primati di vergogna!

“le crociate hanno provocato più morti dell’Isis”

Enzo Bianchi

 

enzo biANCHI Gli attentati di Parigi hanno riaperto il problema, quanto mai serio, del rapporto mai semplice, del mondo islamico con quello occidentale. Si tratta di una relazione delicata.

ne parla il priore di Bose Enzo Bianchi.

 Bianchi stigmatizza fermamente chi in nome del suo Credo sparge sangue:

“Io sono convinto che oggi nell’ Islam esiste certamente una frangia radicale, estremista e violenta. Questa parte radicalizza ogni discorso e strumentalizza la religione a fini che nulla hanno a che spartire col sacro”.

ma, sottolinea Enzo Bianchi, l’islam nel suo insieme non è violento e ricorda che ogni religione, compresa quella cristiana, ha scritto pagine nere:

“Pensate che i cristiani siano venuti meno a questa brutta  tradizione? Le guerre di religione e le crociate che non furono passeggiate di salute hanno fatto morti ugualmente e probabilmente più dell’ Isis, dunque occorre imparzialità ed equilibrio”.




i migranti: i nostri maestri

 il magistero dei migranti

Lidia Maggi

Lidia Maggi

 la Bibbia è scritta e narrata dalla prospettiva dei migranti, di quanti sono stati costretti a viaggiare in cerca di un futuro. Accogliere i migranti oggi è un atto di solidarietà ma anche una necessità teologica.
Il SIGNORE disse ad Abramo: «Va’ via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti mostrerò» (Genesi 12, 1)

 

«Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come straniero con poca gente e vi diventò una nazione grande, potente e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci oppressero e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore udì la nostra voce, vide la nostra oppressione, il nostro travaglio e la nostra afflizione, e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con potente mano e con braccio steso, con grandi e tremendi miracoli e prodigi, ci ha condotti in questo luogo e ci ha dato questo paese, paese dove scorrono il latte e il miele. E ora io porto le primizie dei frutti della terra che tu, o Signore, mi hai data!» (Deuteronomio 26, 5-10)
 
Di che cosa abbiamo bisogno per comprendere la Bibbia? Ho provato a porre questa semplice domanda alla mia comunità. Le risposte ricevute oscillano da ingredienti spirituali, come la fede e l’amore, a strumenti più concreti come un traduttore, qualcuno che la spieghi, ecc. Tutti elementi utili, alcuni indispensabili.
 
Oggi, tuttavia, vorrei soffermarmi su una categoria di persone che, nella chiesa, è chiamata ad aiutare i credenti a comprendere meglio la Parola. Parlo dei dottori che Paolo, nella chiesa, nomina al terzo posto, dopo gli apostoli e i profeti (I Cor. 12, 28). Ma che cosa c’entrano i dottori con il cammino, la via? Per intuire il legame che intercorre tra i dottori della chiesa e la fede come viaggio è necessaria un’altra uscita, dal momento che abbiamo trasformato la figura dei dottori in persone erudite e piene di titoli di studio. È evidente che, per comprendere la Bibbia, occorrano persone preparate, se non altro perché la Parola di Dio si consegna come testo scritto, letterario. Mi chiedo, tuttavia, se Paolo, parlando di dottori, pensasse ai nostri teologi preparati nelle università o nei seminari. Per non cadere in anacronismi interpretativi, occorre che ogni generazione si interroghi su chi siano, oggi, i profeti della chiesa e i suoi dottori.
 
Forse uno dei criteri di discernimento per identificare il senso del carisma del dottore può essere ricercato nella capacità di saper aiutare chi crede, o chi cerca di credere, a cambiare prospettiva, a modificare il proprio sguardo per provare a vedere il mondo dal punto di vista della narrazione biblica. I dottori sono coloro che ci sollecitano a comprendere che il nostro punto di vista non coincide con quello della Bibbia; e non soltanto perché viviamo una distanza cronologica e geografica con un testo composto nell’arco di differenti secoli in una regione del mondo che non abitiamo. Piuttosto, perché la Bibbia è scritta e narrata dalla prospettiva dei migranti, di coloro che sono costretti a lasciare la propria terra per le ragioni più diverse: carestie, persecuzioni, una chiamata, una cacciata…
 
La storia biblica non è solo la vicenda di un popolo migrante, ma è soprattutto la storia raccontata dal punto di vista dei migranti.
 
Un migrante non lascia la propria terra per turismo, per curiosità, ma per ricercare una vita vivibile. Nella saga di Giuseppe, Giacobbe dice ai suoi figli in piena carestia: «Perché state a guardarvi l’un l’altro? Ho sentito dire che c’è grano in Egitto, scendete là a comprarne, così vivremo e non moriremo» (Gen. 42, 1-2). L’immobilismo porta alla morte; mettersi in viaggio apre a possibilità di vita. Il migrante affronta il rischio del viaggio alla ricerca di una nuova possibilità, quando tutte le vie gli appaiono sbarrate. A volte è meglio affrontare il deserto, piuttosto che rimanere su una terra dove i propri figli sono condannati a morte e il lavoro è solo schiavitù.
 
Non è anche di questo che parla l’evento fondatore della storia di Israele, l’esodo? Fuggire dal genocidio, dalla schiavitù, per sottrarsi alla persecuzione. Meglio il deserto, che una terra apparentemente ricca ma segnata da un governo ingiusto.
 
