l’immagine dell’indifferenza che è il nostro cancro

 

il piccolo ospite mai arrivato… 

 

piccolo

 

la foto che oggi mi ritrae annegato sui quotidiani di tutto il mondo e sul web, adagiato sulla riva di Budrum in Turchia, dove le uniche carezze mi giungono dal mare, sia monito, serva a scacciare da ognuno di voi l’indifferenza, ormai diventata il vero “cancro dell’umanità”.

Così piccolo, due-tre anni, ero nato dentro una guerra, stavo bene nella pancia-acqua di mia madre. Uscito, ho visto intorno a me solo macerie, ascoltato grida, pianti, disperazione.  Perchè questa guerra? Decisa da chi? Per cosa? Per perpetuare divisioni, odio, rivalità religiose?

Ero in fuga con i miei genitori insieme a migliaia di bambini, donne, uomini, da condizioni estreme, incredibili di povertà, miseria, guerra, violazione dei diritti umani; i viaggi della speranza, disperati per le condizioni disumane imposte dagli iniqui trafficanti  di essere umani.

Questa mia foto serva a te Europa come testimonianza, come prova della “vergogna” dell’umanità che non accoglie, che si ritrae, che si nasconde, che mette la testa sotto la sabbia, che sta realizzando la globalizzazione dell’indifferenza.

Per favore, un’altro corpo inerme alla deriva, non lasciate che si ripeta. Questo mio corpo senza volto, deve servirvi per non dimenticare.

Fatevi responsabili dei vostri fratelli e delle vostre sorelle, non abituatevi a restare inermi di fronte alla sofferenza dell’altro. Sono qui a parlarvi per scuotere le vostre coscienze, tornate ad essere capaci di piangere, ad avere pietà!

Come non pensare a Caino quando il Signore gli domanda, dov’è tuo fratello Abele?

Quando sarete pronti per iniziare un nuovo ciclo, un nuovo progetto.

Quando sarete pronti per affrontare nuove sfide per dare al mondo uno stare diverso, e sentire gli altri sorelle e fratelli?

Ricordiamo sempre che il cambiamento, qualsiasi cambiamento ha bisogno di te!

Arrivato in questa mia nuova casa, sulla porta ho trovato questa poesia ad accogliermi:

Nei canali di Otranto e Sicilia

migratori senz’ali, contadini di Africa e di Oriente

affogano nel cavo delle onde.

Un viaggio su dieci s’impiglia sul fondo.

Il pacco dei semi si sparge sul solco

scavato dall’ancora e non dall’aratro.

La terraferma Italia è terrachiusa.

Li lasciamo annegare per negare.

Ho chiesto chi l’avesse scritta. Mi hanno risposto: Erri De Luca.

Non ti conosco ma so che pensi a noi, ti stiamo a cuore, mi sono sentito sollevato, perchè ho compreso che in mezzo a questo Mediterraneo d’indifferenza, ci sono tanti uomini e donne che pensano a noi con affetto, responsabilità, amore: accoglienti, questo mi dà speranza.

Spero che questa foto-scatto di pietà possa servirvi a inquietarvi e a creare nuove relazioni.

Tuo fratellino, figlio, nipote siriano…

antonio vermigli




una giornata contro la disumanità


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Giornata dei Migranti 2016: contro falsità e chiusure antievangeliche

giornata dei Migranti 2016

contro falsità e chiusure antievangeliche

Tratto da: Adista Notizie n° 29 del 05/09/2015

“Migranti e rifugiati ci interpellano. La risposta del Vangelo della misericordia”

sarà il tema della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2016, che si celebrerà il prossimo 17 gennaio e che è stata creata nel 1915, quando da noi la situazione – pur sempre drammatica – era capovolta e ad emigrare erano gli italiani.

La notizia del titolo scelto da papa Francesco, pubblicata lo scorso 20 agosto sul sito del Vaticano, è stata poi accompagnata da un comunicato del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, che inquadra l’evento nell’ambito del Giubileo straordinario – Anno della Misericordia (dall’8 dicembre 2015 al 20 novembre 2016) – indetto dallo stesso Francesco con la Bolla Misericordiae Vultus dell’11 aprile scorso.

Alto è il rischio che, nell’attuale convulso dibattito, si dimentichi «la drammatica situazione di tanti uomini e donne, costretti ad abbandonare le proprie terre», per questo il comunicato sottolinea con forza che quella dei profughi è «una realtà che ci deve interpellare» e rilancia le parole del papa contenute nella Bolla: «Non cadiamo nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge. Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto». L’invito pressante del papa è dunque a «spezzare la barriera di indifferenza che spesso regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo».

Ma c’è dell’altro. Il Dicastero riflette sulle risposte messe in campo di fronte ad un fenomeno tanto drammatico e richiama il popolo di Dio al dovere evangelico di annunciare la liberazione agli oppressi: tra le opere di misericordia c’è anche «quella di accogliere i forestieri. E questo senza dimenticare che Cristo stesso è presente tra i “più piccoli”, e che alla fine della vita saremmo giudicati dalla nostra risposta d’amore».

Tra le altre cose, in coda al comunicato, il Pontificio Consiglio invita tutte le comunità cristiane a sensibilizzarsi sul tema e a celebrare la Giornata mondiale vicino ai nuovi venuti; propone che l’evento principale del Giubileo coincida con il 17 gennaio, così da rafforzare il messaggio sull’accoglienza; invoca infine un’attenzione verso i migranti quotidiana e concreta.

Chiamati a liberare

Ma in questo travagliato agosto di evangelico c’è stato ben poco. E anzi, con i muri di Ungheria e Macedonia, le “guerre” di confine tra Italia e Francia o tra Francia e Inghilterra, le ferme dichiarazioni di chiusura di molti premier europei, fino ad arrivare alle sempre colorite esternazioni leghiste di casa nostra, le risposte del mondo politico e dei cittadini europei sono parse ben poco ispirate ai valori cui sovente hanno richiamato Francesco e la Chiesa europea.

«Io credo che sia normale avere paura», è il commento, a margine della pubblicazione del tema della Giornata 2016, rilasciato a Radio Vaticana dal presidente del Dicastero per i Migranti, card. Antonio Maria Vegliò. Consapevole che la paura è «nella natura umana», il cardinale ribadisce però che i muri non hanno senso e che le misure estreme non vanno mai bene: «Bloccare tutti, mandare via tutti, rompere trattati internazionali, per difendere la propria identità nazionale, non è ragionevole». E qui entra in gioco il ruolo della Chiesa, aggiunge Vegliò: «La Chiesa in fondo ci aiuta a non dimenticare che Gesù è presente tra i più piccoli, tra i più sofferenti, tra quelli che hanno più bisogno degli altri. La Chiesa, essendo discepola di Gesù, è chiamata a liberare, ad annunziare la liberazione di quanti sono prigionieri delle schiavitù della società moderna». Ma la Chiesa ha anche il compito di sollecitare il mondo politico e le istituzioni internazionali a mettere in campo politiche coraggiose e lungimiranti. Un esempio su tutti: queste persone arrivano in Europa perché scappano da povertà e soprattutto da guerre. Ma «le guerre si fanno con le armi». E, conclude Vegliò, «chi sono quelli che vendono le armi? Sono in genere i Paesi ricchi», che oggi fanno di tutto per chiudere le porte alle vittime delle loro economie.

