l’ultimo messaggio di fratel Arturo

TESTAMENTO SPIRITUALE DI ARTURO PAOLI

Paoli A. sacerdote e piccolo fratello del vangelo

    (al termine, il video del suo funerale)

sono tre paginette, dattiloscritte, redatte il 22 giugno 2011 con una postilla sul luogo della sua sepoltura che risale al 31 dicembre di quello stesso anno. Nel testo fratel Arturo ribadisce che la Chiesa alla quale si sente di appartenere è quella del Concilio Vaticano II e a proposito dei due papi succeduti a Paolo VI (sicuramente si riferisce a Wojtyla e Ratzinger, non a Luciani) scrive che «sicuramente sono incorsi nel rimprovero-lamento espresso da Gesù in Mt 16 e in Lc 12, sui segni dei tempi».
 

Nella domenica della Santissima Trinità 11 giugno 2011 dopo aver celebrata la messa nella chiesa di san Martino in Vignale ed aver predicato l’omelia seguita devotamente da una folta Comu-

nità, testimone della mia normale facoltà mentale, comincio a stendere il mio testamento spirituale.

Comincio con l’ esprimere la mia gratitudíne all”Arcivescovo mons. Italo Castellani che mi ha accolto e concesso ospitalità nella splendida residenza di san Martino, il cui parroco, don Lucio Malanca ha atteso ai miei bisogni come un fratello amoroso. ringrazio il padre celeste del dono delle amicizie che hanno reso ovunque lieta la mia esistenza e consolato negli inevitabili contrasti.

Ricordo prima degli altri i fratelli della mia famiglia religiosa (beato Ch. de Foucauld).

Ho spesso ricordato le lacerazioni del cuore, le giornate di distacchi, quelle che il beato Carlo chiama l’éloignement (la lontananza)

Parecchi giovani mi sono vicini in questa tappa della mia esiste fra cui il mio compagno di contubemia (convivenza) Tommaso Centoni che ricordo qui con particolare gratitudine.

La vera ragione di stendere questo testamento spirituale nasce dal fatto di sentire nella grande comunità-chiesa amore e rifiuto, stima e riserva. E ho pensato che questo avesse dei motivi giusti e inevitabili.

Se mi si chiedesse a quale Chiesa appartengo direi, senza esitazioni, è quella del Concilio Vaticano II, a quella della Lumen Gentium, della Gaudium et Spes e confesso, senza tortuose ipocrisie, che penso che i due pontefici succeduti a Paolo VI sono incorsi nel rimprovero-lamento espresso da Gesù in Mt 16 e in Lc 12, sui segni dei tempi.

Credo fermamente che GESU’ sia misericordioso non solo perché lancia un salvagente all’anima che sta per naufragare nella condanna eterna ma anche e soprattutto per la sua decisione, suggerita dal sua amore infinito, di fare di ogni creatura umana, direttamente o anche a sua insaputa, un partecipe al suo progetto di amorizzare il mondo.

Abbiamo motivo di credere che una lagrimetta finale ci salverà dall’inferno. Ma i veri cristiani. sono quelli che fanno quanto possono per portare frutto “Io sono la vite e voi i tralci”. Questo e solo questo è il nostro Salvatore.

Chiedo a lutti, parenti e amici che ho teneramente amato sulla terra, di pregare il Salvatore che mi accolga fra gli eletti. Ma vorrei dire a lutti coloro che mi ricordano che non dimentichino mai che il nostro luogo di nascita si professa cristiano-cattolico ma presentemente noi facciamo parte di un sistema politico il più antievangelico immaginabile. Penso spesso a un bella preghiera al Padre “Tu apri la tua mano e riempi ogni essere di ogni bene”.

Oggi per essere veri cristiani dovremmo pregare:

“Non guardare Signore

Mentre riempio di pane il cassonetto dei rifiuti;

mentre i nostri fratelli ci chiedono ospitalità noi preghiamo:

‘liberaci dai nemici che vengono a turbare la nostra pace’”

Forse il solo vantaggio di vivere in questa terra opulenta sarà quello di essere convinti di essere incapaci: “sono un servo inutile”.

Nel caso cadessi ammalato, come preludio della mia morte, chi è vicino mi suggerisca questo ritornello ‘sono un servitore inutile’. Sul problema del mio cadavere non ho nessuna disposizione da dare. Mi attira il cimiterino di san Martino in Vignale ma lasciatelo decidere a chi se ne occupa.

Lucca s. Martino in Vigilale 22 giugno 2011

Fratel Arturo Paoli

 

Aggiunta del 31 dicembre 2011

Oggi martedì 13 dicembre 2.011 festa di santa Lucia nel pieno delle facoltà mentali unisco al mio testamento la seguente disposizione. Nell’evento della mia morte dispongo la mia ultima volontà che la mia salma venga interrata nel piccolo cimitero adiacente alla chiesa di san Mastino in Vignale (alla sua destra verso levante) con una semplice targa.

sac. Arturo Paoli

PICCOLO fratello del Vangelo

Nato 30 .11. 1912

Morto 13 . 07 . 2015

Exultabunt in Christo ossa humiliata

 

Arturo Paoli

 

 

 




L. Boff ricorda A. Paoli

ci ha lasciato l’uomo che sempre attendeva l’avvento di Dio

nella notte tra il 12 e il 13 luglio ci ha lasciati fratel Arturo Paoli, il piccolo fratello di Charles de Foucauld che il prossimo 30 novembre avrebbe compiuto 103 anni.

Tra i ricordi che in tanti hanno voluto dedicargli in questi giorni ho scelto  Leonardo Boff

 


Ha fatto di tutto nella sua vita. Da giovane fu ateo e marxista. Ma improvvisamente si convertì. Venne ordinato prete durante la guerra. Poi entrò nella Resistenza contro i nazisti. Nel 1949 diventò vice assistente nazionale della Gioventù cattolica. Ma le sue posizioni non piacquero allo status quo ecclesiastico e così venne incaricato di imbarcarsi come cappellano in una nave di emigranti italiani in Argentina. Durante il viaggio di ritorno incontrò un piccolo fratello di Gesù, seguace di Charles de Foucault, il cui carisma è quello di vivere tra i più poveri. Visse il periodo di noviziato in Algeria, nel deserto, ed entrò nella lotta di liberazione contro la dominazione francese. Venne mandato poi in Argentina dove lavorò per anni con i boscaioli. Andò nel Cile di Pinochet. Ma il suo nome comparve presto nella lista degli obiettivi da eliminare: “chi incontra uno di questi, può ucciderlo”. Trascorse un po’ di tempo in Venezuela, ma finì per insediarsi in Brasile, a Foz do Iguaçu, dove diede vita a varie iniziative a favore dei poveri, tra cui una cooperativa di produzione e commercializzazione di erbe medicinali, un’azienda agricola per giovani emarginati e altri progetti popolari che proseguono anche oggi.

Ha ricevuto molti riconoscimenti, quasi sempre rifiutati. Ma il più importante fu quello del 29 novembre del 1999 a Brasilia, quando l’ambasciatore israeliano gli conferì il riconoscimento più importante per i non ebrei, quello di “Giusto tra le Nazioni”. Durante la guerra aveva creato con altri una rete clandestina che aveva salvato 800 ebrei.

Si fece monaco senza uscire dal mondo, restando sempre nel mondo di coloro che sono spezzati e umiliati. Tutto il suo tempo libero lo dedicava alla preghiera e alla meditazione. Durante il giorno recitava mantra e invocazioni. È stata una delle figure più impressionanti passate nella mia vita, dotato di una retorica in grado di resuscitare i morti. Eravamo amici-fratelli.

Aveva un suo modo singolare di pregare. Fu lui a raccontarmelo. Pensava: se Dio si incarnò in Gesù, allora fu come noi: faceva la pipì e la cacca, piagnucolava per avere il latte, faceva smorfie quando qualcosa lo infastidiva come il pannolino bagnato. All’inizio, pensava, Gesù dovrà aver amato di più Maria, poi dovrà aver amato di più Giuseppe, tutte cose che Freud e Winnicott ci hanno spiegato. Ed è cresciuto come i nostri bambini, giocando con le formiche, correndo dietro i cagnolini e rubando frutta nel cortile del vicino.

Questo strano mistico pregava Nostra Signora immaginando come cullava Gesù, come lavava i pannolini sporchi e come cucinava la pappa per il Bambino e i piatti per il marito carpentiere, il buon Giuseppe. E si rallegrava interiormente con tali immagini perché così doveva essere pensata l’incarnazione del Figlio di Dio, nella linea di papa Francesco, non come fredda dottrina, ma come fatto concreto. Sentiva e viveva queste cose con il cuore. E spesso piangeva di gioia spirituale.

