una bella intervista ad Antonietta Potente

credenti più gentili con le cose e con la terra

intervista a Antonietta Potente

a cura di Laura Badaracchi

in “Avvenire” del 31 maggio 2015

Potente

 

Si rivolge anzitutto a chi non conosce da vicino la vita consacrata, e a chi la guarda con diffidenza, l’ultimo saggio scritto dalla teologa Antonietta Potente, delle Suore domenicane di San Tommaso d’Aquino, edito dalle Paoline col titolo È vita ed è religiosa. Una vita religiosa per tutti. Dopo il dottorato in teologia morale e l’insegnamento a Roma e Firenze, ha vissuto per oltre un decennio in Bolivia con una famiglia di etnia Aymara, guadagnandosi il pane come docente all’Università di Santa Cruz e Cochabamba. Nelle pagine del suo nuovo libro si respira profumo conciliare. Chi professa i voti – dice fra le righe la religiosa di origine ligure, trapiantata a Torino – non è un superuomo o una superdonna, ma un battezzato e una battezzata che desidera vivere radicalmente il Vangelo: «Non siamo noi la liberazione e la salvezza, né degli eroi, ma dei compagni di viaggio». Che hanno ispirato i Padri e le Madri del deserto nei primi secoli del cristianesimo e oggi possono suggerire a tutti uno stile di vita alternativo, diventando una bussola in tempi di crisi etica, oltre che economica. Un discorso decisamente controcorrente.

In un mondo dominato da superficialità e approssimazione, lei invita a essere particolarmente attenti al soffio della vita e dello Spirito.

«Credo che il soffio debba rimanere una costante nella vita cristiana. Nel senso della precarietà, nella coscienza che – in fin dei conti – la vita in generale è qualcosa di molto bello e altrettanto sfuggevole, con dei limiti. Una costante che vale per congregazioni, gruppi, movimenti in cui si sente e si palpa questa fragilità dell’esistenza. Questa premessa del Vangelo sembra comunque accompagnarci sempre, sollecitando attenzione e sensibilità a quello che la storia e la realtà ci mostra come possibili cammini».

In che modo oggi la vita religiosa è chiamata a rinnovarsi per essere autentica? E come evitare le spinte verso un anacronistico ritorno al passato?

«Non ho delle risposte. Sono convinta che dobbiamo ritornare all’essenzialità più profonda: non è questione di esteriorità (rimettersi il saio, ripristinare la tonsura, ad esempio), ma di trovare un senso più evangelico che ci accomuna tutti, oggi come oggi. Tornare alle origini non dell’esteriorità, quindi, ma dell’essenzialità. La vita è fatta per ricercare il mistero, non per esserne sicuri, indipendentemente dalle varie scelte; per essere consapevoli e provare la passione di questa ricerca che è invisibile, soffio, Spirito. Si sceglie di consacrarsi a Dio per avvicinarsi non alle strutture, ma a una vita abbandonata alla gioia e alla precarietà».

Significa attualizzare i carismi delle diverse congregazioni?

«Bisogna guardare i disegni della storia: i carismi sono nati in un clima di consapevolezza evangelica, rappresentano una modalità con cui questa salvezza e gioia possono entrare nella vita di tutti, perché tutti ne possano beneficiare. Se le persone riescono a rendersi conto di questo, diventeranno fruttuose. Oggi le congregazioni più aperte hanno poche vocazioni, perché danno meno sicurezze ed esteriorità, hanno poche opere e lavori, scarsi posti di responsabilità».

Quale la contaminazione positiva tra la vita religiosa e quella dei laici?

