertirci” con la spada (cioè con i kalashnikov). Magari invece potrebbe accadere che proprio loro ci facciano comprendere quando è davvero il Natale.

a Salvini forse farebbe bene rileggere queste parole di S. Giovanni Crisostomo:

Vuoi onorare il corpo di Cristo?

San Giovanni Crisostomo

sulla misericordia …

“misericordia voglio e non sacrifici”

di José María Castillo

Castillo
in “www.periodistadigital.com” del 10 dicembre 2015

Il vangelo di Matteo cita due volte il testo del profeta Osea (6, 6) che ho messo come titolo di questa riflessione. Lo ricorda quando riferisce che Gesù mangiava con pubblicani e peccatori (Mt 9, 13). E lo ripete nello spiegare perché i discepoli, quando avevano fame, violavano le norme religiose sul riposo del sabato (Mt 12, 7). Se l’evangelista Matteo ripete due volte la stessa massima sul tema della misericordia, senza alcun dubbio questo si deve al fatto che l’evangelista pensava che in questo punto si dice qualcosa di molto importante. In cosa consiste questa importanza? Come è logico, Gesù in questo passo afferma che Dio vuole che noi esseri umani abbiamo viscere di bontà e di misericordia con gli altri, anche se sono gente cattiva e persino quando la pratica della bontà comporti la violazione di una legge religiosa. Questo – benché risulti scandaloso per i più puritani – è quello che dice il Vangelo. Ma non si tratta solo di questo. Quello che dice Gesù è molto più forte. Perchè stabilisce una “antitesi” tra la “misericordia” ed il “sacrificio” (Ulrich Luz). Ossia, quello che Gesù dice è che, se bisogna scegliere tra l’“etica” ed il “culto” (tra la “giustizia” e la “religione”), la prima cosa è l’etica, l’onestà, la difesa della giustizia ed i diritti delle persone. Se questo non si antepone a tutto il resto, Dio non vuole che tranquillizziamo le nostre coscienze con messe, preghiere, devozioni e cose simili. È decisivo ricordare questo proprio ora. Quando celebriamo l’anno della misericordia. E quando vediamo che la corruzione, la sfrontatezza, le disuguaglianze e la prepotenza sui più indifesi gridano al cielo. Io non so perché, ma di fatto molto frequentemente la gente che accumula più denaro, più potere e più privilegi è allo stesso tempo la gente che ha le migliori relazioni con la Chiesa, che difende con le unghie e con i denti i privilegi della religione e le migliori relazioni possibili con il clero. Termino ricordando che, come è ben dimostrato, i rituali religiosi (osservati e compiuti nei minimi dettagli) di solito producono due effetti: 1) tranquillizzano la coscienza dell’osservante che li compie; 2) nella maggior parte dei casi si trasformano in abitudine, ma non modificano il comportamento, soprattutto quando si vede che questo comportamento è mal visto dalla religione. Da quello che raccontano si vangeli, Gesù andava “con cattive compagnie” e non era un modello di “osservanza religiosa”. Ed è in questo modo che in Gesù si è rivelato a noi Dio. Se questo ci risulta strano e anzi ci scandalizza, probabilmente è perché assomigliamo più ai farisei che ai veri seguaci di Gesù. Se non pensiamo a questo seriamente, praticheremo poca misericordia.

I




una morte che rattrista

E’ morto José Ramos Regidor, teologo della Liberazione e fondatore di Com Nuovi Tempi

 

di Anna Maria Marlia e Fausto Tortora

Dopo una lunga e odiosa malattia José Ramos Regidor ci ha lasciati. Erano ormai diciassette anni che i lettori e gli amici di Confronti non leggevano più un suo scritto: aveva fatto parte della redazione di Com, poi dell’avventura Com-Nuovi tempi e infine di Confronti. Veniva anche dall’esperienza di I-doc, rivista internazionale e centro di documentazione sul post-Concilio Vaticano II. Ma, soprattutto, veniva da quel gruppo di salesiani “disobbedienti” (Girardi, Lutte, Gutierrez, Bellerate…) che, agli albori degli anni ’70, avevano animato il Pontificio Ateneo Salesiano di Roma con le loro proposte di riforma dell’ordine e della Chiesa cattolica.