Onestà intellettuale

Il 24 agosto, in un approfondimento per l’agenzia Sir, anche p. Giulio Albanese – missionario comboniano, giornalista, fondatore dell’agenzia missionaria Misna, collaboratore di Avvenire – è tornato sul tema proposto dal papa. Molti cittadini europei «manifestano grande insofferenza di fronte all’acuirsi del fenomeno migratorio». Si tratta di una sfida, sottolinea il missionario, «rispetto alla quale vi è un forte condizionamento da parte di chi specula, manipolando le coscienze e seminando zizzania», diffondendo falsità e pregiudizi, al fine di vedere accresciuto il proprio consenso mediatico o elettorale. «È un problema di onestà intellettuale», accusa Albanese, ricordando che «sono decenni, soprattutto nel nostro Paese, che passiamo da un’emergenza all’altra, tutte segnate da fibrillazioni ansiogene»: prima i marocchini, poi gli albanesi, poi i rumeni, e così via. Per questo motivo, commenta ancora Albanese, il papa «invita le nostre comunità ad operare un sano discernimento, interpretando uno dei più significativi “segni dei tempi” della nostra storia, quello della mobilità umana, alla luce del Vangelo».

In calce al commento, il comboniano aggiunge un preciso richiamo: «Quanto pesa nel nostro discettare, spesso a vanvera, la miseria di quei popoli, quasi mai mediatizzati, ai quali abbiamo imposto oneri a non finire affinché l’azione predatoria nei confronti delle loro risorse passasse indisturbata? Poco importa che l’oggetto del contenzioso siano minerali pregiati o fonti energetiche, la verità scomoda, che molti vorrebbero davvero non trapelasse, è che il nostro mondo civilizzato (o presunto tale) continua ad imporre il primato del business sul sacrosanto valore della persona umana creata ad immagine e somiglianza di Dio». E questo – conclude Albanese puntando il dito contro i “Salvini” di turno che amano accusare il papa e gli ecclesiastici di scarso senso della realtà – «non è chiacchiericcio intriso di “buonismo”, ma Vangelo».

* Recinzione in “difesa” del confine tra Spagna e Marocco a Melilla. Fotografia di Ongayo, tratta dal sito Wikimedia Commons. Licenza e immagine originale




l’ambiguità negativa di molti termini che usiamo come neutri

Fiumi di parole

di Sergio Bontempelli e Stefano Galieni

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Ma immigrato è un termine svalutativo? E zingaro? L’etnia è una cosa che tutti hanno o solo qualcuno? E come è cambiata la connotazione di clandestino dalla canzone di Manu Chao? Attorno al fenomeno migratorio si è costruito un lessico che molto spesso carica di ambiguità negativa termini teoricamente neutri. Come immigrato, per esempio, che in certi contesti è assurto a sinonimo di soggetto potenzialmente pericoloso.

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Scegliere di non utilizzare certi termini, e di sostituirli con altri sfidando talvolta la semantica, però non è sempre la strada migliore: le parole sono il veicolo dei nostri pensieri e “truccarle”, anche se con le migliori intenzioni, rischia di portare fuori strada. A seguire, un estratto parziale di questo lessico.

Africano/a. Perduta la componente esotica del termine, si va riaffermando il suo uso coloniale, non solo in Italia. La parola diviene così sinonimo di “primitivo”, di “selvaggio”, di “nero” e, se accompagnata da un prefisso (ad esempio nord-africano) viene associata a piccola criminalità e delinquenza di strada. Dall’Africa, immenso continente di quasi un miliardo di persone e di più di cinquanta Paesi, mai considerato come pluralità di culture e di storia, si astrae un’idea di pericolosità sociale mista ad ignoto. Si immagina un mondo in cui si vive ancora nelle capanne e si balla al ritmo di tamburi.

Clandestini. Negli anni Cinquanta i giornali parlavano di “invasione di clandestini” a Roma. Non erano africani, non venivano coi barconi, e non erano nemmeno albanesi o romeni: lavoratori italianissimi, provenienti dal Meridione, non potevano prendere la residenza nella Capitale perché, secondo una legge approvata in epoca fascista, per avere la residenza serviva un contratto di lavoro regolare. Così, molti restavano a Roma, lavorando magari in nero, senza essere registrati: erano “clandestini”, una definizione che già allora evocava disprezzo. Più tardi, negli Anni Settanta, il termine è stato associato al terrorismo: il militante delle BR viveva “in clandestinità”, ed era per questo pericoloso e sfuggente. Alla fine degli anni Ottanta il vocabolo è entrato nel lessico comune per indicare i migranti irregolari, ma ha ereditato le connotazioni minacciose del passato.

Cultura, multiculturalismo, Intercultura. I migranti che sbarcavano a Ellis Island, negli Stati Uniti, erano classificati a seconda della “razza” di appartenenza. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la parola “razza” è stata screditata perché erede del lessico nazista e antisemita: così, si è cominciato a dire che gli immigrati sarebbero portatori di “culture” diverse, descritte a volte come primitive e animalesche, altre volte come esotiche, affascinanti, misteriose, tribali. Spesso ci si dimentica che ogni persona fa le sue scelte, non è un prodotto meccanico della propria “tradizione”: eppure, quando si parla di migranti, sembra che i gesti, i comportamenti, le mentalità siano dettate esclusivamente dalle “loro culture”, concepite quasi sempre come immodificabili. Da questo punto di vista, la “cultura” è usata spesso come sinonimo eufemistico di “razza”.

Etnia, etnico. Il concetto di “etnia” è un parto degli scienziati razzisti dell’Ottocento, ed poi divenuto un termine comune nel lessico coloniale: gli europei hanno classificato in rigidi compartimenti “etnici” gruppi la cui identità era assai più fluida e meno definita. Emblematico il caso del Ruanda, dove due classi sociali – gli agricoltori “hutu” e gli aristocratici “tutsi” – sono state trasformate in “etnie”, a loro volta concepite secondo una gerarchia razziale: i tutsi “quasi-bianchi”, gli hutu “più neri”, dunque inferiori. Ancor oggi, il lessico comune tende a etnicizzare i fenomeni sociali, cioè a leggerli in termini di etnie diverse, irriducibili, non comunicanti tra loro. Spesso, quelle che definiamo “etnie” sono identità mobili, fluidi, in perenne mutazione, largamente “meticciate”  e mescolate con le culture maggioritarie.

