demolizione!!! … ma all’orizzonte ‘europeo’ una speranza!

 

demolizione della vita!

dissacrazione della vita!

profanazione della vita!

vorrei capire quando i ‘pro vita’ decideranno una loro presenza ‘resistente’ a tutela integrale della vita!

 

 

 

 ma, nel momento della massima depressione, una bella notizia: forse tutto è sospeso!
così leggo in questa bella ricostruzione di Sergio Bontempelli: “di fronte all’imminente sgombero, però, alcune famiglie hanno deciso di rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la quale – è notizia di queste ore – ha deciso di sospendere la demolizione del campo” :

Torino, sgombero bloccato

Sergio Bontempelli

24 marzo 2015

lungosturaÈ uno strano paese, l’Italia: l’unico, forse, in cui gli enti locali fanno progetti per «superare la logica degli sgomberi» e poi continuano a mandare le ruspe nei campi rom. E’ inoltre, se non proprio l’unico, il più pervicace – almeno in Europa – nel violare le norme internazionali sui diritti umani: soprattutto se quelle norme riguardano, per l’appunto, i rom e i sinti.

L’ultimo esempio viene da Torino: qui, il Comune ha promosso un programma di inserimento abitativo per le famiglie dei campi e, contemporaneamente, ha avviato un nuovo ciclo di sgomberi. Così, mentre decine di nuclei possono lasciare le loro baracche e entrare in vere e proprie case, per altre centinaia di persone è ricominciato l’incubo delle ruspe. Sembra un paradosso, eppure non è la prima volta che accade. Ma a questo punto sarà bene andare con ordine e vedere da vicino quel che è successo.

La Città Possibile
Dunque, si diceva, l’Amministrazione Comunale ha promosso, nel Dicembre 2013, un programma di «superamento dei campi» chiamato La Città Possibile. «Lo scopo del Progetto – si legge nella locandina di presentazione curata dagli enti gestori – è quello di realizzare percorsi efficaci di integrazione per circa 1300 persone di etnia rom». In pratica, gli interventi consistono nell’inserimento in alloggi, nell’aiuto per la ricerca di un lavoro, nella regolarizzazione delle pratiche di soggiorno e di residenza. Per i rom romeni che intendono tornare nel loro paese è previsto anche il rimpatrio assistito.

Fin qui, si tratta di un progetto ambizioso, che punta al superamento dei campi nomadi. Il programma, però, è rivolto a 1300 persone, mentre i rom sul territorio sono almeno il doppio: 2250 tra uomini, donne e bambini, secondo una rilevazione dell’Associazione 21 Luglio aggiornata al 2013, anno di inizio del progetto [si veda il dossier Figli dei Campi, pag. 30].

Beneficiari ed esclusi
Come sono stati selezionati, dunque, i beneficiari del progetto? Con quali criteri si è deciso di includere alcune famiglie per escluderne altre? Ma soprattutto: che fine fanno gli esclusi, quelli che non rientrano negli interventi di inserimento? Per la verità, le risposte date dal Comune a queste domande sono state sempre molto vaghe. E hanno suscitato le critiche degli osservatori più attenti: come Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 Luglio, che ha seguito sin dall’inizio tutta la vicenda.

Tra i criteri individuati da Palazzo Civico per selezionare i beneficiari c’è quello della legalità (sono stati esclusi i rom che hanno commesso reati gravi) e quello del censimento (usufruiscono degli interventi solo i nuclei censiti dagli uffici comunali prima dell’avvio del progetto). «Si tratta di criteri molto discutibili – ci spiega Stasolla – Se un rom ha compiuto un reato, di fatto viene condannata tutta la sua famiglia, minori compresi. Quanto al censimento, si rischia di escludere alcune persone in modo casuale, magari perché al momento della rilevazione non erano a Torino».

Ma il punto più delicato sta nella sorte degli esclusi: già, perché tutti coloro che non rientrano nel progetto sono di fatto consegnati ai «soliti» sgomberi. Lo dimostra proprio la recentissima vicenda del Lungo Stura Lazio.

Lungo Stura Lazio, ripartono gli sgomberi
Il campo di «Lungo Stura Lazio» è uno dei maggiori insediamenti di Torino. Qui vivevano qualche mese fa più di 120 famiglie, per un totale di 850 persone: con l’avvio del programma Le Città Possibili, molti nuclei hanno lasciato il campo e si sono visti assegnare delle vere e proprie case. Ma, appunto, restava da capire il destino degli «esclusi».

«La risposta del Comune è stata chiarissima – ci spiega ancora il Presidente dell’Associazione 21 Luglio – tutte le famiglie non beneficiarie devono essere sgomberate, allontanate senza alternative: devono andarsene e basta». Gli sgomberi sono iniziati già nel mese di Febbraio, ma l’allontanamento definitivo era previsto entro il 31 Marzo. «La demolizione dei campi – si accalora Stasolla – è illegale se non vengono proposte delle alternative. Questi sgomberi sono una macchia indelebile, una luce oscura sull’intera azione del Comune di Torino».

