un’altra rottamazione di … rom

 

 

rottamazione rom

Torino: il maxi sgombero forzato di 200 rom

 

“dacci oggi la nostra rottaamazione quotidiana di rom”

dal sito ’21 luglio’ la puntuale relazione documentata sul posto in diretta dello sgombero forzato di 51 famiglie, che l’Associazione stessa definisce “illegale secondo il diritto internazionale e non rispettosa degli standard e delle garanzie procedurali previste dal Comitato sui Diritti Economici, Sociali e Culturali delle Nazioni Unite”

Da questa mattina è in corso lo sgombero forzato di 51 famiglie rom dal Settore 1 dell’insediamento informale Lungo Stura Lazio a Torino. Per l’Associazione 21 luglio – da alcuni giorni presente sul posto con un osservatore – lo sgombero forzato si configura come un’azione illegale secondo il diritto internazionale e non rispettosa degli standard e delle garanzie procedurali previste dal Comitato sui Diritti Economici, Sociali e Culturali delle Nazioni Unite.

L’azione, inoltre, si pone in aperto contrasto con quanto affermato proprio nei giorni scorsi dalla Commissione Europea contro il razzismo e l’intolleranza del Consiglio d’Europa (ECRI), che aveva sottolineato come l’Italia stia continuando a realizzare sgomberi senza offrire le necessarie garanzie alle persone interessate.

Le operazioni di sgombero sono iniziate alle ore 7 di stamane e sono condotte da polizia locale e polizia di Stato con l’ausilio della Croce Rossa. Sul posto sono presenti due ruspe meccaniche che dalle ore 9 hanno dato inizio all’abbattimento delle abitazioni. Le operazioni coinvolgeranno nelle prossime ore 199 persone di cittadinanza rumena, pari a 51 nuclei familiari. Tra di loro 5 donne in stato di gravidanza e 62 minori, di cui 16 frequentanti la scuola dell’obbligo e uno la scuola dell’infanzia.

L’insediamento informale Lungo Stura Lazio è presente da diversi anni e al suo interno si sta organizzando il progetto del Comune di Torino denominato “La Città possibile”. L’obiettivo del progetto è realizzare percorsi efficaci di integrazione e di cittadinanza per circa un migliaio di persone rom selezionate, di comune accordo con i servizi della Città di Torino e con la Questura di Torino. Tale progetto include solo i soggetti beneficiari mentre per le famiglie classificate dalle autorità come “non beneficiarie” non è previsto alcun tipo di intervento volto all’inclusione.

Nelle settimane passate, alcuni rappresentanti della Polizia Municipale avevano comunicato verbalmente, in assenza di notifica scritta, l’imminente sgombero alle famiglie residenti non beneficiarie del progetto. Lo sgombero di oggi, oltre a comportare la distruzione delle abitazioni e l’allontanamento delle persone che le abitavano, avrà come conseguenza anche la probabile interruzione scolastica per i minori frequentanti la scuola dell’obbligo.

Lo sgombero, così così come pianificato e realizzato, si pone in violazione delle garanzie procedurali che devono essere rispettate nel condurre gli sgomberi, indicate dal Comitato sui Diritti Economici, Sociali e Culturali delle Nazioni Unite. Il suddetto Comitato stabilisce, tra i vari criteri, la necessità che lo sgombero sia accompagnato da una genuina consultazione con gli interessati e dalla valutazione di possibili alternative allo sgombero e che sia offerta agli interessati la possibilità di fare ricorso legale; che lo sgombero non abbia l’esito di rendere senza tetto le persone coinvolte, né di renderle vulnerabili a ulteriori violazioni di altri diritti umani; che qualora le persone coinvolte non siano in grado di provvedere a se stesse, a queste vengano offerte alternative abitative adeguate.

Il 23 febbraio 2015 l’Associazione 21 luglio – in una lettera inviata alle autorità torinesi – aveva scritto che «in assenza delle suddette garanzie l’operazione di sgombero forzato delle famiglie rom residenti nel Settore 1 dell’insediamento di Lungo Stura Lazio, oltre a comportare di per sé una grave violazione dei diritti umani, avrebbe l’esito non di risolvere l’attuale oggettiva inadeguatezza dell’alloggio, ma di reiterarla altrove esacerbando ulteriormente la condizione di vita e rendendo ulteriormente vulnerabili le famiglie coinvolte».

Nella missiva veniva chiesto un intervento urgente «volto a ricondurre tale operazione di sgombero entro un ambito di legalità, attraverso l’apertura di un dialogo con le famiglie rom coinvolte e attraverso l’identificazione preventiva all’operazione di sgombero dell’offerta di soluzioni abitative alternative adeguate rivolta a coloro che non siano in grado di provvedere a loro stessi».

Malgrado l’appello, nella giornata odierna le autorità locali hanno optato per lo sgombero forzato che, secondo l’Associazione 21 luglio oltre a rappresentare una grave violazione dei diritti umani, costituisce un innegabile passo indietro rispetto ai contenuti espressi all’interno della Strategia Nazionale di Inclusione dei Rom, Sinti e Caminanti adottata dal governo italiano in attuazione della Comunicazione della Commissione europea n.173/2011.

ma, intanto:

Corte Europea, stop a sgombero campo Rom

I giudici hanno accolto ricorso di cinque famiglie

 TORINO, 19 MAR – La Corte europea per i diritti dell’uomo ha sospeso lo sgombero del campo nomadi di Lungostura Lazio a Torino, abitato da rom di origine romena. I giudici, accogliendo un ricorso di cinque famiglie, ha bloccato le procedure fino al 26 marzo, ordinando al governo italiano di fornire informazioni sulla sistemazione degli occupanti.




quale emancipazione della donna?

