ciò che un teologo si attende dal sinodo

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Sinodo. Cosa vorrei che alla fine dicesse il papa

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 cosa vorrei che alla fine il papa dicesse

 

mentre il Sinodo entra nell’ultima settimana di lavori, il teologo basco José Arregui mette nero su bianco quello che vorrebbe il papa dicesse nell’Esortazione apostolica post sinodale. Di seguito il testo immaginato da Arregui, apparso sul portale di informazione religiosa Atrio (19/10)


prosegue a Roma il Sinodo sulla famiglia, sebbene l’interesse mediatico, sempre così volubile, sia già notevolmente calato. Rimane ancora una settimana di lavori, la terza, e poi toccherà al papa elaborare e pubblicare la sua Esortazione apostolica post sinodale. Ci vorrà ancora qualche mese, ma l’altro giorno ho sognato che diceva così:

“Da papa Francesco,

alle mie sorelle e ai miei fratelli cattolici del mondo intero.

Vi auguro la pace di Gesù. Essa ci unisce nella diversità dello spirito come una famiglia.

Non vi nascondo il disagio che provo a rivolgermi a voi come papa, perché non mi avete eletto né direttamente né indirettamente, tanto meno avete eletto coloro che mi hanno eletto. Sono cose della storia, non del Vangelo. Speriamo che questo cambi presto, che la Chiesa smetta di essere gerarchica e piramidale, e sia segno dell’umanità fraterna sognata da Gesù! Nel frattempo, vi parlo da fratello, senza altra autorità che quella che volete riconoscermi.

Mi son sentito a disagio anche con il Sinodo sulla famiglia, che io stesso ho convocato e che ha riunito a Roma tanti vescovi che non conoscono le gioie e le angosce delle famiglie di oggi, famiglie in carne ed ossa, reali, diverse. Così diverse che non rientrano negli schemi del Catechismo che continuiamo a insegnare, né nei canoni del freddo Diritto Canonico che continuiamo a imporre in nome di Dio. Perdonateci.

Capisco molto bene il vostro stupore e la vostra protesta nel vedere che, mentre le vostre famiglie soffrono per tante penurie, da tutti gli angoli della terra si riuniscono qui per tre settimane 400 persone, comodamente ospitate, fra le quali 270 cardinali, vescovi e religiosi, i soli fra tutti i partecipanti ad aver diritto di voce e di voto. Perdonateci. Forse aveva ragione la vignetta firmata nei giorni passati da “El Roto” su una rivista spagnola: “Resuscitare i morti è facile. Il difficile è resuscitare la Chiesa”. Suppongo lo dicesse perché guarda alla Chiesa come a un morto che non vuole resuscitare, che preferisce continuare ad essere pezzo da museo, fossile della vita che un tempo ispirò forme vive che non vivono più né fanno vivere.

Non so se dovevo convocare questo Sinodo. Vi confesso la mia delusione alla vista delle proposte finali. Tanto fasto e tanto costo, tanta voce solo per questo! Ma non voglio guardare indietro. Voglio rivolgere lo sguardo in avanti e fare un passo verso il futuro. Voglio rischiare tutto, e soprattutto il potere assoluto che il Diritto Canonico e i vescovi mi riconoscono ancora. Lo faccio giustamente perché non mi sembra un potere evangelico e non credo più in esso. Credo nella vita. Amo Gesù. Mi sento libero, non ho paura e non ho niente da perdere.

Ho meditato molto sui due temi che più interesse e dibattito hanno suscitato fra i padri sinodali e sui mezzi di comunicazione: l’unione di gay e lesbiche e la comunione dei divorziati risposati. Io stesso ne ho promosso la discussione. Con la migliore volontà, ho proposto alla Chiesa di manifestare pubblicamente misericordia e rispetto verso gli omosessuali, perché non siamo noi a doverli giudicare, e verso i divorziati perché possano comunicarsi alla mensa di Gesù a tre condizioni: pentimento, confessione al proprio vescovo e proposito di non ricadere nel peccato.

Oggi mi pento di aver parlato in questi termini offensivi ed umilianti per gli omosessuali e per i divorziati, perché è equivalso a trattarli come colpevoli. È ingiusto, è contrario al Vangelo. Chiedo loro perdono. Non dobbiamo loro parole di commiserazione, né di solo rispetto, ma pieno riconoscimento.