La Bibbia, in quanto storia di migranti, affronta tutte le questioni che i migranti ancora oggi affrontano, quando arrivano in una nuova terra. A iniziare dalla lingua. La Bibbia è uno strano testo, composto da una miscellanea di lingue: ebraico, aramaico, greco. Noi non ci poniamo il problema della traduzione solo per rendere fruibile questo libro a chiunque voglia leggerlo. La questione è presente nel testo stesso. Come mai le parole di Gesù, che parla in aramaico, un dialetto ebraico, vengono riportate dai suoi testimoni in greco, ovvero tradotte in una lingua straniera? Al di là della risposta tecnica, mi interessa qui segnalare che, nello stesso testo biblico, esiste un passaggio da una lingua a un’altra. Tema che non affronta una cultura stanziale. Chi nasce, vive e muore nello stesso posto, non si trova sollecitato a dover ricercare una mediazione linguistica che, invece, è di vitale importanza per tutti coloro che emigrano. Il migrante deve imparare la lingua del posto, oltre ai diversi usi e costumi. Si trova di continuo a dover definire i propri confini culturali, tra desiderio di integrazione (come Israele in Egitto, ai tempi di Giuseppe), scelta del nascondimento (come la regina Ester, che non rivela la sua identità religiosa e culturale) o differenziazione (come Israele al tempo di Mosè: «Lascia andare il mio popolo!» – come nella vicenda di Daniele e dei suoi amici, alla corte di Babilonia, che rifiutano di nutrirsi con il cibo regale). Tutto il libro del Levitico, pur presentando leggi arcaiche a noi perlopiù incomprensibili, può essere percorso con questa categoria: la necessità di un popolo, in una terra abitata da altri popoli, di differenziare la propria identità – un po’ come succede al protestantesimo in Italia che, sentendosi accerchiato da un contesto culturale a maggioranza cattolico, differenzia se stesso definendo la propria fede in contrapposizione all’altro. Una medesima strategia connota il Levitico, il libro della santità, della separazione: persino questo testo lo si comprende differentemente, se lo si considera un codice di migranti, preoccupati di perdere la propria memoria culturale.
 
È dal punto di vista del migrante che è raccontata la vicenda della terra promessa, poiché quel territorio è già occupato da altra gente, non è libero, vuoto. Questo genera conflitti, tensioni, che devono essere affrontati per tentare una convivenza non sempre facile.
 
Il Dio biblico è il Dio dei migranti. Li chiama a uscire, a lasciare la propria terra (Abramo), li forza a scappare da una situazione di morte (l’esodo) e si mette in viaggio con loro (i patriarchi e le matriarche, ma anche con il popolo in esilio, a Babilonia). Il protagonista divino si sente più a proprio agio in case precarie, nelle tende dei beduini, che nelle mura del tempio. È quanto intuisce il saggio Salomone, per quanto sia proprio lui a costruire un tempio per Dio: «Ma è pro- prio vero che Dio abiterà sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non ti possono contenere; quanto meno questa casa che io ho costruita!» (I Re 8, 27).
 
Per comprendere questo Dio e la sua Parola, narrata dalla prospettiva dei migranti, abbiamo bisogno di metterci in viaggio, di diventare a nostra volta migranti; oppure abbiamo bisogno di dottori, uomini e donne che ci aiutino a leggere la realtà dalla prospettiva degli stranieri. I dottori della chiesa sono oggi proprio i migranti che con la loro stessa esistenza preservano la memoria dello sguardo biblico. Accoglierli tra noi non è solo un atto di solidarietà, ma una necessità teologica: abbiamo bisogno del loro magistero!
 
Noi che rischiamo di farci un’idea del mettersi in cammino sui tapis roulants delle nostre chiese statiche, abbiamo bisogno di chi ha sperimentato realmente che cosa significhi essere dislocato, come i nostri padri, aramei erranti (Deut. 26, 5), come Gesù che non aveva dove posare il capo (Mt. 8, 20).
da Riforma n. 38 del 9 ottobre 2015



consacrato vescovo il mio compagno di passeggiate

padre Giovanni Roncari ordinato Vescovo

Roncari1

 

 «La Chiesa fiorentina ti deve tanto»

Roncari 1

 

«Il sacrificio di perderti è grande, ma nella Chiesa non c’è spazio per possessi egoistici, e quindi con fiducia ti affidiamo al tuo nuovo popolo e al suo presbiterio»

 così il cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze, si è rivolto a padre Giovanni Roncari, vescovo eletto di Pitigliano Sovana e Orbetello, che ha ricevuto l’ordinazione episcopale nella cattedrale di Santa Maria del Fiore.

 
Padre Giovanni Roncari ordinato Vescovo. Betori: «La Chiesa fiorentina ti deve tanto»

nell’omelia, Betori ha sottolineato la gratitudine »di tutta la Chiesa fiorentina, che tanto ti deve, specialmente i suoi sacerdoti che, come me, non ti cancelleranno mai dal loro cuore»

A imporre le mani su Padre Roncari anche i due immediati predecessori alla guida della diocesi di Pitigliano-Sovana-Orbetello, Guglielmo Borghetti e Mario Meini, in segno di continuità e comunione. Nel Duomo di Firenze anche moltissimi preti della diocesi di Firenze, dove padre Roncari ha ricoperto negli ultimi anni l’incarico di vicario episcopale per il clero, i parrocchiani di San Francesco e Santa Chiara a Montughi dove è stato prima viceparroco e poi parroco per oltre trent’anni, i suoi studenti della facoltà teologica dell’Italia centrale dove da molti anni insegnava storia della Chiesa, e tantissimi suoi confratelli della Provincia toscana dei frati cappuccini e delle altre congregazioni della famiglia francescana. Presenti anche sacerdoti e fedeli della sua nuova diocesi, tra cui alcuni sindaci dei comuni del territorio, arrivati per fare festa insieme al loro nuovo vescovo.

Nella festa di Cristo Re, Betori ha ricordato che Gesù definisce la propria regalità come una testimonianza alla verità: «possiamo allora pensare il ministero del vescovo come un farsi carico del cammino del gregge che ti viene affidato, caro padre Giovanni, per illuminarlo secondo la verità di Cristo, per condurre la tua gente alla condizione di uomini e donne liberi di camminare lungo le strade del bene».

«Un’esigenza alta – ha proseguito – che Papa Francesco, come è noto, ha esemplificato nell’invito ai vescovi a stare uniti al loro gregge, nel triplice atteggiamento della guida che ne orienta il cammino, del fratello che ne condivide gioie e sofferenze, soprattutto quelle dei più poveri, del servitore che raccoglie i dispersi ma anche si lascia indirizzare dal senso di fede del popolo. Questa esperienza di condivisione di fede, speranza e carità con il tuo popolo di Pitigliano-Sovana-Orbetello imploriamo oggi per te, caro padre Giovanni, e per questo invochiamo lo Spirito del Signore su di te».