Il primo lavoro di Ramos fu un ponderoso volume, con tanto di imprimatur, dedicato significativamente ad una rilettura critica del sacramento della penitenza, nel quale si sottopone questo sacramento ad una lettura storico-critica attraverso i secoli e che per molti rivelò che realtà, ritenute immutabili, erano sostanzialmente dipendenti dalle dinamiche di potere e di controllo esercitate a tutti i livelli dai sacerdoti, in quanto deputati al sacro.

Successivamente i suoi interessi di teologo militante si spostarono verso la Teologia della liberazione, sulle orme dei lavori di Gutierrez: di questa fu divulgatore originale e appassionato. Nell’approfondimento della Teologia della liberazione incontrò – con qualche decennio di anticipo rispetto all’attuale pontefice romano – l’ecologia e coniugò questo paradigma con l’esigenza della giustizia, soprattutto a partire dai popoli del Sud del mondo, marginali e impoveriti dalle dinamiche dello sviluppo capitalistico.

Chi, come noi l’ha conosciuto, quasi cinquant’anni fa, sa che la sua vita non è stata semplice né priva di difficoltà materiali, a partire dagli anni difficili dell’infanzia e dell’adolescenza in un piccolo paese dell’Estremadura. L’incontro con la nostra amica Maria Paola gli ha però regalato anni sereni in cui si è riconosciuto, anche attraverso la curiosità di entrambi, con mondi e persone diverse, come Alex Langer incontrato nel corso del suo ultimo impegno di sensibilizzazione politico-culturale: la Campagna Nord/Sud.




in Vaticano ci sono dei cardinali che vogliono la morte di papa Francesco

attacco alla Curia e al prelato Balda

“sono finita nei guai per uno squallido gioco di potere tra cardinali”

la pr Francesca Chaouqui parla di una vera e propria guerra tra alti prelati all’ombra del Cupolone

di giacomo galeazzi e ilario lombardo
l’intervista a Francesca Chaouqui è durata un’ora, durante la quale ha risposto a molte domande
per ovvie ragioni di spazio è stata fatta una selezione per l’edizione cartacea della Stampa, del 12/12/2016

 

«Sono nei guai per uno squallido gioco di potere di cardinali. Chi ha armato la mano contro di me è un nemico del Papa, ho fornito le prove alla Gendarmeria». Per Francesca Immacolata Chaouqui, imputata col prelato Vallejo Balda nel processo Vatileaks «molti in Vaticano vogliono morto Francesco. Me lo ha detto un cardinale: Il Santo Padre passa, la Curia resta».  

 

Quale è il suo ruolo nel processo?  

«Mi vengono contestati l’associazione a delinquere e la diffusione di documenti riservati. Ma la mia vicinanza a Balda era dovuta al lavoro in comune nella commissione Cosea. Mai dato carte a nessuno».  

Cosa sta accadendo in Curia?  

«È una fase decisiva nella riforma. La segreteria per l’economia è operativa ma è inammissibile che l’australiano Danny Casey, il braccio destro del cardinale George Pell, guadagni 5 volte più del capo della Gendarmeria che comanda 200 persone. Nel nuovo dicastero ci sono stipendi mai visti prima in Vaticano».  

Come mai una giovane pr trentenne senza competenze specifiche finisce in una commissione finanziaria?  

«Ho curato le relazioni esterne dei principali studi legali. Mai sentita inadeguata, so analizzare i bilanci di banche e imprese, dalle Srl alle quotate. Sono stata io ad individuare la McKinsey per unificare in Curia gli enti di comunicazione, mentre altri 5 membri della commissione si preoccupavano di ricollocarsi in Curia. Io non ho fatto assumere figli o fratelli alla McKinsey. De Franssu è andato a presiedere lo Ior e ha piazzato il figlio a Promontory, che controlla i conti della banca».  

Il nuovo corso non funziona?  

«Il Vaticano non è quella fogna che si pensava di dover ripulire. C’è tanta gente onesta che fa il suo lavoro: non accetta che un comitato di polizia australiano vada in casa a dire che sono tutti ladri e poi guadagni stipendi esorbitanti».  