Immigrato, migrante. La mobilità umana è sempre esistita: già la Bibbia, nel libro dell’Esodo, ci parla di una grande migrazione dall’Egitto. Eppure, parole come “immigrato” e “migrante” sono relativamente recenti: secondo storici come Gerard Noiriel e Donna Gabaccia, è solo alla fine dell’Ottocento che entrano prima nel lessico giuridico, poi in quello comune. Perché? La risposta, forse, va cercata nei testi normativi dell’epoca: per esempio, l’Aliens Act inglese del 1905 (la legge che introduce per la prima volta i controlli di frontiera) definisce immigrato come “colui che viaggia in terza classe”, cioè come lo straniero povero, che si sposta in cerca di lavoro. Ancora oggi, quando si parla di “immigrati”, si allude alla povertà: quando un non-povero lascia il proprio paese, si preferisce definirlo “expat” (espatriato), o magari “cervello in fuga”.

Invasione. Lasciato in soffitta il suo utilizzo nel linguaggio militaresco, oggi sembra riguardare più quello domestico (invasi dalle formiche o dai parassiti) ma lo si adatta alle persone. Poco conta che nella realtà in un Paese di 60 milioni di abitanti siano giunte nello scorso anno 170 mila persone, in gran parte già fuggite verso altri lidi. Poco importa che il fenomeno incida per meno dello 0,2% rispetto alla popolazione: questo 0,2% è potenzialmente riconosciuto come in grado di tramutare l’Italia in un emirato, diffondere epidemie, o deformare totalmente una preesistente identità comune. La stessa fobia che si ha appunto con le formiche: chi invoca i cannoni verso i barconi spesso ha come retropensiero l’insetticida.

Rifugiato. Così come le migrazioni, anche l’esilio e la fuga esuli esistono dalla notte dei tempi. Eppure, parole come “rifugiato” o “richiedente asilo” sono invenzioni recenti: nascono con la chiusura delle frontiere, agli inizi del XX secolo. Gli Stati europei cominciano allora a sorvegliare i confini, a chiedere visti di ingresso, a respingere i migranti “indesiderabili”: ma si accorgono che tra le persone respinte vi sono anche i perseguitati politici e coloro che fuggono da guerre e violenze. Nasce così l’esigenza di distinguere gli immigrati “economici” (da allontanare, o comunque da controllare) e i “rifugiati” (da accogliere). È una distinzione, però, che serve agli Stati per tenere ben chiuse le frontiere: gli uomini e le donne abbandonano i propri paesi per motivi complessi, che possono includere sia ragioni economiche sia necessità di protezione.

Sicurezza/degrado Bei tempi quelli in cui col primo termine si indicava la necessità di aver garantite condizioni decenti di lavoro, di welfare, una prospettiva di vita futura. E bei tempi quelli in cui ad essere in degrado era un edificio malmesso e ad essere degradati erano ufficiali felloni. Da quasi 20 anni questi termini sono utilizzati, anche se non soprattutto, in ambienti progressisti per indicare realtà di marginalizzazione, vera o presunta, da cui difendersi: e, manco a dirlo, la “marginalità” è regolarmente associata alle migrazioni. Degrado e sicurezza diventano sinonimi di “allarme”, e si contribuisce a creare una percezione fondata sulla paura. Nel corso degli anni sono nati assessorati alla sicurezza, e hanno svolto un ruolo maggiore, anche politico, i Comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza (esautorando in parte le istituzioni elette). “Garantire la sicurezza combattendo il degrado” è divenuto slogan imprescindibile per qualsiasi amministratore.

Tratta/trafficanti. Un tempo la tratta era quella delle persone che venivano prese, comprate nei paesi di provenienza, per farne braccia da lavoro forzato: si pensi al mercato atlantico degli schiavi gestito dalle potenze europee. I “trafficanti” di allora venivano chiamati mercanti. Oggi centinaia di migliaia di persone arrivano nei paesi UE per propria volontà, per migliorare le proprie condizioni di vita: i “trafficanti” non sono più mercanti ma diventano “scafisti”, “criminali”, “sfruttatori di merce umana”. La loro esistenza viene spacciata come causa delle migrazioni, quando è invece un effetto della chiusura delle frontiere (non potendo entrare legalmente in Europa, ci si rivolge a chi organizza ingressi irregolari). Nel frattempo, nessuno si preoccupa delle condizioni di sfruttamento dei lavoratori migranti nelle campagne: nella retorica comune, è “schiavista” chi organizza il viaggio, non chi usa il lavoro forzato altrui…

Zingaro/i Non sono mai piaciuti a nessuno, inutile dirlo, per molteplici ragioni e pregiudizi. Ma per tanto tempo, il termine era associato ad una idea romantica di libertà, di rapporto con l’arcano, di rottura voluta dei legami e delle convenzioni sociali. L’immagine dello zingaro libero “figlio del vento” era anch’essa uno stereotipo, ma uno stereotipo “positivo”: oggi la parola “zingaro” è invece un insulto, un sinonimo di ladro, profittatore, violento e marginale. Da europarlamentari che li definiscono impunemente “feccia della società” a ordinanze comunali che, ignorando qualsiasi divieto di discriminazione, si riferiscono direttamente ad un indistinto mondo “zingaro” da controllare e perseguire.

Stefano Galieni e Sergio Bontempelli




ritorna ‘fratello’ il vescovo esiliato perché benediceva i gay


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Papa Francesco abbraccia il «fratello» Gaillot, vescovo che sfidò il magistero

papa Francesco abbraccia il «fratello» Gaillot

il vescovo che sfidò il magistero

«Noi siamo fratelli»

 è con queste parole che papa Francesco ha accolto a Santa Marta, il 1° settembre, mons. Jacques Gaillot, il vescovo rimosso nel 1995 dalla guida della diocesi di Évreux, in Francia, e “spostato” a Partenia, una diocesi algerina che esiste solo sulla carta, a causa delle sue opinioni divergenti dal magistero in materia di preti sposati, uso del preservativo per combattere l’aids, relazioni omosessuali.

Durante l’incontro, durato 45 minuti, il papa e mons. Gaillot hanno parlato, secondo quanto raccontato alla stampa francese dallo stesso vescovo, di divorziati risposati, migranti e coppie omosessuali. «Gli ho detto che non ero lì per chiedergli qualcosa, ma che un intero popolo di emarginati è contento che lui mi abbia ricevuto, perché si è sentito riconosciuto», ha raccontato Gaillot all’Afp (1/9). «Gli ho detto che mi è capitato di benedire coppie di divorziati risposati e coppie omosessuali. E ho aggiunto: benediciamo perfino le case, possiamo dunque benedire le persone! Questa frase lo ha fatto sorridere e mi ha risposto che la benedizione di Dio è per tutti» (Le point, 1/9).

All’incontro Gaillot era accompagnato da p. Daniel Duigou, parroco presso la chiesa di Saint-Merri a Parigi: il papa ha colto l’occasione per felicitarsi del fatto che il card. André Vingt-Trois, alla guida della diocesi parigina, abbia chiesto a questa parrocchia di consacrarsi ai migranti i quali, ha detto il papa, sono «la carne della Chiesa».