Dovunque andasse, creava sempre intorno a sé una piccola comunità nella più povera favela della città. Aveva pochi discepoli. Giusto tre, che finivano per andarsene tutti. Ritenevano troppo dura quella vita, e dovevano anche meditare durante il giorno, a lavoro, in strada, in visita alle baracche più fatiscenti.

Si unì allora a una parrocchia che faceva lavoro popolare. Lavorava con i senza terra e con i senza tetto. Coraggioso, organizzava manifestazioni pubbliche di fronte al Comune e spingeva ad occupare terre improduttive. E quando i senza terra e i senza tetto riuscivano a insediarsi, preparava belle “mistiche” ecumeniche come fa sempre il MST.

Ma tutti i giorni, intorno alle 10 di notte, si nascondeva nella chiesa buia. Solo un lume lanciava tremuli lampi di luce, trasformando le statue morte in fantasmi e le colonne in strane streghe. E là restava fino a tardi. Tutte le notti. Impassibile, gli occhi fissi sul tabernacolo.

Un giorno andai a cercarlo in chiesa. Gli domandai a bruciapelo: «Fratel Arturo, tu lo senti Dio, quando, dopo il lavoro, ti metti a pregare qui in chiesa?».

Con tutta tranquillità, come chi si sveglia da un sonno profondo, disse solo: «Io non sento niente. È da molto che non ascolto la sua voce. Un giorno la sentivo. Era meraviglioso. Riempiva i miei giorni di musica e di luce. Oggi non sento più niente. Soffro dell’oscurità. Forse Dio non vuole parlarmi mai più».

E allora, replicai: «Perché resti tutte le notti lì nella sacra oscurità della chiesa?». «Resto – rispose – perché voglio essere sempre disponibile. Se Egli volesse manifestarsi, uscire dal suo Silenzio e parlare, io sto qui in ascolto. E se volesse parlare e io non stessi qui? Perché, ogni volta, viene solo un’unica volta. Come prima».

Tanta disponibilità mi ha meravigliato e fatto riflettere. È grazie a queste persone, questi anonimi mistici, che la Casa Comune, secondo quanto dice papa Francesco, non è distrutta e Dio mantiene la sua misericordia sull’umana malvagità.

Queste persone vegliano e attendono, contro ogni speranza, l’avvento di Dio che forse non avverrà mai. Ma sono i parafulmini divini che raccolgono la grazia che, silenziosamente, si diffonde per l’universo e fa sì che Dio continui a donarci il sole e tutte le stelle e penetri a fondo nel cuore di tutti coloro che vivono nella Casa Comune. E se Dio apparirà ci saranno persone disponibili ad ascoltarlo. E piangeranno di gioia.

Il suo nome è Arturo Paoli, che a 102 anni è andato a vedere e ad ascoltare Dio il 13 luglio 2015, dove viveva a San Martino in Vignale, nelle colline di Lucca.




basta limitarsi a contare i morti!

A COLLOQUIO CON L’ARCIVESCOVO DI AGRIGENTO, IL CARD. FRANCESCO MONTENEGRO

“Non posso continuare a contare i morti”

Giovanni Ruggeri

 

foto premio migranti

Un ordine mondiale ingiusto ha saputo produrre oltre 200 milioni di esseri umani in fuga. I poveri si sono stancati di essere poveri. Quanto all’immigrazione, è il perdurare di una mentalità colonialista che sta alla base delle inadempienze dell’Europa. L’isola di Lampedusa e i suoi abitanti sono un pezzo di un mondo nuovo. Una Chiesa che guarda avanti.

Tra il gravoso assillo dell’emergenza e l’inderogabile necessità di governare un fenomeno strutturale, il tema dell’immigrazione si va imponendo agli organi di governo nazionali e internazionali con un’urgenza prima d’ora sconosciuta. Fronti di impatto locale e implicazioni di portata sovranazionale premono su un’Unione Europea finora latitante, urgendo più adeguate soluzioni tra laltro nella gestione dei richiedenti asilo provenienti da paesi extraeuropei: obiettivo è la modifica delle disposizioni previste dal regolamento Dublino III, al fine di estendere oltre il paese d’arrivo il riconoscimento dello statuto di rifugiato e ridistribuire sull’intero territorio europeo quanti sbarcano sulle coste italiane (o arrivano per altre vie in Germania e Svezia, i tre paesi con la maggior concentrazione di rifugiati). Solo ultimamente, grazie all’impegno del presidente della Commissione europea J.C. Juncker e dell’Alto rappresentante della politica estera europea Federica Mogherini, si è arrivati ad approvare l’Agenda Immigrazione 2015-2020, che introduce la distribuzione obbligatoria dei profughi fra gli stati membri dell’UE, anche se taluni si mostrano riluttanti. Così, un peso e una responsabilità che finora sono stati quasi esclusivamente italiani, dovrebbero diventare europei.

Sui nodi di fondo e sulle prospettive più urgenti di questi temi si concentra l’intervista con il card. Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento diocesi cui appartiene Lampedusa , presidente della Commissione CEI per le migrazioni e membro del Pontificio consiglio per la pastorale dei migranti.

Eminenza, il fenomeno migratorio sta urlando quel che si è sempre saputo: il 20% del pianeta vive con l’80% delle risorse, lasciando il residuo 20% ad un 80% sempre più affamato. Nessun facile moralismo è però consentito, poiché l’intero sistema economico mondiale si regge su tale discrepanza, secondo alcuni tecnicamente non riformabile. Dobbiamo aspettarci una conflagrazione mondiale entro dieci-venti anni o è invece ipotizzabile una riforma globale?

Il fatto stesso che alcuni popoli si stiano spostando ci dice che il mondo sta cambiando: i poveri si sono stancati di essere poveri, di essere trattati da poveri e che si voglia che rimangano poveri. Vogliono riscattarsi, e questo tanto più se si considera che molte delle nazioni dalle quali partono sono quelle che ci assicurano tutte quelle materie prime (sopra o sotto terra) grazie alle quali esiste per noi il progresso ma per loro che ne sono esclusi il regresso. Io non ritengo possibile la fine di questo esodo: pare che nel mondo ci siano 230-250 milioni di emigranti, da qualcuno denominati «il sesto continente».

Le migrazioni non sono il male, bensì il segnale di un male più profondo: noi ci stiamo spaventando per il loro accadere, eppure avremmo dovuto esservi preparati, perché già dagli anni 50 si prevedeva un esodo di proporzioni bibliche, cui nessuno ha però voluto prestare attenzione.

Quale futuro ci si prospetta? Non possiamo affidarlo al destino: il futuro lo costruiamo noi, ma, se continuiamo a fare come lo struzzo, fingendo di non vedere, di sicuro andiamo verso il peggio. Se, invece, prendiamo coscienza delle grandi ingiustizie esistenti, se ci rendiamo conto che la nostra è solo una civiltà tra le altre e che l’incontro tra i popoli è una necessità, allora possiamo tentare di governare insieme a questi popoli un tale esodo, senza esserne travolti.

Al netto di ogni lodevole proposito, lei si rende conto che immaginare una riforma globale, specie del Nord del mondo, implica una rivoluzione sul piano dei sistemi di produzione, delle strutture economiche, del governo delle società e degli stili di vita?

Certo! Dovremmo abbandonare la mentalità da colonizzatori e smetterla di sfruttare questa gente! Una certa rivoluzione noi l’abbiamo già iniziata, ma ci rendiamo conto che non sta portando buoni risultati: parliamo di globalizzazione e del mondo come di un unico grande villaggio, però poi cadiamo in contraddizione perché, dopo aver messo il profitto al primo posto, stabiliamo che merci e denaro possiamo spostarli, in quanto rendono, mentre le persone debbono assolutamente rimanere a casa loro. Se il risultato di ciò sono 230 milioni di persone che si spostano, è evidente che tale rivoluzione non sta riuscendo.

Rivoluzione per rivoluzione, tentiamone un’altra: papa Benedetto XVI ha avuto il coraggio, nell’enciclica sociale Caritas in veritate, di inserire la parola gratuità. Per noi l’economia è sommare o sottrarre, non c’è posto per la gratuità: il papa, invece, la inserisce e questo indica che il sistema deve cambiare. È una rivoluzione, ci costerà, ma quel che avviene oggi non ci sta costando caro? È ormai evidente a tutti che l’egoismo è ciò che regna nella nostra Europa, dove la vera preoccupazione non concerne la solidarietà ma il profitto: l’altro è sempre sotto di me, io sempre nella posizione di chi deve guadagnare.

