Europa opulenta ma egoista incapace di superare le sue politiche di morte

Europa, la solidarietà di facciata

Fulvio Vassallo Paleologo

foto premio migranti

Dopo il fallimento del Consiglio straordinario europeo del 23 aprile, convocato su richiesta dell’Italia in seguito alla strage del 19 aprile, la più grande tragedia dell’immigrazione del mondo, con oltre 800 morti, a Bruxelles si gioca l’ennesima partita sulla pelle dei migranti, una partita che sta pagando dividendi spaventosi ai partiti nazionalisti e xenofobi.
Malgrado l’assenza di un consenso generale, circola di nuovo una bozza che potrebbe essere approvata già mercoledì 13 maggio dalla Commissione Europea. Un piano in 10 punti che vanno dal rafforzamento di Triton (la missione di contrasto all’immigrazione dell’agenzia FRONTEX) all’impegno a distruggere e confiscare le navi confiscate agli scafisti. È poi auspicata una maggiore cooperazione fra gli Stati europei coinvolti, l’invio di operatori in Grecia e Italia per facilitare  le domande di asilo e non meglio precisati “nuovi meccanismi” per trasferire i migranti da un luogo all’altro in caso di “emergenza”. Si intende applicare un “progetto pilota”valido in tutta l’U.E. per un numero limitato di migranti che hanno bisogno di protezione, (non è chiaro se saranno 5000 o 10.000 le persone interessate) a condizione  che ogni singolo paese rilevi le impronte digitali delle persone sbarcate e che si attui un percorso rapido di rimpatrio degli immigrati considerati irregolari nei paesi di provenienza. Si intende poi realizzare maggiore cooperazione con gli Stati confinanti con la Libia, da cui giungono gran parte dei migranti e l’invio di esperti in detti paesi per svolgere un lavoro di intelligence per prevenire i flussi migratori.

Su questa bozza, prima ancora che siano divulgati tutti i contenuti, circolano già giudizi positivi, come quelli di Federica Mogherini, Alto Commissario U.E. agli Affari Esteri, che in queste stesse ore sta cercando di ottenere dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite un mandato per “interventi militari mirati in Libia” (proposta che è già stata bocciata dal Segretario generale Ban Ki-moon, dalla Russia e dal rappresentante alle Nazioni Unite del governo di Tobruk, che ha espresso la propria contrarietà all’operazione: «Non ci hanno mai consultati – ha detto – e non accetteremo mai militari stranieri nel nostro paese».
I media filogovernativi parlano di svolte eclatanti, addirittura di una “rivoluzione nel segno della solidarietà” (Repubblica) , ma si tratta sempre degli stessi punti sui quali l’Europa non riesce da anni a trovare una intesa: 1) Nessuna apertura dei corridoi umanitari, se non per cifre risibili, meno di diecimila persone per tutta l’Unione Europea; 2)  nessuna prospettiva immediata di apertura di canali legali di ingresso per lavoro; 3) nessuna modifica del Regolamento Dublino III; 4) nessun serio impegno soprattutto per una effettiva armonizzazione delle politiche dell’asilo in Europa; 5) nessun accordo europeo per una missione internazionale di salvataggio in Mediterraneo che superi Frontex.
Che poi il piano italiano, fatto passare a stento a Bruxelles e rilanciato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, costituisca il superamento dell’ “egoismo” e possa costituire un “cambiamento di rotta” dell’Unione Europea, come auspicato anche dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, è tutto da vedere.

L’aspetto che più si sta pubblicizzando in queste ultime ore – oltre al mantra dell’intervento militare in Libia per distruggere le imbarcazioni degli scafisti – riguarda il fatto che ora, anche “in acque internazionali”, dovrebbe esserci l’obbligo per tutti i paesi di “accogliere migranti secondo delle quote prestabilite”. Quello che si tace, però è che all’interno di questa proposta, ,si collocano trasferimenti forzati di richiedenti asilo da un paese all’altro, con la probabile estensione dei centri di detenzione amministrativa e del prelievo violento delle impronte digitali. Non solo:  per chi non ottiene il riconoscimento di uno status di protezione, le deportazioni verso i paesi di origine saranno più celeri grazie ai  nuovi accordi di riammissione previsti  cosiddetto Processo di Khartoum lanciato proprio dall’Italia lo scorso anno durante il semestre di presidenza europea.