Al termine della celebrazione padre Roncari ha ringraziato i suoi genitori, la famiglia francescana, i vescovi, i sacerdoti, i laici, della diocesi di Firenze con cui ha camminato per tanti anni, e il popolo della diocesi di Pitigliano, Sovana e Orbetello a cui ha chiesto: «fatemi spazio nel vostro cuore, cammineremo insieme nelle vie del Signore».

Il nuovo vescovo farà ingresso nella cattedrale di Pitigliano il prossimo 29 novembre, prima domenica di Avvento: la sua nuova diocesi, nel sud della Toscana, copre un vasto territorio che va dal Monte Amiata all’Isola del Giglio.

Nato a Verona il 19 agosto 1949, è arrivato ancora bambino a San Piero a Ponti. Ha frequentato il Seminario dei Frati Minori Cappuccini, iniziando nel 1966 il noviziato. Il 20 agosto 1972 ha fatto la professione solenne e il 22 marzo 1975 è stato ordinato sacerdote.

«In caritate et laetitia»:è un motto dal sapore molto francescano quello scelto da padre Giovanni Roncari. Nel suo stemma, realizzato dal grafico araldista Giuseppe Quattrociocchi, oltre al simbolo dell’ordine francescano (ossia la mano di Cristo incrociata con la mano di san Francesco, entrambe segnate dalle Stimmate) anche un ponte, che richiama il paese di san Piero a Ponti da cui padre Roncari proviene, la stella mariana e il giglio di Firenze, la città dove per tanti anni ha svolto il suo ministero.

 




un sinto piemontese si racconta …

Storie e ricordi di vita di un sinto piemontese

 sinto piemontese
Giovanni Cena, detto Romolo, è un sinto piemontese nato nel 1911 a Feletto Canavese, inizia a studiare da autodidatta all’età di 23 anni e scrive un racconto per descrivere l’incontro tra due famiglie sinte e le loro scene di vita degli anni ’60 con minuziosi dettagli in cui si possono cogliere valori importanti e testimonianze linguistiche con testi di canzoni e la traduzione in Italiano.

Oggi il figlio di Giovanni Cena, Raimondo, per ricordare il padre scomparso nel1986 ad Aosta, decide di pubblicare integralmente il racconto di suo padre “L’incontro” – Storie e ricordi di vita di un sinto piemontese – di Alzani Editore.

Il libro si può acquistare inviando una email alla Casa editrice,
oppure a: fondazioneromani.italia@gmail.com




l’Isis non ha l’esclusiva della ‘teologia del terrore’

Isis e Occidente

 la teologia del terrore


di Michele Martelli  (in Micromega)

«Siamo in guerra», dice Hollande. Ma lo siamo già da 15, anzi da 25 anni. Dalle due Guerre di Bush padre e figlio contro l’Iraq, – che sono state la prima causa dell’attuale disordine mondiale che ha il suo epicentro nel Medio Oriente, – alla guerra in Afghanistan. Dalla guerra della Nato nella ex-Jugoslavia a quelle euro-statunitensi contro la Libia (con la Francia di Sarkozy in pole position). Guerre di aggressione in cui a fianco degli Usa si sono schierate ossequienti tutte le sub-potenze europee, a cominciare dall’Uk del tardivamente e inutilmente pentito Tony Blair (troppo comodo, dopo 15 anni di difesa in prima linea delle «guerre etiche»!). Tutte fatte e giustificate, direttamente o indirettamente, con argomenti teologico-politici, e cioè in nome di Dio, del Bene contro il Male, della Giustizia contro il Crimine.  

Ora è Hollande, capo di un paese colpito al cuore dal terrorismo islamista, a chiamare a raccolta cielo e terra in una doppia guerra, interna ed esterna, contro l’Isis. Le sue parole e le sue scelte (stato d’eccezione con modifica della Costituzione, guerra vendicatrice e punitrice del Califfato) si inquadrano nella stessa cornice teologico-politica delle Guerre bushiane ispirate e protette dal «Dio che bacia l’America».

Per Hollande ora il «Nemico» assoluto da distruggere e annientare, dentro e fuori della Francia, è l’Isis, col suo spaventoso corredo di bande terroriste disseminate in Europa. Nessuna sorpresa che in tale clima riprendano fiato le trombe apocalittiche dei teocon, del fallaciano «scontro di civiltà», dell’«armiamoci» a difesa dell’Occidente «cristiano» contro l’Islam confuso col Jihadismo. E che? La patria dell’Illuminismo rischia di degenerare nella patria dell’oscurantismo? Si torna a Poitiers, a Lepanto, o a Carlo Magno e al «Sacro Romano Impero», come Al Baghdadi all’antico Califfato?

Suvvia, non scherziamo! Cerchiamo piuttosto di riflettere seriamente sul dramma presente. A cominciare dal terrorismo islamista. Quando è nato? La storia non si fa con i «se», ma i «se» aiutano a capirla, per non cadere negli stessi errori. Non è difficile ammettere (lo fanno oramai anche dirigenti e generali americani) che senza le due Guerre di Bush padre e figlio, che hanno sprofondato l’Iraq e l’intero Medio Oriente nella notte di un’orrenda infinita carneficina tra sunniti e sciiti: finora solo in Iraq un milione circa di morti civili, – probabilmente non sarebbe nata né Al-Qaeda né l’Isis.

E non ci sarebbe stato forse né l’evento tragico delle Torri Gemelle, né la catena di attentati islamisti che, come conseguenza e contraccolpo a quelle due Guerre scellerate, hanno poi insanguinato sia il Medio Oriente sia l’Europa, fino al recente ignobile massacro di Charlie Hebdo e all’orrenda strage del Venerdì nero di Parigi.

È noto che la «formazione» jihadista di Osama bin Laden e della futura Al-Qaeda è avvenuta tra i mujaheddin armati dagli Usa contro gli occupanti russi, durante la lunga guerra in Afghanistan. Similmente, quella del futuro califfo Al Baghdadi e di molti dei suoi seguaci si è svolta nelle carceri irachene costruite dagli Usa, alla scuola di altri detenuti, militanti al-qaedisti ed ex- militari di Saddam Hussein). «L’Isis l’abbiamo creato noi», ha rivelato Hilary Clinton. L’Isis, il mostro che con i suoi tentacoli, le cellule terroriste clandestine, si è infiltrato terribilmente minaccioso anche nelle nostre città. Vien da chiedersi se chi crea il mostro non lo crea a propria immagine e somiglianza.