Questo giochetto Abbiamo bisogno di rileggere la storia e le nostre scelte. Si obietterà che, in questo modo, bisogna mettere tutto sottosopra: di fatto, ci troviamo già in un sottosopra che non riusciamo a governare.

Gli organismi di governo sovranazionali e nazionali sono consapevoli, attrezzati e disponibili in ordine a questo cambiamento radicale?

Attrezzati non credo, altrimenti avrebbero tirato fuori gli attrezzi; consapevoli, mi pare strano che possano non esserlo, visto quanto sta accadendo; disponibili, solo se la si smette di calcolare quanto ci si mette in tasca. Qualche tempo fa, il Fondo monetario internazionale ha detto che, nel mondo, ci sono un miliardo e 300 milioni di esuberi, quasi a lasciar intendere che, se tanta gente morisse, ci farebbe un favore. E, mentre l’ONU ha atteso tanto tempo prima di far sentire la sua voce, l’Europa che si vanta di essere unita è solo la somma di tanti egoismi messi insieme.

Sono andato sia a Strasburgo che a Bruxelles e mi è stato detto: se si parla di denaro, in qualche modo possiamo intenderci; ma se parliamo di uomini, allora dovremmo pensare in 27 alla stessa maniera, e lei comprende quanto tempo ci vorrà! Per ora stiamo solo contando i morti: ci emozioniamo davanti ai cadaveri, ma continuiamo la nostra storia passando su di loro. Che civiltà è quella in cui conta il più forte?

Dove sta sbagliando l’Europa e cosa è urgente fare?

L’Europa guarda ai poveri che migrano come se fosse un’altra storia, senza voler invece riconoscere che, alle radici di tale storia, ci siamo noi con le nostre colonizzazioni. Molti governi europei sostengono governi di paesi di partenza che non sono né legali né trasparenti: si interviene solo quando c’è qualcosa da guadagnarci (petrolio, diamanti…). L’Europa deve rendersi conto di essere immersa fino al collo nella storia passata e recente di questi popoli, anziché continuare a stare sugli spalti come duemila anni fa al Colosseo, con in campo uomini che combattono per sopravvivere. Occorre chiedersi quale futuro si vuole e che cosa significhino convivenza e solidarietà, perché dichiarazioni e fatti dei nostri giorni stanno causando solo una maggiore frantumazione di quella finta solidità che certe nazioni avevano.

Io non sono un tecnico e non sono in grado di indicare le soluzioni: i tecnici ci sono, hanno le competenze necessarie, che studino! Mio compito è ricordare una realtà che i tecnici non vogliono ma devono guardare, perché io non posso continuare a contare morti!

«Lampedusa è il simbolo della fallimentare politica in tema di immigrazione portata avanti nel nostro paese», ha dichiarato lei tempo fa. Come tradurre questa denuncia in una proposta ai dirigenti politici italiani?

Cerchiamo di comprendere cosa voglia dire accoglienza: ti salvo dal mare, ti metto sulla terraferma, e poi? Passata l’emergenza, viene il momento di riflettere sul “poi”. Certamente l’Italia non può gestire da sola questo flusso: se i confini europei sono unici, bisogna intervenire unitariamente. Ma ci sono errori grossolani che non si possono commettere, come invece ancora accade, ad esempio, con le lungaggini per il riconoscimento dello status di profugo: è ovvio che tutti quei giovani che stanno per mesi e mesi alloggiati in case e alberghi a far nulla, prima o poi si incattiviscono vogliamo forse creare ad arte la sindrome della paura? E che dire dei ricongiungimenti, del problema dei minori e dei tanti che scompaiono?

«Caritas sine modo: amore senza limiti» è il motto che lei scelse all’inizio del suo episcopato. Dopo tanti anni di lavoro con poveri e migranti, come sente oggi quelle parole?

Ho tratto quel motto da un libro di mons. Tonino Bello a coloro che la rimproveravano di portare un bambino in simili posti che, facendolo per il Signore, non mi sarebbe accaduto nulla di male.

Sin dai primi anni di sacerdozio, mi sono dovuto interessare di una casa di disabili e, da allora, mi sono sempre ritrovato in servizio per i poveri, prima alla Caritas e poi ai migranti. Anche recentemente, quando sono stato fatto cardinale, la chiesa che mi è stata consegnata a Roma si trova dove ci sono suore di madre Teresa e monaci: carità e preghiera.

I poveri hanno dato un colpo d’ala al mio sacerdozio e la mia missione di vescovo ho sempre cercato di viverla come un servizio. Quando sono stato fatto cardinale, il papa al telefono mi ha detto: «Ti raccomando: il cardinalato è un servizio e va fatto in povertà». Ecco i miei binari: se volessi uscirne, non saprei proprio cosa fare.

A proposito del papa, la sua visita a Lampedusa, la prima del pontificato, è stata definita la prima enciclica. Qual è stata l’emozione dominante di quel giorno e che cosa prova lei nel vedere quello che la sua gente fa per i tanti che sbarcano sull’isola?

Del papa mi ha colpito il modo in cui si è avvicinato a Lampedusa: ha detto di essere venuto a piangere i morti, il suo è stato un pellegrinaggio nel santuario dell’uomo, voleva essere dove l’uomo soffre. Io l’ho seguito con gli occhi e le parole che tante volte ha ripetuto quella mattinata erano: «Quanta sofferenza!». A volte sembrava estraniarsi da ciò che c’era attorno, come se fosse su un piano più alto. Mi ha colpito molto il suo sguardo su quella sterminata sofferenza: il papa si è voluto fermare a piangere e a interrogarsi in mezzo a quel mare diventato tomba liquida. Non ho dubbi che quel viaggio ci abbia dato le chiavi del suo pontificato.

Circa la mia gente, Francesco ha detto che a Lampedusa povertà e accoglienza si sono incontrate. Io ho sempre sostenuto che Lampedusa è un pezzo di mondo nuovo, una terra dove c’è gente povera che sa guardare in faccia l’altro povero. In alcuni momenti i lampedusani hanno avuto paura: l’avrei avuta anch’io se in un paese di 5 mila abitanti ti ritrovi 10 mila immigrati (tra l’altro, mi chiedo ancora perché siano stati lasciati sull’isola per così tanto tempo, così come non comprendo perché i mezzi di comunicazione abbiano voluto gonfiare un clima di terrore annunciando sbarchi sull’isola di dimensioni bibliche, che in realtà non ci sono stati).

Qualche volta, parlando con dei biblisti, suggerisco loro di fare una sinossi tra le prime pagine della Bibbia e quanto sta avvenendo a Lampedusa: troveremmo la stessa storia, completata con la venuta di “Mosè” Linguaggio, scelte, orizzonti: papa Francesco sta portando aria nuova nella Chiesa e le persone comuni, anche quelle lontane dalla pratica, lo capiscono e lo apprezzano. Che strade sta segnando per la Chiesa?

La nostra è una fede facile, che non ci costa niente, una specie di contabilità aperta con Dio inizio alla fine del Vangelo, senza gli sconti che abitualmente cerchiamo.

Papa Francesco non sta facendo niente di straordinario: ci sta rileggendo il Vangelo, sottolineando alcuni aspetti di cui c’eravamo dimenticati, tanto che ci meravigliamo di quel che ci sta dicendo, mentre avremmo dovuto trovarci nella condizione di dirgli: «Guarda che questo lo stiamo già facendo, dicci altro». Se rimaniamo a bocca aperta davanti alle sue parole, è perché abbiamo letto male il Vangelo. Noi cerchiamo un Dio che conforta, mentre il Signore ha detto che la sua parola è come spada: il nostro Dio ci mette sempre sottosopra.

Papa Francesco sta rimettendo in campo una Chiesa rimasta troppo chiusa: le nostre comunità sono spesso rifugi e talvolta ripostigli, mentre il papa ci dice di metterci per strada. Nella nostra Chiesa, che è una Chiesa di poveri, di fatto i poveri non trovano ancora posto. Le parole del papa valgono per tutti: fedeli, vescovi, cardinali, perché il Vangelo si rivolge a tutti.

Amore di sincerità ci obbliga a riconoscere che, al di là di reverenziali ossequi di facciata, vi sono ambienti ecclesiali dove lo “stile Francesco” è accolto con scarsa simpatia, e anche ad alto livello non mancano serie resistenze. Quali sono a suo parere le radici culturali e spirituali di tali divergenze?

Il papa ci sta proponendo il Vangelo e il Vangelo è una proposta di rischio. Fino ad oggi, noi ci siamo preoccupati di conservare quello che avevamo e ora troviamo le nostre chiese chiuse: abbiamo contato le nostre comunità a partire dai praticanti anziché dai credenti.