L’incontro fa seguito alla lettera che Gaillot, nel novembre dello scorso anno, aveva scritto al papa ringraziandolo per gli sforzi compiuti affinché la Chiesa stia al passo coi tempi (v. Adista Segni Nuovi n. 1/15). Anche in quella occasione il vescovo non aveva mancato di spendere una parola per i divorziati risposati e per gli omosessuali, sottolineando la delusione suscitata dal testo adottato alla fine dell’Assemblea sinodale dell’ottobre 2014 in merito alle proposte avanzate nei loro confronti.
Una vita spesa per gli ultimi

Ordinato prete nel 1961, dopo aver svolto il servizio militare in Algeria, Gaillot si vede sin da subito affidare diverse responsabilità pastorali: dal 1965 al 1972 è professore al Seminario Regionale di Reims, nel 1973 viene nominato parroco a Saint-Dizier, la sua città natale, e nel 1977 è nominato vicario generale della diocesi di Langres. Finché nel 1982 viene scelto per guidare la diocesi di Évreux.

Il giovane vescovo diventa subito famoso per una serie di prese di posizione piuttosto scomode. Nel 1983 vota contro il testo dell’episcopato sull’utilizzo del nucleare come forza di dissuasione; due anni dopo prende posizione a favore della sollevazione palestinese dei Territori occupati ed incontra Yasser Arafat a Tunisi; nel luglio 1987 parte per il Sudafrica per incontrare un giovane militante anti-apartheid di Évreux, condannato a quattro anni di carcere dal regime di Pretoria, e per compiere questo viaggio rinuncia ad accompagnare il pellegrinaggio diocesano a Lourdes, attirandosi diverse critiche. Nel novembre 1988 interviene nell’ambito del dibattito a porte chiuse dell’assemblea plenaria a Lourdes per proporre l’ordinazione di uomini sposati. Nel 1991 proclama la sua opposizione alla guerra del Golfo pubblicando il libro Lettera aperta a coloro che predicano la guerra e la fanno fare agli altri.

La sua rimozione, nel 1995, dalla guida della diocesi di Évreux scatena moltissime reazioni a livello internazionale ma non costituisce per il vescovo una battuta d’arresto.

Gaillot, 80 anni il prossimo 11 settembre, non è infatti mai venuto meno alla sua missione a fianco degli ultimi, viaggiando in lungo e in largo per mostrare un altro volto della Chiesa e rendendo Partenia uno spazio virtuale e insieme reale di libertà (www.partenia.org) per dare voce a quanti nella società e nella Chiesa sentono di non esistere




a proposito del funerale del rom Casamonica: i ‘fatti’ e la loro ‘contestualizzazione’

un funerale rom  e il teatrino della politica

riflessioni di Marcello Palagi che a livello di studio e di frequentazione, avendo da sempre, senz’altro da tanti decenni, fatto un percorso di condivisione e di amicizia con famiglie appartenenti al popolo rom e sinto, bene conosce il mondo e la cultura di questo popolo:

Marcello

I fatti sono fatti
Non c’è nessuna dichiarazione meno utile di questa, per cercare di capire la vicenda del funerale di Vittorio Casamonica. I fatti, da sè, non parlano;  vanno contestualizzati, analizzati e interpretati. Anche perchè poi, di fatti, in questa storia, ne sono stati appurati meno di quanto si creda.

Ad esempio, si è detto che a partecipare a questi funerali oceanici c’era tutta la Roma “mafiosa” e invece, c’erano quasi solo dei rom abruzzesi (non sinti, come si trova scritto – e tutti hanno ripetuto pedissequamente, senza andare a cercare riscontri -, in Wikipedia). E non mi  sembra, almeno stando alle immagini trasmesse dai mass media, che la partecipazione al funerale sia stata così di massa come si vuol far credere: alcune centinaia di persone. Anche una persona di una certa notorietà, da noi, vedrebbe la sua bara seguita da un numero di parenti, amici e conoscenti, egualmente se non più numerosi. Ma l’affermazione iniziale è servita e serve ancora per dire che il funerale è stato una prova di forza  “che le associazioni mafiose” hanno esibito, e “per affermare il mito della loro impunità,  per affermare la supremazia  della mafia sullo Stato”. Se queste sono le prove di forza… ! Anche se è stato Caselli che ha detto questo, al seguito, però, di molti altri,  si tratta di un’affermazione sbagliata e frutto di pregiudizi: “I Casamonica sono mafiosi e quindi ostentando tanto lusso, perché vogliono mandare segnali mafiosi di potenza agli altri clan della capitale e allo stato”.

bara Casamonica

I Casamonica non sono appartenenti alla mafia ed è sbagliato estendere il concetto di mafia a realtà, altrettanto malavitose, ma che hanno strutture e organizzazioni, modi di funzionare, assolutamente diverse e che si muovono secondo mentalità e culture diverse. Dirò poi quali fraintendimenti ha determinato, nella lettura dei fatti, l’uso della parola mafia. I fatti sono pochi e se si esclude il volo dell’elicottero, non sembrano  contro legge. Il feretro di un personaggio noto come appartenente a una famiglia considerata malavitosa e ricca, appartenente ai rom abruzzesi, arriva in chiesa, per le cerimonie funebri, su una lugubre e nera carrozza trainata da sei cavalli (la stessa servita per i funerali di Totò) ed è seguita da un lungo corteo di automobili lussuose che, sembra abbia determinato un ingorgo nel traffico e richiesto l’intervento dei vigili urbani. Mentre in chiesa si svolgono la messa e i riti dei defunti, fuori, nella piazza, un buon numero di rom attende più o meno “compostamente” l’uscita della cassa. Improvvisamente appare nel cielo un velivolo che sgancia sulla piazza petali di rosa. Che cosa ci sia in questi “fatti” di illegale, salvo, forse, l’elicottero, non è dato sapere. Se i fatti sono questi e se, dal punto di vista del diritto e della legge italiana, Vittorio Casamonica non era mai stato condannato, anche se più volte denunciato e inquisito, ci si deve domandare non solo perchè non avrebbe dovuto avere questo funerale, ma come, le autorità competenti civili e religiose avrebbero potuto vietarlo.

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E’ un mafioso notorio anche se non ha subito condanne

Perchè, si risponde, tutti sanno che era un mafioso e apparteneva a una famiglia mafiosa. E per dimostrarlo si riportano rapporti di polizia che indubbiamente danno da pensare, ma che non sono sentenze e, soprattutto, non comportano incriminazioni per Vittorio Casamonica. L’argomentazione è perciò preoccupante, perchè eleva il “sentire comune”, come diceva a suo tempo il vecchio Bossi, a verità indiscutibile e giudiziaria: siccome appartiene a una famiglia “mafiosa”, è “mafioso” e quindi si deve proibire che abbia funerali sfarzosi e appariscenti. E chi l’ha detto? Perchè in Calabria, a Napoli ecc. si è stabilito che i funerali dei mafiosi e camorristi si devono svolgere in forma privata e alle sei di mattina. Ma a parte i dubbi di legittimità che certi regolamenti suscitano, e il fatto che tale regolamento fino ad oggi non esiste per Roma, si deve intendere che la regola valga, una volta adottata, per tutti gli appartenenti alla famiglia Casamonica, anche a quelli che non hanno subito condanne? Non è ipotizzabile che tra i Casamonica ci siano anche persone oneste e non malavitose?  Se si pensa che non sia ipotizzabile, il razzismo non è lontano.

