ragazzi sinti e rom gridano ai giornali la loro rabbia

 

dodici giovani nomadi scrivono una lettera aperta: “Tv e giornali dicono che siamo tutti delinquenti e viviamo ai margini della società: è falso, gran figli di troia”

Rom e Sinti prendono carta e penna e scrivono una lettera aperta ai media italiani: per esprimere, dicono, i propri sentimenti –  sentimenti di paura.
 camponomadi24

Una paura provocata “da tv e giornali che sostanzialmente dicono che i Rom e i Sinti rubano, sono tutti delinquenti, vogliono vivere ai margini della società in baracche fatiscenti, non vogliono lavorare e nessuno di loro vuole studiare”. La lettera, pubblicata tra gli altri in versione integrale sul Secolo XIX e firmata da dodici ragazzi rom e sinti tra i 17 e i 33 anni, rivendica l’impegno a dar voce a un popolo “rimasto sinora legato e imbavagliato”.

Questo perché, proseguono Rom e Sinti, “alcuni di noi sono italiani, altri stranieri, ma tutti crediamo nell’onestà, nella giustizia, nei diritti e nei doveri di ogni essere umano”. Cosa imparerà un bambino che cresce “con un germoglio di odio nel cuore”, si chiedono gli autori della lettera? “La paura è che questi ragazzi e alcune persone per bene gradualmente assimilino questi gravi concetti e che da un semplice pregiudizio cresca nel cuore della gente l’odio”.

 L’appello, insomma, è rivolto ai professionisti dell’informazione, perché non creino “odio e paura”, aumentando le distanze tra le persone; la lettera si conclude infine con l’invito a creare “politiche di inclusione sociale“, che partano da quanto Rom e Sinti hanno da raccontare sulla cultura dei rispettivi popoli. La denuncia del clima d’odio si conclude con un’esortazione a scrivere una “pagina nuova”. E a porre fine a quel clima di odio da cui, ad oggi, dicono di sentirsi assediati.
 
 la lettera aperta ai media italiani inviata da undici giovani attivisti rom e sinti:

 

Siamo un gruppo di ragazze e ragazzi, Rom e Sinti. Alcuni di noi sono italiani, altri provengono da vari paesi europei, altri ancora sono nati in Italia ma di fatto sono sempre stranieri grazie all’accoglienza burocratica del nostro paese.

Tutti noi crediamo nell’onestà, nella giustizia, nei diritti e nei doveri di ogni essere umano; noi ci stiamo impegnando e formando come attivisti per dare voce al nostro popolo, fin ora rimasto legato e imbavagliato.

Vogliamo esprimervi una sensazione che stiamo vivendo in questo periodo, la sensazione si chiama PAURA. Sì paura, perché sono giorni, forse oramai mesi, che tv e giornali ci bombardano con messaggi che sostanzialmente dicono: “i Rom e i Sinti rubano, sono TUTTI delinquenti, vogliono vivere ai margini della società in baracche fatiscenti, non vogliono lavorare e nessuno di loro vuole studiare, ecc.”

Bene, mettendoci nei panni di chi non sa niente di questo antichissimo popolo, inizieremmo a crederci e inizieremmo a non volerli più nella nostra Italia. E se fossimo BAMBINI, che cosa impareremmo? Sicuramente, con un germoglio di odio nel cuore così potente e annaffiato bene tutti i giorni, da grande non solo odieremmo i Rom e i Sinti, ma saremo pronti a ucciderli, non per cattiveria ma per difenderci e per difendere la “Nostra” Italia dai cattivi e sporchi Rom e Sinti.

Il nostro pensiero va a tutti quei bambini che direttamente o indirettamente assimilano concetti senza alcun filtro, tramite i vari talk show, programmi d’intrattenimento e tg, che quotidianamente accompagnano alcuni momenti della giornata dei nostri figli.

LA PAURA è che questi ragazzi, e alcune persone per bene, gradualmente assimilino questi gravi concetti e che da un semplice pregiudizio cresca nel cuore della gente L’ODIO. Questo è un fatto grave, che non deve succedere, sarebbe da irresponsabili non fermarlo.

Quindi chiediamo a tutti i professionisti della comunicazione, di non macchiarsi di questa grave colpa, di non essere complici e artefici dell’istigazione all’ODIO, della PAURA e della distanza tra la gente.

Chiediamo di non essere usati dai vari politici nelle loro finte campagne elettorali, ma chiediamo a loro di agire insieme a “noi” Rom e Sinti per politiche di VERA inclusione sociale compartecipata.

Chiediamo di non essere usati dai vari giornalisti di turno scatenatori di ODIO e PAURA, per fare audience o vendere qualche copia in più.