Chi l’ha voluta in Curia?  

«Non lo so e neppure il Papa lo sa. Mi telefonò l’assessore della Segreteria di Stato, Peter Wells. Ho fatto un errore ad accettare. Credevo di svolgere un servizio al Papa e mi sono ritrovata in gravi guai».  

Quanto conta adesso lo Ior?  

«Resta un ente fondamentale: garantisce la libertà di mandare soldi alle missioni e di gestire il patrimonio. È la banca centrale del Vaticano e per il 90% lì le cose sono pulite, sane. La nomina al vertice di Gianfranco Mammì fa ben sperare. La questione di conti dei laici si risolverà, i controllori di Moneyval hanno dato parere positivo. Sotto la direzione dei cardinali Abril, Parolin, Tauran lo Ior che esisteva prima non esisterà più».  

Suo marito ha mai lavorato per una società che è stata pagata dallo Ior o dal Vaticano per consulenze sui sistemi informatici?  

«Mai». 

Quali sono i suoi rapporti con Luigi Bisignani?  

«Lo conosco da un anno e mezzo, ma non abbiamo mai parlato di Vaticano, solo di politica, Generali, attualità. E’ associato al Vaticano come tanti, ma ciò non lo rende impresentabile. Mai lavorato con lui. Non gli ho chiesto favori e lui non ne ha chiesti a me. Una persona piacevole».  

Bisignani conosce la contessa Marisa Pinto, la sua mentore?  

«Sono amici. La contessa e il marito gli diedero il primo lavoro quando aveva 18 anni».  

Tra gli sponsor che l’hanno voluta in Vaticano c’è Tauran?  

«Non ne ho la minima idea». 

Tauran è legato alla contessa?  

«Sono dietrologie. È una menzogna di Balda che il cardinale Tauran mi abbia segnalato in Vaticano. Alla contessa voglio bene ma non c’entra nulla con incarichi di lavoro o in Curia».  

E la Ernst & Young dove lei lavorava? Ha avuto rapporti con la contessa?  

«Nel natale 2012 all’ambasciata di Spagna presso la Santa Sede ha patrocinato un concerto della fondazione “Messaggeri della pace” presieduta dalla Pinto».  

Perché a Balda assegnò lo stesso autista della contessa?  

«Conoscevo Pietro Grillo: fa questo mestiere per vari personaggi. Lo indicai a Balda quando le sue frequentazioni diventarono poco raccomandabili. In Curia erano già arrivate voci di suoi strani viaggi e di un pernottamento a Torino in un hotel di lusso. Non volevo che andasse a cena sul mare da solo con i maschi. Vedevo sfumare l’investimento professionale e di relazione che avevo fatto su di lui. Gli avevo consigliato di avere dei costumi più consoni alla vita di un prelato».  

Molte delle testimonianze, anche fotografiche, però dimostrerebbero che era lei a consigliargli un “nuovo stile di vita”?  

«Quando era mio amico non faceva vita mondana. Certo, gli ho presentato varie persone tra le quali la stessa manager tv Elena Metti» 

Aveva il suo personal shopper?  

«Il personal shopper era il mio in quanto donna e pr. Ho il mio parrucchiere. Un giorno Balda lo ha conosciuto, ha iniziato a frequentare il suo salone e ci ha portato la mamma. Poi ha deciso di fare con lui un percorso di styling, perché voleva cambiare la sua immagine. Stesso motivo con il personal trainer. Diceva di sentirsi insoddisfatto di quei vestiti che cominciavano ad andargli stretti». 

Ha fatto sesso con Balda?  

«Non mi è mai passato per la mente. Gli serviva un episodio scatenante per giustificare un ricatto e per inventarsi un motivo che lo avrebbe indotto a consegnare i documenti segreti. Così può dire che io l’ho raccontato ai due giornalisti (Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi, coimputati nel processo, ndr) in modo che loro potessero fare pressione per farsi dare le carte».  

Lei ha detto che non avrebbe potuto fare sesso con lui perché non era interessato alle donne.  