Emancipazione della donna o femminismo cruscante?

a proposito dell’otto marzo e della deriva di un certo famminismo …

per l’8 marzo alcuni stralci di un saggio di Elisabetta Santori, “Appunti per un pensiero de-genere”, che sarà pubblicato integralmente in uno dei prossimi numeri di MicroMega e che costituisce una acuta critica filosofico-linguistica di alcune derive ideologiche “politically correct” che stanno ormai devastando il femminismo e anche la lingua italiana.

di Elisabetta Santori Laura Boldrini, che da Presidente della Camera ha promosso la gender equality nel linguaggio e l’uso della forma femminile per le professioni e gli incarichi istituzionali ricoperti ormai sempre più spesso da donne. Nel luglio 2014, auspice proprio Boldrini, è stato presentato alla Camera “Donne, grammatica e media. Suggerimenti per l’uso dell’italiano” della linguista Cecilia Robustelli (consulente dell’Accademia della Crusca), una guida all’uso non sessista della lingua italiana. L’italiano corrente, vi si legge, non ha ancora preso atto della presenza delle donne nei ruoli apicali e usa ancora il maschile attribuendogli una falsa neutralità, oggi invece «la parità dei diritti passa per il riconoscimento – anche attraverso l’uso della lingua! – della differenza di genere». Via libera dunque a ministra, assessora, sindaca, architetta, ingegnera, avvocata, medica, revisora dei conti, titoli che tanta resistenza incontrano tra i parlanti italiani (mentre non a caso, scrive Robustelli, i nomi che indicano lavori comuni e più modesti, come commessa, impiegata, maestra, operaia, parrucchiera, si sono imposti senza fatica).  (…) Se però vogliamo essere il più possibile laici e obiettivi, non è sempre vero che il linguaggio corrente si rifiuti di accordare al femminile i titoli e i ruoli apicali: direttrice, deputata, senatrice, imprenditrice sono sostantivi ampiamente accettati e transitati nell’uso corrente, contrariamente a quanto afferma Robustelli: su Google, ad esempio, ci sono 3.360 ricorrenze circa della “senatrice Elena Cattaneo” contro le circa 680 della stessa col titolo di “senatore”; e la “deputata Paola Taverna” ricorre 150 volte, mentre solo 4 in veste di “deputato”. Nessun risultato, infine, per “l’imprenditore Lella Golfo”, che compare solo come “imprenditrice”. E allora, se è vero che la lingua italiana è ostaggio dell’androcentrismo, come mai dinanzi a queste femminilizzazioni del ruolo il sessismo linguistico si ritrae? Non sarà che forse gli stiamo addossando anche le colpe che non ha? A decidere della lingua e del genere grammaticale non è sempre e solo il sessismo italiota ma anche l’orecchio collettivo, una sorta di filtro fonetico che si è formato per un deposito storico di rimandi, associazioni mentali, suggestioni in base ai quali certi neologismi vengono accolti e altri vengono lasciati cadere. (…) L’orecchio popolare ha i suoi pudori e le sue remore, le sue preferenze e idiosincrasie che possono risultare decisive per l’uso della lingua (nel 1946 il termine referendum si impose al posto di referendo, vicino a reverendo, nel timore di favorire la DC). Dalle libere associazioni che le parole formano nella nostra mente nascono autocensure e pruderie, ma anche motti di spirito, calembour e persino i capricci linguistici delle avanguardie letterarie; e questa spontaneità della parola, difettosa ma anche ingegnosa e creativa, non si può irreggimentare ope legis con le “Raccomandazioni” o le “Guide” del femminismo cruscante, che per quanto vengano presentate come miti “suggerimenti”, “proposte” o “alternative” non autoritarie e non imposte dall’alto, di fatto diventano coercitive eccome nel momento in cui qualche capo-ufficio legislativo se ne serva coi suoi sottoposti come regole per la redazione di testi ufficiali, o qualche insegnante le utilizzi come paradigma per correggere gli orali e gli scritti dei suoi studenti. In attesa che l’uso e il dibattito sulla femminilizzazione dei nomi di ruolo operino una scrematura tra le pedanterie inutili e le simmetrie praticabili, io, nel mio piccolo, un codice di comportamento linguistico me lo sono dato. E l’ho fatto pensando che il genere femminile è solo una delle mie appartenenze e nemmeno la principale, ma semmai solo un punto di partenza, la fase di startup di un percorso autobiografico che ha incrociato identità diverse e più forti di quella del gender. E siccome la desinenza in -a ci riconoscerà pure in quanto donne, ma non dice nulla di noi come individui e combinazioni irripetibili di identità multiple e/o consecutive, ho deciso di usarla q.b., solo quando non entra in conflitto con la lingua che amo, che ha le sue ragioni, non solo grammaticali, e alla quale appartengo più fortemente che ad un astratto “genere”. Dunque la mia lingua si fletterà alla gender equality, ma non tanto da far sì che il ghenos disponga interamente di lei, trasformandola in un idioma artificiale, pianificato a tavolino come una sorta di esperanto. Ben vengano dunque, nel mio vocabolario personale, gli agentivi in -trice, come la senatrice, l’imprenditrice ecc. (…) Ma la questora, la difensora e la recensora non posso fare a meno di immaginarmele bardate di zinale in un sonetto del Belli, tra la sora Mitirda, la sartora scartata e la mamma uscellatora. Quindi, out. Espunte dal mio vocabolario ed esiliate, assieme alla mammellata architetta, nel gabinetto degli orrori (…) Purtroppo, però, il problema non si esaurisce qui. La questione grammaticale del cosiddetto “maschile inclusivo” è ancora più spinosa. E rischia davvero di infilare il burqa alla spontaneità e alla funzionalità del linguaggio nell’intento di sfilarlo alla desinenza in -a. (…) (8 marzo 2015)