Chiediamo a tutti i professionisti della comunicazione di ascoltare noi Rom e Sinti, perché abbiamo molte storie da raccontare sulla magnifica cultura millenaria del nostro popolo, così come sulle difficoltà che quotidianamente affrontiamo, nonostante non arrivino mai sulle prime pagine dei giornali.

Chiediamo di discutere con noi i perché di certe realtà e chiediamo di far emergere le fallimentari politiche di ghettizzazione subite da nostro popolo, molte delle quali emerse negli ultimi tempi.

Vostro è l’Onore e il Dovere di raccontare i fatti, voi siete coloro che danno gli strumenti alle masse per capire e agire. Siate portatori di giustizia sociale. Date voce anche alle positività e alle tantissime storie di normalità, oscurate dall’ e nell’ODIO mediatico.

Chiediamo verità.
Chiediamo dignità.
Per il nostro popolo.

Con questa lettera chiediamo ufficialmente il vostro IMPEGNO per fare luce e dare voce al nostro popolo, noi vi offriamo il nostro. Insieme possiamo e dobbiamo scrivere una nuova pagina.

Da oggi è ufficiale, potete contattarci quando volete.
Grazie.

In fede
Lebbiati Fiorello Miguel, sinto, rom, 33 anni, Capannori (Lucca), italiano
Lebbiati Joselito, rom, sinto, 32 anni, S. Alessio (Lucca), italiano
Cavazza Damiano, sinto, Nave Lucca, 32 anni, italiano
Lacatus Lacramioara Gladiola , rom, 21 anni, Roma, rumena
Nedzad Husovic, rom, 24 anni, Roma, nato in Italia ma senza cittadinanza
Raggi Serena, sinta, 26 anni, Bologna, italiana
Barbetta Dolores, rom, 29 anni, Melfi, italiana
Nikolic Ivana, rom, 23 anni, Torino, serba e croata
Dobreva Sead, rom, 32 anni, Rovigo, serbo
Milanovic Sabrina, rom 25 anni, San Nicolo D’Arcidano (OR)
Salkanovic Pamela, rom 17 anni ,nata a Roma, ma senza cittadinanza

INFORMAZIONI DI CONTATTO:
lebbiati.fiorello@gmail.com;  tel. 334/7631636; 340/7954281




il commento al vangelo della domenica

GUARI’ MOLTI CHE ERANO AFFETTI DA VARIE MALATTIE 

commento al Vangelo della quinta domenica del tempo ordinario (8 febbraio 2015) di p. Alberto Maggi:

maggi

Mc 1,29-39

In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.
Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.
Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.