«Fare sesso con lui è un’ipotesi inesistente, non perché non fosse interessato alle donne. Ma perché per me era un fratello, un amico, una persona con cui scherzare. Certo, in tutto il tempo che abbiamo trascorso insieme non ha mai fatto una battuta su una donna. Mentre su altro sì». 

Su altro?  

«Inutile scendere in pettegolezzi». 

Lei però gli inviò un sms per invitarlo ad avere rapporti sessuali con sua cugina Silvana, in Calabria, così, scrisse, «può anche essere salvato il patrimonio genetico».  

«Era uno scherzo. Diceva spesso vorrei tanto avere un figlio, aveva paura di restare solo. Diceva: “Che sarà della mia vita quando mia madre non ci sarà più”. Era una goliardata, una battuta di pulcinella. Non ha visto nessuna cugina». 

Perché, in un altro sms, gli dice di rivolgersi a Sgalla (Roberto, capo dei servizi speciali della Polizia), che, «ben conosci – scrive lei – e fatti dire i pianti di questi giorni quando mi hai detto dei fogli spostati»  

«Non ho nulla da riferire sulle persone che conosco. Non sono oggetto di conversazioni giornalistiche». 

Lei ci ha detto che non lo conosceva. E’ così?  

«Non ho intenzione di parlarne». 

Quando conosce Nuzzi?  

«Quando lo chiamai a presentare un libro per lo studio legale in cui io lavoravo. Da lì si è creata un’amicizia che non c’entra con il Vaticano» 

Lei scrisse un tweet in cui sosteneva che il maggiordomo Paolo Gabriele non fu il corvo del primo Vatileaks? Chi lo fu allora?  

«Allora era una impressione. Ora ho le prove, perché le ho ricostruite in Vaticano, ma non posso parlarne. Fu usato per lotte di potere tra cardinali». 

Conosceva Gabriele?  

«Mai incontrato, né prima né dopo». 

C’è un legame tra Vatileaks e le dimissioni di Ratzinger?  

«Vatileaks 1 non c’entra con le dimissioni di Benedetto».  

Chi considera i suoi nemici?  

«Oggi, attraverso veline ai giornali, i miei nemici sono gli stessi che hanno attaccato il prelato dello Ior, Battista Ricca. I giornalisti sono strumenti, dietro ci sono mandanti che non perdonano a Francesco di aver fatto nomine prescindendo dalle gerarchie della Segreteria di Stato. Sono gli stessi interni che sperano che papa Bergoglio muoia da un giorno all’altro».  

C’è dietro un cardinale?  

«Ne ho riferito a Francesco e ho consegnato le prove alla Gendarmeria. Ho agito solo per amore del Papa. In Vaticano ho lavorato gratis e non mai fatto da intermediaria con la politica. Conoscevo già tutti».  

Perché allora il Papa dice di aver commesso un errore a nominare lei in Cosea?  

«Non mi sento offesa. Sono d’accordo con lui: c’è chi si è fatto nominare in una commissione per poi entrare nel vertice del più importante ente controllato, lo Ior». 

Lei accusa il vaticanista del Giornale Fabio Marchese Ragona di aver falsificato i tweet imbarazzanti del suo profilo datati 2013 contro il Segretario di Stato vaticano Bertone, l’ex ministro dell’Economia Tremonti…  

«I miei nemici sono gli stessi che armarono la mano di Ragona quando impacchettò la storia dei tweet falsi per la quale ora sono indagata a Roma». 

L ei ha detto che lo aveva denunciato, ma non è andata così…  

«Non l’ho denunciato per pietà e per un fatto pratico. Guadagna mille euro al mese, che cosa avrei potuto levargli?»  

Ha detto che erano stati gli hacker a intrufolarsi nel suo computer.  

«Nessuna intrusione, hanno usato Photoshop. Quanto ci vuole a costruire un coso falso?» 

Sallusti ha verificato che erano veri.  

«Sallusti facesse bene a tacere perché non ha verificato niente».  

Uno degli indagati dalla procura di Roma assieme a lei è Sauro Moretti che chiamò Ragona per convincerlo a non scrivere più. E’ andata così?  

