i 50 anni della rivista teologica ‘Concilium’

 

 

«Concilium», 50 anni agli avamposti”

di Filippo Rizzi
 
in maggio convegno a Rio de Janeiro

Sacra Scrittura, teologia morale e dogmatica, diritto canonico, liturgia, spiritualità e storia della Chiesa. Sfogliando l’immensa bibliografia della rivista «Concilium» sono queste le voci più ricorrenti e gli argomenti finiti più volentieri nel focus del periodico internazionale. Temi e questioni cruciali che vanno dalla teologia dei diritti umani alle «vie del cristianesimo in Africa», alla cruciale teologia della liberazione in America Latina… In questi 50 anni tante le firme di autori autorevoli – teologi e no – ospitate dalla rivista (edita in 7 lingue e con una comunità redazionale composta da circa 300 teologi): da Gustavo Gutierrez a Jon Sobrino, dai domenicani parigini Claude Geffré e Marie-Dominique Chenu al gesuita Cristoph Théobald, dallo storico Giuseppe Alberigo al teologo ortodosso Olivier Clément, fino al «teologo della speranza» Jürgen Moltmann. Senza dimenticare il grande esegeta dell’«École Biblique» Pierre Benoit. «Alla rivista hanno dato il loro contributo anche scrittori non necessariamente teologi – spiega Rosino Gibellini –, come il pedagogista brasiliano Paulo Freire o i filosofi francesi Paul Ricoeur ed Emmanuel Lévinas. Una tradizione culturale da potenziare». L’anniversario del 2015 aiuterà anche a ripartire del programma iniziale della rivista che – come recita l’editoriale del gennaio 1965 – è costruita sul «fondamento del Vaticano II». «Il 50° anniversario – spiega il presidente della Fondazione Concilium Felix Wilfred – verrà celebrato a maggio con una conferenza internazionale a Rio de Janeiro. C’è molto interesse attorno a questo appuntamento soprattutto tra le Chiese di nuova cristianità, per la forma di teologia e cultura dell’incontro portata avanti da Concilium»

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«Concilium tenta di essere un radar, che prolunga nella mutazione contemporanea la grande tradizione teologica. La teologia è sempre in ricerca. Ciò è importante nel momento in cui siamo aggrediti da tanti problemi nuovi»

 

Queste parole quasi dal sapore profetico ma anche programmatico di uno dei padri nobili della Nouvelle théologie, il domenicano francese Yves-Marie Congar, fotografano ancora oggi l’attualità della rivista internazionale di teologia Concilium, che questo giovedì varcherà il 50° anno di vita. Fu infatti il 15 gennaio 1965 (pochi mesi prima della chiusura del Vaticano II, avvenuta l’8 dicembre di quell’anno) che, dopo un lungo travaglio redazionale, comparve il primo numero – consegnato per l’occasione a tutti i padri conciliari – della pubblicazione che avrebbe rappresentato una bussola di orientamento per la teologia post-conciliare e non solo. Tra i collaboratori di quell’esordio figurava anche il teologo Joseph Ratzinger e futuro papa Benedetto XVI, autore del saggio «Le implicazioni pastorali della dottrina della collegialità dei vescovi».

Eppure, nel corso della sua lunga vita, Concilium è sempre stata percepita all’interno del complesso arcipelago della teologica cattolica come «di rottura» rispetto alla più tradizionale pubblicazione Communio, nata nel 1972; per certuni addirittura un contraltare rispetto al periodico di stampo conservatore Renovatio, voluto dal cardinale Giuseppe Siri, mentre per altri era il fedele erede degli insegnamenti del Vaticano II (come enunciava del resto l’editoriale programmatico del 1965 «Una nuova rivista di teologia. Perché e per chi?» di Karl Rahner e Edward Schillebeeckx).

Il traguardo del mezzo secolo viene ora letto con grande carico di speranza e di gratitudine dal «padre nobile» dell’edizione italiana, il teologo Rosino Gibellini: «I primi teologi ad aggregarsi furono proprio il domenicano Schillebeeckx di Nimega e il gesuita Rahner di Innsbruck – rivela lo studioso piamartino – e due giovani teologi di lingua tedesca: Hans Küng di Tubinga e Johann Baptist Metz di Münster. Sono questi i fondatori di Concilium, cui si devono aggiungere l’editore Paul Brand e l’amministratore presidente Anton von den Boogaard».

 

Padre Gibellini nel suo articolato ragionamento rievoca l’importanza di questa rivista («alla cui stesura partecipano oggi un ugual numero di collaboratori e collaboratrici»), che ha sempre cercato di dialogare con i lontani, di «leggere i segni dei tempi», di affrontare temi scottanti come l’ecologia, l’ecumenismo, il ruolo delle donne all’interno del cattolicesimo, il Terzo mondo, e di dare ampio spazio a tutto ciò che proviene dalla teologia extraeuropea.

Uno sguardo verso l’Asia e le Chiese giovani confermato dalla scelta di trasferire la sede centrale di Concilium da Nimega (Olanda) a Madras in India. «Il fatto stesso che la rivista abbia scelto come sede di riferimento un Paese in via di sviluppo è un chiaro messaggio del viaggio compiuto attraverso dei confini e dei legami – spiega da Madras il teologo indiano e presidente della Fondazione Concilium, Felix Wilfred –. Si è trattato di una scelta strategica alla luce anche del fatto che l’asse della cristianità si è spostato verso Sud, dove è vivace pur in mezzo a molte difficoltà, mentre vediamo una situazione completamente diversa in Europa e nel Nord America, dove le chiese si stanno svuotando».