Per comprendere il brano di questa domenica occorre inserirlo nel suo contesto che è il giorno del sabato, giorno nel quale sono proibiti ben 1.521 azioni. Questo numero nasce dai 39 lavori che furono necessari per la costruzione del tempio di Gerusalemme, dei quali ognuno è suddiviso in altrettanti 39 attività, per un totale di 1.521 azioni. E tra queste c’è la proibizione di far visita o curare gli ammalati.
Sentiamo Marco. “E subito, usciti dalla sinagoga”, nella sinagoga c’è stato l’incidente, Gesù è stato contestato dalla persona con  lo spirito impuro, “andarono nella casa di Simone e Andrea”, che a quanto pare non sono stati al culto in sinagoga, “in compagnia di Giacomo e Giovanni” che invece evidentemente erano con Gesù in sinagoga.
Quindi abbiamo due coppie di fratelli, una più osservante, Giacomo e Giovanni, e l’altra a quanto pare meno. Infatti hanno dei nomi di origine greca, Simone e Andrea. “La suocera di Simone era a letto con la febbre”. E’ una donna, e le donne sono considerate una nullità, e per di più è ammalata per cui è in una condizione di impurità.
Una donna in quelle condizioni va evitata. E invece, “subito”, immediatamente all’uscita della sinagoga, “gli parlarono di lei”. E’ l’effetto della buona notizia che Gesù  ha proclamato nella sinagoga, una notizia che non divide gli uomini tra puri e impuri, tra emarginati e non, ma a tutti comunica il suo amore.  
“Egli si avvicinò e la fece alzare”, quindi Gesù cerca di curarla, “prendendola per la mano”. E’ proibito, perché toccare una persona impura significa assumere la sua impurità. Ebbene Gesù ignora la regola del sabato. Tutte le volte in cui Gesù si è trovato in conflitto tra l’osservanza della legge di Dio e il bene dell’uomo, non ha avuto esitazioni, ha scelto sempre il bene dell’uomo.
Facendo il bene dell’uomo si è sicuri anche di fare il bene di Dio, spesso per il bene di Dio, per l’onore di Dio, si fa male all’uomo. Quindi Gesù prende per la mano, trasgredisce la legge, “la febbre la lasciò ed ella li serviva”.
Il verbo adoperato dall’evangelista è lo stesso da cui deriva la parola che tutti conosciamo “diacono”. Chi è il diacono? E’ colui che liberamente serve per amore. Ebbene quest’espressione era già stata usata per gli angeli che, dopo le tentazioni, servivano Gesù nel deserto. Quindi Marco equipara il ruolo delle donne a quello degli angeli, sono gli esseri più vicini a Dio. Quindi la donna, considerata l’individuo più lontano da Dio, in realtà secondo l’evangelista è la più vicina a Dio.
Mentre in casa la necessità di una persona è stata più importante del sabato, in città il sabato è più importante della necessità delle persone. Infatti, “venuta la sera”, espressione che in Marco è sempre negativa, “dopo il tramonto del sole”, quindi attendono che sia passato il giorno del sabato nel quale è proibito visitare e curare gli ammalati, “gli portarono tutti i malati”. L’evangelista adopera l’espressione “stavano  male”, ed è un’allusione al profeta Ezechiele, al capitolo 34,4, dove il Signore denuncia i pastori e dice “non avete curato quelle pecore che stavano male”.
Quindi non si tratta tanto di infermi, ma quanto di popolo oppresso dai suoi pastori. “E gli indemoniati”. Indemoniato è colui che è posseduto da uno spirito impuro e che manifesta abitualmente il suo comportamento ed è conosciuto per questo. “Tutta la città era riunita”, letteralmente congregata, la radice del verbo è la stessa da cui deriva la radice “sinagoga”, “davanti alla porta”. E’ un momento di grande successo per Gesù.
“Guarì  molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni”. Abbiamo già visto altre volte che liberare, scacciare i demoni significa liberare da ideologie religiose nazionaliste che rendono refrattari o ostili all’annunzio della buona notizia di Gesù. “Ma on permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano”.
Cioè indicano Gesù come il messia atteso dalla tradizione, esattamente come aveva fatto la persona posseduta da uno spirito impuro dentro la sinagoga. Ebbene Gesù di fronte a tutta una città che lo sta seguendo, che è pronta a seguirlo, Gesù rifiuta la tentazione del potere, del successo. “Al mattino presto si alzò quando ancora era buio”, quindi quando mancava la luce, “e uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”.
E’ la prima delle tre volte nelle quali l’evangelista presenta Gesù in preghiera. E tutte e tre le volte è sempre per una situazione di pericolo o difficoltà per i propri discepoli. Qui prega perché, come vedremo, i discepoli sono esaltati da questo successo di Gesù, poi prega dopo la condivisione dei pani quando c’è la tentazione di vedere in Gesù il leader che può risolvere i problemi della società; e infine  prega al Getzemani poco prima della sua cattura. Prega appunto per i discepoli che non saranno capaci di affrontare questo dramma, questo momento.
“Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce”. L’evangelista adopera la stessa espressione che nel libro dell’Esodo si trova per indicare il faraone che si mette sulle tracce del popolo ebraico per impedirne l’esodo, la liberazione.
“Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano»”. Questo verbo “cercare” in Marco è sempre negativo. Ebbene Gesù non resta a Cafarnao, ma invita a seguirlo. Non c’è la tentazione del potere. “E disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là»”. Gesù comincia a predicare, non più a insegnare. Ha insegnato nella sinagoga dove insegnare significa annunciare qualcosa poggiandosi sui testi della scrittura, quindi l’Antico Testamento.
Gesù, dopo il fiasco della sinagoga, non insegna, ma predica. Predicare significa annunziare la novità del regno di Dio senza poggiarsi sulla tradizione del passato. “«Per questo infatti sono venuto!»” Qui la traduzione “venuto” non è esatta; sembra che Gesù sia venuto al mondo per questo. No, il verbo adoperato dall’evangelista è “uscire”, cioè, “per questo sono uscito, per questo ho lasciato Cafarnao perché non mi limito a Cafarnao, ma devo andare ad annunciare per tutta l’umanità.
“E andò per tutta la Galilea, predicando”, ecco Gesù già non insegna più, ma predica, “nelle loro sinagoghe e scacciando i demoni”. L’evangelista sembra alludere al fatto che il luogo dove i demoni sono annidati sono proprio le sinagoghe, i luoghi di culto. Era l’istituzione religiosa che indemoniava le persone presentando loro un’immagine di Dio completamente deviata da quella che sarà la forma con la quale Gesù presenterà suo Padre.