«Accade questo: chiamo Vittorio Sgarbi che mi dice che il suo braccio destro Sauro Moretti conosce tutti al Giornale, vediamo se può darci una mano. Allora io chiamo Moretti. Lui mi dà il numero di Sallusti. Chiamo Sallusti, ma lui dice che è al mare. Ricordiamo che il pezzo esce il 10 agosto 2013, poco dopo la mia nomina in Cosea. Sallusti mi rimanda al vicedirettore. Le risposte che mi danno non mi convincono e io mi incavolo di più. Perché anche io ho dei limiti sui quali lavoro da tempo: sono incazzosa e aggressiva. Comunque, chiamo Paolo Berlusconi (altro indagato, ndr): mi promette che avrebbe verificato e qualora ci fossero state irregolarità queste sarebbero state sanate. Da quel momento si crea un bel dialogo con Paolo che non ha niente a che vedere con la Santa Sede. Perché posso assicurarvi che alla famiglia Berlusconi non gliene è mai fregato niente del Vaticano. Mi è stato promesso che Ragona non avrebbe più scritto falsità sul mio conto. E così è stato: non ha più scritto falsità. Ha continuato a scrivere sul Giornale e ad apparire su Sky, purtroppo. Dico purtroppo perché meritava di essere radiato dall’albo». 

Però non lo ha denunciato.  

«Ho fatto la visura su questa povero disgraziato e dopo aver visto che è un nullatenente che guadagna al massimo 1.100 euro al mese, ho detto vabbè offriamo questa sofferenza a Dio e andiamo avanti». 

Quale è il suo rapporto con Mario Benotti, indagato con lei a Roma per associazione a delinquere finalizzata all’accesso informativo abusivo.  

«E’ un caro amico, niente di più. E’ coinvolto in questa vicenda perché io e mio marito, indagato anche lui per intrusione informatica, abbiamo avuto pietà del difficile momento che stava vivendo con la compagna, perché la figlia della compagna era stata affidata al suo ex marito e gli avevano riferito che la piccola veniva trattata male. Benotti mi chiese la cortesia di far fare a mio marito una verifica sui profili social del padre per vedere se ci fossero degli elementi, poiché loro ritenevano che potessero esserci delle cose imbarazzanti nel passato di questa persona, non consone a un padre di famiglia. In questo caso sarebbero confluite nel fascicolo del giudice del Tribunale dei Minori affinché la bambina fosse tolta al papà e affidata alla mamma. Nessuna intrusione informatica. Mio marito ha solo fatto una verifica sul profilo Facebook». 

Perché per una semplice verifica Benotti si rivolge a un esperto informatico?  

«Non si rivolge a un esperto ma a un amico». 

Lei voleva portare Benotti come teste nel processo in Vaticano?  

«Beh è il teste di Balda. Ma non ne ho capito il motivo». 

Non è molto chiara la vicenda dei genitori del premier Matteo Renzi. Lei li ha portati a Santa Marta ed è stato scritto che il Papa, venuto a sapere che voleva fare incontrare loro con lui, è rimasto nella sua stanza.  

«Erano in udienza e dopo la fine dell’udienza, abbiamo fatto un giro per la basilica di San Pietro, alla Cappella Sistina e poi li ho portati a Santa Marta perché lì c’è un refettorio. Non c’era nessuna intenzione di far incontrare i genitori di Renzi e il Papa. Non avrebbero bisogno delle mie imboscate, se volessero incontrarlo. Si fa richiesta alla Prefettura della casa pontificia. Non faccio l’intermediaria di incontri per nessuno».  

Lei ha mai fatto da intermediaria tra il Vaticano e la politica?  

«Lavoro solo per chi mi paga». 

E’ vero che si era messa a disposizione di Maria Rosaria Rossi, senatrice di Fi molto vicina a Berlusconi? Lo sostiene la senatrice.  

«Con la Rossi c’è stata una chiacchierata poiché condivido il lavoro che sta facendo. E le ho detto semplicemente che avrebbero potuto contare su di me e sul mio lavoro di comunicatore. Il Vaticano non è stato oggetto della nostra chiacchierata». 