 




pulizia è fatta: di rottami e di … rom

 

sgomberato il campo rom di Torre del Lago

finalmente sgomberato, finalmente si farà pulizia in nome dell’igiene, del decoro ambientale, elle proteste dei vicini … ma gli abitanti di questa grande marginalità che fine hanno fatto? non sembrano trovarsi risposte, ma forse perché si tratta di un problema secondario rispetto a quello assoluto del decoro … 

 

rom Torre del Lago

“Il campo rom abusivo – si legge in una nota del Comune – versa in una condizione insostenibile a causa del totale stato di criticità determinato da un notevole accumulo di rifiuti di ogni genere. Pertanto, il commissario Romeo ha ritenuto necessario ed urgente, a tutela della salute pubblica, disporre lo sgombero e la pulizia del campo che sarà effettuata a cura di Sea Ambiente. Va precisato che, a causa della mancanza di interventi nel corso degli anni sul campo abusivo di Torre del Lago, ad oggi si conta la presenza di 25 roulotte nelle quali gli ospiti vivono in condizioni oltre che di gravi carenze igieniche anche di potenziale pericolo per la loro (e altrui) incolumità, atteso l’uso incontrollato di bombole di gas e strumenti elettrici. Il Comando di Polizia Municipale agirà inoltre in questi giorni nel campo di Torre del Lago P. sia per effettuare serrati controlli sia per svolgere un’opportuna opera di sensibilizzazione nei confronti degli ospiti a lasciare spontaneamente la zona occupata prima che si proceda all’esecuzione coattiva dell’ordinanza del commissario Romeo”.

 

 

camporomsgomberoE’ iniziato alle 8 di stamani (18 marzo) lo sgombero del campo rom di Torre del Lago: il provvedimento è stato disposto con un’ordinanza firmata il 13 marzo scorso dal commissario prefettizio e già sabato l’ordinanza è stata notificata agli abitanti del campo (nella foto di Iacopo Giannini). “Rispondendo alle istanze di migliaia di cittadini di Torre del Lago e di Viareggio – spiega il Comune in una nota – il commissario Romeo ha fatto eseguire la sua ordinanza con lo sgombero coattivo del sito dove si erano stabiliti diversi Rom con un aumento continuo di roulotte”.

Infatti, nella frazione pucciniana sostavano da anni 25 case mobili – ridotte a relitti – in condizioni igienico-sanitarie di estrema criticità. Nella zona dell’insediamento abusivo sono stati scoperti cumuli di rifiuti nocivi per la salute pubblica e condizioni di rischio per la incolumità degli stessi occupanti. “Numerose bombole di gas – sottolinea l’amministrazione – venivano utilizzate senza alcun controllo, in un ambito in cui gli ospitanti si muovevano senza alcun accorgimento minimo per la sicurezza”.
Il commissario Romeo, utilizzando la norma dell’articolo 54 del Tuel, ha così deciso di porre fine “ad una situazione  – si spiega – insostenibile né più tollerabile, sia per i cittadini di Viareggio e Torre del Lago sia per l’incolumità delle famiglie che in quel sito si erano abusivamente sistemate”.
Stamani la polizia municipale, coordinata dal comandante Vasco Comaschi e le forze dell’ordine coordinate dal dirigente del commissariato di Viareggio, Rosaria Gallucci, hanno provveduto a dare esecuzione al provvedimento commissariale attraverso un’azione svolta anche con una preventiva mediazione verso le famiglie rom a lasciare il campo.
La Sea Ambiente, interessata dal Commissario Romeo, ha così provveduto – secondo le disposizioni impartite – a rimuovere e distruggere le case mobili, “all’interno delle quali – spiega la nota del Comune – erano state riscontrate condizioni igieniche e di sicurezza indescrivibili”. La Sea ora sta procedendo alla ripulitura di tutta la zona dei numerosissimi rifiuti che si sono accumulati nel tempo. “Al fine di evitare che possano ripetersi tali situazioni – spiega il Comune di Viareggio – il commissario straordinario ha disposto un serrato controllo anche nelle ore notturne della Polizia Municipale, non solo nella zona oggetto di bonifica ma anche in altri siti dove potrebbero essere state attivate sistemazioni abusive nel comune di Viareggio, in alternativa a quella sgomberata”. Nell’ambito dei controlli effettuati dagli agenti del commissariato proprio nei pressi del campo rom abusivo, è stato pizzicato un ungherese di 30 anni, domiciliato a San Giuliano Terme.
Dagli accertamenti effettuati sono emersi a suo carico diversi pregiudizi di polizia per reati contro il patrimonio: è stato così munito di foglio di via per tre anni dal territorio dei comuni della Versilia.

 




dopo il porrajmos come ricostruire la solidarietà

Luca Bravi, storico, interviene al convegno:

 

“Razzismo e xenofobia in Europa, ieri e oggi: come ricostruire la solidarietà?”

per capire il ‪#‎razzismo‬ oggi è fondamentale conoscere la storia, solo così possiamo avere gli strumenti per smascherare e combattere le discriminazioni

 




le tragedie lette con gli occhi della discriminazione

 

 

 colpevole di essere rom: da Nashville a Roma

due tragedie: due misure

le tragedie sono tragedie, ma se capitano a dei rom sembra che valgano il doppio e da leggere con una severità discriminante:

una analisi di Danilo Giannese in merito a quanto successo in un campo rom nella periferia di Roma, dove un bimbo ha trovato un coltello e ha ferito gravemente la sua amichetta di poco più grande:

 

 

Una settimana fa a Nashville, capitale del Tennessee, Stati Uniti, un bambino di tre anni ha trovato una pistola automatica in casa e ha sparato al fratellino di 18 mesi. Il piccolo, colpito alla testa, è morto sul colpo. Si è trattato di una tragedia. L’ennesima tragedia, negli Stati Uniti, legata alla diffusione delle armi.

