L. Boff sulle coppie gay: omosessualità o omoaffettività?

“sì alle coppie gay ma Monsignor Charamsa ha sbagliato” 

 

‘Oggi’ ha intervistato in esclusiva il teologo brasiliano della Liberazione, che dice la sua anche sull’omosessualità: più che di omosessualità bisognerebbe parlare di “omoaffettività: che comprende l’affetto, l’amore, la simpatia, la sessualità come relazione profonda di tenerezza, di auto-aiuto. Quando c’è amore, anche tra due uomini o due donne, lì c’è Dio. E dinanzi all’amore bisogna avere rispetto”

Leonardo Boff, il teologo brasiliano della Liberazione, è in Italia per presentare i suoi ultimi libri (pubblicati da Emi). Nel 1984 fu processato dal cardinale Ratzinger per la sua critica alle gerarchie e le sue posizioni teologiche non proprio in linea col cattolicesimo romano, e nel ‘92, sotto Giovanni Paolo II, lasciò l’ordine dei francescani. Ora a Oggi confida: «Spero di incontrare papa Francesco. La sua enciclica Laudato si’ è dirompente».

L’enciclica è rivoluzionaria?
«Sì, è un appello urgente a tutti gli uomini. Li avverte che la Madre Terra non è mai stata tanto maltrattata come negli ultimi due secoli. Se non cambiamo rotta, finiremo nel baratro».

 

Laudato si’ parla del «grido della Terra, grido dei poveri». Riabilita la Teologia della Liberazione?
«Il Papa viene dalla Teologia della Liberazione ma nella sua versione argentina, che non usava le analisi di classe perché la repressione militare era troppo forte. Era una “teologia del popolo oppresso”. Da giovane, Bergoglio prese l’impegno di vivere radicalmente la povertà e ogni settimana andava in una favela».

Però il Papa ha chiarito che non è un comunista.
«Ma lui riconosce di essere un comunista nel senso del Vangelo e degli Atti degli apostoli, che mettevano tutto in comune. L’ha detto più volte».

Se lei potesse intervenire al Sinodo, che cosa direbbe?
«Direi che il papa ha uno sguardo nuovo sui problemi delle famiglie ferite. È per una pastorale di misericordia e perdono.  Non vuole trattare questi casi per condannarli ma perché si prendano le loro responsabilità davanti a Dio. È una rivoluzione, perché dove impera il potere non c’è amore né misericordia. E l’incontro a Roma tra conservatori e progressisti è l’incontro tra potere e amore. Nel Vangelo, è centrale l’amore».

I divorziati risposati dovrebbero poter fare la comunione?
«Il papa dice che i sacramenti sono per i malati e i vulnerabili, non per i santi».

A proposito degli omosessuali, molti vescovi dicono: accogliamoli purché vivano castamente…
«È una visione molto riduttiva, perché pensa all’omosessualità come relazione genitale. Invece il nome giusto è omoaffettività: comprende l’affetto, l’amore, la simpatia, la sessualità come relazione profonda di tenerezza, di auto-aiuto. Quando c’è amore, anche tra due uomini o due donne, lì c’è Dio. E dinanzi all’amore bisogna avere rispetto».

Ha fatto bene monsignor Charamsa a fare coming out?
«No. Credo sia una trappola montata dagli ambienti di destra nella Chiesa che si oppongono al papa. Perché non lo ha fatto in modo semplice ma provocatorio, per creare un problema al Sinodo e a Francesco. Ostentare in quel modo la sua scelta, il suo compagno… Non si deve giocare per mettere il papa alle strette».

(l’intervista completa sul numero di Oggi in edicola mercoledì 14)




il grido di p. Agostino che fa suo il grido dei rom della Bigattiera

NON SIAMO DA BUTTAR VIA!

agostino

Coltano – campo Rom –

8 Ottobre 2015.

Gli appelli di papa Francesco sono incessanti e molteplici: “Nessun essere umano va trattato come uno scarto” e sottolineerei: anche se non frequenta alcuna scuola! Faccio fatica a vedere il rom di serie A e B. “Chi va a scuola ha la mia comprensione, chi non ci va pazienza!

camper di Agostino

I Rom della Bigattiera di fatto, si sono trovati tutti sullo stesso “treno deragliato”, perché qualcuno già da tempo aveva manomesso i binari dei diritti uguali per tutti.

Esattamente quello che l’’Amministrazione di Pisa sta attuando da tempo verso in Rom in particolare, oggi è toccato ai Rom della Bigattiera.

Una politica che scarta, in nome di calcoli elettorali, perché questa è la motivazione di fondo, ha smarrito quel suo nobile scopo di prevenzione, di messa in campo di azioni in grado di accompagnare e sostenere le fasce più deboli della società, a lungo andare diventa cancerogena e nociva anche per l’intera società.

Da anni purtroppo, con i Rom assistiamo a questo degrado sociale e politico. I Rom sono sistematicamente esclusi da una partecipazione reale e concreta al loro sviluppo, al loro futuro. Le politiche sociali hanno occupato questo spazio in modo invadente, minaccioso e escludente.

Siamo testimoni di atteggiamenti arroganti, falsi e bugiardi da parte di “responsabili” che spesso non esitano a far uso anche di intimidazione, pur di ottenere i loro obiettivi.

Se non fai così gli assistenti sociali ti prendono i tuoi bambini.”

“ Se non fai così, la Questura ti darà l’’espulsione.”

L’’integrazione, strano ma vero rischia di essere minata proprio da quei soggetti chiamati a promuoverla e sostenerla. La pietà è vista come un ostacolo all’integrazione e spesso sono i responsabili del comune che mostrano il disprezzo verso i Rom, la pietà verso la vita dei Rom è bandita. Come mai , in genere oggi sono proprio le donne (assistenti sociali, responsabili, assessori..) che ostentano questa carenza di pietà umana, un tempo tipica del cuore femminile? Così facendo si inietta nell’opinione pubblica l’idea della “normalità del male”, la si accetta senza alcuna reazione, la si giustifica in nome di una falsa e distorta comprensione della realtà dei fatti.

Le vicende del campo Rom della Bigattiera sono un esempio parlante. Anni fà (estate 2012) lo stesso comune ordina la chiusura dell’acqua e della luce, obbligando di fatto una intera comunità Rom, con tanti minori e degli adulti ammalati, a vivere nel disagio.

L’accesso all’acqua potabile e sicura è un diritto umano essenziale, fondamentale e universale, perché determina la sopravvivenza delle persone, e per questo è condizione per l’esercizio degli altri diritti umani.”

Ce lo ricorda papa Francesco in Laudato Sì, n° 30.

Oggi lo stesso comune firma l’’ordinanza di sgombero della Bigattiera, motivandola per le condizioni igienico-sanitarie insostenibili del campo! C’è da rimanere sbigottiti per questi “giochetti”..chissà noi come avremmo reagito se privati per capriccio di qualcosa, di ciò che spetta ad ogni essere umano. Succede questo nel resto d’’Europa?

I Rom li considerate esseri umani? E’ la domanda (non provocatoria!) che rivolgo agli amministratori di Pisa e che molti cittadini oggi si pongono, a motivo delle vostre scelte.