Insomma: Nessuna modifica sostanziale delle politiche di morte praticate dall’Unione Europea, ma solo correttivi, sempre nella logica del contenimento e non dell’accoglienza. Nessuno si arrischia sui numeri ma, nelle bozze circolate nelle settimane precedenti, il numero dei migranti che si sarebbero potuti reinsediare in Europa o trasferire da un paese all’altro oscillava attorno ad alcune decine di migliaia di unità, meno di quante persone – non numeri – arrivano in tre mesi in Italia.
Secondo alcune fonti di stampa, nella bozza di risoluzione ci sarebbe anche – ma solo “nel medio periodo” –  una sorta di “asilo politico europeo”, con il mutuo riconoscimento reciproco delle decisioni dei singoli Stati che stabiliscono lo status di rifugiato, mentre da subito sono previsti voli congiunti di rimpatrio verso i paesi di origine, per coloro che non vengono riconosciuti meritevoli di uno status di protezione, e operazioni anche “entro le acque interne libiche per l’arresto degli scafisti, il sequestro e la distruzione delle imbarcazioni” come è stato fatto con l’operazione Atalanta contro i pirati davanti alle coste somale. Il rischio maggiore a questo punto è che la Libia, di fronte a questo tipo di blocco navale, si possa trasformare davvero in un’altra Somalia.

Per ottenere la collaborazione dei paesi di origine nelle pratiche di riammissione forzata si punta ad aiuti economici “per contrastare la povertà”. Siamo sempre nell’ambito degli intenti enunciati nel Processo di Khartoum. Si proporrà poi di aiutare economicamente i paesi di transito – come Sudan, Egitto, Ciad e Niger – per aumentare i controlli alle frontiere “in modo da intercettare i camion dove i trafficanti stipano i migranti”. Gli aiuti ai paesi di transito dovrebbero servire a sgominare i trafficanti, salvare i migranti e accoglierli in campi gestiti dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Da qui dovrebbero essere rimpatriati o trasferiti in un paese dell’Unione Europea, se si giungesse a riconoscere loro il diritto alla protezione, che però, in quei paesi, non potrebbe che essere limitato ai pochi casi che rientrano nelle qualifiche di rifugiati vittima di persecuzione individuale fissate dalla Convenzione di Ginevra del 1951. Di fatto si realizzerebbe una esternalizzazione delle domande di richiesta d’asilo in contesti dove diventa più difficile veder garantita l’osservanza delle norme internazionali.

Per la Mogherini in particolare «va risolto il problema della Libia: finché non si risolve il problema della guerra e l’assenza di istituzioni ci sarà un corridoio incontrollato. Dobbiamo quindi collaborare con i libici a un governo nazionale stabile che si prenda la responsabilità di controllare le frontiere, gli scafisti e sgominare le organizzazioni criminali». Le proposte di “interventi militari mirati” su territorio libico, sui quali la stessa Mogherini si sta impegnando a New York davanti al Consiglio di Sicurezza delle NU, non sembrano tuttavia andare nella direzione di favorire un dialogo tra le parti in conflitto, come dimostra la reazione del governo di Tobruk.
Divisi su tutto, il governo di Tripoli e quello di Bengasi sono d’accordo soltanto sulle deportazioni di migranti anche nei paesi di origine, e sappiamo cosa gli succederà dopo, dopo il rimpatrio in Eritrea, in Sudan, in Niger, in Somalia. Insomma i governanti libici delle opposte fazioni, corteggiati dall’Europa e dalle multinazionali, sono i migliori alleati dei trafficanti. Li riforniscono continuamente di persone da trattare e violentare. Le diverse fazioni libiche non sembrano particolarmente pronte a deporre le armi, e chi pure respinge l’ipotesi di un intervento militare a terra o nelle acque territoriali contro gli scafisti ed i trafficanti, come il generale Haftar, chiede soltanto altre armi per prevale sui rivali e garantire così il controllo del territorio e il blocco delle partenze verso l’Europa. Lo stesso stile della politica dell’ultimo Gheddafi nei confronti dell’Europa. E l’Unione Europea si appresta a commettere gli stessi errori commessi nel 2011, sempre in nome di grandi valori e di una coesione tra stati diversi che non esiste più, in realtà travolta dal riemergere degli egoismi nazionali e da una crisi economica che ne sta sancendo il declino definitivo.

Fulvio Vassallo Paleologo
Università di Palermo




quale chiesa? una domanda non peregrina

due ‘modelli di chiesa’ inconciliabili? due realtà di chiesa che convivono senza comunicare?: “il ‘volto della misericordia’ che Papa Francesco sogna per la Chiesa, come può di fatto configurarsi nella ‘chiesa reale’ fatta di pratiche quali lo stesso Anno santo, pellegrinaggi, indulgenze, devozioni varie, missioni al popolo, insomma quanto evidenzia il carattere di religione più che di fede? Ma la Chiesa dei praticanti è la stessa Chiesa dei credenti? La Chiesa della fede è la stessa Chiesa dei devoti?” Come far evolvere le differenze verso una unità di fede? Come reintrodurre il confronto?