Qualche giorno fa, in un campo rom nella periferia di Roma, un bimbo ha trovato un coltello e ha ferito gravemente la sua amichetta poco più grande. Le condizioni della piccola restano gravi ma nelle ultime ore sono stati segnalati dei miglioramenti.

Stesse dinamiche, da Nashville a Roma – con conseguenze differenti, per fortuna. Una tragedia a Nashville, una tragedia – sfiorata – a Roma. Eppure, di fronte a quanto accaduto nel campo rom nella Capitale, in molti, soprattutto sul web, non si sono soffermati sull’aspetto tragico della vicenda ma hanno automaticamente collegato la tragedia alla caratteristica di essere rom della piccola.

Gli utenti del web, nei loro commenti sui siti e social network di riviste e quotidiani on line, non si sono lasciati scappare l’occasione di sputare odio, rabbia, ferocia, cattiveria su un’intera comunità, un intero gruppo di persone. La tragedia che vede un bambino ferire gravemente la sua amichetta con un coltello diventa colpa e responsabilità da addossare “ai rom”, “agli zingari”. Un buon motivo in più per gridar loro contro e auspicarne la cacciata dall’Italia.

«Dovrebbero togliere i figli a sta gente che non li merita!!!!».

«Sempre con questo immaginario del bambino innocente. .il bambino è solo il “prima” dell adulto, e non sempre la precoce età ti rende immacolato.. io la morte non la auguro a nessuno, ma riguardo i rom, sono estremamente razzista».

La bambina è colpevole di essere rom, dunque. E commentare la notizia diventa pretesto per esternare odio e rancore. E addirittura augurarsi la morte della bambina rom.

«Fosse per me…una in meno», recita uno dei commenti, e non è di certo il solo.

Tutto ciò fa riflettere ulteriormente sul livello di antiziganismo – l’intolleranza nei confronti di persone rom e sinte – presente nel nostro Paese.

L’Italia, secondo un rapporto dell’autorevole istituto di ricerca americano PeW Research Center, si pone al primo posto tra i Paesi europei per livello di antiziganismo. L’85% degli intervistati ha espresso una opinione indistintamente negativa verso rom e sinti, contro il 66% in Francia e il 41 % in Spagna, Paesi peraltro in cui i rom sono ben più numerosi che da noi (solamente in Spagna, ad esempio, vivono 800 mila rom).

Nel nostro Paese, poi, si registra più di un caso al giorno di incitamento all’odio e alla discriminazione verso rom e sinti, nella gran parte dei casi riconducibile a frasi e dichiarazioni di esponenti politici. I dati, va da sé, non tengono conto di commenti e esternazioni degli utenti del web, che farebbero schizzare alle stelle questi numeri.

Lo scorso gennaio, in occasione della Giornata della Memoria – giorno in cui si ricordano tutte le vittime delle persecuzioni nazi-fasciste, tra cui oltre 500 mila rom e sinti sterminati nei campi di concentramento – l’Associazione 21 luglio ha presentato il rapporto “Vietato l’ingresso”, curato dal ricercatore Roberto Mazzoli.

La pubblicazione – che si apre con l’analisi dell’episodio del cartello recante la scritta “È severamente vietato l’ingresso agli Zingari”, comparso sulla vetrina di un esercizio commerciale di Roma nel marzo 2014 – ha messo a confronto, attraverso il dialogo, la comunità rom e la comunità ebraica a Roma, due comunità entrambe vittime, nel corso della storia, di discriminazioni, violenza e razzismo. Analizzando e riflettendo sugli stereotipi e i pregiudizi negativi che attanagliano, oggi più di ieri, rom e sinti in Italia.

Sono pregiudizi che continuano a dipingere i rom come autori di azioni illegali e criminali, quando in realtà manca quella sfera che porta in luce realtà totalmente diverse. In Italia ci sono circa 180.000 rom e sinti, di cui tre quarti vivono una vita come quella di qualsiasi cittadino, hanno un lavoro e studiano.

Invece un quarto vive nei ‘campi’ ed è di loro che si parla esclusivamente senza approfondire le cause del disagio all’interno di questi campi, che come ha portato alla luce l’inchiesta ‘Mafia capitale’ sono luoghi di segregazione sui quali ci sono anche interessi economici.

Tutto questo si trasforma in pregiudizio negativo. Tutto questo – unito al fatto che il 99% dei commenti negativi nei confronti di rom e sinti viene da chi un rom o un sinto non l’ha mai conosciuto in vita sua (già, perché l’incontro e il dialogo i pregiudizi li sciolgono come neve al sole) – si trasforma nell’augurar la morte a quella bimba rom in quel campo alla periferia della Capitale.

Mentre a Nashville è avvenuta una tragedia…

 



“gli zingari prendono l’acqua alla fontana”: il Comune la chiude

 Fontana chiusa “perché ci vanno gli zingari”, le associazioni vogliono denunciare il Comune  

 

rom ruba bambini

 

 

dal sito ‘la pagina quotidiana’ di Pisa:

mentre da Palazzo Gambacorti non arrivano repliche alla denuncia di Una città in comune, Africa Insieme e Progetto Rebeldia preparano un’azione legale contro quello che considerano “un atto di palese discriminazione”

Africa Insieme e Progetto Rebeldia sono pronti a citare in giudizio l’amministrazione pisana per la vicenda della fontanella di Putignano, chiusa “perché ci andavano gli zingari”, secondo quanto denunciato dal gruppo consiliare Una città in comune – Prc.