Sulla stessa lunghezza d’onda anche l’eurodeputata Barbara Spinelli, che ha inviato una lettera al Prefetto di Torino: gli sgomberi, si legge nella missiva, non possono avvenire se non è rispettato «il diritto a un alloggio dignitoso per tutti».

La decisione della Corte Europea
Di fronte all’imminente sgombero, però, alcune famiglie hanno deciso di rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la quale – è notizia di queste ore – ha deciso di sospendere la demolizione del campo. A seguire il ricorso è Gianluca Vitale, avvocato torinese e dirigente dell’Asgi (l’Associazione di Studi Giuridici sull’Immigrazione), che abbiamo raggiunto per telefono. «È presto per cantare vittoria – spiega – la Corte non è entrata nel merito, cioè non ha detto se lo sgombero è legittimo o meno. Si è limitata a concedere una sospensione in attesa di chiarimenti».

Eppure, a vederlo dall’esterno, si tratta di un risultato in qualche modo storico: perché, se la memoria non ci inganna, è la prima volta che una corte internazionale interviene per bloccare uno sgombero (di solito, le sentenze venivano pronunciate ex post, a demolizione avvenuta). «Sicuramente è una buona premessa – spiega ancora Vitale – Nella nostra memoria difensiva abbiamo spiegato che lo sgombero viola il diritto alla vita privata e familiare, e comunque deve essere eseguito garantendo una qualche sistemazione alle persone coinvolte. Cosa che non è avvenuta nel caso di Lungo Stura Lazio. Vedremo come si pronuncerà la Corte nel merito».

Uomini e topi
Finché si parla del ricorso alla Corte Europea, Vitale ha una voce pacata, argomenta con calma, soppesa attentamente le parole. Poi però il discorso cade sulle polemiche cittadine che, inevitabilmente, hanno accompagnato le notizie degli ultimi giorni: qui, l’avvocato perde la sua flemma «sabauda» e non nasconde la sua rabbia.

«È stato detto che lo sgombero è necessario, perché gli esseri umani non possono vivere in mezzo ai topi – si accalora Vitale – e su questo siamo d’accordo: nessuno deve vivere in mezzo ai topi. Ma se sgomberi una famiglia e non garantisci delle alternative, dove andranno a vivere queste persone?».

La domanda è retorica e, infatti, Vitale ha già la risposta pronta: «è evidente che andranno a vivere sempre in mezzo ai topi, ma da un’altra parte, magari lontano dai nostri occhi…a me pare che questo sia uno sgombero Nimby, come dicono gli inglesi: voglio dire, c’è qualcuno che vuole i rom “Nimby”, cioè “Not In My BackYard”, non nel mio cortile di casa…questo mi pare il problema vero».

Sergio Bontempelli

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la nuova moda: ‘denomadizzare’

 

“Massa città denomadizzata”

 il cartello abusivo scatena le polemiche

  l’autore replica: “Non sono razzista”

a provocazione del consigliere comunale di Forza Italia Stefano Benedetti dopo l’incendio accidentale di alcune roulotte
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il sindaco che vorrebbe i lager per i rom

      il sindaco leghista vorrebbe i lager per i rom

un post su facebook fa scoppiare la protesta

  

 Durante una discussione sul gruppo Facebook “Sei di Cittadella se…” il sindaco leghista della città, Giuseppe Pan, ha fatto delle affermazioni che hanno provocato reazioni di sconcerto nei suoi concittadini lamentando la mancanza di “lager per rom”. 
La querelle è scoppiata attorno a uno dei molti post che denunciavano la presenza di alcuni nomadi che sostano lungo il Brenta, tra Fontaniva, Cittadella e Tezze, generando disagio tra i residenti. Rispondendo a un commento che lo accusava di fare poco o nulla per risolvere il problema, il primo cittadino ha scritto che non essendoci lager per i rom nella città la questione non è di facile soluzione.

A un certo punto del dibattito, un cittadellese incalza Pan: “Strano che un comune leghista come Cittadella non faccia nulla. Pan dove sito? Magnito skei e basta?” La replica non si fa attendere: «Sono sempre gli stessi rom che continuamente sgombriamo da case abusivamente occupate o da campeggi in Brenta o in giro per i campi! Sono stati assegnati come domicilio da un giudice italiano tra Cittadella, Fontaniva e Tezze! Non hanno una dimora e vagano disseminandosi nel territorio». E poi arriva la frase incriminata, con Pan che – rivolto al concittadino – dice: “Visto che i lager non ci sono e tanto meno i campi rom, se vuoi provare tu!”.

Il segretario del Pd, Adamo Zambon, attacca: “Il peggio non è mai morto: Lega fascista, estremista e razzista. Questo non può essere il linguaggio di una persona delle istituzioni. È un linguaggio da bar sport. Se un sindaco, dotato di amplissimi poteri per garantire la sicurezza della sua città, non riesce a trovare di meglio che invocare i campi di sterminio, significa che non è in grado di esercitare le sue funzioni e quindi è il caso che si dimetta”.