 

 

tra misericordia e lotta: per quale  chiesa?

di Alberto Simoni
in “Koinonia-forum” n. 433 del 10 maggio 2015

piazza_san_pietro-vaticano

Gioia e speranza, misericordia e lotta: l’attenzione va di preferenza al secondo dei binomi  con cui si annuncia il programma. Parafrasando in qualche modo l’incipit della Gaudium et spes  viene da chiedersi: saranno capaci, “i discepoli di Cristo”,  di condividere con  “gli uomini d’oggi” gioia e speranza e diventare segno e strumento di misericordia e lotta, per essere operatori di pace? C’è un invito a riposizionare la Gaudium et spes nel contesto ecclesiale odierno, ma c’è anche la provocazione  a leggere il momento attuale della Chiesa alla luce della Gaudium et spes. I binomi proposti, inoltre, lasciano pensare alle tante antinomie che hanno accompagnato il cammino dei 50 anni di Concilio tra aggiornamento, contestazione e dissenso: tradizione-riforma, dottrina-pastorale, magistero-collegialità, gerarchia-popolo di Dio, carisma-potere, profezia-istituzione, ministero ordinato-laici, liturgia-pietà popolare, “ermeneutica della continuità e della rottura” ecc.: un vero inventario di conflitti in attesa di risoluzione!
Non sono che variazioni sul tema di fondo Chiesa-mondo, asse portante su cui si è giocato il Vaticano II e delle cui vicende la Gaudium et spes rimane simbolo: traccia di un Concilio vissuto all’insegna della dialettica, a cominciare dal controverso messaggio al mondo all’apertura. Un Concilio che non si è limitato a sentenziare e sanzionare, ma ha inaugurato l’ermeneutica dei segni dei tempi: un metodo di dialogo dentro la conflittualità storica, riconosciuta e accettata. “Dialogo” non come esibizione dimostrativa di accondiscendenza, ma confronto e lotta alla maniera  di Giacobbe (cfr  Gen 32,23ss). Una lotta tanto necessaria quanto spesso rimossa!
Se c’è qualcosa che ha compromesso la sostanziale recezione del Concilio, è il fatto che simile metodo, più che essere praticato in profondità su vasta scala, è stato troppo enfatizzato o depotenziato: di qui le polarizzazioni e le contrapposizioni che hanno generato forme o spezzoni di Chiesa autosufficienti e incomunicabili. Questa situazione diffusa di frammentarietà è coperta ormai da un conformismo dilagante, in cui ogni dissenso è neutralizzato e costretto a degli “assolo”. È la morte della dialettica in nome di un riformismo di facciata e di successo. Possiamo anche contentarci di avere un Papa che lotta per una “Chiesa in uscita”, ma attenti a non farlo diventare il simbolo isolato di un progetto sempre in cantiere.
Se oggi l’apertura al mondo viene riproposta, vuol dire che è sempre penalizzata da ritardi, da ambiguità e contraddizioni: se nei piani pastorali la si dà come compiuta, forse però si è smesso di pensarla come il banco di prova dell’“essere al mondo” della chiesa: come la sfida a rapportarsi al mondo in chiave evangelica, e non in termini di supremazia. La relazione al mondo infatti è costitutiva della proclamazione del vangelo, come dichiara il documento del sinodo dei vescovi del 1971 (La Giustizia nel mondo): “L’agire per la giustizia e il partecipare alla trasformazione del mondo ci appaiono chiaramente come la dimensione costitutiva della predicazione del vangelo, cioè della missione della chiesa per la redenzione del genere umano e la liberazione di ogni stato di cose oppressivo”.
Sappiamo quale tipo di presenza e di azione ha prospettato la Gaudium et spes, fedele al principio giovanneo “non è il Vangelo che cambia ma siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”. Poche parole del numero 40 della GS ce lo ricordano: “Tutto quello che abbiamo detto a proposito della dignità della persona umana, della comunità degli uomini, del significato profondo della attività umana, costituisce il fondamento del rapporto tra Chiesa e mondo, come pure la base del dialogo fra loro. Pertanto, presupponendo tutto ciò che il Concilio ha già insegnato circa il mistero della Chiesa, si viene a prendere in considerazione la medesima Chiesa in quanto si trova nel mondo e insieme con esso vive ed agisce” (n.40). Non solo chiesa, dunque, non solo mondo, ma
chiesa nel mondo in piena solidarietà!
Questo vuol dire che il “mondo” entra nell’”essere-Chiesa” non solo come destinatario del suo ministero (“finis cui”), ma come dimensione consustanziale che la specifica (“finis qui”). Se la Costituzione pastorale Gaudium et spes è “sulla Chiesa nel mondo contemporaneo”, lo può essere  prima di tutto perché riattiva il rapporto Vangelo-poveri. È così che l’impegno nel mondo e per il mondo è una praeparatio evangelica, una chiamata a consacrarsi al servizio degli uomini sulla terra, “così da preparare attraverso tale loro ministero quasi la materia per il regno dei cieli” (n.38).