Che legami ha con gli uomini più vicini al premier, per esempio Marco Carrai che era presente sulla terrazza del dicastero vaticano nel noto party durante la canonizzazione dei due papi?  

«I miei rapporti personali e privati sono affari miei e non devo darne conto a nessuno». 

Ha però confermato di essere amica di Carrai. Inoltre, fa riferimento a lui in un messaggio a Balda, quando lo accusa di aver «messo in mezzo tutto il mondo».  

«Dopo che abbiamo litigato Balda ha iniziato a chiamare a raffica tutti, non so se ha chiamato pure Carrai. Altre persone mi hanno telefonato per dirmi che parlava male di me». 




trasformare le nostre violenze in tenerezze

elogio della tenerezza

di Jean Vanier

Vanier

Nel libro della Genesi leggiamo che sulla terra c’era così tanta violenza che Dio rimpianse di aver
creato gli esseri umani (Gn 6,6). Così ci furono il diluvio e l’Arca di Noè. La storia della terra è una
storia di violenza; la terra è piena di violenza. Perché tanta violenza? Perché bisogna essere più
forti, i più forti
Allora respingo Dio ed elimino gli altri, per guadagnarmi la terra. Basta guardare i
tifosi di calcio o quando i canadesi battono gli americani a hockey! Diventano tutti matti: bisogna
vincere ad ogni costo, bisogna essere i più forti! Allora costruiamo frontiere e sistemi di difesa e
creiamo tutto un mondo fatto per proteggerci dalla violenza che produciamo. Il che non vuol dire
che non ci siano stati anche dei profeti di pace nella Bibbia. La storia del popolo ebraico è una storia
di grandi profeti che hanno annunciato l’alleanza. Dai tempi dell’alleanza con Noè, Dio ha
promesso di non sterminare più l’umanità e di darle la pace. Gli ebrei attendevano un messia forte.
Il popolo ebraico aveva patito l’oppressione, prima dei persiani, poi dei greci e infine dei romani.
La terra d’Israele era piccola, ma ricca, e vari imperi volevano possederla. Per circa 700-800 anni, il
popolo aveva subìto la dominazione di nemici che lo facevano soffrire. Perciò dal messia Gesù si
aspettava la liberazione. Verso la fine della vita di Gesù, ci fu infatti una progressiva delusione
anche tra i discepoli a lui più vicini Ma Gesù non è venuto solo per liberare Israele, è venuto per
liberare anche me, dalle mie violenze, dal desiderio di essere migliore degli altri calpestandoli.
All’Arca, abbiamo lavorato con uno psichiatra, un uomo eccezionale. Non era credente, ma era
profondamente umano. Un giorno sono andato a trovarlo e gli ho chiesto: «Secondo te, che cos’è la
maturità umana?». E lui mi ha risposto: «È la tenerezza». Perché la tenerezza è l’opposto della
violenza. È un atteggiamento del corpo: degli occhi, delle mani, del tono di voce [ … ]. Consiste nel
riconoscere che l’altro è bello e nel rivelarglielo. Ma con il nostro corpo, attraverso la nostra
maniera di ascoltarlo, le parole che gli rivolgiamo. Gesù è venuto a insegnarci la tenerezza. È
l’atteggiamento che permette di accogliere l’altro e di vivere in relazione con lui.