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Lo sanno tutti

Molte cose erano note a tutti, ma non hanno impedito che per un ventennio Berlusconi abbia dominato la scena politica italiana o che sia stato assolto Scajola per essersi trovato a sua insaputa, proprietario di una casa miliardaria, o Andreotti che con i mafiosi si baciava pure. Per non dire del ministro Poletti che con qualche Casamonica ci  andava a cena, senza suscitare scandalo. Era noto a tutti che i partiti riscuotevano laute tangenti che permettevano loro, se non altro, di tenere aperte sedi, pagare funzionari e finanziare le loro campagne elettorali. Eppure tanti che ora si scandalizzano per la notorietà “mafiosa” di Vittorio Casamonica, al massimo e fino a prova contraria reo di ricettazione o incauto acquisto, non hanno rinunciato a sostenerli e a farsi sostenere nella campagne elettorali con quei soldi di provenienza malavitosa (non era ricettazione anche questa?), e a partecipare a governi e amministrazioni locali corrotti dai denari della mafia vera. Eppure tutti sapevano, (Io so – gridava il povero Pasolini, prendendosela con i politici e non con i marginalissimi rom – ma non ne ho le prove); non era possibile che non fossero informati, anche molto prima che Craxi lo confessasse e rendesse certo, per sè e per tutti gli altri partiti e politici.

Mafia-capitale solo a Roma?

Anche il sacco delle risorse pubbliche europee, nazionali e locali per i progetti sui rom, la “Ziganopoli” come venne definita a suo tempo e giustamente da un rom abruzzese, Santino Spinelli, onesto, e imparentato con i Casamonica,  era noto a tutti e non avveniva solo a Roma, ma dovunque, anche in questo territorio. Possibile che chi ha usufruito di quei finanziamenti locali oggi si scandalizzi di Vittorio Casamonica e si ponga in prima linea per denunciare il suo funerale come scandaloso e mafioso?  Lo dico perché non si è trattato di pochi spiccioli, ma di decine e decine di milioni di vecchie lire, solo in questa provincia. Ci sono i documenti ufficiali a testimoniarlo e storie di volontariato “a pagamento” niente affatto edificanti, anche se, come per i Casamonica e i rom, non è legittimo fare di ogni erba un fascio: il volontariato normalmente, anche da noi, ha operato  in modo del tutto disinteressato e gratuito  – ma non per i rom – e non sarebbe giusto discreditarlo per le incapacità e le velleità di alcuni o per le mele marce che ci sono state.
Il funerale

Credo che non se ne possa comprendere il senso se non si conosce il ruolo centrale della morte e del culto dei morti, per l’identità-sopravvivenza culturale dei rom. Se si capisce questo, si comprende anche perchè il funerale di Casamonica non abbia niente a che vedere con messaggi mafiosi, avvertimenti criminali e sfide allo stato. Va tenuto presente che le considerazioni che seguono, sinteticissime e non esaurienti sul rapporto che i rom in generale, e con modalità anche differenti da gruppo a gruppo e da famiglia a famiglia, hanno con la morte e il ricordo dei morti riguardano (se li riguardano)  solo i gruppi rom che ho conosciuto, tra cui gli abruzzesi, ma non pretendo che valgano anche per altri che non ho mai avuto la ventura di incontrare e conoscere.  Tanto più che oggi i rom sono gruppi in fase di grossi cambiamenti e specie le nuove generazioni non sempre seguono le tradizioni, anche se  le mentalità dominanti, che sono quelle che assicurano la  loro continuità e l’identità, sopravvivono forti, anche tra i giovani. Il momento della morte e del funerale di qualsiasi rom, ricco o povero,  autorevole o no, è cruciale, per il doveroso mantenimento e la fissazione della memoria del defunto, perchè dopo non si potrà più parlare liberamente di lui; diventerà sostanzialmente tabù, anche se oggi le attenuazioni  e le trasgressioni del tabù sono sempre più diffuse, perchè la società rom non ne ha probabilmente più bisogno.  Ma nei “riti”, mi sembra, conservi tutta la sua forza. La morte e il funerale definiscono la memoria del defunto per l’ultima volta e in forme definitive. Per questo, devono essere celebrati nel modo più alto e appariscente possibile, con il massimo dispendio di soldi e inventività consentiti alla famiglia. Deve imprimersi il ricordo del defunto in modo indelebile, presso tutti i rom che lo hanno conosciuto. Lo sfarzo  e l’ostentazione hanno   questa funzione e prescindono dalle qualità morali o dalla fedina penale del defunto. Al morto in sé,  vanno resi obbligatoriamente grandi onori, se si vuole evitare che ne derivino mali per chi resta, per aver  mancato di rispetto nei suoi confronti. Del resto, anche tra noi, si onorano parenti o uomini importanti, anche se in vita non hanno avuto comportamenti onesti; dei morti non si deve parlar male  e nei loro confronti si utilizzano circonlocuzioni eufemistiche.

Poveri e ricchi

Se il defunto rom appartiene a una famiglia povera e poco autorevole le esequie saranno meno appariscenti di quelle di una famiglia ricca e potente, ma tutti, dovranno fare il possibile per rendere l’estremo saluto il più vistoso e lussuoso  possibile, secondo ovviamente i canoni estetici e del gusto dei rom che non sono necessariamente coincidenti con quelli nostri. Certo più un funerale è lussuoso e ricco, più dimostra il valore del morto e quello della famiglia, ma ciò è indipendente dal fatto che il morto appartenga o meno a qualche gruppo malavitoso e soprattutto dall’intenzione di inviare sfide e avvertimenti mafiosi. Sarebbero un’intrusione di interessi e finalità estranee al momento.

Funerale per i rom, non per i gagé

Il funerale è solo per il defunto e per i rom, non per i gagé. Che invece vi hanno letto, pregiudizialmente, intenzionalità che non c’erano  e si sono, per questo, scandalizzati e non vogliono credere che si possa avere una visione diversa della morte e del lutto, lontana da quella nostra corrente,  piagnona e lugubre. Tutto quel lusso e quell’ostentazione che definiamo, con supponenza da civilizzatori, kitsch,  non dovevano trasmettere un bel niente ai gagé, ma parlavano solo per i rom, dicevano la continuità della vita del morto in chi gli era legato affettivamente. Il lutto rom  è bere, fumare, mangiare per il morto, ascoltare la musica che amava, ma anche, al contrario, non radersi per un certo periodo di tempo, non mangiare più determinati cibi, magari per tutta la vita, non ascoltare più quella determinata canzone, ecc. per continuare a ricordarsi del morto. La morte e la vita sono troppo importanti per i rom, per mescolarli con segnali di potenza contro lo stato. Il fatto insomma che Vittorio Casamonica appartenesse o meno a un clan malavitoso non ha a che fare con queste esequie che sarebbero state egualmente “hollywoodiane”, anche se lui non avesse avuto questa fama negativa.