Detto questo in linea di principio, a che punto siamo oggi nell’opera di preparazione evangelica del Regno, e cioè tra Popolo di Dio ed umanità, fede e storia? Da questo rapporto base non possiamo prescindere, né per fughe spiritualistiche né in nome di una efficienza immediata, perché si tratta di rispettare lo “statuto della Incarnazione” quanto ad istanze pratiche e pastorali e quanto ad aspetti teologici. Il punto sullo stato delle cose forse lo possiamo fare a partire dalla Bolla Misericordiae Vultus, promulgata per indire l’Anno santo ma anche per celebrare il Giubileo del Vaticano II.
Come si conciliano in realtà questi due eventi? Da una parte c’è un “Giubileo Straordinario della Misericordia” come tempo favorevole per la Chiesa, perché renda più forte ed efficace la testimonianza dei credenti” (n.3). Dall’altra c’ è il bisogno di mantenere vivo il Vaticano II, grazie al quale, “abbattute le muraglie che per troppo tempo avevano rinchiuso la Chiesa in una cittadella privilegiata, era giunto il tempo di annunciare il Vangelo in modo nuovo. Una nuova tappa dell’evangelizzazione di sempre. Un nuovo impegno per tutti i cristiani per testimoniare con più entusiasmo e convinzione la loro fede. La Chiesa sentiva la responsabilità di essere nel mondo il segno vivo dell’amore del Padre” (n.4). Ma ecco il punto: Anno santo nella linea del Vaticano II o Concilio immerso nella corrente religiosa dei Giubilei tradizionali? Anno santo che trova nel Concilio la sua spinta ad extra, o Vaticano II che viene risucchiato ad intra da una chiesa comunque autoreferenziale e clericale?
Di fatto emergono dalla Bolla due realtà di Chiesa che convivono senza comunicare. Utilizzando la distinzione di Paolo VI tra immagine ideale e volto reale, possiamo chiederci:  il “volto della misericordia” che Papa Francesco sogna per la Chiesa, come può di fatto configurarsi nella “chiesa reale” fatta di pratiche quali lo stesso Anno santo, pellegrinaggi, indulgenze, devozioni varie, missioni al popolo, insomma quanto evidenzia il carattere di religione più che di fede? Ma la Chiesa dei praticanti è la stessa Chiesa dei credenti? La Chiesa della fede è la stessa Chiesa dei devoti?
Questo per dire che non basta una coesistenza di fatto tra queste due realtà di Chiesa per ottenere una apertura al mondo convergente o una ”chiesa in uscita”. Non basta rassegnarsi all’esistente in tutte le sue sfaccettature e conflittualità, ma è necessario trovare anche una risoluzione di principio, un metodo che legittimi e faccia evolvere le differenze nell’unità della fede. Non basta avallare un pluralismo di fatto sotto l’ombra della appartenenza istituzionale: è necessario riattivare il confronto aperto in linea di diritto, secondo l’adagio “distinguere per unire”. È necessario ridare vita alla dialettica che il Concilio ci ha insegnato, non solo tra base e vertice ma all’interno della stessa base, là dove il Popolo di Dio si muove! E forse non sarebbe fuori luogo applicare anche qui la distinzione della Pacem in terris tra movimenti storici e ideologie per ritrovare la sostanza del credere dentro i molteplici rivestimenti della fede.
Ma è chiaro che per uscire da ogni monolitismo gerarchico e da ogni sistema sacrale di potere ci vogliono soggetti nuovi non clonati, se davvero si guarda alla rinascita o rigenerazione di comunità di credenti in Cristo e non solo a rifacimenti o protesi religiose accessorie. Quando nella Bolla per l’Anno santo si dice che “l’architrave che sorregge la vita della Chiesa” (n.10) è la misericordia, non si tratta di panacea: questa non può essere intesa come condono o indulgenza per affiliati, ma come fonte di perdono e di lotta, di giustizia e di pace. Non semplice amministrazione sacramentale
ma “grazia a caro prezzo”!  Forse è proprio la violenza della misericordia – o potenza  della croce – che sconfigge la violenza del mondo, sapendo che “dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono” (Mt 11,12).
Non mi addentro in ipotesi di lavoro su come reintrodurre la dialettica nel conflitto: dico solo – come provocazione e come invito – che la diversità maturata, espressa, praticata in questi 50 anni da parte di molti deve acquistare un suo spessore teologico e una collocazione pastorale veramente dialettica, appunto attraverso speranza e lotta!  Non importa se solo come  “piccolo resto” o come il più piccolo dei semi: a quando un “cristianesimo non religioso” che regga il confronto con la cristianità storica costituita? E’ qui la sfida aperta lanciata dalla Gaudium et spes!