 

 una chiesa in uscita

il commento di p. Agostino Rota Martir dal suo luogo di condivisione della vita con un gruppo di rom

 

p. agostino

Il Vangelo di questa domenica racconta una delle tante giornate di Gesù, che inizia uscendo dalla sinagoga e termina nel dire,  che Gesù “predica nelle loro sinagoghe”. 

Dalla sinagoga di Cafarnao alle sinagoghe della Galilea. Ma in mezzo ci sta la vita con le sue esigenze, contrasti, gli incontri con amici, i conoscenti, i malati che desiderano o pretendono di guarire, è un Gesù che vive la città..che si lascia avvolgere dalle case, dalle sue strade, piazze, dall’ascolto dei suoi abitanti..ma anche capace di isolarsi per pregare in un luogo deserto. 

Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!” 

Sono gli inizi della vita pubblica di Gesù, da un lato Gesù è preso dal desiderio di raggiungere e toccare più villaggi possibili, non manca certo l’entusiasmo, e dall’altro il Vangelo racconta lo stile di annuncio che sarà tipico di Gesù: uscire per incontrare la gente, là dove vive, lavora e soffre. Predica la Buona Notizia, ma si lascia anche annunciare dalla vita che incontra lungo la strada.  Gesù non si lascia ingabbiare dalla sinagoga, ma è proprio fuori da essa che bisogna stare, andare, incontrare i poveri, guarire le loro ferite, ascoltare con il cuore i lamenti, raccogliere desideri nascosti di più vita..altrimenti si corre il rischio di tradire la Parola stessa o di farne un totem sacro di sole regole e prescrizioni. 

Il Vangelo di questa domenica è lo “schizzo” di una Chiesa in uscita, capace di uscire dalle sacrestie per raggiungere le periferie, per ascoltarle dal di dentro, per assumere il loro odore, non basta certo andarci con la bomboletta spray per spruzzare sulla gente e sui poveri in genere un po’ di “deodorante del nostro insegnamento”,  per coprire il loro odore che ci da fastidio e sentirci dei bravi cristiani impegnati.. Uscire anche per interrogare la nostra fede, per raccogliere la presenza di Dio nascosta fuori la Chiesa, fra gli scarti della società, capaci forse di evangelizzare anche  le nostre stesse comunità cristiane. 

La Parola ha sempre e ovunque bisogno di incarnarsi in situazioni concrete, per mostrare la sua bellezza e poter guarire le nostre ferite aperte con il suo balsamo. 

“..si ritirò in un luogo deserto, e là pregava.”  Anche la Parola per sapersi incarnare ha bisogno di silenzio, di preghiera, di deserto in ognuno di noi..per non rischiare di sentirci noi i “padroni della Parola” o gli amministratori di successi sulla pelle degli esclusi.  La preghiera è parte dell’incarnazione, è essenziale per una Chiesa in uscita e non può farne a meno, perché quando la  preghiera si nutre di volti, di situazioni, di conoscenze e condivisioni, è in grado di alimentare e far pulsare il cuore di Dio..è anche capace di rendere la Chiesa umile, povera e gioiosa di stare a fianco dei poveri, fedele alla sua missione di essere Chiesa discepola di Gesù, sempre in uscita, itinerante, ovunque: “perché io predichi anche là.”   Non rintanata per odorare di incensi la propria bellezza, ma disposta a sporcarsi i piedi e di “puzzare di pecora”, pur di annunciare il Vangelo della Gioia. 

 




i rom ‘usati’ anche per sterminare gli ebrei

nei campi di concentramento i rom suonavano mentre gli ebrei morivano

nel campo di Auschwitz i nazisti facevano suonare canzoni tedesche ai rom, mentre loro ammazzavano gli ebrei. Tenevano in vita gli “zingari” musicisti perché suonassero le canzoni che piacevano a loro

 

Tenevano in vita gli “zingari” musicisti perché suonassero le canzoni che piacevano a loro. Ma poco prima dell’arrivo degli alleati li hanno sterminati tutti, bruciandoli vivi. L’agghiacciante racconto è di Paolo Galliano, italiano di etnia Rom parente di alcuni di quei rom tedeschi che trovarono la morte nel campo di Auschwitz.