“Il Pd vuole solo strumentalizzare”, obietta il sindaco, “con la mia affermazione volevo dire proprio il contrario, i lager per fortuna non esistono più e il nazismo è ben lontano. Io, a differenza di chi chiacchiera e basta, sto cercando una soluzione concreta”.

bufera sul sindaco di Cittadella: «Non ci sono i lager per i rom»

Il caso scoppia quando dal gruppo Facebook “Sei di Cittadella se” parte un sos: «Brutti ceffi lungo il Brenta. Sindaco, dove sei?». La risposta di Giuseppe Pan scatena l’opposizione, il Pd chiede le dimissioni

 Polemica su Facebook attorno ai rom, il sindaco Giuseppe Pan parla di «lager» ed esplode la bagarre, con il Pd che chiede le dimissioni e il primo cittadino che si difende: «Travisate le mie affermazioni». La querelle è scoppiata attorno all’ennesimo post pubblicato sul gruppo «Sei di Cittadella se»: denuncia dei nomadi che sostano lungo il Brenta, tra Fontaniva, Cittadella e Tezze, generando disagio in alcuni residenti e frequentatori dello spazio in riva al fiume.

A un certo punto del dibattito, un cittadellese incalza Pan: «Strano che un comune leghista come Cittadella non faccia nulla. Pan dove sito? Magnito skei e basta?» La replica non si fa attendere: «Sono sempre gli stessi rom che continuamente sgombriamo da case abusivamente occupate o da campeggi in Brenta o in giro per i campi! Sono stati assegnati come domicilio da un giudice italiano tra Cittadella, Fontaniva e Tezze! Non hanno una dimora e vagano disseminandosi nel territorio». E poi arriva la frase incriminata, con Pan che – rivolto al concittadino – dice: «Visto che i lager non ci sono e tanto meno i campi rom, se vuoi provare tu!».

Il segretario del Pd, Adamo Zambon, attacca: «Il peggio non è mai morto: Lega fascista, estremista e razzista. Questo non può essere il linguaggio di una persona delle istituzioni. È un linguaggio da bar sport. Se un sindaco, dotato di amplissimi poteri per garantire la sicurezza della sua città, non riesce a trovare di meglio che invocare i campi di sterminio, significa che non è in grado di esercitare le sue funzioni e quindi è il caso che si dimetta».

«Il Pd vuole solo strumentalizzare», obietta il sindaco, «con la mia affermazione volevo dire proprio il contrario, i lager per fortuna non esistono più e il nazismo è ben lontano. Io, a differenza di chi chiacchiera e basta, sto cercando una soluzione concreta, sono andato a parlare con queste persone, ci sono casi molto problematici, anche di alcol, e sono in contatto con alcune associazioni per provare a gestire la situazione e trovare loro una casa, non voglio né tendopoli né i vigili, che al massimo possono solo spostarli di qua e di là».

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intervista ai ‘teologo del grido dei poveri’

Jon Sobrino

teologo del grido dei poveri

Sobrino

intervista a Jon Sobrino, a cura di Nicolas Senèze in “La Croix” del 21 marzo 2015 (traduzione: www.finesettimana.org)

trentacinque anni fa, il 24 marzo 1980, veniva assassinato mons. Oscar Romero. Collaboratore e amico di colui che sarà beatificato il 23 maggio, il gesuita spagnolo Jon Sobrino è anche l’autore di un’opera teologica nel filone della teologia della liberazione, di cui le edizioni du Cerf  hanno appena tradotto la parte cristologica più controversa.

Padre Jon Sobrino lo riconosce subito: “Io non sono povero. Per ragioni di salute, non mi hanno mai autorizzato ad abitare con i poveri: di fatto, ho conosciuto pochi poveri”. Un paradosso per uno dei capofila della teologia della liberazione, che vuole essere appunto una teologia di indignazione e di impegno dalla parte dei più poveri! “Ma cerco di esprimere la voce dei poveri: di coloro che sono perseguitati, o che hanno dovuto lasciare il proprio paese, che sono oppressi dalla fatica. Lascio che questa sofferenza mi coinvolga per fare il mio lavoro teologico”, riassume. La sua opera cristologica è appena stata tradotta in francese, circa venticinque anni dopo la sua prima pubblicazione in spagnolo (1).

Fu al ritorno in Salvador, dopo gli studi negli Stati Uniti e in Germania, che il giovane gesuita spagnolo scoprì i poveri. “Avevo studiato teologia in Europa senza accorgermi di quello che stava succedendo in America Latina con Gesù Cristo”, confida, di passaggio in Francia. Otto anni dopo l’assemblea del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) di Medellin (Colombia, 1968), il continente è in piena ebollizione teologica. “Il documento di Medellin cominciava con queste parole: ‘La miseria come fatto collettivo è un’ingiustizia che grida al cielo’”, ricorda padre Sobrino. È stato sentito il clamore dei poveri. In quell’irruzione dei poveri, molti credenti hanno percepito l’irruzione di Dio. Un Gesù reale aveva fatto irruzione con contorni propri e con la capacità di plasmare non solo la teologia e la devozione, ma la realtà dei credenti, delle comunità”. Jon Sobrino si mette allora al seguito dei grandi nomi della teologia della liberazione, come Gustavo Gutierrez Merino, Leonardo Boff o il gesuita Ignacio Ellacuria, più anziano, basco come lui e anch’egli professore all’Università centro-americana di San Salvador (UCA).