C’è, però, un modo diverso di vivere Chiesa e Vangelo: se la mia preoccupazione è salvare il passato senza guardare avanti, finirò per sbattere contro i pali che si trovano per strada, poiché così accade a chi guida guardando indietro.

Noi abbiamo paura di correre il rischio di lasciare la pecorella rimasta nell’ovile e cercare le novantanove che ne sono uscite, mentre il papa ci dice di guardare avanti, ci chiede di accelerare. La vita del mondo corre veloce, mentre noi procediamo ancora con il freno a mano tirato. Il Vangelo è parola che inquieta e provoca al cambiamento.




ricordare fratel Arturo con le sue parole

Addio ad Arturo Paoli

difendere Cristo dal cristianesimo

la cultura cristiana responsabile dei mali del mondo

lo affermava fratel Arturo Paoli, un uomo mite e coraggioso, un religioso determinato e radicale che ha segnato il nostro tempo

 

si sono svolti oggi  alle ore 18.00, nella cattedrale di Lucca, il funerali di Arturo Paoli, sacerdote e Piccolo Fratello del Vangelo (della famiglia spirituale di Charles de Foucauld), morto ieri nella sua abitazione presso la canonica della parrocchia di San Martino in Vignale. Aveva 102 anni. Sarà sepolto, secondo la sua volontà, nel piccolo cimitero di San Martino in Vignale.Nato a Lucca nel 1912, si laurea in Lettere nel 1936 e ordinato sacerdote nel 1940. Partecipa alla Resistenza e aiuta gli ebrei perseguitati dal nazismo. Nel 1949 è viceassistente della Gioventù di Azione Cattolica ed è tra coloro che affermano l’autonomia dei laici nelle scelte politiche, posizione riconosciuta legittima solo molti anni dopo, con il concilio Vaticano II.Incontrata la congregazione religiosa ispirata a Charles de Foucault, a metà degli anni ’50 vive a Orano in Algeria. Rientra in Italia nel 1957, ma viene allontanato dalle gerarchie vaticane che non gradiscono le sue critiche. La sua esperienza continua in America Latina (Argentina, Venezuela, Brasile) fino al 2005. Sulle pagine di Nigrizia ha tenuto, negli anni ’80 e ’90 una rubrica: Lettera dall’America Latina.

Nell’intervista che segue, raccolta da Bruna Sironi e pubblicata da Nigrizia nel maggio del 2000, dice con chiarezza qual è il suo sogno di Chiesa.

Lei ha ripetuto in varie occasioni che la cultura cristiana è responsabile dei mali del mondo. Qual è il senso della sua affermazione?

Il mondo occidentale cristiano è il luogo da cui partono tutti i comandi di morte, da cui si organizzano le guerre, in cui si realizza l’accumulazione che toglie il pane a milioni di persone. E non c’è caduto per disgrazia, in quest’avventura di essere il centro del male del mondo. È una conseguenza logica e fatale della sua cultura. Abbiamo sempre pensato che il centro di tutto è l’io, l’essere, il soggetto, e abbiamo proiettato questa filosofia su tutte le strutture politiche ed economiche che abbiamo creato.
Anche la globalizzazione non è venuta a caso, ma è la conseguenza di un cammino filosofico di secoli, che ha affermato questo principio di unificazione dando origine alla necessità di un soggetto unico, dominatore. E ha prodotto il mercato, la dittatura, il partito. Creazioni astratte, unificanti, dominanti il mondo e la storia, che hanno intrinseca la tendenza alla negazione, alla soppressione dell’altro. Ci siamo vantati di portare al mondo la civiltà, ma aveva questo veleno dentro: la necessità di sopprimere l’altro, di non riconoscergli la sua cultura, la sua religione, la sua vita. Dobbiamo assumerci questa responsabilità.

Giovanni Paolo II ha chiesto perdono per le responsabilità della Chiesa…
È molto commovente, ma è come un’aspirina per una persona che sta morendo di cancro. Il papa ha detto di aprire le porte a Cristo, ma a quale Cristo? Quello solenne, dominatore, o quello povero fra i poveri? Perciò non ha fatto altro che caricare di responsabilità il mondo cristiano.
Ci manca un’etica. Abbiamo perso il senso della giustizia. Se accettiamo la sponsorizzazione di pellegrinaggi da parte di multinazionali che conoscono solo l’etica del profitto, come possiamo dire di no alla clonazione? Dobbiamo essere integrali, coerenti, completi. La nostra etica deve partire dai diritti degli offesi, degli oppressi. È solo su questa base che possiamo pensare un nuovo mondo.

Come deve essere una Chiesa nuova?
Dobbiamo difendere Cristo dal cristianesimo, dalla cultura cristiana. Cristo ha predicato la fraternità, la giustizia. A partire dai poveri, dalle vittime dell’ingiustizia. Non ha fatto mai teoria, non ha mai parlato neanche di Dio, si è semplicemente messo accanto ai poveri. Cristo è essenzialmente liberatore, e liberatore dei poveri.

Lei torna spesso sulla teologia della liberazione fiorita negli anni ’70…
È stata una rivoluzione culturale in quanto vedeva possibile la conoscenza di Dio attraverso la discesa tra gli uomini, per realizzare la giustizia, l’uguaglianza, la fraternità; temi spesso dibattuti ma che non possono essere risolti senza un cambiamento totale della nostra cultura. Doveva essere un messaggio felice per i poveri, ma non poteva non suscitare la reazione dell’Erode e della Gerusalemme religiosa del tempo.

Il rapporto tra il missionario e il denaro?
La missione, come tale, non dovrebbe esistere. Lo dice Gesù stesso. Basta leggere il capitolo 10 del Vangelo di Luca. Si deve andare tra i poveri come amici, senza nulla, e farsi accogliere. Bisogna invertire la posizione: non sono io, ricco, che vado al povero, ma devo andarci povero, alla pari con lui. È il concetto stesso di missione che bisogna cambiare. Se c’è una disuguaglianza di partenza non si può mai creare una vera amicizia.

 



i due amici

il ricordo dell’amico

Bianchi: il mio amico padre Arturo, profeta «cosmico»

era stato insignito del titolo di «Giusto tra le nazioni» e nel memoriale di Yad Vashem in Israele è ricordato come «salvatore non solo della vita di una persona, ma anche della dignità dell’umanità intera». E fratel Arturo Paoli è stato proprio questo: un uomo, un cristiano, un fratello, un prete «giusto» in mezzo ai suoi compagni di umanità.

Giusto non della giustizia umana – per salvare vite umane non ha esitato a infrangere leggi disumane, ha conosciuto processi e tribunali, è sfuggito a chi voleva “giustiziarlo”… – ma di quella giustizia secondo Dio che non è mai disgiunta dalla misericordia, dal cuore per i miseri, dalla benevolenza verso il prossimo, a cominciare dai più piccoli, dagli indifesi, dalle vittime della storia che sono sempre vittime di altri uomini: un giusto testimone di quella giustizia misericordiosa che ha nome Gesù Cristo, il Giusto sofferente in un mondo ingiusto.

Del resto, già un suo professore all’università lo aveva definito «uomo cosmico» e la sua tempra verrà poi plasmata nel crogiolo del deserto del Sahara, dilatandone la profonda cattolicità – cioè la capacità di pensare e vedere la realtà nella sua dimensione universale – e facendo di lui un cristiano mite e tenace come solo i miti sanno essere, fino all’ultimo a servizio di quei poveri nei quali sapeva di poter trovare il volto di Gesù che tanto cercava.

Così scriveva pochi anni fa: «Guardate il vecchio dalla riva; avete tempo, potete anche dialogare con lui perché l’acqua scorre molto lentamente… Non temete: l’Amico lo tiene per mano, soavemente o con energia, e non lo lascerà fino all’incontro con l’Infinito». Ora quest’incontro è giunto e mi piace ricordare in quest’ora gli ultimi dialoghi avuti con fratel Arturo, quando nel gennaio e poi a maggio dello scorso anno sono passato a trovarlo nella sua pieve per custodire e alimentare ancora una volta la lunga e fedele amicizia che ci univa.
Era appena stato ricevuto in udienza da papa Francesco, e nei suoi occhi vivacissimi e dalle sue parole pacate e insieme appassionate emergeva la gioia per la nuova primavera che vedeva sbocciare.

Una primavera che alla sua età ormai non immaginava più di poter ancora gustare e un gesto di comunione che non osava più sperare, anche se il vescovo di Lucca Castellani gli aveva mostrato affetto e stima. In quelle occasioni mi chiese anche l’ultima edizione dell’ufficio di Bose per poter continuare a pregare con la nostra Preghiera dei giorni, come ormai faceva da decenni.