Fatto sta che dalle Guerre bushiane in poi, nei paesi islamici e poi in quelli europei, massacri si sono susseguiti e contrapposti a massacri. Da una parte e dall’altra. E da ambedue le parti giustificati col Dio del Terrore, o col Terrore di Dio.

Papa Bergoglio ha detto: «Chi usa Dio per uccidere bestemmia». Vero! Ma è vero solo per chi usa Dio non per uccidere, ma per amare, perdonare, aiutare. Purtroppo nei testi sacri, dalla Bibbia al Corano, c’è sì un Dio dell’amore, della pietà, della misericordia, ma c’è anche un Dio dell’odio, della violenza, della guerra. Ognuno si costruisce Dio a propria immagine e somiglianza. E per ognuno il vero autentico Dio è il proprio Dio («Non avrai altro Dio all’in fuori di me!»). Quello degli altri è falso, un non-Dio, un Anti-Dio, da combattere e annientare con i suoi fedeli, incarnazione vivente del Nemico, del Male, del Diavolo. Onde si ritiene sacrosanta la folle uccisione dei miscredenti nel nome di Dio («Dio lo vuole», «Deus nobiscum»).

Una storia vecchia, che ha contraddistinto da secoli l’Occidente, nei suoi conflitti e guerre intestine come nelle conquiste coloniali. Negli ultimi decenni è stata rinverdita dagli Stati Uniti. «Empire of Evil, Impero del Male»: così definiva il cristiano Reagan la ex-Urss. «Axis of Evil»: così il cristiano Bush jr definiva i nemici degli Usa, ossia «gli Stati canaglia» di cui l’Iraq di Saddam Hussein era il primo della lista. Oggi gli ha fatto flebile eco il presidente Obama: l’Isis è «the Face of the Devil, il volto del diavolo» (dal G20 di Antyala, Turchia). Un linguaggio che sta tornando di moda tra i teocon («Bastardi islamici»: dove «bastardi» sta per figli illegittimi di un falso Dio).

Analogo, e opposto, il linguaggio degli islamisti, che identificano l’Occidente col regno di Satana. «Ecco l’America colpita dal Dio altissimo» (Bin Laden dopo l’11 settembre 2001). «Il verdetto di Allah è stato eseguito» (il binladista Al-Zarqawi dopo ogni decapitazione di prigionieri). Colpito al cuore il regno idolatrico «dell’abominio e della perversione» (l’Isis dopo la strage di Parigi). «Chiediamo ad Allah di sostenere i mujaheddin contro i crociati finché la bandiera del Califfato non sarà issata sulla Città del Vaticano» (ancora l’Isis in questi giorni). «Allah Akbar, Allah è grande» (l’urlo dei fanatici autori delle stragi di Parigi; lo stesso che è risuonato ieri nello stadio di Instanbul). «Difendiamo il Crocifisso, segno della nostra civiltà, e sterminiamo il Nemico» (questa più o meno la reazione dei novelli teocon lega-forzisti italiani).

Fare la guerra in nome di Dio, da una parte e dall’altra, è la via migliore per sprofondarci tutti nell’Inferno, per chi ci crede. Meglio per tutti, credenti e non, opporre l’analisi fredda e lucida dei fatti e la valutazione delle conseguenze delle proprie scelte e azioni. Ovvero pensieri e comportamenti conformi all’etica della responsabilità.

 




intervista a p. A. Maggi: “come sconfiggere la paura e la morte”

Alberto Maggi "Siamo tutti schiavi del più grande tabù"

SCONFIGGERE LA MORTE
“Siamo tutti schiavi
del più grande tabù”

la malattia, le cure, la guarigione quando sembrava non ci fosse speranza

il teologo “eretico” smonta attraverso l’esperienza personale la paura che l’uomo ha esorcizzato

p.Alberto Maggi ha visto la morte da vicino. Ma poiché, oltre che frate, raffinato teologo e religioso spesso accusato di “eresia”, è un uomo spiritoso, il titolo del libro che dà conto di quell’esperienza, uscito da poco per Garzanti, suona
                                                                          “chi non muore si rivede”
“Avevo appena ultimato un saggio sull’ultima beatitudine. La morte come pienezza di vita, ma sentivo che mancava qualcosa. Poi sono stato ricoverato d’urgenza per una dissezione dell’aorta: tre interventi devastanti, settantacinque giorni con un piede di qua e uno di là. È stato allora che ho capito cosa mi mancava: l’esperienza diretta e positiva del morire. E ho anche capito perché San Francesco la chiami sorella morte: perché la morte non è una nemica che ti toglie la vita, ma una sorella che ti introduce a quella nuova e definitiva.
Nei giorni in cui ero ricoverato nel reparto di terapia intensiva, con stupore mi sono accorto che le andavo incontro con curiosità, senza paura, con il sorriso sulle labbra. Oltretutto percepivo con nettezza la presenza fisica dei miei morti, di coloro che mi avevano preceduto e ora venivano a visitarmi… Chissà perché quando qualcuno muore gli si augura l’eterno riposo, come se si trattasse di una condanna all’ergastolo. Io penso invece che chi muore continua a essere parte attiva dell’azione creatrice del Padre”.

Fatto sta che oggi si persegue tutt’altro sogno, quello di una tendenziale immortalità garantita dalle biotecnologie.
“È una novità che mette in difficoltà anche la Chiesa, chiamata ad approfondire il senso del sacro. Perché se è sacra la vita dell’uomo, anche quando si riduce alla sopravvivenza di una pura massa biologica, allora è giusto procrastinare quella vita all’infinito, utilizzando tutti gli strumenti della scienza medica. Se invece ad essere sacro è l’uomo, bisognerà garantirgli una fine dignitosa… Io non capisco questa smania di accanirsi su un vecchio, portarlo in ospedale, intervenire a tutti i costi, anche in prossimità del capolinea. Si potrà prolungare la sua esistenza ancora per un po’, ma in compenso lo si sottrae alla condivisione familiare di quel passaggio decisivo rappresentato dalla morte.