Lo sgombero di persone è condizionato ad una concreta, immediata alternativa percorribile, lo dice la Commissione Europea. Dovrebbe essere sancita anche da una legge che obbliga i responsabili ad agire di conseguenza, diversamente si giustifica la disumanità e si incentiva quel degrado che si dice di voler combattere. Oggi la schiavitù è un reato, come lo stupro, la violenza, lo sfruttamento minorile..ecco vorrei che entrasse anche nella nostra coscienza e soprattutto negli atti amministrativi che sgomberare persone, lasciandole per strada, allo sbando privandole anche di una semplice baracca, è una violazione e in quanto tale illegittima, come è lo sfruttare un lavoratore, abusare o plagiare un minore o ridurre un essere umano schiavo di qualcuno.

Non siamo da buttar via”, mi diceva un Rom qualche giorno prima dello sgombero: è vero qualcuno lo pensa e lo programma.

Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”, dice un proverbio italiano..sarà ancora vero? Quando si tratta della vita dei Rom, oggi a Pisa e altrove, il confine é diventato sottile..non più un mare che ci difenda, ma le ruspe che spianano anche le ormai fragili obiezioni delle nostre coscienze.

p. Agostino Rota Martir




profughi sì e migranti no?

distinzione criminale

di Alesssandro Dal Lago
in “il manifesto” del 9 ottobre 2015

migranti

In un vecchio film di guerra, alcuni soldati in trincea discutono di pace. Il modo migliore per ottenerla — dice uno — è , in caso di controversie tra gli stati, obbligare re e capi di governo a salire con i guantoni sul ring e suonarsele di santa ragione finché uno non vince. La battuta mi è tornata in mente quando ho letto del piano segreto, elaborato dai ministri degli interni dell’Unione europea, per il rimpatrio di 400.000 migranti «economici». Giusto per dare un’idea a questi pensosi statisti di che cosa significhi migrare oggi si potrebbe, che so, portarli (a cominciare dall’ineffabile onorevole Alfano) in qualche paese del centro Africa e poi, con un po’ di dollari o Euro raccolti tra altri ministri e sotto-segretari, trasportarli in autobus in Libia, imbarcarli su un gommone , farli rischiare il naufragio e arrivare fradici e affamati a Lampedusa, rinchiuderli nel Cie e, dopo una detenzione di durata indefinita, riportarli al punto di partenza. E chiedere loro: la pensate come prima? Avete ancora voglia di distinguere tra profughi e migranti economici? Non sarebbe il caso di rivedere questa distinzione ipocrita, utile solo per manipolare opinioni pubbliche paranoiche e destrorse? In un sogno o in un film, in caso di risposta sbagliata si potrebbe ricominciare con loro daccapo…

ungheria-muro-fermare-migranti-orig_main

Quando Angela Merkel e il vice-cancelliere tedesco Gabriel hanno dichiarato, nello scorso agosto, di aprire le porte della Germania a 5 milioni di profughi, hanno realizzato un buon numero di obiettivi: rispondere a un’opinione pubblica tedesca complessivamente non insensibile agli Asylanten presenti e futuri, nonostante la rumorosa presenza del partito xenofobo Pegida e dei neo-nazisti, isolare le frange di estrema destra e, di fatto, assumere la guida politico-morale di un’Europa fragile, litigiosa e incerta sul da farsi in campo internazionale. Ovviamente, considerazioni demografiche e finanziarie, in un paese in cui non nascono più bambini, devono avere avuto il loro peso, ma sta di fatto che l’odiosa Germania della crisi greca è diventata la nobile Germania d’agosto, non offuscata nemmeno dalla crisi della Volkswagen. Ma tutto questo ha come contrappeso la distinzione tra profughi (vittime di guerra ecc.) e migranti economici, i quali affronterebbero deserti e mari, per non parlare di prigioni ungheresi e manganelli di mezza Europa, così, per sport o sete d’avventura, e non per sopravvivere o vivere meglio. Una distinzione insensata, che non riesce a mascherare l’assoluta mancanza di una strategia europea nei rapporti con gli altri mondi e con le persone che per qualsiasi ragione ne provengono. Una distinzione che serve a tacitare le strumentalizzazioni lepeniste, leghiste e di Grillo (che sul suo blog ha pubblicato tempo fa un encomio di Orbán). In termini puramente quantitativi, 3 milioni di migranti «economici» in dieci anni non cambierebbero in nulla l’assetto demografico di una Ue che conta oggi 500 milioni di abitanti distribuiti su 4 milioni di chilometri quadrati. Ma bisognerebbe cambiare metodo, emarginare sul serio gli Orban, i Salvini e Le Pen, impedire le stragi in mare, che continuano imperterrite alla faccia di Frontex, immaginare un’integrazione sociale decente per gli stranieri e disporre di una vera politica internazionale comune – invece che manganellare i migranti a Ventimiglia e Calais, moltiplicare i Cie e litigare in modo miserabile alle frontiere. Ed ecco perché i ministri degli Interni, riuniti da qualche parte a stilare piani segreti di espulsione lasciano filtrare cifre prive di qualsiasi senso (400.000, 300.000, nessuno, tutti?). Per coprire la loro mancanza di idee, che non siano lo sfruttamento della forza lavoro straniera e le preoccupazioni per le prossime elezioni. Nel frattempo, la ministra Pinotti e Matteo Renzi, che su queste materie non hanno mai nulla da dire, fanno scaldare i motori dei Tornado.




il commento al vangelo

VENDI QUELLO CHE HAI E SEGUIMI  

commento al della ventottesima domenica del tempo ordinario (11 ottobre 2015) di p. Alberto Maggi

 

p. Maggi
Mc  10, 17-30

[In quel tempo], mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».
Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».
Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».