Sentii ancora una volta il suo cuore palpitare di amore per il Signore Gesù, mentre ci dicevamo l’un l’altro in profonda sintonia: «Il Vangelo è solo Gesù Cristo, e Gesù Cristo è solo il Vangelo!». Era stato il Vangelo a spingerlo a vivere con gli ultimi, il Vangelo lo aveva chiamato in Sardegna tra i minatori del Sulcis, il Vangelo lo aveva inviato in Argentina tra i boscaioli di Fortín Olmos, il Vangelo lo spinse a scrivere il Dialogo della liberazione che avrebbe ispirato anche la teologia di Gustavo Gutierrez. Vero itinerante di terra in terra, come i missionari del Nuovo Testamento, perseguitato e poco compreso dai poteri mondani, non cessò mai di essere un testimone “mite” del Vangelo.

Il cammino spirituale di fratel Arturo è stato il percorso di un profeta, sovente non ascoltato od osteggiato e perfino ferito, come quando, rientrato ultranovantenne in Italia, gli fu impedito di prendere la parola in una marcia nazionale per la pace organizzata da Pax Christi. È sempre stato un uomo schietto, senza arroganza, ma con la rappacificata e solidale consapevolezza di un’identità umana e cristiana cercata e trovata nel confronto aperto con il sempre possibile non-senso dell’esistenza.

«L’identità – ebbe modo di scrivere – è per me la scoperta di stare al mondo fra gli altri come un essere necessario. Se io non esistessi, all’umanità mancherebbe qualcosa nel suo cammino verso la meta del suo essere vera. Sì, all’umanità sarebbe mancato qualcosa di prezioso. Noi ringraziamo il Signore per averci donato di camminare accanto a questo uomo di Dio, rimasto giusto e vigilante fino all’ultimo, grande testimone del Vangelo e difensore dei poveri, grande dono per la Chiesa e per l’umanità. Davvero fratel Arturo è stato un segno del Vangelo di Cristo per tutti noi! A me viene a mancare un amico, un fratello e quel suo sorriso che era come il sorriso di Gesù: mite, accogliente, magnanimo.

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in morte di A. Paoli l’ultimo profeta

Arturo Paoli, morto l’ultimo profeta

 era lo Schindler di Lucca: aveva 102 anni

di Ilaria Lonigro

 

Paoli A.

 

 

Da giovanissimo salvò centinaia di ebrei durante la seconda guerra mondiale (e infatti era Giusto tra le Nazioni), poi affiancò i minatori sardi negli anni Cinquanta e infine finì nelle favelas argentine, dove il regime militare mise una taglia sulla sua testa

 

Se ne va l’ultimo grande “profeta” italiano, fratello Arturo Paoli. Avrebbe compiuto 103 anni il 30 novembre. Si è spento nella notte tra domenica e lunedì nella sua abitazione di San Martino in Vignale, sulle colline di Lucca, dove negli ultimi anni riceveva decine di giovani in cerca di un consiglio o del senso della vita. Quello che lui aveva trovato camminando con gli indifesi. Prima in Italia, dove giovanissimo salvò centinaia di ebrei durante la seconda guerra mondiale (e infatti era Giusto tra le Nazioni), poi in Sardegna, al fianco dei minatori negli anni Cinquanta, quindi – “esiliato” dal Vaticano – nelle favelas argentine, fino alla condanna a morte da parte del regime militare, che lo portò a girare l’America del Sud fino al 2005, anno del ritorno in Italia.

Lo Schindler di Lucca, Giusto per Israele Nel 1937 entra in seminario a Lucca, sua città natale. Sei anni dopo diventa il principale referente lucchese della rete Delasem, la Delegazione per l’assistenza degli emigranti ebrei di Giorgio Nissim. Con l’aiuto di altre persone, nasconde i perseguitati negli edifici del vecchio seminario in via del Giardino Botanico a Lucca. “Quanti ebrei ho salvato? Non lo so, non sono stato a contarli…” risponderà negli ultimi anni della sua vita a chi gli chiederà le cifre del suo coraggio. Che sarà riconosciuto soltanto nel 2006 con la medaglia d’oro al valore civile dal presidente della Repubblica. Nel 1999 Israele gli attribuisce l’onorificenza di Giusto tra le Nazioni, che Paoli, anche se senza polemica, non ritira.

“Esiliato”, diventa Piccolo Fratello della congregazione di de Foucault Nel 1949 si trasferisce a Roma, come vice assistente nazionale della Gioventù cattolica. Le sue idee, così simili a quelle di sinistra, infastidiscono i vertici dell’organizzazione. Nel 1954 viene mandato “in esilio”, a fare da cappellano tra i migranti italiani in una nave diretta in Argentina. Una misura punitiva che però diventa la sua salvezza. Durante il viaggio, Arturo assiste un religioso della congregazione dei Piccoli fratelli in punto di morte. Il prete ne resta colpito e decide di voler entrare nella congregazione fondata da Charles de Foucault, che ordina di camminare coi poveri.

Per farlo, la tappa obbligatoria è il noviziato. Da eremita, nel deserto algerino. Arriva a El-Abiodh nell’ottobre 1954, portando con sé la fama di intellettuale che arriva da Roma. Un’aura insopportabile per il maestro dei novizi, Fratel Milad, che decide di sfidarlo. A lui e solo a lui vieta di leggere e scrivere per tutto il tempo del noviziato, 13 mesi. Una misura per capire quanto sia capace di rinunciare a se stesso. Dopo il deserto, “era morto un Arturo e ne era nato un altro”, racconterà Paoli. Solo da eremita riesce a liberarsi di quella che definirà “la terribile malattia che si chiama il non senso della vita”. “Passare dalla pazienza del nulla è un’esperienza che rende lieti tutta la vita: dopo non esistono più egoismi né cinismi” spiegherà.

Come Piccolo Fratello, deve lavorare. E non lavori qualsiasi, ma duri, umili. Nel 1957 viene mandato in Sardegna, per stare tra i minatori. Viene assunto per la manutenzione delle strade. In più scrive le lettere per gli abitanti, perlopiù analfabeti, da recapitare ai parenti emigrati in America. Ancora visto di cattivo occhio dalle gerarchie vaticane, viene invitato a lasciare l’Italia.

E’ il 1960, ha 48 anni. Non senza sofferenza, parte per l’Argentina. Raccolta del cotone, taglio della legna: Arturo fa i lavori più umili e intanto incita le donne delle favelas a emanciparsi, a rendersi indipendenti. A Buenos Aires conosce anche un giovane Bergoglio. Gli piacerà, nelle vesti di Papa. “Lui non c’entra nulla con i dittatori, non era ancora vescovo: era un sacerdote gesuita, è sempre andato nelle bidonville” avrà a dire in sua difesa durante le polemiche mediatiche sul passato di Papa Francesco. I due si vedranno di nuovo, nel 2014, il 18 gennaio, a Santa Marta, in un lungo incontro, rigorosamente privato, alla maniera dei colloqui ordinati da Foucault.

La taglia della dittatura sulla sua testa In Argentina Arturo Paoli trova molti amici e una nuova patria. Ma nel 1974 è costretto ancora a partire: la dittatura militare ha posto una taglia sulla sua testa. Le sue foto sono appese per le strade. E’ al secondo posto tra i ricercati. Ripara in Venezuela, poi in Brasile, lavorando con gli ultimi e contro i potenti, sempre secondo lo spirito della Teologia della liberazione, così a lungo condannata dalla Chiesa. Nel 1984 Joseph Ratzinger, ancora cardinale, scrive che “le teologie della liberazione procedono a un pericoloso amalgama tra il povero della Scrittura e il proletariato di Marx” (Libertatis Nuntius del 6 agosto 1984).

Nel 2005, all’età di 93 anni, abbandona dopo mezzo secolo le favelas e fa ritorno in Italia. Va a vivere lontano dalla città, in un luogo isolato, circondato dai boschi, nella casa diocesana di San Martino in Vignale, sulle colline sopra Lucca, intitolata al Beato Charles de Foucauld. Con sé, la fidata Silvia Pettiti, sua segretaria personale dal 2001 e dal 2005, che lo ha seguito durante i viaggi in Brasile e che ha firmato, tra gli altri, Arturo Paoli. Ne valeva la pena (edizioni San Paolo, 2010).