Quante volte mi capita di venire chiamato in ospedale per l’estremo saluto e assistere alla seguente commedia. I parenti mi implorano: la prego, non gli dica niente. Crede di avere soltanto un’ulcera. E il morente, perfettamente consapevole del suo stato, a sua volta mi chiede di rassicurare i familiari perché non sono pronti alla sua dipartita. Quando io ero piccolo, il vero tabù era rappresentato dal sesso. Ora invece è la morte il tabù. È scomparsa qualunque dimestichezza con la pratica mortuaria, delegata alle pompe funebri, e gli annunci funebri escogitano ogni escamotage pur di non affrontare il punto: il tal dei tali si è spento, ci ha lasciati, è tornato alla casa del padre. Mai una volta che si scriva semplicemente: è morto”.

Per un credente questo passaggio dovrebbe essere reso più facile dalla credenza nella resurrezione dei morti.
“Io veramente credo alla resurrezione dei vivi. La resurrezione dei morti è un concetto giudaico. Ma già con i primi cristiani cambia tutto, come mostra San Paolo nelle sue lettere: “Noi che siamo già resuscitati”, “noi che sediamo nei cieli”. Gesù ci offre una vita capace di superare anche la morte. Ecco perché i primi evangelisti usano il termine greco zoe. Mentrebiosindica la vita biologica, che ha un inizio, uno sviluppo e, per quanto ci dispiaccia, un disfacimento finale, la vita interiore (zoe) ringiovaniscedi giorno in giorno. Da qui le parole folli e meravigliose del Cristo: chi crede in me, non morirà mai”.

E allora l’Apocalisse, il giudizio universale, la fine dei giorni?
“Gesù, polemizzando con i Sadducei, afferma che Dio non è il Dio dei morti, ma dei vivi. E non resuscita i morti, ma comunica ai vivi una qualità di vita che scavalca la morte stessa. Questa è la buona novella. Quando qualcuno muore e il prete dice ai parenti: un giorno il vostro caro risorgerà, questa parola non suona affatto come consolatoria, ma incrementa la disperazione. Quando risorgerà?, si chiedono. Tra un mese, un anno, un secolo? Ma alla sorella di Lazzaro, Gesù dice: io sono la resurrezione, non io sarò. E aggiunge: chi ha vissuto credendo in me, anche se muore continua a vivere. Gesù non ci ha liberati dalla paura della morte, ma dalla morte stessa”.

Non è una visione del cristianesimo un po’ troppo gioiosa, consolatoria?
“Tutta questa gioia però passa attraverso la croce, non ti viene regalata dall’alto. Quando stavo male, le persone pie  –  che sono sempre le più pericolose  –  mi dicevano: offri le tue sofferenze al Signore. Io non ho offerto a lui nessuna sofferenza, semmai era lui che mi diceva: accoglimi nella tua malattia. Era lui che scendeva verso di me per aiutami a superare i miei momenti di disperazione”.

Torniamo al nostro tema. Per un lunghissimo periodo il freno principale all’effrazione del limite era rappresentato proprio dal terrore di incorrere nel peccato di superbia, di credersi onnipotenti come Dio.
“Questo secondo l’immagine tradizionale della religione, che presuppone un Dio che punisce e castiga. Per scribi e farisei è sacra la Legge, per Gesù invece è sacro l’uomo. Per i primi il peccato era una trasgressione della Legge e un’offesa a Dio, per Gesù il peccato è ciò che offende l’uomo “.

Ecco che salta fuori Maggi l’eretico, che vede nella religione un ostacolo che si frappone alla vera fede.
“La religione ha inventato la paura di Dio per meglio dominare le persone e mantenere posizioni di potere acquisite. Per religione si intende tutto ciò che l’uomo fa per Dio, per fede tutto ciò che Dio fa per l’uomo. Con Gesù invece Dio è all’inizio e il traguardo finale è l’uomo. Per questo ogni volta che Gesù si trova in conflitto tra l’osservanza della legge divina e il bene dell’uomo, sceglie sempre la seconda. Al contrario dei sacerdoti. Facendo il bene dell’uomo, si è certi di fare il bene di Dio, mentre quante volte invece, pensando di fare il bene di Dio, si è fatto del male all’uomo”.

Se non è più il terrore di commettere peccato a fare da freno alla nostra hybris, cos’altro spinge un cristiano a riconoscere la bontà del limite?
“Il tuo bene è il mio limite. La mia libertà è infinita; nessuno può limitarla, neppure il Cristo, perché quella libertà è racchiusa nello scrigno della mia coscienza. Sono io a circoscriverla. Per il tuo bene, per la tua felicità. È così che l’apparente perdita diventa guadagno. Lo dicono bene i Vangeli: si possiede soltanto quello che si dà”.

Mi sbaglierò, ma è proprio la parola limite che non si attaglia al suo vocabolario.
“Preferisco il termine pienezza. La parola limite ha una connotazione claustrofobica. La pienezza mi invita a respirare. Ogni mattina che mi sveglio, io mi trovo di fronte all’immensità dell’amore di Dio e cerco di coglierne un frammento, per poi restituirlo al prossimo. A partire, certo, dal mio limite. San Paolo usa a riguardo una bellissima espressione: abbiamo a disposizione un tesoro inestimabile e lo conserviamo in vasi da quattro soldi. Questa è la nostra condizione: una ricchezza immensa, a fronte della nostra umana fragilità e debolezza. Che però non necessariamente è negativa. Perché sarà il mio limite a farmi comprendere anche il tuo. E di nuovo ecco la rivoluzione di Gesù. Nell’Antico Testamento il Signore dice: siate santi come io sono santo. Gesù invece non invita alla santità, dice: siate compassionevoli come il Padre è compassionevole. La santità allontana dagli uomini comuni, la compassione invece ci unisce”.




il vangelo della domenica

 