“Molti vescovi, preti e fedeli si rendevano anche conto che, in questo mondo, essere umani, essere cristiani, essere membri della Chiesa, significava cercare la giustizia e vivere la povertà”, ricorda il gesuita per il quale gli anni 80-90 furono anche “un’epoca di martiri”: mons. Gerardi in Guatemala, mons. Angelelli in Argentina e, naturalmente, mons. Romero.

Nel 1977 padre Ellacuria lo mette in relazione con Oscar Romero che è appena stato nominato arcivescovo di San Salvador e che, inizialmente conservatore, evolve a poco a poco di fronte alla realtà della repressione. Divenuto il collaboratore e l’amico di colui che sarà beatificato il 23 maggio, Jon Sobrino lavorerà accanto a lui fino al suo assassinio, il 24 marzo 1980. Ma anche lui è un sopravvissuto. Il 16 novembre 1989, infatti, sei suoi confratelli gesuiti dell’UCA, con la loro domestica e la di lei figlia sedicenne, cadono sotto le pallottole dei militari. Jon Sobrino verrà a conoscenza del massacro in Tailandia dove faceva delle conferenze. “La mia famiglia, i miei amici”, riassume semplicemente, un quarto di secolo dopo, non potendo sentire i loro nomi senza togliersi gli occhiali per asciugarsi discretamente le lacrime. Un breve momento di commozione, prima di passare a elencare le altre vittime della repressione militare.

“Dal 1977 in Salvador, 17 preti e 5 religiose sono stati uccisi, come centinaia di cristiani e cristiane, ricorda. Hanno dato la loro vita per difendere i poveri e gli oppressi. Nelle loro vite e nelle loro morti, quei cristiani e quelle cristiane sono stati simili a Gesù. Noi li chiamiamo i “martiri ‘gesuizzati’. Molti altri, decine di migliaia, sono stati uccisi, vittime innocenti e indifese. Noi li chiamiamo ‘il popolo crocifisso’”. Di questo popolo crocifisso, Jon Sobrino ha fatto la base della sua teologia della liberazione divenuta una vera teologia del martirio.

“È stata condotta una guerra ostinata a questa teologia, riconosce Jon Sobrino. Fin dai miei primi

articoli su Gesù Cristo e sul Regno di Dio, ho avuto dei problemi con Roma: parlare di Gesù di Nazareth non era apprezzato dalla Congregazione per la dottrina della fede”. Nel 1983, quando il colombiano Alfonso Lopez Trujillo diventa cardinale (sarà il futuro presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia), annuncia chiaramente di voler “farla finita” con dei teologi come Gutierrez, Boff o Sobrino. “Quello che veniva attaccato non era né Boff, né Gutierrez, né Sobrino, ma Gesù di Nazareth, Dio che è uscito con i poveri e che ha ascoltato il loro grido”.

Nel 2006, la Congregazione per la dottrina della fede emetterà un avvertimento, sottolineando che “certe proposte” dei suoi due libri cristologici “non sono conformi con la dottrina della Chiesa”. “Ma non sono mai stato condannato. Niente nel documento romano dice che sono eretico o che non ho più diritto di insegnare”, insiste Jon Sobrino che non ha mai accettato di firmare il testo romano. Il coro di proteste del mondo teologico di fronte alla notifica romana sarà tale che l’autorità stessa della congregazione è oggi rimessa in discussione, il che permette del resto alle Éditions du Cerf di realizzarne oggi la traduzione francese senza reali problemi…

Ma, venticinque anni dopo la pubblicazione del primo volume, quei libri hanno ancora una pertinenza? “Credo che il messaggio di quei libri sia quello di coloro che gridano, che sperano e che non scrivono”, spiega Jon Sobrino. L’America Latina però è cambiata. “La guerra civile è terminata, ma ci sono sempre tanti morti e tanta violenza. Quattordici morti violente al giorno in Salvador, ricorda. La gente non ha lavoro, è sottoposta alla violenza delle bande, è costretta ad emigrare”. Dopo la scrittura dei suoi libri, pentecostali ed evangelicali sono entrati in forze nel paesaggio religioso.

“Un vero problema per me, riconosce. Abbiamo visto sorgere tra noi dei dirigenti di tutti i tipi: predicatori, pastori, cantanti, guaritori, ma, per dire le cose con rispetto, danno spesso l’impressione di avanzare come greggi senza pastore. Mancano dei Romero, dei Gerardi”. Deplora che la Chiesa cattolica, in questi ultimi anni, abbia spinto i fedeli “in una religiosità più di devozione che di impegno”. “Capitemi bene, spiega. Si avrà un bel conservare un Dio, un Cristo e uno Spirito, conservare la preghiera, la mistica e la gratuità – tutto questo rivalorizzato a giusto titolo, almeno teoricamente -, ma senza Gesù di Nazareth si vede scomparire ciò che c’è di centrale nel cristianesimo”.