Per la comprensione del brano evangelico dobbiamo lasciarci guidare da quelle chiavi di lettura, cioè dai termini che l’evangelista mette nel suo racconto per indicare quello che lui vuole esprimere. Come in questo brano, il capitolo 10 del vangelo di Marco, dal versetto 17 al 30.
L’evangelista scrive: Mentre andava per la strada. Ecco la prima indicazione. “Lungo la strada” è il luogo della semina infruttuosa, dove il seme è stato gettato per terra, ma subito sono venuti gli uccelli. Quindi
l’evangelista ci mette in guardia sul fatto che questo brano sarà all’insegna della semina infruttuosa, la parola non verrà accolta.
Un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio…  ecco sono altri due elementi importanti. Finora è corso incontro a Gesù l’indemoniato, cioè una persona posseduta da qualcosa di più forte di lui che lo tiene prigioniero e si è gettato in ginocchio presso Gesù il lebbroso, cioè la persona impura che si riteneva esclusa da Dio.
Quindi l’evangelista ci sta dicendo che questo tale è più posseduto di un indemoniato e più impuro di un lebbroso. La preoccupazione di questo tale – che è anonimo quindi significa che è un personaggio rappresentativo – è cosa deve fare per ottenere la vita eterna.
Ebbene Gesù gli risponde quasi in maniera seccata, perché lui è venuto ad inaugurare il regno di Dio, una società alternativa, non è venuto a dare indicazioni per la vita eterna. Comunque Gesù lo rimanda a Dio e ai comandamenti e qui Gesù elimina i tre che erano esclusivi di Israele, i comandamenti più importanti, gli obblighi nei confronti di Dio e gli elenca soltanto cinque comandamenti più un precetto che riguardano il comportamento verso gli altri.
Per la vita eterna non importa come e quello che si è creduto, ma importa come si sono amati i fratelli. E Gesù glieli elenca. “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso…”, e qui Gesù inserisce Non frodare che era un precetto e non un comandamento. Perché Gesù lo mette tra i comandamenti, dandogli valore di comandamento?
E’ un brano preso dal libro del Deuteronomio dove si chiede di non imbrogliare i lavoratori, i dipendenti. Allora Gesù insinua che alla base di ogni ricchezza – perché vedremo che questo tale è molto ricco – c’è sempre la frode e l’imbroglio. E poi “Onora il padre e la madre”.
L’individuo afferma di aver fatto tutte queste cose fin dalla giovinezza. Il testo greco fa vedere  che l’individuo si riempie la bocca, fiero, orgoglioso di tutto questo … In greco tutte queste cose si dice Tauta panta. È un’espressione che riempie la bocca.
Allora Gesù lo fissò, lo amò e gli disse: “Uno ti manca”. Traduco letteralmente il testo, non è una cosa sola ti manca, cioè a dire “hai fatto tanto metti anche questo”. No. “Uno ti manca” era un’espressione per indicare “Ti manca tutto”. Tanta osservanza dei comandamenti, tante osservanze religiose, eppure ti hanno reso un individuo – come abbiamo visto – angosciato, preoccupato.
Allora Gesù, che lo ama, gli chiede di essere felici facendo felici gli altri. E’ andato da Gesù per avere di più, per avere un consiglio per la sua vita spirituale e Gesù lo invita a dare di più. E infatti gli dice: “Va’, vendi quello che hai, dallo ai poveri…”, cioè fai felice per essere felice, “ e avrai un tesoro in cielo”, cioè in Dio.
“E vieni! Seguimi!” Non ha portato bene a questo individuo incontrare Gesù. Infatti a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato … e la conclusione dell’evangelista … possedeva infatti molti beni. Ecco perché all’inizio ha presentato l’individuo che corre come un indemoniato e si inginocchia
come un impuro. Costui credeva di possedere i propri beni, in realtà ne era posseduto. E il possesso di questi beni, l’egoismo che nasce lo chiudeva alla comunicazione con Dio.
La sua condizione è più grave del lebbroso che Gesù ha purificato e più grave anche dell’indemoniato che Gesù ha liberato. Allora Gesù ora si rivolge ai suoi discepoli ed esclude tassativamente che nella sua comunità ci possa entrare un ricco perché nella comunità del Regno c’è posto per i signori ma non per i ricchi. Qual è la differenza?
Il signore è colui che dà, condivide con gli altri; il ricco è colui che ha e trattiene per sé.
E Gesù appunto spiega quanto è difficile per quelli che possiedono ricchezze entrare nel regno di Dio. Questa dichiarazione di Gesù crea sconcerto tra i discepoli. Contenti che finalmente nel suo gruppo entrava un benestante, un ricco che poteva provvedere al sostentamento di questo gruppo di discepoli che aveva lasciato tutto per seguire Gesù, Gesù invece lascia che se ne vada.
Dicevano tra di loro: “E chi potrà essere salvato?” Non si tratta della salvezza eterna, il verbo indica sostentare, sopravvivere, sfuggire ad un pericolo, cioè “Come andiamo avanti se tu uno che ha i soldi non lo vuoi qui con noi?”
E Gesù dice che è impossibile agli uomini ma non a Dio. Gli uomini pensano che la sicurezza stia nell’accumulo, per Gesù la sicurezza, la felicità, stanno nel condividere con gli altri. E allora reagisce il discepolo Pietro, che, con aria di sfida, dice: “Noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito”. E qui Gesù gli risponde elencando una serie di sette impedimenti che, se ostacolano il seguire Gesù e la pienezza della felicità, devono essere eliminati. Per questo afferma: “Non c’è nessuno che abbia abbandonato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo … “, alla minima rinuncia corrisponde la piena abbondanza, “… cento volte tanto.”
Il numero cento indica la benedizione… “in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni e la vita eterna nel tempo che verrà”. E’ la vita eterna che viene ereditata, non si ottiene per i propri sforzi, ma è un regalo da parte di Dio. Poi c’è un ultimo versetto, che è importante ma non c’è nel testo liturgico.
“Ma tutti anche se primi devono essere ultimi e questi ultimi saranno primi”. Gesù ha incontrato uno che nella società è considerato un primo e lo invita a farsi ultimo in modo che gli ultimi possano sentirsi primi.

 




la favola bella …

La favola del postcapitalismo

postcapitalism-paul-mason-499

di LELIO DEMICHELIS

Il nesso tecnologia/capitalismo è tornato recentemente alla ribalta, interpretato in termini ottimistici, nel fortunato libro di Paul Mason, “Postcapitalism” (che a breve uscirà anche in Italia). L’errore è pensare che la tecnologia abbia il potere di liberarci dal capitalismo. È piuttosto il contrario: è la tecnologia che permette al capitalismo di sopravvivere ai suoi problemi.

E’ arrivato un nuovo profeta che promette un postcapitalismo meraviglioso, umano, collaborativo, intellettuale, gratuito. Un postcapitalismo che sta nascendo dal capitalismo stesso e che, come il proletariato di Marx cancellerà questo capitalismo e ci porterà gioia, felicità, condivisione libera, la liberazione dalla fatica, eccetera eccetera. Perché si compia il passaggio al postcapitalismo basta confidare nella potenza rivoluzionaria e salvifica delle nuove tecnologie, confidare nel loro potere liberatorio e liberante nonché libertario, nella loro capacità di diffondere nuovi modi di lavorare e di consumare liberando il tempo dal lavoro e permettendo a noi mortali attività in rete finalmente libere e quindi non capitalistiche. Basta credere che il web sia la nuova fabbrica e che svolga la stessa funzione delle fabbriche del XIX° secolo e che il suo proletariato digitale, diverso da quello industriale perché più informato e più connesso, possa abbattere questo capitalismo.

Tutto bello e affascinante. Dimenticando però che se il vecchio proletariato – che era classe in sé ma anche per sé avendo una propria coscienza di classe capace di fare contrasto al capitalismo – è stato ormai in-corporato nel (è parte del corpo politico e culturale del) sistema capitalista, si è progressivamente sciolto nel capitalismo e ne condivide l’egemonia, questo proletariato digitale è nato invece già antropologicamente capitalista, non ha alcuna idea di una possibile alternativa, ha assunto in sé l’imperativo della propria integrazione nel sistema (il dover essere connessi) e pur essendo forse ancora classe in sé (mai così tanti lavoratori precari, della falsa conoscenza, della sharing economy, taylorizzati e fordizzati in rete o uberizzati ovunque) non è classe per sé né potrà mai esserlo perché incapace di una coscienza comune e di una progettualità politica alternativa (perché è ormai convinto che: non ci sono alternative) in quanto ciascun componente di questo metaforico proletariato digitale è stato ormai separato, isolato dagli altri e messo in competizione con gli altri. Difficile immaginare la realizzazione di un postcapitalismo se ormai l’essenza della stessa società è il capitalismo più la tecnica. Difficile immaginare un’alternativa se ogni giorno il sistema ci educa ad essere capitalisti, se la rete stessa è oggi diventata puro capitalismo (in versione non 2.0 ma 0.0).

Eppure oggi circola questa nuova versione aggiornata – da Paul Mason, autore di quel Postcapitalismo che sta occupando le pagine di media pronti a dare voce ai tecno-entusiasti sempre e comunque e mai abbastanza – della vecchia favola del postcapitalismo che verrà. In realtà, leggendo Mason – che pure offre proposte decisamente interessanti e intriganti, come un mondo senza mercato, i banchieri centrali eletti democraticamente, il potere nelle mani della società civile, un reddito di cittadinanza, l’azzeramento (o quasi) del tempo di lavoro, la produzione di macchine beni e servizi a costi marginali nulli – sembra di fare un salto indietro nel tempo, a quando la rete era agli inizi ma già dimostrava la sua sconfinata potenza nel produrre retoriche per sé e per la sua accettazione di massa; a quando la rete era soprattutto una macchina capace di generare uno sconfinato e inarrestabile storytelling capace di abbattere ogni pensiero critico, ogni analisi razionale, ogni anticonformismo tecnologico; a quando la rete si trasformava da mezzo di comunicazione in mezzo di connessione di ciascuno nella rete, in modi simili alla vecchia catena di montaggio anche se globali e virtuali.