“TU LO DICI: IO SONO RE”

commento al vangelo della trentaquattresima domenica del tempo ordinario (22 novembre 2015) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Gv 18, 33b-37

[In quel tempo] Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

Il vangelo di Giovanni ci presenta il primo interrogatorio di Pilato nei confronti d Gesù. Pilato già conosceva Gesù, aveva contribuito al suo arresto mandando le sue guardie. Leggiamo il vangelo. Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: “Sei tu il re dei Giudei?” La domanda di Pilato sembra esprimere tutta la sua sorpresa perché gli hanno detto che questo Gesù è l’atteso messia, il re dei Giudei, colui che mediante una rivolta avrebbe dovuto buttare via tutto il sistema di potere, avrebbe dovuto cacciare via i romani, ma evidentemente la persona di Gesù non dà l’idea di un bellicoso rivoluzionario per cui Pilato esprime tutta la sua sorpresa. Ebbene Gesù non gli risponde. Gesù, l’imputato, fa lui le domande al giudice che lo deve giudicare. Infatti Gesù rispose: “Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?” Gesù non risponde ma invita Pilato a ragionare con la propria testa. Come già ha fatto con la guardia che lo ha schiaffeggiato – Gesù gli ha detto “Se ho fatto del male dimostrami dov’è il male, se non ho fatto del male perché questa violenza?” – così Gesù cerca di convincere Pilato a ragionare con la propria testa. Ma la domanda di Gesù provoca la reazione furibonda di Pilato che reagì dicendo: “Sono forse io Giudeo?” In questa espressione c’è tutto il disprezzo del procuratore verso questo popolo che lui doveva governare.  Ed ecco la denuncia: “La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?” Sono tutti contro Gesù. Giovanni nel su prologo l’aveva scritto: venne tra i suoi ma i suoi non lo hanno accolto. Ma non solo coloro che detengono il potere – i sommi sacerdoti si può capire perché il messaggio di Gesù toglie il potere perché il Dio di Gesù non è un Dio di potere, ma amore che si mette a servizio degli uomini – ma anche la gente perché sono dominati e questo dominio dell’istituzione religiosa dà loro sicurezza. Quindi sono tutti contro Gesù. Ed ecco la domanda: “Che cosa hai fatto?” Pilato già lo sa perché le autorità gli hanno detto: “Se non fosse un malfattore non te lo avremmo consegnato”. Ed ecco che finalmente Gesù risponde alla prima domanda (Sei il re dei Giudei?), rispose Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo”. Gesù non sta contrapponendo il cielo alla terra, non due mondi differenti, sta dicendo che il suo regno non è di questo mondo, cioè non assomiglia ai sistemi di questo mondo. Questo non significa che il suo regno non sia in questo mondo, quindi Gesù non sta contrapponendo il cielo alla terra. E lo dice. “Se io mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di qui”. Gesù non ha servitori in quanto lui è servitore. Il suo regno è quello dal quale è esclusa ogni forma di potere, di dominio, e quindi di violenza e di sopraffazione. Quindi in regno di Gesù non di questo mondo, è in questo mondo, ma è una società alternativa. Pilato, ancora più sconcertato, gli chiede: “Dunque tu sei re?” Ebbene Gesù tronca questo argomento della regalità che non gli interessa e risponde: “Tu lo dici: io sono re”, cioè “questo è il tuo parere”. Poi Gesù tronca perché non è interessato a parlare della regalità, ma riprende a parlare di quella che è la sua missione. “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce”. Nel discorso con Nicodemo Gesù aveva contrapposto chi fa la verità con chi fa il male. Quindi essere nella verità, fare la verità, significa fare il bene. Se nella propria vita non si mette come valore assoluto il bene dell’uomo e non si orienta la propria vita per procurare questo bene dell’uomo, la voce del Signore non può essere compresa. Si può ascoltare ma senza comprendere. Quindi Gesù non dice: “Chi ascolta la mia voce si mette poi nella verità” ma il contrario. Per ascoltare la voce del Signore bisogna fare una scelta: orientare la propria vita al bene dell’uomo. Naturalmente tutto questo è incomprensibile per Pilato perché rappresenta il potere. Infatti Pilato, come Gesù non è interessato al discorso della regalità, lui non lo è a quello della verità. E chiude dicendo: “Che cos’è verità?”

 




la gustosa ironia di M. Serra contro il clero conservatore nemico di papa Francesco

le udienze papali 
al bar Marisa

Serra

continua la rivoluzione di Bergoglio

 andrà 
a vivere in una casa occupata di Centocelle 
con uno studente fuori corso

(si teme sia donna)

papa8

IL CLERO CONSERVATORE è spaventato. Come arginare la travolgente spinta riformatrice di papa Francesco? Come evitare che l’insegnamento evangelico, fin qui sapientemente tenuto a bada per duemila anni, torni a minacciare l’ordine sociale come ai tempi di Diocleziano? Come impedire che questo Papa arrivi a mettere in discussione le tradizioni della Chiesa fino alle conseguenze estreme, per esempio modificare l’uniforme delle guardie svizzere? Se Bergoglio si spingesse fino ad abolire l’uso delle babbucce di raso rosso previste dal protocollo per la celebrazione del Tedeum, diventerebbe impossibile evitare lo scisma.

LE NOVITÀ Non contribuiscono a rasserenare gli animi le indiscrezioni sulle prossime mosse del Papa. Il residence Santa Marta gli sembra ingombro di inutili lussi, come l’asse da stiro e il citofono. Starebbe meditando di trasferirsi in una casa occupata a Centocelle, dividendo la stanza con uno studente fuori corso (secondo le voci più allarmate si tratterebbe di una studentessa). Cambiamenti in vista anche in materia di viaggi e trasporti. Bergoglio non si fida più del Garage Vaticano, diretto da monsignor Cabriolet, punto di riferimento del clero ultraconservatore: era lui che forniva a Papa Ratzinger la Mercedes con i sedili di lapin già usata da Gloria Swanson per raggiungere il set di Viale del tramonto. Papa Francesco è stato visto dal concessionario Fiat di Latina trattare personalmente un Fiorino usato, chiedendo però di togliere la decalcomania di Pamela Prati e sostituirla con una di Maradona. Esclusa la possibilità di muoversi in bicicletta: ci vorrebbero troppe mollette per fissare la veste bianca alle caviglie. Quanto all’ipotesi di usare i trasporti pubblici romani, Bergoglio ha lasciato intendere che un conto è la ricerca della semplicità, altro conto il masochismo.