“Riteniamo che questa piccola e vergognosa vicenda non debba passare sotto silenzio – scrivono le associazioni in una nota – per questo abbiamo mobilitato un pool di legali, guidato da Alessandra Ballerini, avvocatessa di Genova, autorevole voce del mondo antirazzista italiano”. I legali stanno valutando se intraprendere un’azione civile contro la discriminazione, in seguito alla quale il giudice potrebbe ordinare una riapertura della fontana o in alternativa limitarsi a multare il Comune, oppure se evitare la via giudiziaria e rivolgersi all’Unar, l’ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali, che non ha potere coercitivo ma che agisce per mettere in atto un meccanismo di conciliazione.

A chiedere conto della chiusura della fontana pubblica è stato Una città in comune-Prc, che l’11 marzo ha presentato un’interrogazione al sindaco Filippeschi. “Abbiamo chiesto informazioni agli uffici comunali – recita il comunicato del gruppo guidato da Ciccio Auletta – per sapere chi avesse la responsabilità della gestione e quali fossero le motivazioni per cui si privavano i cittadini di un servizio pubblico. Gli uffici hanno fornito una risposta celere e precisa alle domande poste. Riportiamo uno stralcio saliente della sbalorditiva mail che abbiamo ricevuto: …mentre per quanto riguarda la fontana di via Putignano 21 è stata richiesta la cessazione nel 2009 perché ci andavano a prendere l’acqua gli zingari”. 

“Apprendiamo da questa mail – scrive Ucic – che vi sono categorie di cittadini, i rom, che non devono utilizzare un servizio pubblico. Nessuno nega che in questo momento il quartiere di Putignano sia attraversato da conflitti, a volte strumentalizzati da alcuni gruppi politici: ma è opportuno ricordare che chi toglie diritti a una specifica categoria, finisce per toglierli a tutti. E questa piccola vicenda ne è una dimostrazione: l’acqua, risorsa vitale e irrinunciabile, il cui accesso deve essere equamente garantito in quanto estensione del diritto alla vita contenuto nella Dichiarazione Universale dei Diritti, è stata negata a tutti i cittadini per impedire che un particolare gruppo di abitanti del quartiere la utilizzasse”.

“È bene ricordare al Comune che la chiusura della fontanella costituisce un atto di palese discriminazione” conclude la nota di Una città in comune, “chiediamo al sindaco e alla giunta se la risposta fornita dagli uffici corrisponda alla posizione ufficiale del Comune. Se così non fosse, chiediamo che la fontanella sia immediatamente riaperta all’uso di tutta la cittadinanza”.

Contattato da paginaQ, il sindaco Filippeschi afferma di non essere a conoscenza della vicenda, a cinque giorni dalla denuncia del gruppo di opposizione Palazzo Gambacorti non si è ancora espresso sulla vicenda, un “silenzio”, quello della giunta, che Africa Insieme e Progetto Rebeldia considerano “emblematico e assordante”.

– See more at: http://www.paginaq.it/2015/03/16/fontana-chiusa-perche-ci-vanno-gli-zingari-le-associazioni-vogliono-denunciare-il-comune/#sthash.2XVXk3yA.dpuf




“chi sono io per giudicare o condannare?”

   “quando un gay cerca il Signore”

di Enzo Bianchi

priore della Comunità di Bose

(Tuttolibri – La Stampa, 07/03/2015)

Bianchi
“Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarlo?”

Questa frase, pronunciata da papa Francesco in un’intervista estemporanea durante il volo di ritorno dalla Giornata mondiale della gioventù in Brasile, venne considerata eccessiva da alcuni, inopportuna ad altri, bisognosa di precisazioni e distinguo da altri ancora, o ancora avventata, fuorviante, dissacratoria… Altri, troppo pochi in verità, l’hanno subito colta non solo come un’affermazione puntuale rispetto a un preciso argomento di pastorale, ma come una chiave di lettura del modo stesso di porsi del nuovo papa, arrivato a sorpresa e sconosciuto ai più sul soglio di Pietro. Sì, perché – come ricorda Raniero La Valle nel volume uscito in occasione dei due anni di pontificato di papa Bergoglio (Chi sono io, Francesco?, Ponte alle Grazie, pp. 204, € 14,00) – una frase analoga risale addirittura all’apostolo Pietro, di cui papa Francesco è successore come vescovo di Roma: “ Chi ero io per porre impedimento a Dio? (At 11,17). Così Pietro aveva risposto agli uomini religiosi che lo criticavano per essere entrato in una casa di pagani, aver mangiato con loro e aver attestato che lo Spirito santo li aveva “battezzati”.
In questa domanda che non è retorica c’è tutta la consapevolezza di essere “servo dei servi di Dio”, sottomesso nell’obbedienza all’agire dell’unico Signore della chiesa che pensa, parla, agisce e ama con criteri che non sono i criteri umani e che non lasciano che la misericordia sia ostacolata dalla rigidità di una legge separata dall’amore del legislatore. E il libro di La Valle ripercorre così due anni di parole e gesti di papa Francesco.
Ma, parafrasando il titolo, «Chi è lui, Raniero La Valle per scrivere queste “cronache di cose mai viste”»? Un giornalista di grande professionalità, un cristiano segnato da papa Giovanni e dal concilio, un uomo politico nel senso alto del termine. Direttore dell’Avvenire d’Italia negli anni del Vaticano II, poi senatore e deputato per quattro legislature, co-fondatore di Bozze 78 (ebbi la gioia di far parte di quel gruppo di amici che vollero dar vita ad una rivista di riflessione sulla presenza dei cristiani nella società civile), sempre in prima fila nelle battaglie per la pace e la giustizia, a tempo e contro-tempo. Anche per questo la riflessione che attraversa le pagine fondandosi sulle parole di papa Francesco sa cogliere in profondità snodi decisivi per la testimonianza cristiana: la pace e il rifiuto della violenza, la ricerca di un’autentica sinodalità nella guida e nella vita della chiesa, l’attenzione ad ogni genere di povertà e di ferita umana, l’uso sovrabbondante della misericordia, la libertà di un pensiero e di un’azione che si rifanno costantemente al vangelo e che ad esso rimandano in radicale semplicità …
Sì, forse molte delle “cose” operate da papa Francesco, Raniero La Valle e molti di noi non le avevamo “mai viste”. Di certo le abbiamo a lungo sognate.