Solo i rom hanno accompagnato il feretro

I gagé presenti, se ce ne sono stati, devono essere stati pochi, perché in queste cerimonie non sono né ricercati né significativi per i rom. Si deve capire che con il funerale si entra in un territorio pericoloso, quello dei morti rom, un territorio da cui i gagé sono esclusi totalmente. I gagé morti non fanno paura, i rom morti sì e vanno trattati con cautela, e sono i rom vivi che devono farci i conti e regolare i loro rapporti col defunto. I gagé sono esclusi da questi rapporti. Vengano pure al funerale, se vogliono, ma non sono richiesti, non contano, non hanno alcun ruolo. Invece tutti i rom che hanno avuto rapporti col defunto, di parentela, di amicizia, di affari, devono necessariamente partecipare al funerale. Non bastano, come tra noi, una telefonata o un telegramma di condoglianze. Occorre essere presenti, se non si vuole mancare di rispetto verso chi è scomparso. E’ la conseguenza di quella concezione del rapporto vivi-morti a cui ho accennato prima. Anche chi è all’estero o vive lontano, se non ha impedimenti gravissimi, deve partecipare, nei modi più consoni alla circostanza e alle proprie possibilità. E se il defunto è un uomo ricco o autorevole, si cerca di partecipare ai funerali, in modo da non sfigurare. Succede anche tra noi, se veniamo invitati a una cena in casa di qualcuno che ha un livello sociale superiore al nostro, cerchiamo, se non altro di vestirci in modo consono, con abiti che normalmente non acquisteremmo né indosseremmo, ma che nella circostanza, ci sembrano dovuti. Il corteo di macchine di lusso, va letto in questi termini e sicuramente la maggior parte sarà stata anche presa a noleggio. Insomma, chi, rom, ha partecipato alle esequie di Vittorio Casamonica ci è andato in quanto rom e non perché appartenesse o meno a un gruppo malavitoso o, tanto meno, mafioso e si è mosso, ha agito, si è comportato in funzione del defunto, non per dimostrare che la mafia domina sullo Stato ed è impunita. E’ anche
poco credibile che si volessero  lanciare attraverso il funerale sfarzoso messaggi e minacce. Ci sono altri mezzi per lanciarli e altri tempi. Un clan malavitoso, di norma, non si esibisce mai così scopertamente e esageratamente, mettendoci in diretta le facce degli aderenti. E non si tirino fuori le processioni di Napoli e gli inchini davanti alle case dei capi agli arresti domiciliari, perchè sono altra cosa di cui si potrà discutere, eventualmente, in altra sede. I rom nelle loro manifestazioni pubbliche sono sempre eccessivi per i nostri metri di giudizio e possono, perciò, non piacerci, ma hanno tutto il diritto di celebrare funerali, matrimoni e nascite, matrimoni e compleanni  come meglio credono e noi non abbiamo nessun diritto di impedirglielo anche quando riguardino persone che dal punto di vista delle leggi, consideriamo disoneste.

Razzismo e ipocrisia politica

Mi sembra  razzista il fatto che al cognome Casamonica si associ in assoluto la qualifica di mafiosità. Ripeto la domanda già fatta: tutti i partecipanti al funerale erano malavitosi? Ci saranno i Casamonica disonesti, ma tra le centinaia di rom che hanno partecipato al funerale non si deve presumere che ce ne siano stati anche molti onesti? A meno, appunto, di non essere razzisti…  Ma, in questo caso, la pregiudiziale razzista l’ha fatta da padrone. Dalla convinzione che trattandosi di rom, il funerale serviva ad altri scopi, ovviamente criminali,  che non quelli di onorare il morto, al “sono tutti mafiosi”, al disprezzo supponente per la loro cultura e i loro modi di celebrare con ostentazione le esequie, ai sarcasmi sulla musica del Padrino, come se i rom dovessero ascoltare solo musica folkloristica e dai manouches non fosse uscito Django Reinardt e dai kalé  il flamenco o non abbiano ispirato la musica di Listz. I rom ascoltano musica di ogni genere, come noi, a seconda dei loro gusti personali. Il fatto che al funerale di Casamonica sia stato suonata la musica del Padrino, autorizza solo a pensare che gli piacesse questa colonna sonora. Durante il funerale e dopo, nei “”riti” rom, si fanno normalmente cose che piacevano al morto: se gli piaceva bere, si beve, se gli piaceva fumare, si fuma, se gli piaceva una determinata canzone la si canta e suona e se gli piaceva scherzare, si scherza. Tra Salvini che criminalizza tutti i rom e gli aulici e sarcastici commentatori preoccupati per i presunti messaggi mafiosi di un funerale rom, non c’è molta differenza, ma solo molta più ipocrisia, perchè le loro preoccupazioni non sono tanto le infiltrazioni mafiose, ma la contingenza politica dell’amministrazione di Roma.

Scandalismo sospetto

Mi sembra quindi che la veemenza e l’insofferenza intollerante con cui è stata affrontata la questione, a livello di comunicazione e mass media, debbano suscitare molti sospetti. Tutto sommato si trattava di una questione di poco conto, un funerale eccessivo (dove di leggi non ne sono state violate, se non per l’elicottero che avrebbe deviato dalla sua rotta e per questo è bene che paghi, assieme a tutti i responsabili istituzionali che non avevano previsto un’eventualità di questo genere)  che invece è assurto a simbolo della mafiosità e  della corruzione italiana, intasando giornali, televisioni e internet per giorni e giorni e su cui tutti sproloquiano come se i Casamonica fossero noti vicini di casa.  Si è chiesto il parere di tutti, cani e porci, ma a nessuno è venuto in mente di  chiedere il parere di qualche rom abruzzese, esperto di cultura rom e capace di spiegare come vadano interpretate le cose.  Eppure gli abruzzesi sono il gruppo di rom italiani che ha il maggior numero di intellettuali. Solo alle due di notte e dopo qualche giorno, ho sentito, in  tv, un passaggio di un’intervista a Santino Spinelli, intellettuale rom abruzzese (nato però a Pietrasanta), che chiariva che si era trattato di un funerale rom.

Unanimità nelle banalità perbeniste

Chi cerca di comprendere un avvenimento come questo, fuori dai luoghi comuni e non accetta supinamente quello che  gli ammanniscono i mass media, diventa uno che ha il contro in testa. Ci si può anche ridere sopra, ma tanto unanime accanimento, nelle banalità e nel ripetuto, è  sintomo  sconfortante di conformismo, di mancanza di senso critico e di disinteresse per quanto non rientra nei propri schemi abituali. E’ che di mezzo ci sono dei rom e quando si parla di rom prima scattano i pregiudizi e poi arrivano le giustificazioni dell’avversione per quello che sono e fanno o non fanno, (Lo sanno tutti che  i Casamonica sono mafiosi! Che lanciano avvertimenti e minacce alla stato. Che spacciano droga…

  Lo sanno tutti!