Leggere Mason fa l’effetto di un tempo che si è bloccato alle promesse della new economy degli anni ’90 del secolo scorso (che favoleggiava di fine dei fastidiosi cicli economici, prometteva la liberazione dalla fatica e un lavoro immateriale e intellettuale per tutti), alla fine del lavoro (1995) e all’era dell’accesso (2000) di Rifkin, alla wikinomics di Tapscott e Williams (2007), al punkcapitalismo di Matt Mason (2009), passando per l’Howard Rheingold della rete che ci rende intelligenti (2012), al Rifkin (ancora) della società a costo marginale zero (2014), ovvero all’internet delle cose, all’ascesa del commons collaborativo e quindi dell’eclissi del capitalismo. Senza dimenticare Negri e Hardt del Comune (2010). Per non citare che alcuni dei componenti di questo variegato mondo di profeti, di guru del post, abili nell’immaginare il nuovo regno di Dio-tecnica in terra, ma incapaci di fare preliminarmente una doverosa e foucaultiana archeologia dei poteri e dei saperi dominanti nelle società tecno-capitaliste. Quindi, incapaci di vedere come la soluzione da loro proposta per arrivare al postcapitalismo – più tecnologia che, da sola permetterebbe condivisione e libera circolazione delle idee – sia in contraddizione con l’essere la tecnologia ormai strettamente integrata al capitalismo (sono una cosa sola), la tecnologia permettendo al capitalismo di sopravvivere alle sue contraddizioni, il capitalismo essendo la benzina che permette alle nuove tecnologie di essere ciò che sono. Paradossale è dunque immaginare che quella tecnologia che sostiene il capitalismo e che lo ha reso globale (e globale e totalitaria la sua evangelizzazione) e che si serve del capitalismo per accrescere se stessa, possa giocare contro se stessa liberando se stessa (e gli uoimini) dal capitalismo che la sostiene.

Curioso: le ideologie o le religioni secolari del ‘900, che credevamo morte, sono in realtà più vive che mai e producono incessantemente nuove favole collettive, nuovi tecno-fideismi/tecno-integralismi che si offrono per dare un senso a un mondo apparentemente senza senso perché liquido, in realtà pesantissimo di connessioni obbligatorie, di incessanti pedagogie di adattamento non solo al mercato quanto alle nuove tecnologie. Che come le nuove tecnologie di vent’anni fa ci affascinano e ci promettono molto e continuamente cediamo alla loro richiesta di fede. Sanno di non avere mantenuto le promesse (meno lavoro, meno fatica, più libertà) e provano a rinnovare la promessa, chiedendoci di recitare nuovamente il loro Credo.

Ma cosa scrive Paul Mason, giornalista economico di simpatie laburiste, autore di libri di successo e ora di questo Postcapitalism, in uscita in traduzione italiana nei prossimi mesi? Che il capitalismo finanziario di questi ultimi anni – erede di quello industriale e di quello mercantile – avrebbe i giorni contati, posto che i mutamenti portati dalla rivoluzione informatica determinerebbero una modifica sostanziale dei modi di produzione e di consumo, metterebbero in discussione il sistema basato sulla legge della domanda e dell’offerta, della proprietà e dello scambio e lascerebbero progressivamente spazio ad una economia basata su tempo libero, attività in rete e gratuità.

Scrive Mason: «La tecnologia ha creato una nuova via d’uscita. Quello che resta della vecchia sinistra – e di tutte le forze che ne sono state influenzate – si trova di fronte a una scelta: imboccare questa strada o morire. Il capitalismo non sarà abolito con una marcia a tappe forzate ma grazie alla creazione di qualcosa di più dinamico, che inizialmente prenderà forma all’interno del vecchio sistema, passando quasi inosservato, ma che alla fine aprirà una breccia, ricostruendo l’economia intorno a nuovi valori e comportamenti. Lo chiameremo postcapitalismo».

Questo processo sarebbe già iniziato, grazie a tre grandi cambiamenti:

1) le nuove tecnologie «hanno ridotto il bisogno di lavoro, rendendo meno netto il confine tra lavoro e tempo libero e meno stringente il rapporto tra lavoro e salario». Vero, ma questo non ha liberato il lavoro, semmai lo ha reso indistinguibile dalla vita (quindi siamo meno liberi), ha moltiplicato ritmi e intensità del lavorare e ha favorito forme di lavoro e di sfruttamento (quasi) senza retribuzione mentre, cancellando la distinzione tra vita e lavoro (effetto diretto delle nuove tecnologie) ha prodotto una società a mobilitazione tecno-economica totale e permanente;

2) l’informazione «sta erodendo la capacità del mercato di determinare i prezzi in modo corretto. I mercati si basano sulla scarsità, mentre l’informazione è abbondante. Il meccanismo di difesa del sistema è formare monopoli – le grandi multinazionali tecnologiche di oggi – su una scala che non ha precedenti negli ultimi duecento anni. Ma questo non può durare (…) perché contrasta con il bisogno fondamentale dell’umanità di usare le idee liberamente». Assolutamente falso: il mercato sa benissimo come determinare i prezzi in modo corretto (per i propri profitti), grazie a delocalizzazioni, precarizzazione, sfruttamento, espropriazione della conoscenza altrui e condivisa, taylorismo digitale e rete e usa proprio le nuove tecnologie per farlo, come è altrettanto falso credere che l’informazione e la conoscenza siano abbondanti (siamo piuttosto in una società della semplificazione, non della conoscenza), la conoscenza e l’informazione sono sempre meno libere e sempre più controllate dai motori di ricerca, oltre ad essere fonte (Big Data) di alti profitti per pochi, mentre monopoli sempre più grandi sono sempre più grandi proprio perché noi permettiamo loro di esserlo sempre di più e perché è nella natura di un capitalismo non controllato;

3) stiamo assistendo «a una crescita spontanea della produzione condivisa: nascono beni, servizi e organizzazioni che non rispondono più ai principi del mercato e della gerarchia manageriale»; ma anche questo è falso, ormai il mercato è ovunque e in ogni relazione umana (il neoliberismo vive in ognuno di noi come una consolidata disciplina dentro una consolidata biopolitica), il lavoro è sempre più merce e sempre più sfruttato – a meno di considerare produzione condivisa la sharing economy, l’uberizzazione del lavoro, il dover essere imprenditori di se stessi. Certo, ancora Mason: «Quasi inosservati, nelle nicchie e negli angoli più nascosti del sistema di mercato, interi settori economici stanno cominciando a prendere un’altra strada. Monete parallele, banche del tempo, cooperative e spazi autogestiti sono spuntati come funghi», ma in verità sono anni che ci raccontiamo questa bella storia e ciò che è nascosto e inosservato resta nascosto o ai margini, non riesce a scalfire la potenza di fuoco del tecno-capitalismo, oppure si fa parte del sistema come le banane del commercio equo e solidale al supermercato. Intanto i beni comuni vengono aggirati dalle logiche di mercato (come in Italia per l’acqua, nonostante il referendum) e la sharing economy è comunque sotto forma di impresa e agisce secondo il mercato, socializzandolo.