Per questo, nel nome di Gesù e della Chiesa, dichiaro che l’amore omosessuale è santo e benedetto quanto quello eterosessuale, e lo benedico di tutto cuore come sacramento dell’Amore e di Dio. E dichiaro che l’amore umano vorrebbe essere pieno ed eterno, sì, ma è fragile; e che, quando per qualche motivo, un matrimonio si rompe senza rimedio, smette di essere un matrimonio; e che cercare allora di provare la nullità canonica per salvare l’indissolubilità teorica è un artificio indegno; e che un nuovo matrimonio fra divorziati, se ispirato dall’amore, è ugualmente santo, sacramento di Dio e dell’Amore, e io lo benedico.

Sorelle, fratelli, basta così. Cominciamo di nuovo. Vi benedico tutti e chiedo la vostra benedizione. Vivete in pace.

Vostro fratello Francesco, ancora papa, per ora




la bibbia sovversiva di Desmond Tutu

la bibbia è un libro sovversivo

di Desmond Tutu

 

Tutu
in “la Repubblica” del 17 ottobre 2015

“bisogna che vi racconti questa vecchia storiella, anche se forse la sapete già. Veniva narrata, a volte, dai neri quando discutevano sulla loro dolorosa situazione di vittime dell’ingiustizia e dell’iniquità del razzismo. «Molto tempo fa, quando i primi missionari arrivarono in Africa, noi avevamo la terra e loro avevano la Bibbia. Dissero: “Preghiamo!”. Abbiamo chiuso gli occhi con il dovuto rispetto, e alla fine hanno detto: “Amen”. Abbiamo riaperto gli occhi ed ecco, i bianchi avevano la terra e noi la Bibbia”