Lo sanno tutti che gli zingari sono tutti delinquenti, brutti, sporchi e cattivi, ladri, rapinatori di bambini e altro ancora. ecc.). I rom sono, da sempre, ottimi capri espiatori che riescono, loro malgrado, a far deviare l’attenzione dai veri problemi di un paese o di una città. Sono tanti, anche in questa provincia quelli che sull’avversione contro i rom e i loro campi, poca roba, si sono construiti un proprio esteso elettorato. La Lega con i rom ha cominciato, molti anni fa la propria storia di fortunata imprenditoria politica del razzismo. Insomma, non raccontiamoci balle, questo funerale è un pretesto per fare conti politici che non hanno a che fare né con i rom, né  con la malavita organizzata. Noto anche che non ho mai visto un eguale accanimento e sdegno  per la partecipazione di massa di politici, amministratori, uomini di cultura, imprenditori, finanzieri, ammiragli, generali ecc.,  ai funerali di uomini di potere che “lo sanno tutti che sono delinquenti, percettori di tangenti, corruttori, clientelari, ecc.” e che, stando ai criteri vietatori suggeriti, a seguito di questa vicenda di rom, dai benpensanti,  dovrebbero avere funerali senza nessun seguito, interdetti anche ai parenti di primo grado, a notte fonda e con l’inumazione delle loro spoglie sul ciglio di qualche strada fuori mano. E non vedo nessuna reazione  sdegnata  da parte di quanti si strappano i capelli alla vista del funerale rom, neanche per le manifestazioni che avvengono, in questi giorni (e da decenni) e con ben altre presenze di pubblico, a Predappio in onore del defunto Mussolini. Non hanno nulla da invidiare al funerale di Casamonica quanto a kitsch, ma costituiscono apologia di fascismo, violano apertamente le leggi esistenti e sono una sfida effettiva contro lo Stato, anche se, come è stato notato, nessuna delle anime così sensibili contro l’esuberanza ee gli eccessi dei rom, ha mosso paglia o chiesto le dimissioni del sindaco renziano di Predappio o del ministro degli interni. E non è di pessimo gusto anche il faraonico mausoleo che Berlusconi ha costruito a se stesso, anche se  opera di Cascella?     Se si vuole fare qualcosa contro il malcostume, la corruzione e le organizzazioni criminali che affliggono il nostro paese, mi sembra un grande spreco di energie, molta leghista per di più, questa indignazione così facile per un funerale dei sempre marginali rom, anche se per noi esagerato e lontano dalle nostre sensibilità. Gli imprenditori politici e le centrali operative della malavita stanno da altre parti, spesso proprio in quelle istituzioni governative e amministrative e in quei partiti, di cui tanti, che oggi si scandalizzano per questa vicenda, sono stati parte attiva per anni e anni, ricavandone lauti vantaggi economici, di carriera e altro e sapendo tutti bene come stavano le cose, mentre non sanno niente dei rom. 
Mafiosi 

La definizione di “mafiosi” attribuita ai Casamonica, in blocco, ha, di fatto,  generato molti equivoci e ha permesso di assimilare  Vittorio Casamonica a personaggi come i capi clan siciliani o camorristi, che inviano pizzini e vivono ricercati in catacombe sperdute e nascoste, in mezzo a immagini sacre e bibbie.  Di qui l’idea che Vittorio Casamonica, prima di morire si sia confessato e abbia ricevuto l’estrema unzione dal parroco della chiesa di don Bosco. E quindi la conclusione, che il parroco non potesse non sapere. Ma Casamonica non è Provenzano, i rom non appartengono alla mafia anche quando siano gravemente malavitosi, e i loro rapporti con la religione e la chiesa non sono quelli che si attribuiscono alla mafia. Non ne ho le prove  –  solo qualche riscontro, perchè  in queste cose sono sempre possibili ampi margini di scelte individuali e familiari -,  ma credo che Casamonica non sia mai stato un gran frequentatore di chiese e preti, di messe e liturgie, di confessioni e comunioni, o abbia mai avuto a che fare con libri e bibbie. I rom, in genere, non frequentano molto chiese e cerimonie religiose, salvo per due momenti fondamentali della vita, la nascita, perché viene richiesto il battesimo, per far uscire il neonato da uno stato di animalità, e la morte perché il funerale, per vari motivi, deve avere  un momento di presenza di gagé, amministratori del sacro. Gli altri aspetti e momenti della vita religiosa non li riguardano che marginalmente o per niente, anche se, tra gruppo e gruppo ci sono differenze notevoli. Con le dovute distinzioni, neanche i rom mussulmani, frequentano moschee, pregano e seguono le prescrizioni dell’Islam. Il sacro, che per i rom è uno solo  cristiano e musulmano non fa differenza, appartiene ai gagé e si fa ricorso a preti e  imam, quasi esclusivamente in questi due momenti essenziali. Ci sono anche altri motivi, meno cruciali per farci ricorso; la malatia, la carcerazione, le liti, la richiesta di grazie e miracoli, ecc., implicano altre forme di intervento del sacro gagiò, ma non necessariamente  di preti e imam; non è però il caso di parlarne qui. Se Vittorio Casamonica si fosse confessato in punto di morte, avesse avuto l’estrema unzione, o avesse comunque avuto rapporti religiosi significativi e continui con un sacerdote della “sua” parrocchia, non si spiegherebbe l’assenza di questi alla messa funebre.  La celebrazione del funerale di Vittorio Casamonica, in una chiesa diversa e fuori dalla parrocchia di appartenenza, perchè troppo piccola per accogliere i partecipanti previsti, può essere ragionevole, ma se il parroco della sua parrocchia non ha partecipato ai funerali, vuol dire che i Casamonica non avevano molti rapporti con lui, non erano parrocchiani praticanti.