Per  lui, se la Chiesa “va male”, è proprio perché ha diluito le intuizioni di Medellin. “Attorno a Medellin, credo di poter dire che la Chiesa, dalla gerarchia fino ai contadini ‘si è comportata bene’ con Gesù di Nazareth, o almeno ha cercato di farlo con serietà”, propone. Dopo “ha prodotto altre forme di Chiesa che davano meno fastidio”, riconosce. È questo che spiega, a suo avviso, il motivo del ritardo della beatificazione di Mons. Romero: “La si giudicava inopportuna perché era un modello di vescovo che dava fastidio ad altri vescovi”. Quindi la Chiesa deve tornare a questa centralità dei poveri avviata a Medellin. “’Andar male’ significa tirarsi indietro, e ‘andar bene’, significa, fondamentalmente, tornare a Medellin, riassume. Il  che significa sicuramente ‘tornare a Gesù di Nazareth’. ‘Non tornare’ a Gesù è impoverirsi, e non voler tornare a lui sarebbe peccare”. “La Chiesa non deve preoccuparsi di ciò che può fare, ma di ciò che deve fare: è un problema di morale, non di analisi”, afferma colui che ritorna continuamente alla figura di Romero. “Molto tempo fa, un contadino raccontava: ‘Mons. Romero diceva la verità, ci difendeva, noi poveri, e per questo lo hanno ucciso’. Ecco quello che deve fare la Chiesa. Dire la verità, dire che quello che succede oggi è un disastro. Difendere i poveri, cioè non solo aiutarli, ma essere al loro fianco contro gli oppressori, chiunque essi siano”. Quanto al martirio, è per lui l’orizzonte di chi si conforma a Gesù di Nazareth: “Gesù non è morto, è stato ucciso, ricorda. Senza la croce, la resurrezione non sarebbe che la riviviscenza di un cadavere. Gesù si è mostrato misericordioso. Non ha solo aiutato e dato sollievo, ma ha preso le difese delle vittime. La misericordia che arriva alla croce aggiunge due caratteristiche a quella del buon Samaritano: è conflittuale ed è coerente fino alla croce”. Trentacinque anni dopo l’assassinio, il teologo interpella ancora la Chiesa: “È pronta oggi a correre questo rischio di Gesù che è stato ucciso?”

(1) Jésus-Christ libérateur. Lecture historico-théologique de Jésus de Nazareth, e La foi en Jésus-Christ, Éditions du Cerf.

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una religione che ‘spuzza’, direbbe papa Francesco!

 

‘grandi opere’, gli arrestati presenti alla messa del papa che parla di anticorruzione

 

Grandi opere, gli arrestati alla messa per l’omelia anticorruzione del papa

questa la ricostruzione de ‘il Fatto Quotidiano’:
Stefano Perotti e Franco Cavallo parteciparono in Vaticano alla messa del papa con quasi 500 parlamentari
Stefano Perotti e Franco Cavallo, entrambi arrestati nell’inchiesta di Firenze sulle grandi opere, avevano spiritualità da vendere, tanto da avere la faccia di presentarsi all’alba alla messa in Vaticano presieduta da Papa Francesco il 27 marzo 2014
Le tangenti e la religiosità
Stefano Perotti e Franco Cavallo, entrambi arrestati nell’inchiesta di Firenze sulle grandi opere, avevano spiritualità da vendere.
Tanto da avere la faccia di presentarsi all’alba alla messa in Vaticano presieduta da Papa Francesco il 27 marzo 2014, durante la quale il pontefice pronunciò un’omelia sulla corruzione. A quella messa parteciparono 492 parlamentari e molti imprenditori. E Bergoglio aveva usato parole dure, sottolineando che i peccatori pentiti si potevano salvare e i corrotti no. E lì, ad ascoltare, ci sono anche Perotti e Cavallo: la loro personalità, annotano i pm nella richiesta d’arresto presentata al gip di Firenze, “è davvero singolare”.

Ma non è l’unica volta che Perotti – l’imprenditore che secondo i pm ha procurato un lavoro a Lupi jr – si presenta in chiesa. Era già successo, raccontano le carte dell’inchiesta, anche il 25 settembre 2013. Perotti chiama la moglie e le dice che sta andando al ministero delle Infrastrutture. Nel pomeriggio dovranno presenziare alla funzione del pomeriggio alla chiesa di Sant’Anna, a Roma, in ricordo della scomparsa di Rocco Trane, esponente socialista che fu coinvolto in inchieste di corruzione negli anni Novanta, il cui figlio Pasquale è tra i 51 indagati dell’inchiesta di Firenze. Ma i coniugi Perotti hanno un problema: vogliono pagare i “ragazzi del coro”, ma hanno solo banconote da 500 euro. “Senti ti volevo dire, ti porti dietro 500 euro, magari in taglio da 100. In modo da… Paghiamo questi ragazzi che suonano la musica in chiesa”. Ma Christine ribatte che anche lei ha solo banconote da 500. Così propone di mandare il loro autista per farli cambiare in banconote di taglio più piccolo. La signora Perotti fa capire che non si tratta di un episodio eccezionale: accade spesso di dover cambiare le banconote da 500.