“La storiella, però, non è corretta nei confronti dei missionari. Qualche volta possono essere stati l’avanguardia che spianava la strada ai loro compatrioti colonizzatori, ma io voglio rendere omaggio alla maggioranza dei missionari occidentali. Quasi tutti noi che facciamo parte della comunità nera dobbiamo la nostra istruzione a quegli indomiti europei che costruirono eccellenti istituzioni educative come Lovedale, Healdtown e l’Università di Fort Hare nella provincia del Capo orientale, che serviva non solo il Sudafrica ma anche altri paesi del continente africano ed era uno dei pochi atenei che offrivano il livello più alto di istruzione anche ai neri. Nelson Mandela ha compiuto quasi tutto il suo corso di studi in questi istituti. Senza gli ambulatori e gli ospedali costruiti dai missionari, molti di noi non sarebbero sopravvissuti alle malattie che affliggevano le famiglie povere e analfabete. Non si può calunniare degli esseri umani che sono stati tra i più generosi e altruisti che abbiano mai camminato sulla faccia della terra. Come si giustifica, dunque, lo sdegno evocato dalla storiella? Veramente racconta un cattivo affare? Uno perde la propria terra e tutti gli annessi e connessi in cambio di che cosa? Della Bibbia. Davvero i missionari avrebbero ingannato i neri così creduloni? Io voglio affermare nella maniera più netta e inequivoca possibile che non è così. In realtà noi neri non abbiamo fatto un cattivo affare. I missionari hanno messo nelle mani dei neri una cosa che sovvertiva profondamente l’ingiustizia e l’oppressione. […] Se si vuole sottomettere e opprimere qualcuno, l’ultima cosa da mettergli in mano è la Bibbia. È più rivoluzionaria, più sovversiva di qualunque manifesto o ideologia politica. Perché? Perché la Bibbia afferma che ciascuno di noi, senza eccezioni, è creato a immagine di Dio (l’ Imago Dei ). Che sia ricco o povero, bianco o nero, istruito o analfabeta, maschio o femmina, ciascuno di noi è creato a immagine di Dio e questo è meraviglioso, entusiasmante. Il nostro valore è intrinseco; lo troviamo, per così dire, già confezionato in noi stessi. Tutte le discriminazioni si basano su qualche attributo: la razza, il genere, l’orientamento sessuale, il grado di istruzione, il livello di reddito. Ma questi attributi sono estrinseci; possono essere variegati e noi restiamo umani; siamo umani con qualunque combinazione dei precedenti attributi. La Bibbia dichiara esplicitamente e con forza che il fatto che ci riempie di valore, di un valore infinito, è uno solo: che siamo creati a immagine di Dio. Il nostro valore ci viene fornito con il nostro stesso essere. È intrinseco e universale. Appartiene a tutti gli esseri umani, indifferentemente. Nel mondo antico il re, non potendo essere presente nello stesso tempo in tutte le parti del suo territorio, collocava nelle diverse province le sue immagini, che dovevano essere riverite come il monarca in persona. I sudditi del re dovevano inchinarsi o fare una riverenza davanti alla statua come avrebbero fatto dinanzi al sovrano in carne e ossa. Quindi, per la Bibbia, dire che siamo l’immagine di Dio significa fare un’affermazione importante e decisamente sovversiva. Gran parte dell’ingiustizia nel mondo avviene perché delle persone sono discriminate in base ad attributi estrinseci, spesso considerati di natura biologica. Così è accaduto con la Shoah perpetrata dai nazisti, quando sei milioni di ebrei furono uccisi dagli ariani che si autoproclamavano «superiori», insieme a cinque milioni di altre persone «diverse ». In Sudafrica i neri furono sottoposti all’aberrante sistema dell’apartheid. Noi neri eravamo, sì, considerati umani, ma non quanto i nostri compatrioti bianchi. Era eloquente vedere avvisi pubblici che dichiaravano spudoratamente: «Vietato l’ingresso ai nativi (cioè ai neri) e ai cani». La classe dirigente spesso
trattava i suoi cani molto meglio di come trattava i neri. Se credessimo veramente a quello che abbiamo affermato, che ogni essere umano senza alcuna eccezione è creato a immagine di Dio, e quindi è un portatore di Dio, allora qualunque maltrattamento di un altro essere umano ci farebbe inorridire, perché è non solo ingiusto, ma anche oltraggiosamente blasfemo. È davvero come sputare in faccia a Dio. Ecco dunque ciò che i missionari ci hanno portato: un libro che è più radicale e più rivoluzionario di qualunque manifesto politico. San Paolo dice ai cristiani di Corinto che ciascuno di loro è un tabernacolo, un tempio dello Spirito Santo ( 1Cor 6,19). Nella tradizione anglo-cattolica, ci genuflettiamo per riverire il Santissimo Sacramento, di cui riconosciamo la presenza per mezzo della lampada, bianca o rossa, accesa davanti o sopra al tabernacolo. Se credessimo veramente che ciascuno di noi è un portatore di Dio e un tempio dello Spirito Santo, allora quando ci salutiamo non ci limiteremmo a stringerci la mano, ma ci inchineremmo profondamente come fanno i buddhisti, o ci inginocchieremmo gli uni davanti agli altri: «Il Dio che è in me saluta il Dio che è in te». Noi non possiamo restare indifferenti di fronte alle ingiustizie patite da tanti nostri fratelli e sorelle, fi gli dello stesso Dio e Padre. Tutti gli altri, portatori di Dio, sono creati a immagine di Dio proprio come noi. Non abbiamo scelta. Noi che crediamo di essere creati a immagine di Dio, noi che siamo portatori di Dio, non possiamo restare in silenzio o indifferenti quando altri sono trattati come se fossero una razza diversa e inferiore. Noi dobbiamo opporci all’ingiustizia. Non abbiamo scelta. Nelle situazioni di ingiustizia e oppressione, non portate la Bibbia; altrimenti, se viene compresa correttamente, essa sovvertirà quell’ingiustizia e quell’oppressione.




anche la grande teologia ha qualcosa da dire …

Solo il Vangelo è definitivo. 18 teologi scrivono al Sinodo

solo il Vangelo è definitivo

18 teologi scrivono al Sinodo

 
Tratto da: Adista Notizie n° 36 del 24/10/2015

«Il Sinodo è già in corso e assistiamo alla reazione di un settore ecclesiale contrario a qualsiasi intenzione di apertura, come se il rinnovamento mettesse in discussione non solo alcuni presupposti dell’insegnamento tradizionale, quanto la fedeltà e la dottrina autentica della Chiesa, nonché lo stesso Vangelo. In questo senso, con rispetto e dopo aver riflettuto, il presente documento intende fondamentalmente presentare la legittimità di un cambiamento»