Mezzo milione, almeno, i rom e sinti sterminati dai nazisti durante la seconda Guerra mondiale, 2-3.000 i sopravvissuti. Ma tra di loro nessuno dei cugini del padre di Paolo Galliano. Galliano riferisce quanto gli è stato raccontato da sua nonna e da suo padre, il quale a sua volta aveva appreso queste cose da suo padre. Quel ramo tedesco, numeroso, della famiglia si chiamava Lehman. Tutti tedeschi al 100%, ma la loro origine etnica segnava il loro destino. I figli e i nipoti di Antonio Lehman – racconta Galliano – sono stati deportati ad Auschwitz. Ho mandato quest’anno mio figlio in gita ad Auschwitz: dopo 70 anni un parente dei Lehman ha potuto vedere i nomi dei suoi parenti scritti nei campi di sterminio”. “Già prima della guerra i tedeschi usavano i nostri parenti per suonare, nella zona di Berlino li portavano alle loro feste perché erano tutti musicisti e suonavano, chi la chitarra, chi il violino. C’era però anche chi li perseguitava, mandando le bande a picchiarli: perciò a un certo punto Ludovico Lehman ha preso i figli e li ha portati in Italia; i suoi tre fratelli e le due sorelle, invece, sono rimasti in Germania e non ne abbiamo saputo più nulla. Fino a quando mio figlio, che pochi giorni fa era ad Auschwitz, mi ha telefonato e mi ha detto ’ho preso tutti i nomi dei Rom uccisi qui, ci sono tutti i nostri parentì. I primi cugini di mio padre sono quindi tutti deceduti ad Auschwitz”.

“Nel campo i nazisti li facevano suonare mentre ammazzavano gli ebrei. Li tenevano in vita perchè suonavano e perchè capivano e parlavano il tedesco. Gli ordinavano di suonare le canzoni tedesche che piacevano a loro. Alla fine, quando i nazisti hanno saputo che era imminente la liberazione e che stavano arrivando i russi, li hanno uccisi tutti. Hanno scavato un fosso, li hanno messi lì e poi li hanno bruciati vivi. Non volevano lasciare tracce di ciò che avevano fatto. In un’ora hanno ammazzato tremila zingari. Me l’ha raccontato mio padre, al quale l’aveva raccontato suo nonno”. Il tentativo del nazismo di sterminare le etnie romani durante la seconda guerra mondiale va sotto il nome di Porrajmos, termine che può essere tradotto come “grande divoramento” o “devastazione”. Viene commemorato il 2 agosto, dalla data in cui quasi tremila rom e sinti furono massacrati nel “campo zingaro” (come veniva chiamato) di Auschwitz-Birkenau, dove almeno 23 mila furono uccisi con il gas durante la guerra. La “Z” era la lettere tatuata sulle braccia dei rom nei lager e anche per questo la parola zingaro può essere vissuta come un’offesa dagli appartenenti alla comunità. Uno dei principali testimoni di questo sterminio è stato Pietro Terracina, ebreo ed ex deportato del lager di Auschwitz.




una chiesa del nord?

 

 

la Lega sfida il papa: il sogno di una chiesa del Nord

sono lontani i tempi del dio Po: oggi per il Carroccio è il tempo della battaglia contro l’Islam

Lega Nord contro Papa Francesco

papa Francesco a Lampedusa

 




la deportazione dei sinti di Prato

 

i sinti di Prato raccontano la loro deportazione

domani, giovedì 5 febbraio alle ore 21, al Museo della Deportazione di Prato succederà qualcosa d’importante; i sinti di Prato racconteranno la loro deportazione, in prima persona e con l’aiuto dei documenti rintracciati da un progetto europeo: il loro arrivo in Italia dalla Germania, i parenti uccisi ad Auschwitz, l’internamento italiano in campi di concentramento di cui nessuno di noi ha mai sentito parlare, ma che si trovavano sul territorio italiano, l’invio da parte della Repubblica Sociale verso i campi di Mauthausen e Dachau. Oggi è tutto riassunto nel museo virtuale del Porrajmos (così i rom e sinti chiamano la loro persecuzione) visitabile all’indirizzo www.porrajmos.it



neanche uno straccio di benedizione!

 

 

la coppia gay più longeva d’Italia prova a farsi benedire

dal Santuario dicono: no!

