onore e auguri a don Ciotti

don Luigi Ciotti compie 70 anni

ritratto in chiaroscuro di un sacerdote pop (critiche comprese)

 

CIOTTI

A un certo punto pensarono che volessero farlo ministro

 

Era marzo 2013 e gli italiani stavano scoprendo le consultazioni in streaming con Pier Luigi Bersani e la delegazione dei 5 stelle. Altra vita, altri tempi. Ma Don Luigi Ciotti, che oggi compie 70 anni, ha camminato lungo tutti i corridoi e tutti i marciapiedi, attraversando tutte le campagne liberate dalla mafia e poi abbracciando prima papa Woitjla, poi papa Ratzinger e infine papa Francesco, un giorno ricevendo la medaglia dell’Accademia dei Lincei o l’onorificenza di Cavaliere e il giorno dopo stringendo la mano ai tossicodipendenti di Torino oppure mescolandosi come una persona qualsiasi al corteo funebre per i ragazzi bruciati vivi della Thyssenkrupp, le lacrime agli occhi.

Ecco perché, vedendolo uscire da palazzo Chigi quel giorno di marzo, il cronista dell’Ansa volle chiedere se davvero avrebbe fatto parte – lui, un prete – del nuovo governo Bersani. Non era una ipotesi peregrina: Don Ciotti è uno dei volti pop dell’impegno italiano. Pop nel senso letterale, popolare e conosciuto, per niente frivolo ma flessibile, come un tempo Margherita Hack e ancora oggi Andrea Camilleri, venerati e carismatici e indispensabili per lanciare gli appelli della società civile, tanto più che questo sacerdote di origini calabresi ma naturalizzato torinese ha fondato due pilastri del terzo settore italiano, il Gruppo Abele e Libera.

Insomma quel giorno, vestito come è sempre solito abbigliarsi e cioè in abiti che sembrano riciclati, il maglione sdrucito e i pantaloni da operaio, Don Ciotti rispose che no, non avrebbe fatto il ministro: “‘E’ da 42 anni che sono ministro della Chiesa, poi faccio altro e volentieri collaboro a percorsi comuni nella lotta alle mafie”.

“Faccio altro”. Don Ciotti fa tantissimo. Nell’immaginario collettivo è un prete di sinistra, ma non estremo come lo era don Andrea Gallo – non ne possiede l’ironia e non è un gaudente. Non sposa gli omosessuali, non si fa fotografare con le transessuali. Quando non partecipa alle marce antimafia in Sicilia e in Calabria a fianco dei Borsellino e dei famigliari di vittime della criminalità organizzata, quando non è invitato a parlare nelle scuole dove ai ragazzi augura di ricevere “la dolce pedata di Dio” – una delle ultime volte, nella Locride, in classe ha rivelato inaspettatamente un dettaglio mai divulgato prima, il fatto che la madre gli morì tra le braccia dopo aver scoperto che qualcuno voleva ucciderlo sul pianerottolo di casa – ecco, quando non è assorbito dagli impegni più vicini abbraccia volentieri le iniziative a favore della Costituzione con Gustavo Zagrebelski, Antonio Ingroia, Stefano Rodotà e Maurizio Landini, poiché la sua stella polare è la difesa della legalità, del lavoro dei giudici, e certamente è stato uno degli esponenti meno visibili dell’antiberlusconismo.

Con Libera, l’associazione antimafia fondata nel 1995 sull’onda dell’indignazione per l’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Don Ciotti è uscito dal perimetro torinese per allargare l’impegno sociale al resto d’Italia, specialmente il Sud. Geniale l’intuizione, poi diventata legge proprio per impulso di Libera, di destinare i beni confiscati alla mafia ai giovani e alle associazioni pronte a utilizzare quelle terre e quegli edifici in coltivazioni e luoghi buoni, onesti.

Ma è il Gruppo Abele, nato nel 1965, il fulcro dell’impegno di don Luigi: Abele che aiuta Caino, il tossico, la prostituta, “no ai cristiani da salotto”, una piccola associazione che per prima aprì in Italia uno sportello per aiutare le vittime della droga e poco a poco si è ramificata, è diventata casa editrice di libri e riviste, ha partorito le cooperative di Consorzio Abele Lavoro, si è annidata nel cuore della Torino che conta, il nome che Cesare Previti scelse per scontare la pena ai servizi sociali.

Pluripremiato, plurilaureato ad honorem, diviso tra terra e cielo come recita il titolo di uno dei suoi libri, a don Ciotti non poteva capitare niente di peggio che un libro-denuncia scritto da un giornalista rispettato come Luca Rastello, morto recentemente, torinese come il Gruppo Abele, ex collaboratore di don Ciotti che al Gruppo Abele sembra essersi ispirato per “I buoni” (Chiarelettere, 2014).

Ne “I buoni”, che poi sono i cattivi, un personaggio molto simile a Don Ciotti governa attraverso un cerchio magico intoccabile una associazione che si occupa di emarginati ma con estremo pressapochismo e senza preoccuparsi dei diritti degli operatori che ci lavorano, con finanziamenti non proprio chiari. Nella Torino che un giorno vorrebbe immaginarsi senza Fiat e senza don Ciotti come tratto caratteristico, si racconta che nel Gruppo Abele il libro di Rastello non sia stato gradito ma che, allo stesso tempo, molti abbiano riconosciuto le voragini e ai cronisti basta alzare il telefono per trovare numerosi ex operatori ed ex collaboratori pronti a giurare che Rastello ha scritto soltanto la verità.

Non è un caso che a dieci giorni dal temutissimo arrivo nelle librerie il fondatore di Libera abbia detto pubblicamente che sì, in effetti nell’associazione qualche criticità c’era. Ma in quella occasione a difendere l’onorabilità del sacerdote ormai torinese scesero in campo due pesi massimi – e ugualmente intoccabili – del Pantheon dei buoni italiani e cioè Gian Carlo Caselli e Nando Dalla Chiesa, amici da sempre di don Luigi, che dalle colonne del Fatto quotidiano scrissero che il libro di Rastello è volgare e pieno di risentimento privato.

Dopo quella querelle il povero Rastello è morto lanciando una sorta di maledizione ai finti buoni, che poi è una categoria universale e quasi intrinseca delle divinità italiane: di qua i guru della sinistra che attirano schiere di ammiratori e gente di grande fede destinata alla delusione perpetua o alla illusione psicotica (papa Francesco sembra fare eccezione, tra gli altri), di là i malvagi delle multinazionali e del pensiero differente. In fondo il libro di Luca Rastello ha dimostrato che don Ciotti resiste alla santificazione che invece è propria di quasi tutti i rappresentanti della moralità e della bontà in Italia – molti dei nomi dei santificati sono stati disseminati in questo articolo – e di questo il fondatore del Gruppo Abele dovrebbe essere alla fine molto grato.