Il testamento di Arturo Paoli Non era mai stato un giorno a letto per malattia, Arturo Paoli, che, oltre al suo esempio, lascia come testamento molti libri. Demonizzava il concetto del “ce la faccio da solo” e invitava soprattutto i giovani a riscoprire i valori della lentezza e della comunità, ad abbandonare il mito dei soldi e della solitudine. Sempre calato nell’attualità, Paoli ne La rinascita dell’Italia. Messaggio ai giovani (Maria Pacini Fazzi, Ed. 2011, col contributo di Fondazione Banca del Monte di Lucca), scriveva: “Berlusconi è stato il segno più convincente che il popolo italiano si è allontanato dall’ideale di mantenere al mondo la stima di un popolo serio, lavoratore, capace di solidarietà, soprattutto di popolo maturo. Che questo vuoto sia stato colmato da un uomo che ha il merito di comprare belle ragazze per il consumo, ci dovrebbe umiliare profondamente come Italiani”. Non risparmiava accuse all’Europa, così dedita al “capitalismo” e alla “morte del prossimo”. Arturo Paoli ha inseguito un unico grande progetto: “amorizzare il mondo”. “Se riflettiamo – scriveva in Cent’anni di fraternità (Chiarelettere) – la grande e unica ricchezza della vita è l’amore”.

 




grazie fratel Arturo!

 

è morto fratel Arturo Paoli

una vita a favore dei poveri

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È morto nella notte fratel Arturo Paoli. Nato il 30 novembre 1912, aveva 102 anni. Sacerdote, religioso e missionario italiano, attivo in particolare in America latina, apparteneva alla congregazione dei Piccoli Fratelli del Vangelo.

“Fratel Arturo Paoli, Sacerdote e Piccolo Fratello del Vangelo, è tornato alla Casa del Padre, stanotte, alle 0,45 nella sua abitazione presso la Canonica della Parrocchia di San Martino in Vignale”, ha reso noto l`arcivescovo di Lucca, mons.Italo Castellani. “L`Arcivescovo ringrazia il Signore per il dono straordinario che fratel Arturo è stato per la Chiesa nei lunghi anni del suo ministero in Italia e all`estero, in particolare a favore dei più poveri, e si fa vicino alla comunità dei Piccoli Fratelli del Vangelo di Spello e a tutti coloro che in questo
momento, anche se illuminati dalla fede nella Risurrezione, sentono il peso dell`umanità per la scomparsa di “don Arturo”.La salma di don Arturo sarà esposta nella chiesa parrocchiale di San Martino in Vignale già da oggi lunedì 13 (dal pomeriggio) e anche per l`intera giornata di martedì 14 luglio. Mercoledì 15 sarà trasportata nella chiesa di San Michele in Foro, luogo cittadino dove per anni ha svolto il suo ministero e sua parrocchia di origine, dove sarà esposta alla cittadinanza dalle ore 8 alle 17. La celebrazione Eucaristica con il rito delle esequie si terrà nella chiesa Cattedrale sempre mercoledì 15 luglio alle ore 18. Don Arturo Paoli ha espresso la volontà di essere sepolto nel piccolo cimitero di San Martino in Vignale. La tumulazione sarà fatta in forma privata nella giornata di giovedì 16 luglio”.

Fratel Arturo Paoli aveva ricevuto, tra l’altro, il titolo di “Giusto tra le nazioni” per il suo impegno a favore degli ebrei perseguitati in Brasile durante la seconda guerra mondiale. Nel 2006 aveva ricevuto la Medaglia d’oro al valor civile per le mani del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi perché – recitava a motivazione – “nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, con encomiabile spirito cristiano e preclara virtù civica, collaborò alla costruzione di una struttura clandestina, che diede ospitalità ed assistenza ai perseguitati politici e a quanti sfuggirono ai rastrellamenti nazifascisti dell’alta Toscana, riuscendo a salvare circa 800 cittadini ebrei”.

Lo scorso marzo era stato ricevuto in Vaticano da Papa Francesco, che conosceva in Argentina: “Al Pontefice – raccontò – ho portato
una bottiglia d`olio e un`immagine del Volto Santo, l`antico crocifisso che è simbolo dei fedeli lucchesi.

 

 

Pax Christi Italia ricorda e ringrazia Arturo Paoli 

“Sono in attesa di una novità” 

 “Cent’anni di fraternità recita il titolo dell’ultimo suo libro, che contiene uno scritto di Perez Esquivel, premio Nobel per la pace e suo amico fin dai primi anni dell’esperienza argentina. Cent’anni di grazia per tutti. Cent’anni di eredità vitale da trasmettere con cura.  Partecipiamo con commossa gratitudine al dolore di tanti per l’esodo pasquale, nella notte del 13 luglio, di Arturo Paoli. Aveva 102 anni. Ha portato con sé il vento trasformatore del Concilio Vaticano II (1962-1965), del “Patto delle catacombe” sulla povertà (1965), delle assemblee di Medellìn (1968) e di Puebla (1079) orientate all’opzione cristiana per i poveri.  Il suo Dialogo della liberazione (1969) è stato per Gustavo Gutierrez la fonte della teologia della liberazione.  Arturo si è assunto l’impegno di camminare con i poveri sopportando umiliazioni ed emarginazioni, intrecciando la fede cristiana con l’amore al prossimo, la passione sociale, l’azione culturale e un intenso fervore contemplativo. Radicato nel Vangelo di Cristo (diceva che “la povertà nel Vangelo è fame e sete di giustizia”), nella testimonianza di Charles de Foucauld (così come di Teilhard de Chardin, di La Pira e e di tanti volti della grande famiglia della pace), Arturo ci aiuta a entrare nel mistero della Chiesa dei poveri per “amorizzare il mondo” con relazioni di pace, giustizia e misericordia.  “Sono in attesa di una novità”, scriveva alcuni mesi fa. Anche noi siamo parte del suo sogno.  Possiamo assumercene la responsabilità percorrendo e allungando i suoi sentieri… nella certezza che “Camminando s’apre cammino”.  Grazie fratel Arturo!  


 




la lotta che rende umani

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Quando è la lotta a renderci umani. La vita di un vescovo in difesa dell’Amazzonia

quando è la lotta a renderci umani

la vita di un vescovo in difesa dell’Amazzonia

tratto da: Adista Documenti n° 26 del 18/07/2015
 

 Nei suoi 50 anni vissuti nell’Amazzonia brasiliana, dom Erwin Kräutler, vescovo (dal 1981) della prelatura dello Xingu – una diocesi più estesa dell’Italia – e presidente del Consiglio indigenista missionario (Cimi), ha assistito a una rapida, tragica trasformazione: la foresta tropicale che, al suo arrivo, si stendeva dinanzi ai suoi occhi fitta, impenetrabile, lussureggiante, è ora solo un ricordo. Intorno ad Altamira (sede della prelatura), lungo l’autostrada Transamazzonica, «ci sono municipi – ci spiega il vescovo di origini austriache durante una sua rapida visita nel nostro Paese – che conservano appena il 10% della vegetazione originaria»: «Può capitarti di percorrere 200 chilometri senza incontrare l’ombra». Un’aggressione, quella contro la foresta e contro i popoli che la abitano, che dom Erwin ha instancabilmente contrastato, come racconta nel libro appena uscito in Italia, edito dalla Emi, Ho udito il grido dell’Amazzonia. Diritti umani e creato. La mia lotta di vescovo (pp. 286, euro 16, tel. 051/326027, www.emi.it). Un libro che racconta la sua vita «sempre in viaggio e di passaggio», come scrive nell’Introduzione il missionario di origine tedesche Paulo Suess, assistente teologico del Cimi, trascorsa a visitare quello che Kräutler definisce l’«umile, amorevole» popolo di Dio dello Xingu «lungo i fiumi e i canali, lungo le strade e i sentieri fino agli angoli più sperduti dell’Alto e del Basso Xingu», sulla Transamazzonica (durante la cui costruzione, nel tratto distante tre chilometri dal villaggio degli indigeni Arara, «gli indios furono persino cacciati con i cani») e le altre autostrade che tagliano le foreste dell’Amazzonia. Un libro che ci parla delle sue battaglie, dalla lotta, al tempo della Costituente, per l’inserimento nella Carta Costituzionale brasiliana della difesa dei diritti dei popoli indigeni, a quella di oggi contro la centrale idroelettrica di Belo Monte; delle sue denunce contro la distruzione dell’ambiente, contro il saccheggio delle ricchezze naturali, contro gli infiniti rinvii della riforma agraria, contro un modello di sviluppo al servizio degli «interessi di una potente oligarchia a caccia di guadagni immediati e favolosi»; della sua azione pastorale in difesa dell’Amazzonia e dei diritti dei popoli indigeni, quelli che nella Prefazione l’ecoteologo Leonardo Boff descrive come «i veri custodi di questa incommensurabile ricchezza che Dio ha dato al pianeta e specificamente al Brasile», amministratori sapienti e tutt’altro che genuinamente naturali, in quanto «gli indios e la foresta si sono condizionati a vicenda» attraverso relazioni prettamente culturali, in «una rete intricata di reciprocità» in cui la natura è vista e sentita come «soggetto vivo e con una propria intenzionalità», non «qualcosa di oggettuale, muto e senza spirito come per noi moderni».