Il parroco del funerale

Del parroco della Chiesa di Don Bosco, teatro del funerale, non sono molte le notizie date dai mass media, ma è da escludere che abbia assistito religiosamente Vittorio Casamonica, nel suo trapasso o nel suo lungo periodo di malatia. I Casamonica gli hanno chiesto la messa funebre e i riti finali per un loro congiunto, perchè avevano bisogno di una chiesa più grande di quella della “loro” parrocchia  e lui ha accettato, come è suo dovere pastorale. Quando morì un giovane sinto di cui si svolse il funerale ad Avenza, il mio paese, fui io col padre del giovane ad andare dal parroco a chiedergli il rito funebre in chiesa. Lui si dichiarò disponibile pur non conoscendo né il morto né la sua famiglia, anche se appartenevano nominalmente alla sua parrocchia  e non ci chiese informazioni sui trascorsi del defunto e neanche se fosse “zingaro”, anche se probabilmente lo capì. Gli venivano chieste  preghiere e liturgie, che per la chiesa, sono valide sempre e per chiunque, santo o peccatore che sia e non poteva certo sapere che quel funerale sarebbe stato molto diverso e che sarebbe finito sulla stampa e rimasto, positivamente, nella memoria di tanti. Eppure, fatte le debite differenze quantitative, fu un funerale esorbitante anche quello, tutto di rom, con musiche non rom e non sacre e tanto di spargimento di fiori, un vero tappeto di fiori, lungo tutto il percorso dalla chiesa al cimitero. Penso che il parroco che ha celebrato i funerali di Casamonica si sia egualmente messo a disposizione senza fare domande che non gli competevano. Gli si chiedeva un funerale cattolico e, visto che nulla risultava ostare, lo ha celebrato. Per tutti i funerali di sinti e rom cattolici, ma anche per i mussulmani a cui ho assistito, ho sempre riscontrato che alla chiesa o all’imam è stato chiesto solo questo: le preghiere  e i riti specifici dei defunti, messa e benedizione o recitazione del Corano, in presenza della bara. Non ho mai visto il parroco o l’imam chiedere informazioni sul defunto anche se  non conoscevano  affatto i richiedenti o il defunto. E’ la situazione abituale, perché i rom non frequentano i luoghi sacri e gli uomini del sacro. Può anche essere che il parroco  della chiesa di don Bosco, sentendo il nome di Casamonica, abbia pensato alla famiglia, ma non era certo suo compito indagare se questo funerale potesse  rappresentare un pericolo per l’ordine pubblico e non credo neanche che ci abbia pensato. Probabilmente non aveva mai avuto a che fare con i rom e con i loro funerali, come la maggior parte dei preti, degli imam e della gente. Avrà pensato alla solita messa dei morti e alla benedizione della bara. E credo che in chiesa sia avvenuto solo questo, perchè ai rom non interessa quello che avviene in chiesa, se non perchè lo giudicano un rito essenziale per i loro rapporti col morto, ma è un rito che funziona senza la loro partecipazione attiva e perfino senza la loro presenza. Ho assistito a funerali di rom mussulmani dove un imam marocchino, recitava il Corano in arabo senza nessuna spiegazione e senza che nessuno dei pochissimi presenti capisse una sola parola o un solo gesto. Il vero funerale rom, molto più affollato, si sarebbe svolto al campo, in più tempi successivi, con il “rito” rom della “pomana” e il rogo dei beni del defunto (cosa che certo non è avvenuta per quelli di Casamonica). Per questo,  a questa parte del funerale, quella che si svolge in chiesa, partecipano pochi rom, per lo più donne con bambini. La maggior parte degli uomini resta fuori, in attesa che esca la bara e cominci il vero funerale, quello gestito dai rom.  Di fatto i rom vivono qualsiasi cerimonia religiosa in chiesa, anche quando siano in pochissimi, a modo loro. Sanno di non essere in un territorio proprio, il sacro, si è detto,  appartiene ai “gagé” , ma se ne riappropriano, portandoci dentro la loro cultura altra, per noi dissacratoria o maleducati, e i loro modi e tempi di vita quotidiana: in chiesa ai bambini si lascia fare tutto quello che vogliono, vengono alimentati, sgridati ad alta voce, rincorsi se si allontanano, allattati se necessario, ma anche gli adulti si dissetano durante il rito, masticano chewingum, parlano tra di loro, scherzano e, per fumare, si alzano dal banco ed escono dalla chiesa, facendo avanti e indietro tra dentro e fuori. Sono il segno che il loro rapporto col morto è ancora attivo, normale e che si chiuderà in modo però sempre incompleto, con le cerimonie religiose “ufficiali” e dopo con il lungo periodo delle  pomane. Il sacro, la cerimonia religiosa deve esserci, perchè così si è sempre fatto, è quindi qualcosa di utile, ma è qualcosa che deve fare il prete.  Quello che avviene fuori della chiesa è invece totalmente rom, è lì e nel corteo  che avviene la loro vera cerimonia funebre e lì, la chiesa o l’imam  non ha voce in capitolo. Penso proprio che il parroco, non avesse idea che il vero funerale si sarebbe svolto  dopo la messa e l’uscita di chiesa, con la musica, l’elicottero che spargeva petali di rose, gli striscioni che proclamavano Casamonica re e papa di Roma, le acclamazioni dei presenti, le roll royce e tutte le altre forme di esibizionismo e ostentazione che ci saranno state fino all’inumazione. Non è questione di cattivo gusto, ma gli striscioni con il defunto proclamato re e papa, hanno un riscontro nei funerali degli infiniti “re e regione degli zingari” di cui leggiamo  continuamente sui giornali.  Di fatto “re e regine degli zingari” non esistono. In passato, quando i rom erano ancora in gran parte nomadi, se moriva uno o una  di loro, di vecchiaia, autorevole, con una grande famiglia e parentela, si radunavano per i suoi funerali a volte in centinaia. Per avere il permesso di accamparsi e soggiornare per un po’nel luogo dove era avvenuto il trapasso, (ma il raduno dei parenti e amici avveniva già  prima, durante il periodo di malattia che precedeva la morte, proprio nel tentativo di scongiurarla),  senza venir disturbati dalle forze dell’ordine, veniva diffusa la notizia che  si trattava del periodo di lutto necessario per le esequie del re o della regina degli zingari. E anche ora che la mobilità è facile, e molti rom sono diventati sedentari e non hanno più roulotte e furgoni,  e c’è meno bisogno di accamparsi per un funerale, finisce che il titolo di re o regina venga egualmente tirato fuori per dare lustro al defunto, per dire quanto era autorevole; da pretesto per sostare, a metafora per onorare. Si è anche scritto che il parroco, anche se non sapeva prima, di Casamonica, avrebbe dovuto prendere le distanze dagli avvenimenti almeno dopo il funerale. A che titolo? Se fosse stata una manifestazione mafiosa, forse sì, ma non lo era e ha fatto bene  a dire che l’avrebbe rifatto. Dopo tutto il “non giudicare”, vale anche per queste circostanze. In questo è stato più libero lui di tutti i benpensanti di destra e di sinistra che si sono scandalizzati del funerale rom, magari contrapponendolo moralisticamente alla vicenda di Welby. Ma qui Welby non c’entra niente: l’errore è stato, a suo tempo, quello di negargli i funerali in quella chiesa,  non di averla concessa per il rom Casamonica. E’ anche grave che si utilizzi il ricordo di Welby, un ricordo che appartiene ai democratici e alle sinistre, per sputtanare, anche da sinistra, i rom, perché se si dice “E’ una vergogna: avete negato la chiesa per il funerale di Welby e l’avete concessa ai Casamonica”, ancora una volta si avalla la discriminazione abituale nei confronti dei rom, tutti delinquenti da lasciare fuori anche dalla Chiesa.