il fast food fuori posto all’Expo, anzi insultante

 

 

Erode-fast food all’Expo

 
 

 

che ci fa MacDonald’s, simbolo della cattiva alimentazione globalizzata, alla manifestazione di Milano?
Se lo chiedono Agnoletto e Molinari, esponenti dei movimenti no-Expo. E criticano chi, nella società civile, ha scelto di confrontarsi con Expo

di Raffaello Zordan

Vittorio Agnoletto non ci sta. Attacca l’Expo 2015 e chiede un ravvedimento alle numerose associazioni della società civile che, pur contestando l’agrobusiness, hanno deciso di confrontarsi con il modello di produzione e di mercato proposto dall’esposizione universale che si terrà a Milano da maggio a ottobre.

Agnoletto, medico, docente universitario ed esponente fin dagli anni Novanta dei movimenti che criticano la globalizzazione ironizza sul fatto che McDonals’s sarà presente all’Expo con un ristorante da 300 posti.

«Sarebbe come far diventare Erode testimonial d’onore di Unicef», dice in un comunicato scritto con Emilio Molinari, entrambi del gruppo CostituzioneBeniComuni. «Basti ricordare, a proposito dell’industria del fast food, che gran parte del mangime di soia utilizzato per far ingrassare alla velocità della luce i polli è coltivato in Amazzonia attraverso la distruzione di rilevanti porzioni di quella foresta che resta il principale polmone del pianeta; e che 1kg di carne e frattaglie tritate produce diversi kg di anidride carbonica con un disastroso equilibrio fra rendimento alimentare e inquinamento. Inoltre non è certo un segreto il contributo che questo tipo di alimentazione fornisce all’obesità e all’ipertensione, patologie caratteristiche della nostra epoca».

E rincara: «I dirigenti di Expo affermano che la missione dell’evento è di “dare una risposta a all’esigenza vitale di garantire cibo sano, sicuro, che non produca obesità e sufficiente per tutti i popoli, nel rispetto del pianeta e dei suoi equilibri”. Ma ci vuole uno stomaco bello forte per rendere questa missione compatibile con la partecipazione di McDonald’s e Coca Cola».

Nell’augurarsi di poter coinvolgere anche altri nell’indignazione verso «le continue manifestazioni d’imbroglio culturale che caratterizzano Expo», Agnoletto e Molinari rivolgono «un appello alla riflessione a quanti, impegnati in prospettive alternative alla globalizzazione alimentare, hanno dato la loro adesione, seppure in forme diverse, al contenitore Expo, fornendole l’alibi di un impegno sociale per il bene comune del quale francamente si fatica a trovarne traccia».

L’appello è rivolto a settori importanti della società civile che hanno scelto una strategia diversa rispetto all’Expo, alla filiera agroalimentare e al diritto al cibo: non lasciare tutta la scena alle multinazionali, ma elaborare e comunicare proposte diverse. Innanzitutto Expo dei Popoli, che riunisce una quarantina di realtà, che agirà negli spazi della Fabbrica del vapore, quindi fuori dal territorio Expo, e che in maniera del tutto indipendente e in dialogo con reti internazionali di produttori di cibo (contadini, allevatori, pescatori…) proporrà soluzioni alternative all’insegna della sovranità alimentare e del diritto alla terra, acqua, alle sementi.

Destinatarie dell’appello sono anche quelle associazioni che hanno scelto di stare dentro gli spazi e le dinamiche dell’Expo e che condurranno le loro attività nell’area della Cascina Triulza, appositamente riservata dall’Expo alla società civile.




il papa che ama le periferie

 

Il Papa e la Chiesa di popolo

«Vedo meglio dalle periferie» 

Francesco papa

di Franca Giansoldati

in “Il Messaggero” del 13 marzo 2015

è il Papa che sta insegnando alla Chiesa ad affrontare i confini. A misurare le periferie. Periferie fisiche, del cuore, esistenziali, geografiche. In questi due anni di pontificato Francesco non ha fatto altro, e il risultato raggiunto ha un segno positivo

Da quel saluto non convenzionale («fratelli e sorelle buonasera») dalla Loggia delle Benedizioni, il 13 marzo 2013, fino alla messa che programmata per il Giovedì Santo a Rebibbia. Si inginocchierà lavando i piedi a dodici ergastolani, uomini e donne. Le periferie appunto. I giorni che si sono succeduti dalla sua prima apparizione pubblica in poi, si sono riempiti via via di azioni dirompenti, di atti non convenzionali, di discorsi franchi e diretti, persino di sbagli fatti in buona fede, di frasi sopra le righe ma bonarie, battute divertenti, capaci di introdurre al centro il linguaggio della periferia, tanto da cambiare la percezione della Chiesa, del Vaticano, del Papa stesso.