Mason si rifà a Marx e al suo Frammento sulle macchine, all’idea di un intelletto generale, «una sorta di mente collettiva collegata attraverso la conoscenza sociale, in cui ogni progresso va a beneficio di tutti. In breve, Marx immaginava qualcosa di molto simile all’economia dell’informazione in cui viviamo oggi. E aggiunge che la sua venuta farà saltare in aria il capitalismo». Ma è evidente – dovrebbe essere evidente – che l’intelletto generale di Marx non è qualcosa di simile all’economia dell’informazione e soprattutto non farà saltare in aria il capitalismo proprio perché l’economia dell’informazione e della conoscenza è basata anch’essa sulla suddivisione/individualizzazione del lavoro e poi sulla sua integrazione/totalizzazione in qualcosa che è sempre e comunque alienato dal lavoratore stesso e alienante il lavoratore, sia esso uberizzato o lavoratore della conoscenza e dell’informazione.

Ci vuole ben altro, allora, per uscire dal tecno-capitalismo. Occorre una destrutturazione di tutti i meccanismi eteronomi e anti-democratici di messa al lavoro degli uomini (mercato e tecnica); una liberazione dai vincoli di connessione (di rete e mercato) e di alienazione; un anticonformismo digitale;  una laicizzazione della società contro l’integralismo religioso del tecno-capitalismo; una separazione netta (ma decisa dagli uomini, non dalle macchine posto che la loro logica è quella dell’uso esaustivo del tempo e della produttività da accrescere sempre e comunque), tra tempi di vita e tempi di lavoro. Ma occorre soprattutto una riconsiderazione radicale (un rovesciamento) dei rapporti tra economia (che deve tornare ad essere un mezzo) esocietà (che deve tornare ad essere il fine).

Bibliografia essenziale

Demichelis L. (2015), La religione tecno-capitalista, Mimesis, Milano.

Formenti C. (2011), Felici e sfruttati, Egea, Milano.

Hardt. M.- Negri A. (2010), Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano.

Ippolita (2014), La Rete è libera e democratica. Falso!, Laterza, Roma-Bari.

Mason M. (2009), Punkcapitalismo, Feltrinelli, Milano.

Mason P., Postcapitalismo (in uscita da il Saggiatore nel 2016)

Morozov E. (2014), Internet non salverà il mondo, Mondadori, Milano.

Rampini  F. (2014), Rete padrona, Feltrinelli, Milano.

Rheingold  H. (2013), Perché la rete ci rende intelligenti, Cortina, Milano.

Rifkin J. (1995), La fine del lavoro, Baldini&Castoldi, Milano.

Rifkin J. (2000), L’era dell’accesso, Mondadori, Milano.

Rifkin J. (2014), La società a costo marginale zero, Mondadori, Milano.

Tapscott  D. (2011), Net generation, FrancoAngeli, Milano.

Tapscott D. – Williams A. D. (2007), Wikinomics, Rizzoli-Etas, Milano.

(8 ottobre 2015)




contro la violenza degli sgomberi forzati dei rom

#peccatocapitale, Roberto Saviano firma contro gli sgomberi forzati dei rom

l’autore di Gomorra e dei noti reportage-denuncia sulla criminalità organizzata ha sottoscritto la campagna lanciata dell’Associazione 21 Luglio: “Questo appello è prima di tutto un richiamo al nostro dovere”

Anche lo scrittore partenopeo, noto nel Paese per i suoi scritti-denuncia sul fenomeno della criminalità organizzata, ha sottoscritto #peccatocapitale, la campagna lanciata dall’Associazione 21 Luglio per denunciare la politica di sgomberi forzati ai danni delle comunità rom della città.

Come denunciato nel rapporto presentato il 5 Ottobre alla stampa, se ne contano in sette mesi “già 71”, con “circa 1100 persone” coinvolte e un costo per il Comune di 1.342.850 euro”. Il tutto da marzo 2015, da quando il Papa ha annunciato il Giubileo.

Di seguito riportiamo quanto pubblicato da Roberto Saviano sul suo blog. 

Ci sono persone a Roma che le istituzioni vorrebbero far sparire come la polvere. Sono le famiglie rom e sinti che vivono ai margini della capitale, in baracche fatiscenti. Eppure quelle baracche sono casa. L’unica per i loro figli.

Dal 13 marzo scorso gli sgomberi forzati di comunità rom a Roma sono triplicati. La data coincide con l’annuncio da parte di Papa Francesco del Giubileo della Misericordia. Il Giubileo inizierà l’8 dicembre e sembra che entro quella data si voglia far pulizia degli insediamenti informali in cui i rom vivono, togliendo il problema dalla vista, ma senza affrontarlo, senza provare a risolverlo.

Perché, come denuncia l’Associazione 21 luglio, che da anni si occupa della difesa dei diritti umanitari fondamentali disconosciuti alle comunità rom, gli sgomberi forzati violano i trattati internazionali e spostano il problema un po’ più in là, di qualche settimana o di qualche chilometro.

Gli sgomberi forzati sono una violazione dei diritti umani, avvengono in disaccordo con le procedure legali, contro la volontà di chi occupa gli alloggi, senza alcuna garanzia formale, senza offrire un’alternativa e lasciando intere famiglie senza tetto.

A farne le spese sono soprattutto i più piccoli, i bambini, che perdono continuamente un riferimento abitativo. Ma sono anche i municipi, le amministrazioni comunali, a cui gli sgomberi costano centinaia di migliaia di euro, denaro che potrebbe essere meglio investito nella ricerca di soluzioni definitive.

Invece si preferisce esacerbare le tensioni, creare muri tra queste comunità e le istituzioni. Innalzare barriere sempre più alte di diffidenza e paura, sentimenti che non hanno mai il pregio di risolvere, ma sempre di complicare situazioni complesse.

Impedire gli sgomberi forzati significa difendere il diritto a un alloggio adeguato, riconosciuto dai trattati internazionali sottoscritti anche dall’Italia. Significa impedire che si violi la legge oltre che la dignità umana.

L’Associazione 21 luglio ha lanciato la petizione #PeccatoCapitale contro quanto sta accadendo

 

 




che cosa può fare a questo punto il papa …

una proposta per il Sinodo

le indicazioni del teologo José Maria Castillo

 All’inizio del Sinodo della Famiglia, crescono e salgono di tono nella Chiesa le voci allarmate che parlano di “scisma bianco”, “scisma rosso” (Jorge Costadoat). O chi, come è il caso del cardinale Kasper, arriva ad insinuare che stiamo entrando in uno “scisma pratico”, ossia (se ho capito bene) uno scisma che nessuno formula in teoria, ma che nella pratica quotidiana della vita funziona dividendo i cattolici e spaccando la Chiesa. 

Per questo, ora più che mai, è il momento di chiedersi: cosa può fare il papa in questa questione, poiché le cose stanno così?