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primizie estere di eliminazione dei rom: qualcuno non vede l’ora di importarle anche tra noi

 

 

in Inghilterra la prima città che mette al bando i nomadi

ad Harlow sono stati vietati gli insediamenti e i campi di rom, sinti e camminanti
nell’ultimo anno e mezzo erano stati necessari 109 sgomberi
  c’è una città dell’Inghilterra, Harlow, dove i nomadi sono stati posti al bando e costretti a rimanere extra moenia.

Duemilacinquencento anime nella contea di Essex, Harlow ha impedito ai rom di erigere campi e stanziamenti illegali intorno alla città: così ha stabilito l’Alta Corte, che è intervenuta dopo le insistite lamentele del consiglio comunale. I nomadi infatti si erano accampati in modo del tutto irregolare su piste ciclabili, strade ad alto scorrimento e parcheggi.

Quasi un terzo della cittadina – ben 454 appezzamenti di terra – è espressamente vietato agli accampamenti dei nomadi, che in un anno e mezzo sono stati sgomberati ben 109 volte. In particolare sono state messe al “bando” 35 persone, che al momento sono già state evacuate.

Come riporta The Daily Mail, a richiedere il provvedimento è stata una forte mobilitazione dell’opinione pubblica del paese, dove la popolazione è stufa di essere continuamente “costretta ad azioni legali intraprese solo per far rispettare le leggi vigenti”.

Quello degli insediamenti illegali dei nomadi sta diventando ormai un problema nazionale in tutta la Gran Bretagna: in settimana il segretario alla giustizia del governo Cameron, Chris Grayling, ha dichiarato che i conservatori “sono pronti a varare nuove, rigidissime, misure” per fronteggiare il problema.

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il commento al vangelo

 
 SE IL CHICCO DI GRANO CADUTO IN TERRA MUORE, PRODUCE MOLTO FRUTTO

commento al Vangelo della quinta domenica di quaresima (22 marzo 2015) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Gv 12,20-33

In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù».
Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome».
Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.

L’evangelista, nel brano del capitolo 12, versetti 20-33, presenta il primo e unico contatto di Gesù con degli stranieri. Sono dei greci che sono saliti a Gerusalemme per andare al tempio per la festa della Pasqua, ma incontrano Gesù. Gesù è il vero santuario nel quale si irradia l’amore divino.
E il brano è la risposta all’allarme scatenatosi tra i Farisei che si sono chiesti tra loro: “Vedete che non concludete nulla? Ecco il mondo gli è andato dietro”. Ed ecco la risposta: è il mondo che va dietro a Gesù.
L’evangelista scrive che “Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano alcuni greci”, greci è un termine con il quale si indica genericamente i pagani. E qui c’è tutta una strana trafila. “Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsaida di Galilea”, perché fanno per avvicinarsi a Gesù, che era ebreo, una garanzia di apertura, e vanno da un discepolo che ha un nome greco, che significa una 
mentalità aperta, e che era di un luogo di confine dove quindi i costumi erano meno rigidi che nell’istituzione religiosa giudaica. “E gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù»”.
Questa è la risposta a quello che disse Gesù, “chi vede il figlio e crede in lui abbia la vita eterna”, che non è soltanto un vedere, ma è vedere per conoscere e poi credere. Ebbene Filippo non va direttamente da Gesù, ma va da Andrea, l’altro dei discepoli che ha un nome greco. Questo fa capire le difficoltà della primitiva comunità di aprirsi all’universalismo proposto da Gesù.
E infine “Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù”. La risposta di Gesù sembra fuori luogo, sembra che non c’entri niente con questa richiesta. Infatti “Gesù rispose loro: «E’ venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato»”. Perché Gesù dà questa risposta al desiderio dei greci di vederlo? Perché Gesù sta parlando della sua morte, e sulla croce si manifesterà la condizione divina di Gesù. E quindi Gesù dice che quando lui sarà morto il suo amore sarà compreso universalmente.
Perché? Mentre una dottrina dipende dal contesto culturale, dalle sue formulazioni storiche, l’amore è il linguaggio universale che tutti possono comprendere. E l’amore di Dio manifestatosi in Gesù sulla croce sarà l’unico linguaggio che tutta l’umanità può comprendere. Quindi la risposta di Gesù, anche se apparentemente fuori luogo, invece è in tono.
Verrà il momento in cui tutti quanti comprenderanno il linguaggio universale, che è quello dell’amore. E qui Gesù, parlando della sua morte, ma anche della morte di ogni persona, manifesta un’importante verità. “«In verità, in verità»”, la doppia affermazione “in verità”, significa che  Gesù sta dicendo qualcosa di sicuro, qualcosa di molto vero, “«Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo»”.
Il chicco di grano ha dentro di sé delle energie che hanno bisogno di trovare l’ambiente ideale per liberarsi e sprigionarsi. Se rimane solo tutto questo non ha effetto. L’evangelista qui fa comprendere che in ogni persona ci sono delle capacità e delle potenzialità che gli sono sconosciute e che si liberano soltanto attraverso di sé. E Gesù aggiunge, “«Se invece muore, produce molto frutto»”.
Gesù getta una luce molto positiva sul fatto della morte. In ogni persona c’è un’energia vitale che attende di manifestarsi in una forma nuova e la morte è il momento che permette tutto questo. Quindi la morte non imprigiona l’uomo, ma lo libera. La morte non diminuisce l’individuo, ma lo potenzia. La morte non confina l’esistenza della persona, ma la dilata.
In ogni persona ci sono delle potenzialità che soltanto nel momento della morte si possono liberare e fiorire. Quindi Gesù toglie dal fatto della morte qualunque elemento negativo, di distruzione, per parlarne invece come di fioritura di vita, per la vita delle persone.
E Gesù dà questo importante criterio su questo fatto del chicco che deve farsi dono per potersi sviluppare. “«Chi ama la propria vita la perde e chi odia …»”, era tipico della mentalità ebraica parlare di amore e odio nel senso comune di “preferire” che noi usiamo abitualmente. Quindi non si tratta di odiare qualcosa, ma di preferire o meno. Allora Gesù sta dicendo “chi ama la propria vita”, cioè chi pensa soltanto a sé stesso – questo è il significato – si perde. La persona si realizza nella misura in cui ha  la capacità di donarsi agli altri. Dare non è perdere, ma è guadagnare. La vita si possiede nlla misura in cui si dà.
Allora chi pensa soltanto per sé finisce col perdersi; chi invece non pensa solo a sé stesso, questo si realizza per sempre. Qui Gesù torna di nuovo sul tema che a lui è caro, la vita eterna, non considerata come un premio al futuro, ma come una possibilità nel presente.
E Gesù continua: “«Se uno mi vuole servire»”, il verbo “servire”, indica una scelta libera di collaborazione con Gesù, “«mi segua e dove sono io…»”, Gesù finirà sul patibolo riservato ai maledetti dalla società, ai rifiutati dalla società, “«là sarà anche il mio servitore»”. Non si può servire Gesù stando a distanza di sicurezza. Se si segue Gesù bisogna essere capaci anche di affrontare le inevitabili sofferenze e persecuzioni che vivere come lui ha comportato.
Ma, conclude Gesù, “«Se uno serve me, il Padre lo onorerà»”, quindi alla croce, che è il massimo disonore, corrisponde il massimo onore, quello del Padre. E come onora il Padre l’individuo? Manifestandosi in lui. Più l’uomo si dona, più la presenza del Padre si manifesta in lui. Ed ecco che ogni individuo, non solo Gesù, diventa l’unico verso santuario dal quale si irradia e si manifesta l’amore di Dio per l’umanità.