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Orlando Dello Russo e Bruno Di Febbo: da 50 anni insieme
sono stati respinti in malo modo dai sacerdoti del santuario di San Gabriele. Da cui fanno sapere: “Da noi si benedicono solo le fedi di una coppia formata da un uomo e una donna”   

Orlando Dello Russo e Bruno Di Febbo, 69enne il primo, 74 anni il secondo, sono la coppia gay più duratura d’Italia, e una stella polare per la comunità Lgbt. Stanno insieme da ben cinquant’anni, da quando si conobbero in Germania, a Francoforte, il 28 gennaio del 1965. Fiorai in pensione, profondamente credenti, un anno fa Orlando e Bruno hanno parzialmente coronato il loro sogno: si sono sposati, sì, ma dinanzi alla chiesa ecumenica, denominazione separata di quella cattolica che accetta i matrimoni tra omosessuali e il sacerdozio femminile. Qualche giorno fa hanno festeggiato mezzo secolo di vita insieme con una grande festa. Nel corso della serata avevano annunciato: “Domenica andremo al santuario di San Gabriele (il santo patrono dell’Abruzzo e della gioventù cattolica, ndr) per farci benedire come coppia, mentre ci scambiamo gli anelli”. “Ci siamo andati, sì, al Santuario di San Gabriele di Isola del Gran Sasso – racconta a ilfattoquotidiano.it Orlando dello Russo – Prima abbiamo sentito la messa, poi ci siamo recati nella sala dove si benedicono gli oggetti. C’erano alcuni preti. A quel punto il mio compagno Bruno si è avvicinato, con le fedi in mano, e ha chiesto loro: “Sentite, ci benedite le fedi?”. Ma la reazione non è stata quella auspicata. “Ci hanno risposto: ‘No, non le benediciamo, benediciamo solo… la signora dov’è?’. Io sono girato. Mi sono vergognato. C’era tanta gente. Bruno allora ha detto: ‘La signora non c’è. È rimasta a letto’”. Orlando non se ne capacita ancora. Questa volta ci sperava davvero. “Erano cinquant’anni che aspettavamo – dice ancora – ma ci hanno trattato male, malissimo. È stato umiliante”.   “Le cose sono andate diversamente. È vero che i signori Orlando e Bruno si sono presentati in Chiesa, chiedendo che venissero benedette le loro fedi. Ma nessuno li ha irrisi o apostrofati in alcun modo”: è la versione fornita a ilfattoquotidiano.it dal Santuario di San Gabriele. E cosa è successo, allora? “Il sacerdote responsabile della sacrestia ha semplicemente chiesto a uno dei due ‘dove fosse la signora’ – aggiungono – Perché è chiaro che in una chiesa cattolica normalmente si benedicono le fedi di una coppia formata da un uomo e una donna. Consigliamo loro di recarsi di nuovo nella chiesa ecumenica dove si sono sposati, e farle benedire lì le loro fedi”.

Orlando e Bruno, però, non demordono. Sperano sempre di potersi unire in matrimonio con rito cattolico. Per fede, “e per una questione di diritti. Siamo persone serie e dopo quarant’anni di lavoro non ne possediamo nessuno. Ma ormai è un disastro – lamenta Orlando – Comunque ti muovi, ti colpiscono. Le cose sono molto peggiorate rispetto agli anni Sessanta-Settanta”. La Chiesa non intende consacrare la loro unione. “Se è per questo si rifiuta anche di consacrare la nostra abitazione. Sono trent’anni che viviamo in questa villetta a Pineto (Teramo) e siamo andati ripetute volte in chiesa a pregarli di benedirci la casa. Ma niente da fare. Non è mai venuta nessuna tonaca. Nemmeno a Pasqua o a Natale”.

Nel corso del tempo non sono mancate schermaglie col vescovo di Teramo-Atri, monsignor Michele Seccia. “Seccia ci conosce benissimo – aggiunge Orlando Dello Russo – Lui ce l’ha a morte con i gay”. Raggiunto telefonicamente, monsignor Seccia ha replicato: “Io non so che cosa dire a proposito, non so che cosa dire… Perché tutto questo deve avvenire attraverso la stampa, poi, non lo so… Io non ho avuto né contatti né altro, come li avete voi giornalisti in genere. A me non consta niente di tutto questo, quindi… Va bene? Arrivederci”. E ha attaccato il telefono.

 Maurizio Di Fazio 

4 febbraio 2015

 

 




quale speranza dalle macerie?

 

 “chiudere i campi e avviare percorsi di inclusione sociale si può
ad#‎Alghero‬ è appena successo. Grazie al dialogo e alla collaborazione tra i ‪#‎rom‬, l’associazione ASCE ROM e le istituzioni locali
dopo oltre 30 anni il campo dell’Arenosu è stato sgomberato e per le famiglie ora inizia una nuova vita in cui dar voce ai propri sogni e speranze”

 SPERIAMO!