«Siamo tutti chiamati, uomini e donne di ogni cultura, alla pienezza della vita. Credo che tutte le divisioni siano negative, a cominciare da quelle gerarchiche. Sappiamo che nella storia si sono create delle strutture che ci hanno separati, per quanto riguarda la partecipazione alla conoscenza del mistero. Pur mantenendo la diversità, lo specifico che è l’identità delle persone, bisogna riconoscere che la vita religiosa non è un ruolo, ma entra a far parte di donne e uomini consapevoli della loro sensibilità e passione. Invece, facendone quasi un mestiere – in passato anche con alcuni privilegi – abbiamo sbagliato. Le vocazioni vere non sono poche oggi: sono sempre state poche e nella Bibbia corrispondono a quelle profetiche. Nella comunità credente nella Chiesa alcuni uomini e donne percorrono questo cammino alla ricerca di una spiritualità specifica».

Afferma che la vita religiosa femminile ha dettagli che quella maschile non ha: cosa intende?

«Non siamo soldatini, non si tratta di arruolarsi ma di cercare la propria posizione nella storia, legare la vocazione alla propria identità. Ci sono delle mediazioni, io l’ho trovata nella spiritualità domenicana con la sua grande larghezza, nata nella consapevolezza che il Vangelo è di tutti. La categoria delle donne ha sempre appartenuto alle minoranze, con la consapevolezza di essere popolo, mentre gli uomini (da quando la vita religiosa è diventata anche sacerdotale) sono consapevoli di appartenere a una categoria. Essere popolo ha dato la possibilità di crescere vicine all’umano sia nelle relazioni comunitarie, sia nell’impegno missionario, affrontando le situazioni non solo in forma intellettuale. Invece la vita religiosa maschile ha avuto la grande fortuna di essere più dedicata allo studio della teologia».

Come s’intrecciano povertà, castità e obbedienza al rapporto cruciale con il creato?

«Vogliamo partecipare alla costruzione della storia (obbedienza), vivere relazioni non violente (castità), in una giustizia dignitosa senza assurde penitenze, alla ricerca del bene comune (povertà). Insieme impariamo che la terra non è nostra ma di tutti. Abbiamo abusato del creato perché diventasse denaro e merce. Se la vita religiosa fosse essenziale nei rapporti e sobria nelle scelte, dalla parte di coloro che ancora vogliono prendersi cura di un pezzo di terra, sarebbe possibile per i consacrati proporre uno stile esistenziale alternativo: la missione è questa, non andare a salvare gli altri ma testimoniare concretamente l’intensità del rapporto con Dio. Non bisogna essere tutti francescani per capire che in questo momento storico dobbiamo cambiare la relazione con le cose e la natura, renderla più gentile, meno prepotente e invadente. Questa è l’umiltà di stare nella storia: imparare a muoverci in questo deserto abitato con normalità, gioia e disponibilità. Perché la vita si salva se siamo davvero solidali».




la maggiore cautela che i cristiani dovrebbero usare

la tentazione della “buona risposta”

di Enzo Bianchi
in “Jesus” del maggio 2015

Bianchi

 

 