«ALLONTARSI DAL CENTRO»

Rispetto a due anni fa l’immagine complessiva della Chiesa è differente. Più dialogante, più inclusiva, più di popolo. Come se qualcuno avesse spannato uno specchio da troppo tempo offuscato. Questione di confini. Il lievito di evangelica memoria che emerge. Il programma che sta realizzando il Papa argentino mette al centro la responsabilità dei cristiani e il loro modo di rapportarsi al mondo circostante, ampliando il raggio d’azione, includendo anche quegli spazi che, in un modo o nell’altro, solitamente non si controllavano. Dal centro si marcia verso la periferia. «Nella misura in cui usciamo dal centro e ci allontaniamo da esso scopriamo più cose, e quando guardiamo al centro da queste nuove cose che abbiamo scoperto, da nuovi posti, da queste periferie, vediamo che la realtà è diversa». Questa frase chiave per capire cosa ha in testa Bergoglio è stata affidata pochi giorni fa al giornale dei Villeros, i poveri delle favelas di Buenos Aires. Gli avevano mandato una serie di domande, sperando che trovasse il tempo di rispondere, e così è stato. «Una cosa è osservare la realtà dal centro e un’altra è guardarla dall’ultimo posto dove tu sei arrivato. Un esempio: l’Europa vista da Madrid nel XVI secolo era una cosa, però quando Magellano arriva alla fine del continente americano, guarda all’Europa dal nuovo punto raggiunto e capisce un’altra cosa. La realtà si vede meglio dalla periferia che dal centro. Compresa la realtà di una persona, la periferia esistenziale, o la realtà del suo pensiero; tu puoi avere un pensiero molto strutturato ma quando ti confronti con qualcuno che non la pensa come te, in qualche modo devi cercare ragioni per sostenere questo tuo pensiero; incomincia il dibattito, e la periferia del pensiero dell’altro ti arricchisce».

Da questa piattaforma si può declinare ogni azione di governo del Papa argentino. All’interno della curia dove sono iniziate le riforme, allo Ior che sta rinunciando al segreto bancario, tra i vescovi ai quali chiede di rivedere tanti criteri nell’esercizio delle loro funzioni pastorali.

DIALOGO E SVOLTE STORICHE

L’impatto di Francesco è stato vitale anche in diplomazia. Sotto di lui ha ripreso a volare la grande scuola di Paolo VI. Grazie alla fiducia che riesce a infondere gli Usa di Omaba e la Cuba di Castro si sono per la prima volta messi attorno ad un tavolo per avviare un negoziato dai contorni storici. Anche atri dossier attendono aperti nel frattempo: la Cina e i rapporti con Pechino, il Vietnam, la Turchia e l’Armenia, l’Ucraina. L’idea di fiducia nell’uomo si trasmette anche alle nazioni. «Tutte le persone possono cambiare».

«VORREI MANGIARE UNA PIZZA»

Francesco sostiene che non si tratta di ottimismo, ma di fede. «Fede nella persona che è figlia di Dio e non abbandona i suoi figli». Tenerezza e misericordia, capacità di rialzarsi dopo una caduta, sapendo che Dio è più grande di ogni dolore, di ogni sbaglio, di ogni perdita. Bergoglio ama ribadire durante le prediche del mattino a Santa Marta che la persona è immagine di Dio «e che Dio non disprezza la propria immagine, in qualche modo la riscatta, trova sempre il modo di recuperarla quando è offuscata; Noi figli di Dio ne combiniamo di tutti i colori, sbagliamo ad ogni piè sospinto, pecchiamo, ma quando chiediamo perdono Lui sempre ci perdona. Non si stanca di perdonare; siamo noi che, quando crediamo di saperla lunga, ci stanchiamo di chiedere perdono». Papa Bergoglio insegna ad ascoltare i rumori della foresta che cresce. «Ascoltare le persone, a me, non ha mai fatto male. Ogni volta che le ho ascoltate, mi è sempre andata bene. Le volte che non le ho ascoltate mi è andata male. Perché anche se non sei d’accordo con loro, sempre – sempre! – ti danno qualcosa o ti mettono in una situazione che ti spinge a ripensare le tue posizioni. E questo ti arricchisce». Due anni tempo di bilanci anche per Francesco: alla giornalista messicana Valentina Alazraki, star di Televisa, due giorni fa ha assicurato che fare il Papa gli sta piacendo, solo che vorrebbe avere la possibilità di uscire la sera in incognito per Roma «per andare a mangiare una pizza».




un giorno bellissimo!

 La data della beatificazione di Oscar Romero è stata fissata: la cerimonia si svolgerà a San Salvador il prossimo 23 maggio

Romero

Lo rende noto oggi, nel corso della sua visita in Salvador, monsignor Vincenzo Paglia, postulatore della causa dell’arcivescovo martire. Si conclude così con gli onori degli altari il lungo e travagliato corso della causa di canonizzazione del pastore assassinato in odio della fede il 24 marzo 1980

Ed è certamente significativo che la comunicazione ufficiale del giorno della solenne celebrazione, che sarà presieduta dal prefetto della Congregazione delle cause dei santi, sia stata scelta proprio alla vigilia di un’altra ricorrenza: quella dell’assassinio del gesuita salvadoregno Rutilio Grande, avvenuto il 12 marzo 1977, tre anni prima la morte di Romero. Padre Grande, crivellato di colpi insieme a due campesinos mentre si recava a dire la Messa in una zona rurale, è stata la prima vittima della serie di delitti contro il clero, la prima della violenta persecuzione in un Paese governato da un’oligarchia che si professava cattolica.

Anche per il sacerdote gesuita è ora in corso la causa di canonizzazione, istruita dalla diocesi salvadoregna ai primi di gennaio. Ed è intenzione della Chiesa centroamericana condurre questa causa parallelamente a quella di Romero verso il pieno riconoscimento della santità. Il motivo è questo: lo «stretto legame che li unisce in una prospettiva teologica e pastorale», perché, come afferma monsignor Paglia, «è impossibile comprendere Romero senza comprendere Rutilio Grande».