Castillo

Come è logico, si dovrà aspettare e vedere come si svolgerà il Sinodo e soprattutto dovremo sapere quello che, dopo il Sinodo, dice e decide il papa. Ma è proprio per questo, per segnalare quello che, secondo la mia modesta opinione, considero come la cosa più opportuna che il papa potrebbe – e forse dovrebbe – fare nella situazione che stiamo vivendo nella Chiesa in questo momento. Per questo oso presentare la proposta seguente.
Prima di tutto, considero che è fondamentale avere molto chiaro il fatto che sul tema della famiglia non siamo di fronte ad una questione di Fede. Per la semplice ragione che, se pensiamo e parliamo della famiglia a partire dalla Fede dogmatica professata dalla Chiesa, non esiste alcuna definizione dogmatica nel Magistero della Chiesa su questa problematica. 
E, se qualcuno trova un documento magisteriale definitorio sul modello di famiglia o persino sull’indissolubilità del matrimonio, lo dica. 
Inoltre, i testi biblici di Mt 19,1-9 e di Mc 10,1-12, ampiamente studiati e discussi dall’esegesi meglio documentata, hanno dimostrato abbondantemente che non si riferiscono alla problematica attuale se il matrimonio sia o no indissolubile. In questi testi, Gesú si oppone al diritto unilaterale che (secondo Dt 24,1), aveva l’uomo per ripudiare la donna, soprattutto se faceva tale cosa “per qualsiasi motivo” (Mt 19,3). Questo indica chiaramente che Gesú non si riferisce all’indissolubilità del matrimonio, ma al diritto unilaterale dell’uomo nei confronti della donna che, secondo la legge di Mosé, non aveva questo diritto. Una mancanza di protezione della donna, che si aggravava a causa degli insegnamenti della scuola di rabbi Hillel, che arrivava a permettere il ripudio della sposa “per qualsiasi motivo” (Mt 19, 3).
D’altra parte, il fatto che per secoli si erano conservate tra i cristiani alcune pratiche ed alcune determinate abitudini su questa questione, non è (né può essere) un argomento determinante per obbligare il papa a conservare, in maniera irrevocabile, alcuni determinati usi o pratiche, per quanto queste pratiche e questi costumi si considerino inamovibili e per quanto rispettabili siano le persone che hanno la pretesa di conservare un determinato modello di famiglia. 
Coloro che affermano che la Chiesa non può in nessun caso ammettere il divorzio, dimostrano un’ignoranza incomprensibile, poiché, nel dire questo, ignorano che la Chiesa per secoli ha ammesso il divorzio in determinati casi. 
Per esempio, nella risposta che il papa Gregorio II, nell’anno 726, invió al vescovo san Bonifacio (PL 89, 525). Così come nella risposta del papa Innocenzo I a Probo (PL 20, 602-603). Dottrina che fu raccolta nel Decretum Gratiani nel secolo XI (R. Metz – J. Schlick, “Matrimonio y divorcio”, Salamanca 1974, 102-103; M. Sotomayor, “Tradición de la Iglesia con respecto al divorcio. Notas históricas”: Proyección 28 (1981) 55). 
Stando cosí le cose, la cosa più ragionevole che si possa suggerire in questo momento, è che il papa debba sentirsi libero per prendere una decisone pastorale che aiuti la Chiesa intera e nel suo insieme a far maturare la dottrina teologica da seguire. E, soprattutto, la pratica pastorale che si deve adottare, almeno finché le cose non si vedano con più chiarezza e precisione. 
Detto ciò e ammesso il confronto che di fatto esiste nella Chiesa su questo problema, mi pare che la cosa più ragionevole da suggerire al papa sarebbe – al momento, almeno – di lasciare i pastori ed i fedeli nella Chiesa nella libertà di procedere secondo la propria coscienza. In maniera tale che nessuno si senta, né possa sentirsi con il diritto ed il dovere di imporre il proprio punto di vista in una questione sulla quale non esiste un insegnamento biblico, né una dottrina magisteriale che lo possano imporre a partire dalla Fede. Così come non esiste nella storia della Chiesa un insegnamento o una pratica uniforme, chiara e ferma con riferimento alla difesa dell’indissolubilità del matrimonio, come ora hanno la pretesa di imporre alcuni vescovi ed altre cariche ecclesiastiche. 
Siamo, quindi, di fronte ad una questione sulla quale sappiamo che esiste un notevole pluralismo tra i credenti in Gesù Cristo, in maniera tale che, esistendo tale pluralismo, il papa non potrebbe prendere la decisione di pronunciare una definizione dogmatica su di un tema sul quale la “Fede della Chiesa” non è uniforme e non ha le condizioni necessarie per il pronunciamento di una definizione dogmatica, come è stato detto nella definizione dell’infallibilità pontificia del concilio Vaticano I (DH 3074) e nella precisazione che su questo punto capitale ha fatto il Vaticano II (LG n. 25).
 
(*) traduzione dallo spagnolo di Lorenzo Tommaselli



‘pax Christi’ contro la guerra in Iraq e LIbia

IL RITUALE DELLA GUERRA

Renato Sacco

Renato Sacco, coordinatore Nazionale di Pax Christi

Come sempre le guerre si preparano!
Con gli articoli di giornale che annunciano il coinvolgimento anche dei nostri Tornado.
Con i Ministri del Governo che smentiscono.
Con le domande provocatorie ‘dove sono i pacifisti’?
Con la promessa che sicuramente se ne discuterà in Parlamento.. sovrano!
E poi gli aerei partono e bombardano. Anche i Tornado, definiti fino a qualche mese fa vecchi e obsoleti, ‘bare volanti’, ora improvvisamnte sono super efficienti!
tornado
Sarai mica contrario a bombardare l’Is? – mi viene detto anche in queste ore – Allora sei dalla loro parte!?’.
Le stesse cose, ripetute come un rituale, già sentite nel 1991, con la prima guerra del Golfo: ma allora tu sei favorevole a Saddam? E magari era un po’ favorevole anche il Papa che aveva osato dire “la ‘Guerra è avventura senza ritorno”!?
Gli ‘avventurieri’ oggi hanno il terreno preparato.
Poi si sa, con la guerra muoiono sempre più gli innocenti, vedi l’ospedale di MSF a Kunduz.
Anche qui il rituale prevede le smentite, poi le giustificazioni, poi l’ammissione dell’errore con le doverose scuse… ci mancherebbe!
Tutto rigorosamente secondo un rituale da far invidia al più pignolo cerimoniere per liturgie di nostalgica memoria.

Pax Christi aveva già scritto lo scorso 22 settembre: “Basta con la vendita di armi! Basta!”, ci hanno chiesto anche in questi giorni i tanti amici che abbiamo in Iraq. … Come Pax Christi rinnoviamo la nostra scelta per la nonviolenza, lavorando insieme con tutti coloro che credono alla pace, ad una soluzione nonviolenta dei conflitti, perché Un’altra Difesa è possibile.

Ma assistiamo a preparativi di nuove guerre! In questa prospettiva non possiamo tacere di fronte alla prossima esercitazione NATO “Trident Juncture 2015”, dal 3 ottobre al 6 novembre, con il coinvolgimento di 36.000 uomini, 60 navi e 140 aerei. Il comando di questa operazione sarà alla base NATO di Lago Patria, a Napoli. ‘La più grande esercitazione della storia moderna della Nato’. Trident Juncture 2015 dimostrerà il nuovo accrescimento del livello di ambizione della NATO nello scenario di guerra moderna comune’ …. Per questo saremo presenti, come Pax Christi, alla manifestazione promossa dai comitati ‘No Trident’, in programma a Napoli il prossimo 24 ottobre.” (http://www.paxchristi.it/?p=10890)

E non certo per essere dalla parte di Putin, come vorrebbe il rituale della guerra, ma per ribadire che la guerra è sempre follia, suicidio, ‘inutile strage’.

Interressanti e puntuali mi sembrano le riflessioni di Francesco Vignarca, coordinatore di Rete Disarmo: “Quale carta migliore di una ‘necessità operativa’ per difendere i fondi destinati alla spesa militare?”( http://ilmanifesto.info/bombardare-lisis-gli-errori-della-guerra/ )

lavoriamo per una pace vera, costruttiva, che non abbia il sapore e il rumore della violenza e delle bombe, ma il gusto della vita.