Da secoli noi cristiani pensiamo di dover dare una “buona risposta” su tutto. In questa ansia – oggi causa di sempre maggior fastidio nei non cristiani – finiamo a volte per dare risposte preconfezionate, incuranti della realtà mutevole e sfaccettata né della diversità delle persone e del mistero che ciascuna di loro racchiude. Occorrerebbe un serio esame di coscienza: e se l’altro ci trattasse come noi trattiamo lui? E se ciò che diciamo con sicurezza all’altro fosse anche un giudizio su di noi? Ci ricordiamo dell’avvertimento di Gesù: “Con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi” (Mt 7,2)? E ci ricordiamo che Gesù era maestro anche nell’arte del non dire tutto? Come non ammettere che nella chiesa sovente i rigoristi che giudicano con severità alcuni peccati commessi dagli altri, sono in realtà i primi a commettere quegli stessi peccati? E piuttosto di condannare se stessi, infieriscono sugli altri: come ha detto recentemente papa Francesco, “puniscono negli altri quello che nascondono nella loro anima”… In questi giorni nelle nostre chiese d’occidente emerge costantemente la questione dell’orientamento sessuale, del gender e degli statuti che questo può richiedere. Possiamo, come cristiani, dire alcune parole in proposito, e dirle umilmente, fornendo indicazioni per cercare ancora? Innanzitutto dovremmo evitare di parlare semplicisticamente di omosessuali, eterosessuali, bisessuali o transessuali perché le persone non possono essere definite dai loro comportamenti o a essi ridotte. Occorre inoltre ammettere che l’orientamento sessuale appare come un enigma (attenzione: un enigma, non un mistero): non è una scelta dell’individuo né sta nello spazio delle patologie; emerge in diverse situazioni; persino di fronte agli stessi cammini educativi e allo stesso “venire al mondo” l’orientamento può manifestarsi come eterosessuale, omosessuale, o con altre varianti al di là delle libere scelte. Perché? Per ora non abbiamo una risposta: non dobbiamo però avere paura dell’enigma, ma prenderlo sul serio perché parte della realtà complessa dell’umano. Là dove ci sono “storie d’amore”, c’è l’amore sempre vulnerabile, la necessità del perdono, della fiducia sempre da rinnovare, la fatica della fedeltà, mai piena. L’amore, che è il fine della relazione, è più grande della condizione in cui si è abilitati ad amare. Da questo dovrebbe discendere molta cautela nel dare giudizi o nel richiedere alle persone di essere ciò che non possono essere: si deve guardare alla relazione, all’amore vissuto e tentato dai partner, alla loro sincerità, astenendosi dal giudicare le persone. È vero, i comportamenti omosessuali sono severamente esecrati dall’Antico e dal Nuovo Testamento – anche se i vangeli non registrano parole esplicite di condanna da parte di Gesù – ma il peccato resta una realtà presente anche in tutti i comportamenti sessuali e in ogni azione da noi compiuta assecondando l’egoismo, la violenza, l’arroganza del potere sull’altro. Uomini e donne, qualunque orientamento sessuale abbiano, sono sempre creature amate da Dio; nella chiesa sono cristiani nati dal battesimo, conformati a Cristo e dotati di una capacità di testimonianza e di missione nel mondo; e in quanto battezzati sono sacerdoti, profeti e re (cf. Lumen gentium 34-36), tutti partecipi del corpo di Cristo. A tutti, nessuno escluso, la chiesa deve chiedere di tentare di vivere il Vangelo, tutti deve amare come si amano le membra del corpo di Cristo, e tutti deve aiutare a vivere l’amore con gli enigmi che esso contiene. La chiesa non è stata chiamata a condannare il mondo ma a indicare al mondo vie di salvezza, e queste stanno sempre in cammini di umanizzazione. Nessuna ingenuità e nessuna resa: a tutti la chiesa chiede responsabilità nei comportamenti; chiede lotta contro la philautía, l’amore egoistico di se stessi; chiede di non cedere al facile e conformista “così fan tutti”; chiede di combattere i nuovi idoli dominanti, tra cui spicca l’individualismo esasperato, in base al quale i desideri devono diventare diritti. Non tutto è possibile e non tutto può essere un diritto! Chiediamoci in ogni circostanza qual è il cammino di umanizzazione più fecondo e felice per ciascuno, senza aver la pretesa di possedere a priori l’unica risposta possibile.