Quella di padre Grande è una figura chiave nella quale s’illumina e si riflette a fondo l’azione e la conversione pastorale di Romero in quel difficile e controverso frangente storico in favore della difesa degli oppressi, dei poveri e della giustizia sociale. La sua morte segnò profondamente gli ultimi tre anni della sua vita.

Romero lo aveva conosciuto nel 1967 nel seminario di San Josè de la Montana, dove padre Rutilio insegnava. «Pur esitante nelle amicizie intime con altri ecclesiastici, Romero strinse con lui un rapporto di amicizia fraterna, di fiducia, che segnò i momenti importanti della sua vita», afferma nella biografia Primero Dios (Mondadori) lo storico Morozzo della Rocca. Padre Rutilio fu maestro di cerimonie alla sua consacrazione episcopale nel 1970.

Egli lo sentiva come un fratello, lo considerava un uomo di Dio. Era un gesuita non di origini iberiche, come molti suoi confratelli in Salvador, diverso dal gruppo dei gesuiti accademici dell’Università Centroamericana (Uca) – l’istituzione salvadoregna dove l’alta cultura impartita mirava a formare la classe dirigente alternativa chiamata a cambiare il Paese – da Rutilio chiamati scherzosamente «maestri d’Israele». Non condivideva il pensiero teoretico di padre Ignacio Ellacuria, l’intellettuale per eccellenza dei gesuiti in Salvador che teorizzava e perseguiva un progetto di cambiamento politico riformista del Paese. Rutilio non voleva coinvolgersi in questi piani che allontanavano dalla realtà.

Scrive un suo confratello: «Riteneva che l’unica soluzione dei mali del Salvador, la cui anima era rurale, fosse la comunicazione del Vangelo
tra il popolo e con il popolo dei contadini. Aveva la convinzione, nata da un’ispirazione d’amore, che la sequela di Gesù e il Vangelo potessero portare a un cambiamento più profondo delle persone e delle strutture che non qualsiasi programma politico».

Nel 1972 rinuncia al lavoro accademico, lascia la capitale, sente di seguire ciò che Dio gli indica in quel momento: andare a vivere poveramente fra i campesinos di Aguilares, nel paese dove era nato. Non si tratta, quindi, di una scelta per motivi sociologici o politici. I motivi dell’opzione sono teologici: «Perché è Dio che ama e preferisce i poveri, perché è a loro che è concessa la sua prima misericordia», afferma. «Si tratta – aggiunge – di non mutilare Cristo e accettare la centralità dei poveri così come la presenta il Vangelo e di riconoscerli come veri costruttori del Regno di Dio, accettare che attraverso di essi debba fondarsi il regno di Dio», e in questo, per Rutilio, «era in gioco la fedeltà alla Chiesa, a Cristo». La pastorale che animava padre Rutilio significava perciò leggere la realtà alla luce del Vangelo e accompagnare l’azione liberatrice di Dio in mezzo al popolo. Cercò così fedelmente la strada per la liberazione integrale del suo popolo, dei campesinos, portando e ricevendo fino in fondo la novità evangelica senza cadere nei riduzionismi delle ideologie.

«La liberazione che padre Grande predicava s’ispirava alla fede», afferma Romero al funerale di Rutilio. «La liberazione che termina nella felicità di Dio, la liberazione che inizia dal pentimento per il peccato, la liberazione fondata su Cristo, unica forza che salva: questa è liberazione che Rutilio Grande ha predicato…. magari la conoscessero i movimenti sensibili alla questione sociale. Non si esporrebbero all’insuccesso, alla miopia che fa vedere le cose temporali, strutture del tempo. Finché non si vive una conversione del cuore… tutto sarà debole, rivoluzionario, passeggero, violento. Non cristiano».

Quello che Romero fece proprio di quel sacerdote missionario è la conversione pastorale conforme al paragrafo 28 della Evangelii nuntiandi. E certamente l’assassinio di padre Rutilio determinò in lui uno spirito di fortaleza, come la chiamò egli stesso. Una coscienza di dover agire in quel momento con più coraggio e richiamando all’amore evangelico nella vita sociale.

Al suo funerale, di fronte a una folla enorme, Romero sottolineò la motivazione d’amore che aveva guidato Rutilio nel vivere il Vangelo tra i campesinos: «L’amore vero è quello che porta Rutilio Grande alla morte mentre dà la mano a due contadini. Così ama la Chiesa: con loro muore e con loro si presenta alla trascendenza del cielo. Li ama. È significativo che mentre padre Grande sta andando verso il suo popolo per portare l’Eucaristia e il messaggio della salvezza, proprio allora cade crivellato. Un sacerdote con i suoi contadini, verso il suo popolo per identificarsi con loro, per vivere con loro, non per ispirazione rivoluzionaria, ma per ispirazione d’amore, e precisamente perché è amore quello che ci ispira, fratelli…».

Papa Francesco ha avuto modo di incontrare questo suo confratello negli anni Settanta: «Ho conosciuto Rutilio Grande una volta in una riunione di latinoamericani, tuttavia non parlai con lui. Dopo la sua morte me ne interessai molto. Lasciò il ‘centro’ per andare alla periferia. Un grande».

 

Dopo decenni di attesa, l’annuncio dello sblocco della causa di beatificazione di monsignor Romero era giunto per bocca di monsignor Paglia il 20 aprile del 2013, in concomitanza con l’anniversario della morte di don Tonino Bello, già vescovo di Molfetta e presidente di Pax Christi.
 Monsignor Paglia aveva parlato dalla Cattedrale di Molfetta pochi giorni dopo un’udienza con il Papa, auspicando che il processo di beatificazione di don Tonino “presto possa accodarsi a quello di monsignor Romero”.