Ma poi c’è la paura. Ho paura che l’altro mi schiacci. Per questo il cuore del messaggio di Gesù è:
amate i vostri nemici! «Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro
che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male» (Lc 6,27-28). È incredibile. Gesù è
probabilmente la prima persona nella storia dell’umanità che osi chiederci una cosa così
impossibile. Perché lo sappiamo tutti che è impossibile. Se venite a sapere che qualcuno parla male
di voi, dietro alle vostre spalle, provate a dire bene di lui! Non ci riuscirete. Vi si gonfieranno le
ghiandole, proverete ma… niente da fare! Perché la vita protegge la vita. Ci difendiamo. E se ci
arriva una pietra addosso, reagiamo eccome, ci proteggiamo! Se qualcuno cerca di schiacciarmi, io
mi difendo!
A meno che… Dio stesso non ci dia un difensore! Ed è ciò che effettivamente accade: è il Paraclito!
Vi dicevo che, fra le traduzioni del termine Paraclito, c’è il difensore, il consolatore, l’intercessore,
l’avvocato. È colui che parla in mio nome per difendermi. Amare i nemici non è una cosa possibile!
Perdonare non è possibile! Mi ricordo di essere andato in Rwanda dopo il genocidio. Ho parlato con
una giovane donna che aveva perso 75 membri della sua famiglia, tutti massacrati. E diceva: «Ho
tanto odio dentro di me! Nessuno che mi chiede perdono. E parlano di riconciliazione!». È
comprensibile che sussista un desiderio di vendetta e il bisogno di difendersi, quando si è subìto
tanto male – un male reale. Il perdono è qualcosa di molto difficile, soprattutto quando si è
profondamente feriti nel proprio corpo e nella psiche. Come quella ragazza che per anni ha subito
abusi sessuali da parte di uno zio che minacciava di ucciderla se avesse parlato. Un giorno ha avuto
il coraggio di parlarne a sua madre, la sorella dello zio. E la madre si è arrabbiata con lei,
accusandola di mentire. Per questa ragazza, la guarigione è un percorso lungo. E nel nostro mondo
ci sono tante situazioni di violenza, tante persone che fanno o subiscono il male! È una strada lunga,
imparare ad amare l’altro diverso da me. Ed è ancora più lungo perdonare. Abbiamo bisogno dello
Spirito di Dio, di una comunità, di essere accompagnati, per poter progressivamente prendere
coscienza del male subìto e camminare verso il perdono. Prima mi rendo conto che una persona mi
ha fatto del male e che questo male ha distrutto alcuni elementi della mia vita e della mia speranza.
Allora cerco di accettare questa realtà. Gesù è venuto a portarci la pace e il perdono. È venuto a
riconciliarci, trasformando le nostre violenze in tenerezza. Ma la strada è lunga. E perché tale
trasformazione si compia, occorre il sostegno di una comunità e di un accompagnatore. Il cammino
non si fa da soli, subito, con la bacchetta magica. Soprattutto se il male ci tocca da vicino: nella
nostra persona, nella famiglia, in un essere caro. Allora il perdono è davvero un processo molto
lungo!