ALTRE NOVITÀ Lo spostamento delle udienze papali al bar “Marisa”, al Testaccio, ha reso inutile la sontuosa Sala Nervi, attrezzata per volontà di Bergoglio a deposito dei calciobalilla destinati ai campi profughi di tutta Europa. Le Sartorie Vaticane, fino ad oggi impegnate esclusivamente nella fattura di paramenti e stole per i pontefici, su indicazione personale del Papa sono impegnate a munire tutti gli omini blu e tutti gli omini rossi di piccole casacche nuove fiammanti. Impressionante la cura dei dettagli: alcuni degli omini sono stati tatuati per adeguare la figura del calciatore ai tempi moderni.

ENCICLICHE Dopo l’enciclica nella quale si invita a restituire la terra ai contadini, è quasi pronta quella nuova, che esorta alla collettivizzazione delle fabbriche e verrà venduta con un cd che contiene l’Internazionale eseguita dal coro dell’Armata Rossa. Con un solo euro di supplemento, il poster di Che Guevara e la copia fotostatica della tessera del Partito Comunista Argentino che un Bergoglio allora giovanissimo restituì indignato, accusando il partito di revisionismo e unendosi ai Tupamaros in Uruguay. Ma i vaticanisti mettono in guardia contro una lettura banalmente “politica” della predicazione di Francesco. Si tratta – spiegano – di un approccio squisitamente spirituale alle tematiche sociali. Anche il titolo dell’enciclica, “Compagni avanti fino alla vittoria!” non va banalizzato né frainteso, ha dichiarato il cardinale Tarcisio Bertone in una conferenza stampa improvvisata, poco prima di varcare la frontiera con la Svizzera.

COMPLOTTO Prende sempre più consistenza la teoria del complotto. Pare che, prima del Conclave, nessuno conoscesse questo Bergoglio. Si è presentato dicendo di essere il vescovo di Santa Maria de Buenavista, e nella confusione del momento nessuno ha fatto notare che Santa Maria de Buenavista non esiste. La sua elezione sarebbe comunque il frutto di un clamoroso equivoco: i cardinali avevano deciso di prendere tempo votando, nel primo scrutinio, il candidato con meno possibilità di successo. Di qui l’elezione di Bergoglio.

 



don Giorgio furioso con papa Francesco: ingeneroso! ma ha proprio tutti i torti?

 

Papa Francesco, perché non condanni l’entrata in guerra della Francia? Legittima difesa? No! Solo ritorsione e vendetta!

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di don Giorgio De Capitani:

don Giorgio

 

Un papa smemorato!

Domenica scorsa, al termine dell’Angelus domenicale in piazza San Pietro, papa Francesco ha parlato dei fatti tragici che hanno colpito la Francia. Riporto alcune frasi: “Utilizzare il nome di Dio per giustificare odio e violenza è una bestemmia”. Inoltre: “Tanta barbarie ci lascia sgomenti e ci si chiede come possa il cuore dell`uomo ideare e realizzare eventi così orribili, che hanno sconvolto non solo la Francia ma il mondo intero”. Infine: “Dinanzi a tali atti non si può non condannare l`inqualificabile affronto alla dignità della persona umana”.

Beh, il Papa non poteva certo tacere: doveva pur dire qualcosa, così come hanno fatto cardinali e vescovi, tra cui Angelo Scola, per salvare la faccia!

Ma, a parte un dovuto istituzionale, ascoltare certe cose fa inorridire, al pensiero che chi le dice è tanto smemorato da non ricordare il passato, non troppo lontano, in cui la Chiesa ha commesso crimini di ogni genere, bestemmiando Dio e violentando la libertà di coscienza.

Ah, certo, il passato è passato, ed ora si è cambiata finalmente pagina. Ma non si deve dimenticare che non tutti la pensano così, e che il passato pesa ancora sulla storia, soprattutto là dove la storia purtroppo si è fermata al passato. Ci sono religioni che faticano a uscire da un passato di violenza, e che camminano più lente delle altre, e queste religioni vivono ancora di quelle contrapposizioni che nel passato hanno alimentato odio e violenza. Anche tra i cattolici ci sono tuttora frange fondamentaliste, benché solo verbali, ma sappiamo che le parole uccidono più delle armi; ma presso altre religioni, ad esempio quella islamica, le frange fondamentaliste usano la parola del Corano come occasione per espandersi territorialmente, seminando terrore e morte.

Ciò che mi auguro è che la Chiesa non si metta in cattedra a insegnare alle altre religioni ciò che è giusto fare, dal momento che il suo passato non è stato affatto esemplare, e che, se è migliorata, non è stato per merito della gerarchia, ancora chiusa entro le strette di una religione espansionista, ma di quella “meglio gioventù di spirito”, che di spirito s’intendeva, e non certo di strutture, logore e vecchie, ma sempre tenaci a tal punto da soffocare gli spazi dello Spirito.

Non credo nella bontà di questa Chiesa “francescana” che vorrebbe tenere il predominio sulle coscienze, in nome di una libertà religiosa che significa solo: lasciatemi dire ciò che voglio, anche ai “fratelli musulmani”, anche ai “fratelli luterani”, anche ai “fratelli ebrei”, senza aprire le porte all’Umanità.

Ho appena sentito la proposta, davvero sconcertante, di aprire il Giubileo anche ai musulmani. Oppure ho capito male? Questa che cos’è, se non supremazia di una religione buonista, tanto buonista da abbracciare nelle sue braccia mortali i poveri figli di satana?

Casomai, sarebbe stato più accettabile, il Giubileo doveva fin dall’inizio era proposto insieme: ebrei, islamici, cattolici, aprendo l’invito anche alle altre spiritualità orientali. No! Roma è sempre Roma, e tale deve restare: caput mundi o caput diaboli?

Un Papa senza parole!