Una lotta, quella del vescovo, pagata con calunnie, diffamazioni e minacce di morte – le armi utilizzate «nel tentativo di chiudere la bocca a chi alza la voce contro le aggressioni alla dignità umana» – e, il 16 ottobre 1987, persino con un attentato (in un incidente automobilistico doloso), che quasi gli costò la vita e in cui rimase ucciso il missionario italiano che lo accompagnava, p. Salvatore Deiana: quello «è diventato il giorno che divide la mia vita in due parti: il prima e il dopo»; «mi ripresi dalle fratture. Mai, però, mi sono ripreso nel mio intimo dallo sconvolgimento per la morte di Tore». E, quasi vent’anni dopo, nel 2006, ecco cosa scriveva l’economista Armando Soares, nel giornale di maggior diffusione in Amazzonia, O Liberal (5/6/06), a proposito dell’opposizione del vescovo al complesso idroelettrico Belo Monte, sul fiume Xingu (le cui acque, ricorda dom Erwin, «dovrebbero avere il colore del sangue a causa delle innumerevoli stragi perpetrate nel suo bacino, nel corso dei secoli»): «Altamira, per le sue ricchezze e la localizzazione strategica, è uno dei focus preferiti dai nostri nemici, località dove regna un religioso del tempo dell’Inquisizione, dittatore autocratico che si ritiene in diritto di interferire nella vita economica del Comune creando una clima di terrore e paura. (…). Insegnava il padre di Cicerone, il grande tribuno romano, che uomini iniqui devono essere eliminati  sotto la minaccia di contaminare tutta la società».

Ma dom Kräutler non si è lasciato intimidire, continuando a denunciare un «progetto megalomane» che avrà conseguenze disastrose sui popoli indigeni, favorendo ancora una volta le «multinazionali che vivono a spese del Brasile, con tutti i vantaggi fiscali e le facilitazioni energetiche». Un progetto, per di più, di cui si sono resi responsabili proprio i governi a guida Pt, il Partito dei lavoratori: «Ossessionato dall’idea di accelerare la crescita economica», scriveva il vescovo nel 2008, il presidente Lula, colui che si pensava avrebbe finalmente risolto, o almeno portato avanti in maniera energica, tanto la questione indigena quanto la riforma agraria, è giunto a definire come «ostacoli» indios, quilombolas, ambientalisti e pure la Procura della Repubblica e persino a considerare «cavilli» gli stessi articoli della legislazione ambientale.

Non sorprende, allora, che, quando chiediamo al vescovo un suo commento riguardo alla politiche dei governi del Pt, la sua delusione risulti palpabile: «Mi fa male persino parlarne», confessa. Tuttavia, un motivo di soddisfazione è ultimamente venuto da un’altra fonte, l’enciclica di papa Francesco Laudato si’, alla cui stesura il vescovo è stato chiamato a collaborare: «Vivo in Amazzonia da 50 anni e in tutti questi anni tali problemi mi hanno toccato profondamente. E ora li vedo esposti nell’enciclica di papa Francesco». Ed è proprio su questo aspetto che abbiamo iniziato la nostra conversazione con dom Erwin, nell’intervista che qui vi proponiamo.

* L’immagine ritrae uno scorcio della Foresta Amazzonica nello Stato brasiliano del Pará




fratel Arturo Paoli e le sfide per la chiesa di oggi

TRE SFIDE PER LA CHIESA

ABBIAMO TRASCURATO L’ESSENZIALE

di Arturo Paoli

Paoli

Quale futuro per la Chiesa? Quale Chiesa serve per costruire il futuro della società in cui viviamo, e specialmente dei giovani a cui è affidato il tempo a venire?

 

Se ripenso alla mia lontana giovinezza e alla città nella quale sono nato e cresciuto, ritrovo una Chiesa che aveva una grande importanza. Erano gli anni dell’affermazione del fascismo che chiamava la gioventù a partecipare alla vita pubblica e alla organizzazione politica e che aveva molte possibilità di entrare nella vita delle persone attraverso l’offerta del lavoro e dell’istruzione. La Chiesa rappresentava l’alternativa a questa proposta, proponendo un impegno politico orientato verso la costruzione di un progetto di pace e di concordia. La mia famiglia seguiva l’obbligo della messa domenicale ma non mi ha motivato a prendere parte alle iniziative della Chiesa. Ho cominciato a pensare l’importanza della Chiesa animato dal bisogno di intervenire attivamente per contribuire alla pace della città. Ero motivato da una visione della Chiesa più politica che religiosa perché gli avvenimenti del tempo ci chiedevano necessariamente una partecipazione alla vita sociale. L’Azione Cattolica rappresentava il movimento antitetico al fascismo, attraverso un’azione profonda, educativa, rivolta all’interiorità della persona. La Chiesa era guidata da un Papa molto combattivo, Pio XI, che chiamò i giovani a riunirsi per non perdere i valori della spiritualità. Quando il governo fascista decretò la chiusura dei gruppi di Azione cattolica, si ebbe un forte contrasto che si rivolse grazie alla fermezza del Papa che voleva garantire alle famiglie, in modo assoluto, la libertà di educare i figli secondo le loro tradizioni religiose. Il contrasto si concluse con la stipula dei Patti Lateranensi e da lì ebbe inizio l’insegnamento obbligatorio della religione nelle scuole, che oggi è tanto mal visto. Ma dal punto di vista sociale fu un’epoca di grandissima vivacità della Chiesa, si passò da un’appartenenza tradizionale, fondata su un’obbedienza un po’ sorniona, a un interesse veramente profondo verso la Chiesa. Il fascismo portò alla luce il contrasto tra due istituzioni, lo Stato e la Chiesa, che avevano lo stesso interesse verso la gioventù e quest’ultima si organizzò come azione antifascista. Essa vedeva nello stato una laicizzazione eccessiva della società e quindi fu stimolata a intensificare le sue iniziative in modo da non perdere la sua influenza nella cura dei giovani e della spiritualità.
La mia guida fondamentale fu Giorgio La Pira che aveva una visione della Chiesa mistica e politica allo stesso tempo; lui trovava nella Chiesa la forza interiore per dedicarsi agli altri, ai poveri soprattutto, e proprio questo amore ai poveri che nasceva dalla Chiesa mi motivò a entrare nel sacerdozio.
La Pira viveva misticamente la Chiesa, non parlava tanto dell’istituzione quanto della vita interiore e fu lui che mi introdusse a una visione della Chiesa di tipo religioso piuttosto che combattivo. Poi ci fu la guerra, il mio trasferimento a Roma, che vissi come chiamata a impegnarci per portare non soltanto la fede ma anche l’unione tra le persone e specialmente tra i giovani. La grande adunata dei baschi verdi convocata a piazza San Pietro nel 1948 fu una grande celebrazione di forza, alla quale partecipai con vivo entusiasmo. Nonostante il trionfo della beatificazione recente, molti sentono che la Chiesa cattolica sta attraversando un periodo di crisi. Non è strano nel tempo dell’ultimo concilio ecumenico circolava un motto che rappresentava vivamente la situazione della Chiesa: semper reformanda et semper reformata. In una parola la Chiesa deve essere sempre in uno stato di cambiamento. Tre pensatori presentano alla Chiesa del nostro tempo tre sfide per il suo rinnovamento. Penso che sarebbe urgente rispondere a queste tre sfide che la ringiovanirebbero.
La prima sfida in ordine di tempo viene dal gesuita TEILHARD DE CHARDIN: qual è il significato dell’incarnazione del logos? che senso vero ha la redenzione, nome del progetto di Gesù? Il gesuita risponde amorizer le monde, amorizzare il mondo! Gesù, il verbo di Dio, cala nella terra (il che è più vero che dire viene sulla terra), mette una forza e una energia di amore che la spinge a tendere verso una sua unificazione. Gesù stesso ce lo ha detto in queste parole: voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo (Mt 5,13). Chi è questo voi? Il corpo mistico, noi credenti che facciamo parte di un corpo la cui testa è il Cristo Gesù e questa testa costituisce l’unità di tutto il corpo. L’avere pensato il sacrificio della croce come riscatto dell’anima ha tolto alla croce il suo vero senso che è quello di orientare l’umanità dei credenti verso l’unità. Quante volte ritorno alla Lettera ai romani nel capitolo ottavo. Se i cristiani fossero istruiti nel vero senso che lo Spirito Santo dà alla terra non continuerebbero ad avvelenarla per trarne profitto e denaro: la creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio. Essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere ma per volere di Colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio (Rom 8,19-21). E forse non esiste una parte del mondo così rapace come l’occidente cristiano. Abbiamo discusso su tante cose e abbiamo trascurato l’essenziale: la responsabilità che noi abbiamo verso la natura che è un essere vivente che Dio ha affidato alle nostre cure. Non si è mai sentito lanciare ai politici del momento l’accusa di non esigere il rispetto verso la terra.
La seconda sfida viene dal filosofo ebreo EMMANUEL LEVINAS che ci offre una lettura della morte di Cristo sulla croce che non è quella che normalmente trasmettono i cristiani: un pagamento del riscatto dalla schiavitù in cui siamo caduti per i nostri peccati. L’interpretazione che ci viene da Isaia è quella stessa che troviamo in San Paolo: abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo; apparso in forma umana umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte di croce (Fil 2,6-8). L’ebreo Lévinas pur restando ebreo, in un discorso pronunziato alla Sorbona, analizzando questa estrema umiliazione di Cristo, con profonda acutezza scopre che non esisteva altro modo per strappare questa radice dell’orgoglio umano che è la causa della discordia, delle guerre, di tutte le violenze che rendono triste e tragica la convivenza umana.
E finalmente la terza sfida che la Chiesa dovrebbe raccogliere è quella del terzo pensatore, LUIGI ZOJA: la morte del prossimo. La Chiesa ha sempre guardato con diffidenza l’amore, dando spazio alla verità. In nome della verità è ricorsa alla violenza delle condanne a morte, spesso in maniera cruenta, ha innalzato il rogo per Girolamo Savonarola, ha impiccato Arnaldo da Brescia e molti altri esseri di grande rettitudine di vita, solamente per proclamare alcune verità spesso incomprese nel momento e valorizzate in seguito. Ha condannato innocenti non riconoscendo che nel vero amore è la verità dell’uomo, mentre la verità orgogliosa è quella che si separa dall’amore. Il Cristo autentico è quello che ci offre il vero amore: amatevi come io vi ho amato, non vi chiamo più servi ma amici. Quando la Chiesa accoglierà queste sfide? Anche noi siamo parte di questa Chiesa, le generazioni future o accoglieranno queste tre sfide o segneranno la fine dell’esistenza sulla terra.