Firenze, 7 ottobre 2015

d. Renato Sacco,

Coordinatore nazionale di Pax Christi

Contatti:

d. Renato Sacco, coordinatore nazionale drenato@tin.it – 348-3035658

Segreteria Nazionale Pax Christi info@paxchristi.it 055-2020375




parola di vescovo vecchio e pur giovanissimo, dall’animo dei ‘puri di cuore’, peccato che non sia chiamato al sinodo!

monsignor Casale: «l’omosessualità è ricchezza»

l’amore gay «non è peccato» Proibirlo «è un errore»

anche se Charamsa «ha sbagliato»

l’arcivescovo di Foggia Casale a L43 su Sinodo, sesso e orgasmi

di

papa Francesco ha chiesto ai vescovi, riuniti a Roma per il Sinodo sulla famiglia, di parlare con sincerità, schiettezza e onestà
Monsignor Giuseppe Casale, arcivescovo emerito di Foggia, non se lo è lasciato ripetere due volte
Lettera43.it lo ha raggiunto a Vallo della Lucania, in provincia di Salerno, dove si è trasferito da qualche tempo

«LA SESSUALITÀ È LA BELLEZZA DI DIO IN NOI»

sessualità, omosessualità, celibato, comunione ai divorziati risposati, il coming out di Krzysztof Charamsa: monsignor Casale, classe 1923, laureato in teologia, ha risposto su tutto con freschezza e lucidità: «Le dico volentieri come la penso e mi auguro che le cose che le dirò possano diffondersi. Perché bisogna creare una mentalità nuova in un mondo cattolico chiuso, retrogrado, che commette tante porcherie quando ruba e quando imbroglia, e poi diventa ‘di naso fine’ quando si entra nel campo della sessualità, che è la bellezza di Dio in noi»

 

  • Monsignor Giuseppe Casale

 

DOMANDA. Come considera l’atteggiamento di papa Francesco rispetto all’accoglienza delle coppie omosessuali da parte della Chiesa?
RISPOSTA. L’atteggiamento del papa è stato molto chiaro. Ha dato dei segnali, pur senza entrare specificatamente nel merito della questione. E ha lasciato al Sinodo la libertà di esaminare il tema, sia a ottobre 2014 sia adesso.
D. Francesco è un riformatore, ma il tema appare particolarmente delicato.
R. Direi che è uno dei più delicati, perché una gran parte del mondo cattolico, dei vescovi e dei preti, non riesce a concepire una sessualità staccata dalla genitalità.
D. Cosa intende?
R. Il Concilio Vaticano II aveva già aperto la strada, dicendo che il fine primario del matrimonio non è la generazione. C’è un fine unico del matrimonio, che è il completamento delle due persone, da cui nasce la generazione.
D. Sta dicendo che il fine del matrimonio non è la procreazione?
R. Dico che la genitalità entra nel complesso della vita matrimoniale, ma non la esaurisce. Si tratta di un concetto che purtroppo non è penetrato nel mondo cattolico. Buona parte di esso è rimasta ferma all’amore genitale, non riesce a concepire l’amore come una relazione interpersonale più vasta, più aperta all’incontro. Ci sono tanti matrimoni senza figli e sono matrimoni validi. Questa concezione di una sessualità unidirezionale, che vede la genitalità come il suo scopo, è una mentalità che non si riesce a superare.
D. Il ragionamento che lei fa vale anche per l’omosessualità?
R. Nel Catechismo della Chiesa cattolica, per l’esattezza ai paragrafi 2358 e 2359, l’omosessualità non è indicata come un male, come un peccato, bensì come una realtà che bisogna accettare. Però, allo stesso tempo, è considerata una tendenza che non va esercitata. Il Catechismo è rimasto fermo su questa posizione e secondo me qui c’è una contraddizione evidente.
D. In cosa consiste?
R. Nel dire che l’omosessualità è una situazione che riguarda molte persone, che bisogna rispettarla, ma che gli omosessuali sono chiamati alla castità. Se non si tratta di una malattia, se siamo d’accordo che non è un peccato, perché chi non è chiamato per sua scelta al celibato o alla castità deve essere obbligato a evitare l’esercizio della sua sessualità? La sessualità non è solo genitale, finalizzata alla procreazione. È fatta di relazioni, di amicizie, di amplessi. Lo spettro della sessualità è molto più ampio di chi lo riduce solo alla genitalità.
D. Secondo lei, su questo punto, come la pensa davvero papa Francesco?
R. Papa Francesco non vuole procedere con un diktat. Non vuole ripetere, in senso opposto, l’esempio di Paolo VI, che con l’enciclica Humanae Vitae condannò la contraccezione. Un esempio lampante, perché quel diktat, di fatto, è stato ignorato dal mondo cattolico. Il papa non vuole procedere allo stesso modo. Piuttosto, vuole muovere il Sinodo verso una posizione aperta, che non venga assunta come un’imposizione.
D. Quanto forti sono le resistenze all’interno della Chiesa?
R. Se osserviamo lo svolgimento del Sinodo straordinario notiamo chiaramente come l’iniziale apertura dell’Instrumentum laboris, e poi i contenuti della Relatio post disceptationem, abbiano creato un vero e proprio scompiglio.
D. Cosa è accaduto?
R. L’Instrumentum, cioè il documento di partenza, affermava al paragrafo 117 la necessità di approfondire il senso antropologico e teologico della sessualità umana e delle differenze sessuali tra uomo e donna. Già questo apriva la discussione. Poi è seguito un fatto nuovo. La Relatio post disceptationem, ai paragrafi 50 e 51, affermava che le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana. E ci si domandava se la Chiesa fosse in grado di accoglierle, garantendo loro spazio e fraternità. Ma il documento andava anche oltre.
D. Cioè?
R. Affermava in maniera ancora più impegnativa che occorreva elaborare cammini realistici di crescita affettiva e di maturità umana ed evangelica che integrassero la dimensione sessuale. Tutto questo, nella Relatio conclusiva, è caduto. Siamo tornati alla vecchia posizione. L’omosessualità è una tendenza che si riscontra in alcune persone, non è un peccato, non è una malattia, però non si può esercitare. Si è tornati alla posizione del Catechismo, secondo cui chi è omosessuale deve essere casto.