A proposito dei violenti bombardamenti francesi nella zona di Raqqa, roccaforte dell’Is in Siria, cosa ne pensa il Papa? Legittima divisa?
Il Papa parla di Giubileo, e tace sull’entrata in guerra della Francia, la quale potrebbe trascinare altri Paesi in un conflitto, le cui conseguenze saranno incalcolabili, di tempo e di morti.




10 proposte per la conferenza di Parigi sul clima

clima

le 10 proposte della Chiesa cattolica alla COP21 di Parigi 2015

Anche la Chiesa cattolica scende in campo nella lotta contro i cambiamenti climatici. Cardinali, Patriarchi e Vescovi di tutto il mondo, rappresentanti le istanze continentali delle Conferenze episcopali nazionali, hanno siglato un appello rivolto a quanti negoziano la COP21 a Parigi, invitandoli a lavorare per l’approvazione di un accordo sul clima che sia equo, giuridicamente vincolante e generatore di un vero cambiamento
in rappresentanza della Chiesa cattolica dei 5 continenti, cardinali, patriarchi e vescovi hanno messo a punto una proposta politica su 10 punti, formulata sulla base dell’esperienza concreta delle persone attraverso i vari continenti e associando i cambiamenti climatici all’ingiustizia e all’esclusione sociale dei più poveri e dei più vulnerabili dei cittadini.
Naturalmente, gran parte di questo slancio è legato alla presa di posizione di Papa Francesco e alla sua enciclica Laudato Si’, in cui i cambiamenti climatici vengono inquadrati come una delle sfide maggiori per l’umanità e il clima è un bene comune, condiviso, che appartiene a tutti e destinato a tutti, quindi responsabilità di tutti

Dal punto di vista della Chiesa, Dio ha creato il mondo per tutti, quindi ogni approccio ecologico deve incorporare una prospettiva sociale che tenga conto dei diritti fondamentali dei poveri e dei diseredati. E’ oggi utile più che mai ridefinire le nozioni di crescita e progresso,come la stessa enciclica invita a fare. Sono, com’era prevedibile, i più poveri a subire le conseguenze dei cambiamenti climatici.

Nel suo discorso alle Nazioni Unite, il Papa ha detto che l’abuso e la distruzione dell’ambiente sono accompagnati anche da un processo inarrestabile di esclusione. Ora gli esponenti della Chiesa cattolica si uniscono a Papa Francesco

nell’implorare un grande passo avanti a Parigi, per un accordo globale e generatore di un vero cambiamento sostenuto da tutti, basati su principi di solidarietà, di giustizia e di partecipazione, come si legge in una nota.

la richiesta alla COP 21 è quella di stringere un accordo internazionale per limitare l’aumento della temperatura globale entro i parametri attualmente proposti all’interno della comunità scientifica mondiale al fine di evitare impatti climatici catastrofici, soprattutto sulle comunità più povere e vulnerabili. Siamo d’accordo sul fatto che esiste una responsabilità comune, ma anche differenziata di tutte le nazioni.ecco allora le 10 proposte:

1. tenere a mente non solo le dimensioni tecniche, ma soprattutto quelle etiche e morali dei cambiamenti climatici, di cui all’articolo 3 della convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC);

2. accettare che il clima e l’atmosfera sono beni comuni globali appartenenti a tutti e destinati a tutti;

3. adottare un accordo globale equo, generatore di un vero cambiamento e giuridicamente vincolante sulla base della nostra visione del mondo che riconosce la necessità di vivere in armonia con la natura e di garantire il rispetto dei diritti umani per tutti, compresi quelli dei popoli indigeni, delle donne, dei giovani e dei lavoratori;

4. mantenere l’aumento della temperatura globale e di fissare un obiettivo per la completa decarbonizzazione entro la metà del secolo, al fine di proteggere le comunità che in prima linea soffrono gli impatti dei cambiamenti climatici, come quelle nelle isole del Pacifico e nelle regioni costiere;

– garantendo che la soglia della temperatura sia sancita in un accordo globale giuridicamente vincolante, con impegni ambiziosi di attenuazione ed azioni da parte di tutti i paesi che tengano pienamente conto delle loro responsabilità comuni ma differenziate e delle loro rispettive capacità (CBDRRC), sulla base di principi di equità, responsabilità storiche e sul diritto allo sviluppo sostenibile;

– per assicurare che le riduzioni delle emissioni dei governi siano in linea con l’obiettivo della decarbonizzazione, i governi devono svolgere dei riesami periodici degli impegni presi e dell’ambizione Affinché questi controlli vadano a buon fine, devono avere basi scientifiche, devono seguire il principio dell’equità e devono essere obbligatori;

5. generare nuovi modelli di sviluppo e stili di vita che siano compatibili con il clima, affrontare la disuguaglianza e portare le persone ad uscire dalla povertà. Fondamentale per questo è porre fine all’era dei combustibili fossili, eliminandone gradualmente le emissioni, comprese le emissioni provenienti da militari, aerei e marittimi, e fornendo a tutti l’accesso affidabile e sicuro alle energie rinnovabili, a prezzi accessibili;

6. garantire l’accesso delle persone all’acqua e alla terra per sistemi alimentari sostenibili e resistenti al clima, che privilegino le soluzioni in favore delle persone piuttosto che dei profitti.

7. garantire, a tutti i livelli del processo decisionale, l’inclusione e la partecipazione dei più poveri, dei più vulnerabili e dei più fortemente influenzati;

8. garantire che l’accordo 2015 offra un approccio di adattamento che risponda adeguatamente ai bisogni immediati delle comunità più vulnerabili e che si basi sulle alternative locali;

9. riconoscere che le esigenze di adattamento sono condizionate dal successo delle misure di attenuazione adottate. I responsabili del cambiamento climatico hanno l’onere di assistere i più vulnerabili nell’adattarsi e nel gestire le perdite e i danni e nel condividere la tecnologia e il know-how necessari;

10. fornire roadmap chiare su come i paesi faranno fronte alla fornitura di impegni finanziari prevedibili, coerenti ed aggiuntivi, garantendo un finanziamento equilibrato delle azioni di attenuazione e delle esigenze di adattamento.

 
da www.greenbiz.it