per un vero cambiamento nella chiesa

papa Francesco: ‘chiesa in uscita’

da dove, per dove?

una riflessione di L. Boff sul logotipo che caratterizza l’idea di chiesa di papa Francesco: ‘una chiesa in uscita’

Boff L.

 

 

Mentre ancora celebriamo la straordinaria enciclica su «La cura della Casa Comune», torniamo a riflettere su una prospettiva importante di Papa Francesco, il vero logotipo della sua comprensione della Chiesa: “Una Chiesa in uscita”. Questa formulazione racchiude una velata critica al modello anteriore di Chiesa che era una Chiesa “senza uscita” a causa di diversi scandali di ordine morale e finanziario, che avevano forzato papa Benedetto XVI a rinunciare, una Chiesa che aveva perso il suo capitale più importante: la moralità e la credibilità dei cristiani e del mondo secolare.

Ma il logotipo “Chiesa in uscita” possiede un significato più profondo, diventato possibile perché pensato da un papa che non veniva dai quadri istituzionali della vecchia e stanca cristianità europea. Questa aveva fasciato la Chiesa dentro a una comprensione che la rendeva praticamente inaccettabile ai moderni, ostaggio di tradizioni fossilizzate e con un messaggio che non affrontava i problemi dei cristiani e del mondo attuale. La “Chiesa in uscita” vuole segnare una rottura con quello stato di cose. Questa parola “rottura” irrita i rappresentanti dell’establishment ecclesiastico. Ma non è per questo che smette di essere vera. E dunque si pone la domanda: “Uscita”: da dove, per dove? Vediamo alcuni passi:

– Uscita da una Chiesa-fortezza che proteggeva i fedeli contro le libertà moderne verso una Chiesa-ospitale di campagna che ascolta tutte le persone che la cercano, poco importa il loro stato morale o ideologico.

– Uscita da una Chiesa-istituzione assolutistica, concentrata in se stessa,per una Chiesa-movimento aperta al dialogo universale, con altre chiese, religioni e ideologie.

– Uscita di una Chiesa-gerarchica, creatrice di diseguaglianze verso una Chiesa-popolo di Dio, facendo di tutti, fratelli e sorelle, un’immensa comunità fraterna.

– Uscita da una Chiesa-autorità ecclesiastica, distante o perfino di spalle voltate ai fedeli, per una Chiesa-pastore che cammina in mezzo al popolo, “in odore di pecorella”, e misericordiosa.

– Uscita da una Chiesa-Papa di tutti i cristiani e vescovi che governa con il rigido diritto canonico verso una Chiesa-vescovo di Roma, che presiede nella carità e solo a partire da lì diventa Papa della Chiesa universale.

– Uscita da una Chiesa-maestra di dottrine e norme verso una Chiesa di pratiche sorprendenti e dell’incontro affettuoso con le persone al di là della loro appartenenza religiosa, morale o ideologica. Le periferie esistenziali arrivano alla centralità.

– Uscita da una Chiesa-di potere sacro, di pompe e eventi, di palazzi pontifici e titolature degne della nobiltà rinascimentale verso una Chiesa-povera e “per” i poveri, spogliata dei simboli di riconoscimenti, dedita al servizio e portavoce profetica contro il sistema di accumulazione del denaro, l’idolo che produce sofferenza miseria e morte.

– Uscita da una chiesa-che parla dei poveri verso una Chiesa-che va verso i poveri, parla con loro, li abbraccia e li difende.

– Uscita da una Chiesa-equidistante dei sistemi politici e economici verso una Chiesa-schierata a favore delle vittime e che chiama per nome i produttori delle ingiustizie e invita a Roma rappresentanti dei movimenti sociali mondiali per discutere con loro come inventare alternative. – Uscita da una Chiesa-autoreferenziale e acritica verso una Chiesa-della verità su se stessa contro cardinali, vescovi e teologi gelosi del loro status ma con una faccia “acida, da venerdì Santo”, “tristi come se fossero al proprio funerale”, insomma una Chiesa fatta di persone umane.

– Uscita da una Chiesa-dell’ordine e del rigorismo verso una Chiesa-della rivoluzione della tenerezza, della misericordia e della cura.

– Uscita da una Chiesa-di devoti, come quelli che appaiono nei programmi televisivi, con preti cineasti del mercato religioso, verso una Chiesa impegnata con la giustizia sociale e con la liberazione degli oppressi.

– Uscita da una Chiesa-obbedienza e da rispetto per la Chiesa-allegria del Vangelo e speranza ancora per questo mondo.

– Uscita da una Chiesa senza il mondo che ha permesso l’insorgere di un mondo senza Chiesa per una Chiesa-mondo, sensibile ai problemi dell’ecologia e del futuro della Casa Comune, la madre-Terra.

Queste e altre uscite mostrano che la Chiesa non si riduce soltanto a una missione religiosa, accantonata in una parte privata della realtà. Essa possiede oltre a questo una missione politico-sociale nel senso pregnante della parola, come fonte di ispirazione per le trasformazioni necessarie che riscattino l’umanità per un tipo di civiltà dell’amore della compassione, che sia meno individualistico, materialistico, cinico e privo di solidarietà. Questa chiesa-in-uscita ha distribuito allegria e speranze fra i cristiani e ha riconquistato il sentimento di essere un focolare spirituale. Ha convinto con la semplicità, con il distacco dalle cose, con l’accoglienza nell’amore e nella tenerezza con la stima di molte persone di altre confessioni, di semplici cittadini del mondo e anche di capi di Stato che ammirano la figura e la pratica sorprendenti di Papa Francesco in favore della pace, del dialogo tra i popoli della rinuncia a qualsiasi violenza e alla guerra.

Più che di dottrine e dogmi è la Tradizione di Gesù, fatta di amore incondizionato, di misericordia e di compassione che in lui si attualizza e rivela la sua inesauribile energia umanizzatrice. Perché, tra le altre cose, questo è il messaggio centrale di Gesù accettabile, da tutte le persone di tutti quadranti del mondo.

* Leonardo Boff è teologo, ecologo e columnist del Jornal do Brasil.