 

 

 

 

 

 




il pregiudizio alimentato dagli enti pubblici

 

Parole che escludono

 

di Sergio Bontempelli 

30 gennaio 2015

 

cartello "divieto di sosta ai nomadi"

Quando parlano di rom, gli enti pubblici “dimenticano” il linguaggio giuridico: scrivono in modo impreciso e alimentano i pregiudizi. I risultati di una ricerca

Può sembrare banale dirlo, ma non lo è affatto: il linguaggio giuridico è diverso da quello che usiamo tutti i giorni. Leggi, delibere e ordinanze devono – meglio: dovrebbero – essere scritte in un italiano chiaro, privo di ambiguità, con parole e frasi dal significato univoco (nei limiti del possibile, si intende): solo in questo modo si evitano interpretazioni contrastanti, che a loro volta possono dar spazio agli arbitri dei funzionari pubblici.

Per spiegarci meglio: la persona innamorata che dica «voglio vederti presto» farà felice il proprio partner. Ma se l’Ufficio del Comune promette che la vostra pratica sarà esaminata «presto», vi sentirete presi in giro: presto quando? che significa presto? E infatti le leggi non usano termini così generici: tanto per rimanere nell’esempio, la norma sui procedimenti amministrativi obbliga gli uffici pubblici a concludere le pratiche «entro trenta giorni». «Presto» è ambiguo, vuol dire tutto e non vuol dire nulla; «trenta giorni» è un termine chiaro, che garantisce il cittadino e lo tutela dagli abusi. Ovvio, no?

Gli esperti dicono che il linguaggio giuridico deve essere “rigido ed esplicito”: rigido –privo di ambiguità – nei significati delle parole, ed esplicito, cioè tale da lasciare poco spazio ai non detti, ai sottintesi, alle allusioni. Al contrario, il linguaggio “naturale” (quello che parliamo tutti i giorni) è “elastico” e “implicito”. Questa è – dovrebbe essere – la differenza tra la lingua dei giuristi e quella che usiamo sul tram, al bar o con gli amici.

Quando la burocrazia parla di rom e sinti
Quando parlano di rom e sinti, però, le amministrazioni pubbliche dimenticano le regole del “parlare giuridico”. Si esprimono con termini imprecisi, ambigui e – appunto – “elastici”: fanno allusioni, dicono e non dicono, saltano passaggi logici, si appoggiano a stereotipi di senso comune, alimentano e diffondono pregiudizi. A rivelarlo è una ricerca della Fondazione Michelucci di Firenze e del Centro Creaa dell’Università di Verona: che ha preso in esame 702 documenti, tutti prodotti dalle istituzioni, sia nazionali che locali. Sono state scandagliate leggi, regolamenti, piani, atti, risoluzioni e delibere: testi “ufficiali”, sempre riferiti a rom e sinti. E l’analisi di questa corposa documentazione ha riservato qualche sorpresa.

La lingua del disprezzo
In molti Comuni – spiega ad esempio Leonardo Piasere, uno dei coordinatori della ricerca – si smantellano gli insediamenti rom facendo appello all’«igiene pubblica». In quanto “pubblica”, però, l’igiene dovrebbe riguardare tutti, rom e non rom: e invece, leggendo le ordinanze di sgombero, si nota un frequente disinteresse per le condizioni di salute di chi vive nei campi. Anzi, spesso sono proprio loro, i cosiddetti “zingari”, a rappresentare la “minaccia”, il “problema igienico” da allontanare (nell’interesse, si intende, dei “cittadini”, che per definizione non possono essere rom…).

«Il rischio di contrarre malattie infettive dagli animali», spiega Piasere, «si chiama, in termini tecnici, zoonosi. Ecco, potremmo dire che in molte ordinanze si postula l’esistenza di una ziganosi: il “fattore di rischio” sono proprio loro, i cosiddetti “zigani”, cioè i rom e i sinti. Sono loro a dover essere allontanati, al fine di immunizzare la “società civile”…».

Gli insediamenti “informali” – quelli che la lingua della burocrazia chiama “abusivi” – sono spesso associati al “degrado”, “al deterioramento della vita urbana” e all’immancabile “insicurezza”. Lo rilevano, nei loro contributi, Giuseppe Faso e Virgilio Mosè Carrara Sutour. Si tratta di concetti vaghi, di difficile definizione: chi, e in base a quale criteri, decide che un insediamento “deteriora la vita urbana”? Se voglio oppormi allo sgombero, come faccio a dimostrare che la mia presenza non è un fattore di “degrado”, visto che la parola “degrado” è generica, ambigua, scivolosa?

La de-umanizzazione
Si ha quasi l’impressione che il “degrado” sia rappresentato, in realtà, dagli stessi rom: di nuovo, sono loro ad essere “il problema”. Se, nelle ordinanze sull’igiene, i (cosiddetti) “nomadi” sono descritti come “fattore di rischio”, qui compaiono come “portatori di degrado”. Animali nel primo caso (la “ziganosi”, dicevamo…), rifiuti nel secondo: rom e sinti non sono concepiti come esseri umani a pieno titolo.