 

 

 

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voglia di ‘denomadizzare’ Massa Carrara

 

Massa città da ‘denomadizzare’ e disumanizzare

dalla pagina facebook di Marcello Palagi trovo questa notizia che mi incuriosisce: il titolo da medaglia al valore per la resistenza si vorrebbe pian piano sostituito dal titolo di ‘città denomadizzata’ da esibire all’ingresso ufficiale nella città

 

Massa denomadizzata

 

 

 

 

così M. Palagi:

E’ sempre più stupefacente  Stefano Benedetti consigliere comunale di F. I. di Massa. Pochi giorni fa ha protestato contro il comune perché aveva assegnato una casa popolare a una famiglia di sinti, fino a quel momento accampata nel parcheggio di Mirteto.

Turano denomadizzato

La casa popolare non doveva essere data a questi “zingari” perchè non  ne avevano reale bisogno, essendo accampati nel parcheggio  dove “disponeva comunque di un posto per vivere con tanto di servizi” (parole sue), non ne avevano diritto non essendo italiani e massesi, non ne avevano fatto domanda e non erano graditi agli altri coinquilini. Oggi, dopo che in un’area di sosta non autorizzata, nei pressi del campo sportivo si è verificato un incendio  chiede perentoriamente a comune e prefetto che chiudano tutti i campi abusivi di Massa, e ne caccino i residenti. I campi degli “zingari” (ma Benedetti scrive la parola senza virgolette) non autorizzati costituirebbero un grave pericolo  – anche “perchè all’interno vi vivono diversi bambini”i -, sia per i loro abitanti che per chi ci vive vicino (? sic). Tra i campi che considera pericolosi cita espressamente reclamandone con insistenza la chiusura, proprio il parcheggio di Mirteto. Ma se fino a ieri lo considerava un’alternativa valida per gli “zingari”, “un posto per vivere con tanto di servizi” , rispetto alle case popolari, come mai oggi  lo presenta come altamente pericoloso e da smantellare? Un minimo di coerenza non guasterebbe. Ma il tarlo che rode Benedetti è sempre lo stesso. Lui, gli “zingari” li vuole fuori da Massa. Massa deve diventare una città “denomadizzata”.