Il coming out di Charamsa? Una scelta non positiva

D. Cosa prevede che deciderà, adesso, il Sinodo ordinario?
R. Prevedo un’uscita morbida, che non risolverà il problema, ma in sostanza dirà: «È una questione da approfondire, lasciamo aperto l’approfondimento». Purtroppo, nel mondo cattolico, quando si parla di omosessualità in molti reagiscono male. L’omosessualità viene vista come il diavolo.
D. Che cos’è invece l’omosessualità, secondo lei?
R. Un diverso orientamento sessuale che mette in evidenza un rapporto affettivo, di stima, tendenzialmente duraturo nel tempo. Un rapporto che consente di affrontare in comune i problemi della vita e che spesso riesce a non cadere in quella sessualità esasperata che oggi colpisce tanti matrimoni eterosessuali, che purtroppo falliscono.
D. Ma il mondo cattolico è pronto per una concezione del genere?
R. Vedo l’apertura di orizzonti nuovi per una sessualità relazionale, che esalti la bellezza di un rapporto fra due persone – anche due maschi o due femmine – che vivono insieme e mettono insieme le loro scelte, i loro problemi. La Chiesa non deve mettere il naso tra le lenzuola delle persone. Lasciamo che le persone vivano la loro sessualità come credono, nell’affetto, nello scambio di un abbraccio, di un bacio, di quello che vogliono. Anche questo è sessualità.
D. È immaginabile una legittimazione dell’omosessualità da parte dei padri sinodali?
R. Mi auguro che al Sinodo prevalga una linea media, che almeno apra delle prospettive, ma non credo che i vescovi arriveranno a legittimare l’omosessualità. Anche se al Sinodo straordinario si è manifestata una forte corrente in tal senso.
D. Sono possibili dei passi in avanti?
R. Per me sarebbe una ricchezza se la Chiesa riuscisse ad acquisire le positività dell’omosessualità in una visione più ampia e più completa della sessualità. Mi auguro che sotto la guida sapiente del papa, con la luce dello Spirito Santo, si possa fare qualche passo avanti per uscire dalla terribile contraddizione in cui si trova oggi la dottrina cattolica. 
D. Il cardinale Kasper ha dichiarato che «gay si nasce». È d’accordo?
R. Non è che gay si nasce, gay si diventa, anche. È un fatto psicologico, sociologico, culturale, ambientale. Non tutto dipende dalla biologia. L’omosessualità è una realtà che secondo me fa parte della ricchezza della sessualità umana, che va aperta all’incontro relazionale e va liberata dalla schiavitù del legame con la genitalità, che diventa talvolta brutale e addirittura controproducente.
D. È favorevole alla comunione per i divorziati risposati?
R. Sono favorevole alla riammissione dopo un itinerario penitenziale. Quando ci sono dei figli, una nuova famiglia, dire che un divorziato è in stato di peccato per me è una cosa che non sta né in cielo né in terra. Ho incontrato molte persone che piangevano per la loro situazione, perché non potevano accostarsi all’eucarestia, che è un sacramento costitutivo del cammino penitenziale dell’uomo. Privare un cristiano dell’eucarestia significa privarlo di tutta la sua ricchezza.
D. Cosa pensa del coming out di monsignor Charamsa?
R. Fare coming out alla vigilia del Sinodo, secondo me, non è stata una scelta positiva. È evidente la volontà di sfruttare il momento. E poi monsignor Charamsa, come prete, era tenuto a osservare il celibato. Lo aveva scelto e quindi, indipendentemente dal suo orientamento, non avrebbe potuto vivere una vita sessuale normale. Detto questo, io non giudico la persona. Dico solo che si è presentato come un prete che ha mancato a un impegno che aveva assunto, mi auguro io, liberamente.
D. Monsignor Charamsa ha sostenuto che l’astinenza totale dalla vita d’amore sia disumana. Non è quello che pensa anche lei?
R. C’è una differenza. Io penso che sia sbagliato vietare la sessualità a chi può legittimamente esercitarla. Vale a dire, a un omosessuale che non ha promesso il celibato, che non ha fatto voto di castità, e che oggi se volesse potrebbe sposarsi.
D. In Italia, per la verità, non potrebbe.
R. Oggi non è consentito, ma speriamo che si arrivi a dare una legittimazione civile alle unioni omosessuali. E chissà, magari più in là… non dico un sacramento, ma almeno una benedizione del Signore, a due persone dello stesso sesso che vogliono stare insieme, che si vogliono bene e vogliono vivere insieme con stabilità. Mi auguro che la Chiesa arrivi a invocare la benedizione di Dio su due omosessuali che vogliono stare insieme e vivere una vita di dedizione reciproca. Questo tirerebbe fuori dalla clandestinità tante persone, forse anche tanti preti che vivono il celibato di malavoglia e chiederebbero di essere liberati dal peso che grava sulla loro coscienza.
D. Nella sua esperienza di vescovo, le è mai capitato di raccogliere la confessione di un prete omosessuale?
R. Sì, ci sono stati alcuni casi. Io ho cercato di aiutare i sacerdoti che si sono confidati con me a recuperare con pazienza la fedeltà al celibato. La situazione del resto non era compromessa, si trattava di sbandate che possono capitare. D’altra parte, oggi si pone il problema: l’omosessuale può essere accolto come prete? Attualmente la Chiesa risponde di no. Anche su questo, però, noi vescovi dovremmo riflettere.
D. In che senso?
R. La castità riguarda in maniera analoga eterosessuali e omosessuali. Il giovane che vuole diventare prete, indipendentemente dall’orientamento sessuale, deve avere la forza, il coraggio, l’aiuto di Dio per vivere la castità. Un impegno che noi vescovi dovremmo esaminare attentamente, con l’aiuto di psicologi e pedagogisti, per valutare se il soggetto è in condizione di assumerlo oppure no.
D. Il celibato per i preti, quindi, rimane un punto fermo anche per lei?
R. Il celibato è un dono e una norma giuridica, ma va ripensato e va vissuto in un clima nuovo, un clima di comunità. Perché un prete solo è un prete che vive di stanchezza, di inquietudine, di solitudine. Dovrebbe vivere in una comunità lieta, fatta non solo di altri preti, ma di uomini e donne insieme. Il prete dovrebbe saper vivere con le famiglie, aprirsi all’amore, avere anche lui degli affetti e delle amicizie, perché non si può chiudere il cuore. Un prete con il cuore chiuso non è capace di fare il padre, di comprendere e accogliere gli altri. Chi ha il cuore duro non sa far altro che sentenziare, e manda via la gente. Diventa una persona anchilosata, incapace di capire gli altri.
D. Quante sono nella Chiesa le persone che condividono i suoi orientamenti?
R. Credo siano in molti, però è necessario che queste idee emergano non come forme di rifiuto di una tradizione millenaria, ma come forme di arricchimento. Occorre conservare quello che c’è di bello nel celibato, ma aprirlo contemporaneamente alla condivisione, alla vita in comune. Infine, a mio parere, sarebbe necessario spostare la scelta del celibato a un’età più matura. C’è un’età in cui i sentimenti e i sensi scoppiano: bisogna superarla per poter dire un ‘sì’ a occhi aperti e con il cuore sereno.

 




un consiglio a Marino

caro Marino, davvero non hai capito com’è fatto papa Francesco?

 

PAPA MARINO

 

  che Marino sia riuscito a far arrabbiare anche il Papa ha un sapore speciale

Ormai è chiaro a tutti quello che si era capito subito, e cioè l’intento politico e strumentale della sua presenza a Philadelphia. Ciò che più mi stupisce è la non comprensione da parte del sindaco di Roma di chi davvero sia Bergoglio: qualcuno che sul serio crede in quello che dice e che cerca di viverlo. Che quindi è agli antipodi dell’uso “politico” della politica: carriera, primi posti, potere.
Se davvero vuoi contare per il Papa non scodinzolargli attorno ma cerca seriamente di stare al posto che la vita ti assegna: stacci, e cerca di vivere quello che sei per quello che sei. Se fai così, magari il vescovo di Roma non ti verrà a cercare ma, di certo, non ti caccerà via.
Mi raccontavano tempo fa di un prete che nei primi mesi di pontificato si era innamorato delle Messe del Papa a Santa Marta. Non so per quali canali aveva trovato il modo di essere presente più di qualche volta. Fino a quando si è sentito dire da Bergoglio, che lo ha riconosciuto: “Ma davvero non ci sarà nessuna parrocchia a Roma che ha bisogno di un prete per la Messa?”.
Questo è Bergoglio e mi preoccupa che il Primo Cittadino della mia città non l’abbia capito. Mi tuffo nel traffico di Roma. Speriamo che oggi la metropolitana non si blocchi.