La de-umanizzazione dei rom, del resto, ricorre spesso nella lingua burocratica, persino quando le amministrazioni sono impegnate in progetti di inclusione sociale. «In molti provvedimenti», osserva ancora Faso, «non si parla di accoglienza di persone, ma di “etnie rom”. Come se i diritti non fossero per individui e famiglie ma per l’etnia: un fantasma difficile da definire, ma comodo perché sostituisce l’impronunciabile razza». Non solo animali o quasi-animali, non solo rifiuti o quasi-rifiuti, ma anche razze differenti: gli “zingari” sono il paradigma delle non-persone.

Finalità ambigue…
Ci sono poi i testi contraddittori, che affermano una cosa e subito dopo la negano. Così, per esempio, un documento della Regione Toscana parla di «lotta all’esclusione sociale», e aggiunge: «tale da alleggerire la concentrazione di famiglie rom sul territorio». Come sarebbe a dire «tale da»? Se si avvia un percorso contro l’esclusione, si presuppone che si compiano azioni rivolte all’accoglienza: in italiano, il contrario di «esclusione» è, per l’appunto, «inclusione», cioè inserimento sociale. E l’obiettivo di «alleggerire» – quindi di mandare via i rom, come se fossero un peso – si sposa male con questa premessa…

«La verità», spiega Faso, «è che in questa apparente contraddizione c’è un non detto, che può essere riassunto così: “se bisogna combattere l’esclusione, e se i rom, stando vicini, rafforzano i meccanismi di auto-segregazione, allora bisogna fare in modo che non troppe famiglie rom stiano vicine”. Ma è un non detto, appunto, che infrange la regola di esplicitezza del linguaggio giuridico». E che attribuisce agli stessi rom la “colpa” della loro esclusione.

… e contratti farlocchi
La lingua delle amministrazioni pubbliche è fatta insomma di words which exclude, «parole che escludono»: una locuzione che non a caso è stata scelta come titolo della ricerca. Eppure, non si tratta solo di una questione di linguaggio: spesso, a “escludere” sono proprio gli strumenti operativi messi in campo dalle istituzioni.

Ne è un esempio il cosiddetto “contratto di accoglienza”, analizzato da Sabrina Tosi Cambini: si tratta di uno strumento molto diffuso, che molte amministrazioni locali impiegano nei percorsi di inclusione dei rom. Funziona più o meno così: a una famiglia inserita in un progetto – ad esempio, in un alloggio sociale – viene proposta la stipula di un “contratto”, che deve essere firmato dal capofamiglia e – congiuntamente – dal responsabile della pubblica amministrazione.

In apparenza, il contratto stabilisce diritti e doveri di entrambe le parti, in modo paritario. Di solito, l’ente pubblico si impegna a fornire l’alloggio, e a mettere a disposizione un servizio di accompagnamento (cioè un operatore incaricato di assistere il nucleo). Dal canto suo, la famiglia si impegna a «rispettare gli obiettivi del progetto»: vale a dire, a trovare un lavoro, e a rendersi economicamente autonoma. Il punto – spiega Tosi Cambini – è che le parti non sono affatto sullo stesso piano. L’ente pubblico ha risorse, soldi, potere. La famiglia rom vive in una condizione di marginalità, e difficilmente può “negoziare” le clausole proposte: se le vede imporre dall’alto, e deve accettarle se vuole uscire dal “campo nomadi” e mettere piede in una casa.

Non solo: con il “contratto”, la famiglia si impegna a perseguire obiettivi che, spesso, sono al di fuori delle proprie possibilità. Trovare un lavoro è difficile, e non solo per la crisi: è raro che una ditta assuma uno “zingaro”, ed è altrettanto raro che l’abitante di un “campo”, magari non più tanto giovane, riesca a trovare un impiego con le sue sole forze. Il fallimento del “percorso di integrazione” può però venire imputato alla stessa famiglia: «dovevano integrarsi, hanno firmato un contratto, non l’hanno rispettato…».

La lingua del Bar Sport
«A produrre discriminazione», diceva la studiosa Clelia Bartoli in un bel libro uscito due anni fa, «non è solo il contenuto delle norme, ma anche la loro cattiva qualità tecnica». La ricerca words which exclude è un po’ la conferma di questa tesi. L’esclusione sociale dei rom è prodotta anche da istituzioni che non parlano la lingua delle istituzioni. Da amministratori che non scrivono e non pensano da amministratori. E che preferiscono, per loro scelta, esprimersi come ci si esprime al Bar Sport…

Sergio Bontempelli