Nasce da questa esigenza un lungo e argomentato documento inviato al Sinodo, nella persona del card. Oscar Maradiaga, e all’Osservatore Romano, da un gruppo di 18 teologi: Ariel Alvarez, Raul Lugo, Xabier Alegre, Juan Masia, José Arregi, Antonio Monclus, Fernando Bermudez, Guillermo Mugica, Frei Betto, Jesús Pelaez, Nicolás Castellanos, Xabier Pikaza, Benjamín Forcano, Manuel Reyes Mate, Manuel Fraijo, Julián Ruiz Diaz, Joan Godayol e Manuel Suances. Per questioni di urgenza – il Sinodo è, appunto, in corso – prima di diffondere il documento (intitolato “Gruppo teologico pastorale appoggia papa Francesco nella sua apertura e nelle soluzioni dei problemi urgenti”) non si sono attese le adesioni di altri teologi e, spiegano i firmatari, anche il confronto con alcune teologhe non è stato possibile.

Le premesse

Due le premesse da cui parte il documento-appello: in primo luogo, il fatto che, come si legge nell’Instrumentum laboris, «il fondamento dell’annuncio della Chiesa sulla famiglia è radicato nella predicazione e nella vita di Gesù». La sequela di Gesù, «norma semplice e universale, porta con sé valori propri che però oggi si sono diluiti nella marea ingovernabile di un neoliberismo consumista. Tale sequela presuppone l’adesione al progetto di Gesù, che è quello della fratellanza, del servizio agli altri, della dignità e della priorità degli “ultimi” rispetto ai “primi”. In secondo luogo, la sequela di Gesù comprende «l’etica umana fondata sulla dignità della persona, che «ci permette di camminare uniti condividendo valori, criteri e comportamenti vincolanti per tutti». In particolare, il fatto «innegabile della famiglia umana», fondata sul rispetto della «persona totale umana». Questa unità, tuttavia, «non nega le differenze tra i popoli», senza peraltro che si sovrappongano al valore fondamentale della dignità della persona.

Quello sfasamento tra dottrina e mondo

Come coniugare queste due premesse di fronte alle sfide poste dai problemi della famiglia di oggi è il passo successivo della ricerca dei teologi. Nel corso dei secoli, infatti, si sono aggiunte ad esse numerose altre norme, elaborate «a partire da circostanze e ragioni storiche concrete», molte delle quali, però, «divenute obsolete e impugnate perché ormai controcorrente, al margine della scienza, del sentire della gente, delle nuove proposte di teologi e moralisti e soprattutto del Vangelo». Cambiati i paradigmi culturali, la Chiesa ha il dovere di «condividere la verità del Vangelo sulla famiglia con la verità della scienza e della ricerca biblico-teologica». Invece, questa collaborazione non c’è stata, portando la Chiesa a «idolatrare spesso il proprio magistero pensando di avere il possesso di ogni verità». Da questo punto di vista, largamente disattese sono state le acquisizioni del Concilio Vaticano II e ampiamente sottovalutato il compito dei teologi, tanto da creare uno sfasamento tra dottrine e norme da un lato e relazione con il mondo attuale. Alla luce di tutto ciò, i teologi ritengono che si possano «trovare soluzioni a problemi finora ritenuti risolti in virtù di norme tradizionali inamovibili senza tenere in considerazione l’apporto delle scienze né i cambiamenti richiesti dal progresso dell’esegesi e della teologia (omosessualità, aborto, celibato opzionale per i preti, ordinazione sacerdotale femminile, divorziati nella Chiesa)». Papa Francesco «si muove in questo atteggiamento di rispetto, collaborazione e integrazione del sapere».