la nostra guerra contro la natura

siamo in guerra con la natura…

di Emilio Molinari

Molinari Emilio

L’ISIS ha dichiarato guerra all’occidente, rispondiamo senza pietà…
Eppure l’unanime grido: sono in gioco la nostra civiltà, i nostri valori, il nostro stile di vita, la nostra felicità e la nostra gioia…mi inquieta. Perché?
Perché sono convinto che siamo nel bel mezzo di una «Terza Guerra Mondiale a pezzi» di cui il terrorismo in nome di Dio è solo uno dei tanti pezzi. Che l’orrore parigino è solo una delle tante «rotture» con le quali il Pianeta ci segnala che non ci regge più… E non regge proprio il nostro stile di vita, la nostra felicità, la nostra gioia … e l’arroganza della nostra cultura.
Perché siamo in guerra con la natura, la quale proprio a Parigi, alla Cop 21 sul clima, ci presenta un conto salatissimo, tragico e ultimativo. E non sarà chiudendo la bocca agli ambientalisti in nome della sicurezza che risolveremo i problemi.
Siamo in guerra con gli emigranti che assediano le nostre frontiere.
Siamo in guerra con i beni comuni: l’acqua, la terra, l’aria, il fuoco.
Le guerre portano il segno dell’accaparramento dei combustibili fossili che scarseggiano. sono infinite e hanno provocato un milione di morti nella sola Iraq: dolore, torture e indicibili umiliazioni, inflitte a intere popolazioni dall’occidente, senza «dissociazione» alcuna da parte nostra. Ci scusiamo dopo, per gli errori commessi, mai per gli orrori e il dolore generati.
I mutamenti climatici provocano morte e dolore incalcolabili.
47 bambini ogni giorno muoiono affogati in Bangladesh, solo perché il paese va sott’acqua. E non per colpa dei poveri della terra, ma perché ogni ora il nostro mondo spara in atmosfera centinaia di milioni di tonnellate di CO2.
Siamo in guerra per l’acqua e con l’acqua e pensiamo di privatizzarla. I nostri governi e le nostre multinazionali negano l’accesso all’acqua potabile a un miliardo di persone e 5000 bambini muoiono ogni giorno per questa ragione.
Siamo, con l’accaparramento delle terre, in guerra con i contadini per prenderci le loro terre e cacciare uomini e donne che ci vivono da secoli.
La guerra agli emigranti è sotto i nostri occhi con muri, fili spinati, barche affondate e con il modo con il quale li trattiamo in occidente: sfruttati, umiliati, insultati, schiavizzati.
E siamo in guerra con i poveri delle favelas e con i poveri delle nostre stesse periferie cittadine
Ma non ci passa per la testa che al fondo c’è proprio il nostro stile di vita occidentale intoccabile e che sbandieriamo come una chimera a tutto il resto del mondo. Parliamo dei nostri valori mentre priviamo i nostri stessi cittadini europei dei diritti sociali fondamentali su cui si fondano le nostre costituzioni. Anzi, cancelliamo dalle costituzioni questi diritti e li sostituiamo con il pareggio di bilancio.
Circondati da povertà, da ingiustizia, da catastrofi ambientali, consideriamo le cose inutili indispensabili, e i nostri desideri diritti universali.
Vengono al pettine tutte le contraddizioni del «nostro sviluppo» e il mondo, come una locomotiva, corre inarrestabile verso la catastrofe, guidata da un impalpabile conduttore: il mercato, che guida la Casa comune senza «misericordia alcuna» ad una velocità infinitamente superiore alle nostre capacità di pensare.
Di pensare al dolore e all’odio che seminiamo in tutto il mondo e pensare a come rielaborare questo nostro dolore spettacolarizzato, per sentire quello ignorato, che provochiamo negli altri.
Il dolore universale è l’elemento da far emergere dai tragici fatti di Parigi.
Da decenni l’occidente genera indifferenti e conformisti. Incoscienti del grande dolore che il futuro prossimo ci riserva.
So che dire queste cose oggi con i morti di Parigi negli occhi, viene letto come tradire o giustificare l’orrore; è sottrarsi «all’arruolamento» nell’esercito occidentale.
In questo contesto, so di sottrarmi alle domande sul che fare per fermare l’ISIS, ma sento che la priorità è quella di generare un grande movimento per cambiare le coscienze e il nostro stile di vita. Sento che il Papa è l’unica autorità mondiale a parlare del «grido che sale dall’umanità e dalla Terra», Che è inascoltato.
Attaccato da destra e ignorato da una sinistra diffidente e in tutt’altre faccende affaccendata.
Attaccato da un laicismo ideologico che rischia di diventare una nuova forma di cecità che, mentre il mondo va a rotoli, sembra appassionarsi solo per i temi delle coppie gay o per l’eutanasia.
Mi è difficile come laico e di sinistra farmi capire su questo terreno.
Difficilissimo dire alla sinistra e ai laici di buona volontà, che oggi il Papa e l’Enciclica Laudato Si, sono forse l’unica chance che abbiamo. Che non è un tradimento delle nostre convinzioni «arruolarci» nelle file di un movimento che ha questo «manifesto per il XXI° secolo» come richiamo. Non piacerà se sento di dover lanciare un appello al mio mondo, laico e di sinistra.
E cioè che di fronte ai tamburi di guerra, all’imbarbarimento di quelli senza pietà e all’indifferenza dominante, occorre cogliere nel Giubileo della «misericordia» qualcosa anche di nostro, e nelle migliaia di iniziative e di mobilitazioni che determinerà, non un «fastidio». ma una occasione unica, anche nostra, di esserci, di partecipare e di mobilitazione. Un anno quello del Giubileo, in cui è doveroso costruire un ponte con i credenti, per dare vita assieme a un indispensabile grande movimento di resistenza alla Terza guerra mondiale, per la Pace con l’umanità e la natura e….per l’Egalitè e la Fraternitè sparite dai nostri «valori» laici e occidentali.