Non solo perciò ha raccontato balle sui sinti a cui è stata assegnata la casa popolare che sono, italiani, massesi di residenza e inseriti nella graduatorie delle case popolari, ma non propone nulla, nonostante l’accenno pietistico ai “diversi bambini” presenti nei campi, di alternativo alle aree di sosta non autorizzate, attualmente abitate de sinti e rom quasi tutti, se non italiani,  “comunitari”: Se si cacciano da Massa (ammesso e non concesso che sia legittimo e possibile), dove devono andare? Perché da qualche parte dovranno pure andare, non essendo puri spiriti, ma cittadini italiani, magari anche massesi ed europei.

Invece si limita a ventilare che Comune e Prefetto potrebbero finire in guai giudiziari nel caso succedessero disgrazie in questi campi. Ma i guai seri capitano invece soprattutto a chi viene “evacuato” e buttato in mezzo alla strada, nell’assoluta precarietà, senza alternative. E’ successo a Livorno, dove morirono bruciati vivi quattro bambini rom, perché, cacciati con i loro genitori da un campo sosta non autorizzato, si erano  dovuti accampare, sotto un cavalcavia dell’autostrada, in mezzo alle sterpaglie, lontano da ogni fonte d’acqua e servizio. Una vergogna irreparabile per la città di Livorno e per la magistratura che non ha fatto giustizia.

La città di Massa non ha un solo campo sosta autorizzato, mentre la Comunità Europea chiede che ogni comune se ne doti. Perchè non si provvede ad attrezzarne qualcuno come avviene da altre parti, a Carrara, a La Spezia, a  Pisa, a Lucca, eccetera, per dare loro una sistemazione decente, invece di costringerli a vivere nell’insicurezza e nella precarietà?  Su questo argomento ho scritto una nota il 17 marzo “I sinti di Massa non sono “nostri simili” e a quella rimando per altre considerazioni su Benedetti e le sue sintonie con gli “zingari”.

pubblico a parte una foto di Benedetti fuori legge che collaca cartelli stradali falsi per denomadizzare Massa.

 tuttavia Marcello Palagi puntualizza che il maggior cinismo in questa faccenda non è rappresentato tanto da Benedetti quanto dal sindaco stesso e dalle sue dichiarazioni sul non diritto dei rom ad un alloggio perché … non ne hanno bisogno:
  

Ho visto che molti, a ragione, se la sono presa con Benedetti per le sue foto di denomadizzatore. Ma non so se le parole del sindaco Volpi, Ds, riportate tra virgolette, in un trafiletto del Tirreno del 20 marzo dimostrino una sensibilità e un rispetto maggiori di quelli del consigliere della destra, non dico per i rom vittime dell’incendio, ma almeno per degli uomini, donne e bambini che hanno perso tutto e non hanno più neanche un riparo per la notte: «Un alloggio agli sfollati del campo nomadi degli Oliveti? Non capisco a che titolo lo possano chiedere, non credo sia fattibile. Va detto però che il comandante dei vigili urbani (Santo Tavella, ndr) mi ha già fatto una relazione dettagliata sull’accaduto e mi ha detto che ormai in quell’area non c’è più nessuno. Segno che non hanno bisogno di avere una casa».

Sindaco, il titolo che lei richiede è che hanno perso tutto e sono nudi e crudi per la strada! Ma si capisce sono rom, abusivi, cioè senza diritti umani, forse stranieri, sicuramente non votano e sono invisi all’opinione pubblica benpensante, non hanno difese e protettori e lei può serenamente fregarsene di loro. 

Il fatto che si siano allontanati dall’area dell’incendio forse è spiegabile con meno cinismo e disinteresse del suo: non è il segno che non hanno bisogno di avere una casa; è che hanno paura di avere oltre al danno, la beffa, oltre ad aver perso tutto sanno di rischiare, come abusivi, di venir denunciati, perseguitati, processati, espulsi. Sono dei precari dei diritti fondamentali. Loro lo sanno, lei no.  

Lei si preoccupa solo di pararsi il culo, non vuole correre il rischio che si verifichino altri incendi che possano inguaiarla legalmente … Così garantisce da benpensante ai benpensanti: «In passato avevamo avuto delle segnalazioni, mi hanno detto che una comunità era stata allontanata (dal luogo dove è avvenuto l’incendio ndr) ma evidentemente qualcuno c’è tornato. Faremo controlli giornalieri, nessuno potrà più occupare quell’area. È un impegno che ci prendiamo, d’ora in poi non potranno esserci di queste sorprese». (da Il Tirreno del 20 marzo 2015). Nobile impegno:  “controlli giornalieri e nessuno potrà più occupare quell’area” e tuto è risolto. 

La sua preoccupazione è che nessuno possa più occupare quell’area, nessuna comprensione, invece, non una parola di solidarietà da parte sua per questi rom, per  i loro problemi di sopravvivenza immediata, per le loro sofferenze, le loro paure, il loro futuro incertissimo. Basta che escano dal suo orizzonte, dalla sua giurisdizione.  Se non altro Benedetti fa il suo mestiere di destro dichiarato, proveniente dall’MSI, alleato di Casa Pound e in marcia verso la lega di Salvini, lei invece amministra con una coalizione di centrosinistra e democratica (ancor più silente  e indifferente di lei!). E’ proprio vero che ad esercitare il potere si diventa peggior

 

 

 

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