Omosessualità

È a partire dal XIII secolo che l’omosessualità «va rivestendo un carattere di vizio, orribile (nefandum, innominabile)», quale non è riconosciuto a delitti come il matricidio, il genocidio o l’incesto. La «costruzione biblico-teologica morale che giustifica la gravità di questo peccato», sostengono i teologi, «oggi si è dimostrata prescientifica e opposta al contesto e al senso dei testi biblici». L’Organizzazione mondiale della Sanità ha ormai depennato l’omosessualità dalle malattie e il Consiglio d’Europa ha sollecitato i governi a combattere le discriminazioni sessuali: non si può contrapporre a queste indicazioni «l’esistenza di un’etica cristiana che le contraddice e qualificherebbe l’omosessualità come disordinata e intrinsecamente perversa». Da un punto di vista teologico, «è ben fondata la posizione di coloro che sostengono che la sessualità umana non ha come modello naturale esclusivo l’eterosessualità ma che l’omosessualità esiste come variante naturale legittima, minoritaria». E se è positivo raccomandare rispetto per le persone omosessuali, tale raccomandazione «è carente laddove continua a ritenere che l’omosessualità e la relazione tra omosessuali siano deviate, intrinsecamente perverse».

Aborto

Benché sia un tema estremamente complesso, sull’aborto «riteniamo possibile un accordo comune su punti etici di valore universale», affermano i 18 teologi. In primo luogo: il diritto di ogni essere umano alla vita. Attenzione, però: «Difendere il diritto alla vita non significa difendere il processo embrionale dal suo inizio». Si tratta infatti di una questione aperta, scientificamente parlando. Se nella tradizione cristiana sono sempre esistite posizioni diverse sulla questione (San Tommaso, Sant’Alberto Magno, fino alla teologia postridentina), le teorie più moderne affermano «che l’embrione non è propriamente individuo umano se non dopo alcune settimane dal concepimento»: che i geni non siano una persona in miniatura, lo ha dimostrato la biologia molecolare. Dunque, «chi segue tale teoria può sostenere ragionevolmente che l’interruzione dell’embrione prima dell’ottava settimana non può essere considerata attentato alla vita umana, né possono essere considerati abortivi i metodi che impediscono lo sviluppo embrionale prima di quella data». Questa teoria, che «modifica notevolmente molti punti di vista e stabilisce un punto di partenza comune per capirci, per orientare la coscienza dei cittadini, per fissare il momento del diritto alla vita prima della nascita e per legiferare con un minimo di intelligenza, consenso e obbligatorietà per tutti di fronte al conflitto posto da una situazione concreta», pone le basi di un cammino comune, di una convivenza che nasce dall’accordo «tra il meglio e il più etico».

Celibato opzionale 

Perché tanta acrimonia verso i preti sposati? Secondo la dottrina cattolica, il celibato non è una legge divina ma disciplinare della quale solo a partire dal XII secolo si stabilisce l’obbligatorietà. La sua continuità non è una prova di un carattere valido in assoluto e immutabile. Oggi si assiste alla crisi di questa forma storica perché, se il celibato continua a essere ritenuto uno stile di vita cui dedicarsi completamente, «legittimo e persino umanizzante», è e deve essere «un’opzione libera, assolutamente volontaria, che non parte da alcuna carenza, coazione o impotenza fisica, ma da una decisione morale, cosciente e gratuita». Oggi ad essere in discussione non è infatti il celibato in sé quanto la sua obbligatorietà, fondata su ragioni che oggi sono superate: la minore dignità della vita fisica e sessuale, ragioni «prettamente maschili e maschiliste», ma soprattutto l’ansia di «dominio e potere» che si esprime attraverso un sacerdozio maschile e celibe. Ma qui ci si allontana dal Vangelo: ciò che è fondamentale è seguire Gesù nel dono totale della vita, che prescinde dal celibato o meno dei suoi discepoli.