a proposito della canea razzista anti rom …

Zingari, giudei, buonisti e cattivisti

di Moni Ovadia

Ovadia
in “il manifesto” del 30 maggio 2015

Il tema politico sociale incandescente degli ultimi giorni ha preso avvio da un tragico fatto di cronaca. A Roma, un’auto sulla quale viaggiavano, stando a quanto riferito dalla stampa, tre persone della comunità rom, non ha rispettato l’alt della polizia ed è fuggita a velocità folle travolgendo e uccidendo un donna filippina e ferendo, anche gravemente, altre otto persone che si trovavano sul suo cammino. Come era prevedibile si è scatenata la usuale canea razzista contro i rom in quanto tali guidata dal leader della Lega Nord, Matteo Salvini e da tutta la galassia nera dei nazifascisti. Il tutto condito dall’inevitabile folklore mediatico. Ieri mattina, il giornalista di Libero Piero Giacalone, nel corso della trasmissione di attualità politica de La 7, con puntuale chiarezza, ha inquadrato la questione nei termini della legalità affermando un valore imprescindibile delle civiltà democratiche, ovvero che tutti i cittadini e gli esseri umani in generale, davanti alla legge, sono uguali. Giacalone ha proseguito il suo ragionamento con sapidità ironica prendendo a bersaglio due categorie di persone contrapposte: «buonisti» e «cattivisti» i quali, a suo parere, si limitano a recitare le loro parti in commedia. Ora, appartenendo io alla categoria dei primi, proverò a rintuzzare, almeno in parte, la pur legittima stigmatizzazione ironica di Giacalone. Se è pur vero che fra i buonisti si incontrano talora persone superficiali inclini a generici embrassons nous, coloro che vengono spesso definiti con sprezzo «buonisti» sono in linea di principio esseri umani che si pongono il problema dell’altro, delle minoranze e si ritengono responsabili del «volto altrui», per dirla con il filosofo Levinas, o mettono in pratica il dettato evangelico: «Ciò che fai allo straniero lo fai a me». Del resto, la questione dell’accoglienza dell’altro è la madre di tutte le questioni, quella la cui mancata soluzione è causa di ogni violenza e di tutte le infamie che devastano la convivenza delle comunità umane. Nel mio caso, appartengo ad una ulteriore fattispecie, sono un ex «altro» entrato nel salotto dei privilegiati. Io sono ebreo e so che significa essere gravato da pregiudizi, calunniato, perseguitato, deriso, massacrato e sterminato. Oggi, molti cattivisti vi diranno che l’ebreo non è come il rom. Oggi ve lo dicono, ma in passato i «perfidi giudei» erano trattati allo stesso modo, con una sola differenza che i rom non ricevevano l’accusa di essere deicidi, in quanto cristiani o mussulmani. Credete che l’antisemitismo abbia perso aggressività a causa dell’orrore provocato dalla Shoà? Non è così, anche rom e sinti hanno subito lo stesso destino. La vera ragione è che oggi esiste uno stato ebraico ( la definizione è di Teodor Herzel, suo Ideologo, das Juden Staat ) con un esercito, un governo e servizi segreti che sanno essere molto «cattivisti». Per rom e sinti non c’è nessuno Stato che parli e agisca, nessuno li difende da posizioni di forza e gli attacchi razzisti contro di loro sono solo azioni di vigliacchi. È razzista chiunque attribuisca reati di individui all’intera comunità. Ma io, che appartengo simultaneamente anche ad un altra categoria, i settantenni, ho buona memoria. E che c’entra con l’argomento in discussione? C’entra! Ricordo quando sui muri della prospera «Padania», della sua capitale «morale» c’erano le infami scritte razziste «via i meridionali dalle nostre città!», «non si affitta ai terroni!». Mi ricordo dell’eco di Marcinelle quando i nostri italiani più poveri, trattati come bestie in quanto italiani, venivano venduti come schiavi da miniera perché tutta l’Italia avesse carbone. Mi ricordo delle scritte «vietato agli italiani e ai cani» nel civile Nord Europa.
Allora gli zingari eravamo noi. Salvini se lo ricorda? Ma cosa volete che si ricordi un populista demagogo alla ricerca di voti? A lui, a quelli come lui, i voti non servono per fare politica, ma per fare un mestiere, quello del nazionalista da piccola patria, come i Karadzic, gli Arkan, i Mladic e i loro omologhi croati, gli sterminatori della ex Jugoslavia. Un mestiere molto redditizio che si nutre di odio, approfitta della paura dei più fragili, garantisce posti nei parlamenti e gratificante visibilità mediatica. C’è un solo nome per chi approfitta di un fatto efferato — commesso questa volta da rom, ma decine e decine di altre volte da italiani, padani compresi — per seminare odio: sciacallo.