Ordinazione femminile 

La “porta chiusa” alle donne per quanto riguarda il sacerdozio è un dato di fatto. E lo è da più di 20 secoli. Tuttavia, oggi «è il momento di chiedersi perché è chiusa e continua a esserlo». «Le differenze tra uomo e donna – scrivono i teologi – non sono ragioni per giustificare la sottomissione della donna al dominio maschile e per la sua esclusione da alcuni compiti ecclesiali». La lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis di Giovanni Paolo II del 1994 «non porta nulla di nuovo» e quindi «non ha potuto essere proposta come una verità di fede né di magistero infallibile o ex cathedra». I suoi argomenti «sono più che deboli: il fatto che Gesù abbia scelto a quel tempo solo maschi non vuol dire che lo abbia fatto in modo esclusivo e per sempre. Questa esclusione perpetua non può essere inclusa nell’azione di Gesù. Molte teologhe e molti teologi hanno dimostrato che non ci sono obiezioni dogmatiche per l’ammissione della donna all’ordinazione sacerdotale». I teologi concludono la loro riflessione sul tema citando il teologo Domiciano Fernández, cui non fu permesso di pubblicare un libro sull’argomento, e che pervenne a queste stesse conclusioni: «Molti anni di studio non sono riusciti a convincere né i teologi né i biblisti che sia espressa volontà di Cristo escludere le donne dal ministero ordinato. I ministeri li ha creati la Chiesa secondo le necessità dei tempi e secondo la cultura dell’epoca. Che sono cambiate e stanno cambiando».

Divorziati nella Chiesa

Il tema dei divorziati risposati è forse quello che più di altri sta riscaldando il dibattito nel Sinodo in corso. Il matrimonio, osservano i teologi dal canto loro, «come realtà umana, esistenziale, può presentare difficoltà, crisi, incompatibilità, fino alla rottura». Gesù propone «il progetto del matrimonio indissolubile, come progetto ideale, una meta da raggiungere, la migliore. Ma senza perdere di vista la condizione umana che, per la sua fragilità e incorreggibilità, può in certi casi rendere impossibile il raggiungimento di questo ideale». «In tal caso, non si può continuare ad affermare – così i teologi – che l’indissolubilità è una norme sempre inderogabile. La situazione di migliaia e migliaia di cattolici divorziati e risposati civilmente, è un grido contro certe norme che li condanna a vivere fuori dalla Chiesa. La connaturale libertà e il rischio che accompagnano ogni matrimonio fanno sì che non lo si possa considerare assolutamente indissolubile e che, nel caso di un fallimento serio, lo si possa correggere iniziando un nuovo cammino». È un diritto «ovvio, benché relativo e condizionato. E, in questo caso, la Chiesa non può limitarsi a fornire una soluzione eccezionale per esseri eccezionali».

Già nel 1980 nove teologi spagnoli (tra cui alcuni dei firmatari dell’attuale documento) elaborarono un testo intitolato “Domande di alcuni teologi ai loro vescovi”, in risposta alle “Istruzioni” sul divorzio civile pubblicate dall’episcopato spagnolo, in cui affrontavano anche il tema dei divorziati risposati. In esso, ricordano i 18 teologi, osservavano che i vescovi «non avevano tenuto in considerazione il sentire reale della comunità cattolica; si erano preoccupati solo del divorzio come se si trattasse di una legge meramente politica e civile; avevano dato a intendere che per i cattolici non vi è nessuna possibilità di divorzio e che si trattava di una dottrina che doveva restare immutabile». E aggiungevano di non mettere in dubbio la dottrina dell’indissolubilità del matrimonio proposta da Gesù, sottolineando però che «tale dottrina deve proporre un ideale e una meta verso la quale ogni coppia deve avvicinarsi, senza escludere rischi, equivoci e fallimenti e non come legge assoluta con cui ogni coppia, per il fatto stesso di sposarsi, si identifica automaticamente, senza possibilità di vivere rotture o incompatibilità o almeno incompatibilità che rendano impercorribile questa legge». Di qui le domande, ancora attualissime, che i teologi si ponevano già 35 anni fa: «Credete personalmente, ognuno di voi, che l’attuale disciplina della Chiesa su questo punto sia proprio quella del Vangelo, quella che risponde alla vita e all’insegnamento di Gesù? Non vi pare che la Chiesa dovrebbe qui fare i conti radicalmente con se stessa?». «Dobbiamo guardare – concludevano i nove teologi, ma anche i 18 di oggi – a ciò che accade nella nostra Chiesa, con la realtà di tanti matrimoni falliti, senza speranza di recupero, e perciò già passati attraverso il divorzio nella pratica, ma condannati dal punto di vista canonico».