E aggiunge un particolare: «La rivista vuole rimanere fedele al suo grande passato e ai padri fondatori, ma contemporaneamente desidera tenere aperto un varco di dialogo nel campo del pluralismo religioso come sua istanza primaria, tramite anche una visione teologica che vada oltre la cosiddetta sua matrice di origine “euro-americana”. Per questo è divenuto per noi di primaria importanza dare più voce al nuovo cristianesimo presente in Africa, Asia e Oceania. Una strategia editoriale che ci pare in linea con l’impronta pastorale di papa Francesco e del suo sguardo sul mondo. Tutto questo si presenta per noi come una sfida a costruire una nuova identità in risposta anche ai tempi che cambiano».

Una rivista teologica d’avanguardia in cui è sempre stato vivo il dibattito, il confronto tra i saperi, ma che forse è divenuta – per sua stessa ammissione e anche per la forza capillare del suo think thank di esperti – «un movimento nella Chiesa?» (come si interrogava in un famoso editoriale del 1992 il teologo domenicano Jean Pierre Jossua). «Sicuramente – rileva Elio Guerriero, direttore per tanti anni dell’edizione italiana di Communio – è stata una pubblicazione che ci ha aiutato a capire il fermento che stava dietro al Vaticano II.

Ci ha offerto tanti strumenti per capire il valore di quell’assise ecumenica. Ha aiutato ad esempio molti studiosi a capire il valore della teologia nera o i segni di fecondità che provenivano dalla teologia studiata e interpretata dalle donne. Proprio per la sua diversità da Communio in un contesto di pluralismo, ha rappresentato una voce diversa all’interno della Chiesa; complementare ma non rivale, per celebrare con note diverse quella “verità sinfonica” tanto amata dal teologo svizzero Hans Urs von Balthasar».

Guerriero ritorna con la mente anche alla nascita di Communio, al circolo di teologi (molti dei quali provenienti dall’esperienza di Concilium) come Joseph Ratzinger e Henri de Lubac, a cui si aggiunsero Hans Urs von Balthasar e Louis Bouyer, e ai motivi che spinsero alla genesi di quella pubblicazione nel lontano 1972: «Mi hanno sempre colpito le parole che in questi ultimi anni ci ha indirizzato Joseph Ratzinger, le esortazioni cioè ad avere il “coraggio di andare avanti” e di parlare con chiarezza e senza infingimenti pensando solo al futuro e al bene della Chiesa.Ed è lo stesso coraggio che mi sento di indirizzare a Concilium, andando oltre i piccoli campanilismi che ci dividono o le polemiche clericali, ad esempio su quale ruolo attribuire alle donne nella Chiesa». E aggiunge un particolare: «Credo che uno degli aspetti su cui investire di più, proprio alla luce degli insegnamenti del Concilio, sia il recupero dell’universale vocazione alla santità della Chiesa: uno dei tratti essenziali del Vaticano II e più ribaditi da padri conciliari. Ma quest’aspetto è scomparso prestissimo dai dibattiti teologici».
Concilium ha dunque un ruolo di pungolo nei confronti della teologia contemporanea, proiettato verso il futuro «senza vergognarsi del suo passato», come direbbe Karl Rahner, e continuando ad «assolvere il proprio compito opportune et importune»…«Credo e spero che questo anniversario – è la riflessione finale di Gibellini – aiuti tutti a ritornare alla radici fondative della rivista, cattolica con apertura ecumenica. La nostra pubblicazione non intende, come spesso si pensa, essere “di rottura”, ma espressione di una new catholicity, di una “nuova cattolicità” che rispetta le differenze e le accoglie in un orizzonte ampiamente ecumenico. Il filo rosso del nostro progetto è quello di sempre: continuare a convivere senza rivalità e tratti polemici con le altre riviste all’insegna di una “responsabilità reciproca e condivisa” nei confronti della causa del Vangelo nel mondo».

© riproduzione riservata



“riabilitate HANS KÜNG!”

APPELLO AL PAPA A FAVORE DEL TEOLOGO SVIZZERO

Trasmissione Raitre Che tempo che fa

I mea culpa della Chiesa avvengono in genere “a babbo morto”, svariati decenni e, più spesso, secoli dopo il “delitto” commesso. Sicché Giovanni Paolo II ha chiesto perdono fra l’altro per lo schiavismo, le stragi degli indios, la condanna di Galileo, i crimini dei cattolici croati nei Balcani. Più coraggiosamente, papa Francesco corregge storture più recenti, pur se è ancora molto ricordato e venerato il pontefice sotto il quale sono avvenute. Per esempio, se Wojtyla aveva sospeso a divinis p. Miguel D’Escoto per la sua partecipazione al governo sandinista, Bergoglio il 1° agosto scorso ha cancellato la sospensione, certo motivandola con il pentimento sincero del sacerdote: «Ha capito di aver sbagliato e il pontefice ha compreso la sincerità del ravvedimento». Chi non accetterà mai di ammettere di avere sbagliato, sempre che questo abbia fatto D’Escoto, è il teologo svizzero e sacerdote Hans Küng, che proprio Giovanni Paolo II privò nel 1979 della missio canonica relativa all’insegnamento della teologia cattolica. E allora per la sua “riabilitazione” si stanno muovendo semplici fedeli, su iniziativa della Parrocchia Universitaria di Montevideo (in Uruguay), con una lettera a Francesco che ha subito raccolto un centinaio di firme in vari Paesi dell’America Latina e in Spagna e Portogallo (ma la sottoscrizione è in continuo aggiornamento). «Si avvicina la fine dei suoi giorni», scrivono di Küng, 86enne e malato di Parkinson. «È ora di restituirgli quello che non chiede, ma che senza dubbio merita. La Chiesa sarà la prima a beneficiarne, con un atto di riconoscimento giusto e pieno d’amore». Sanno i firmatari di trovare in Francesco orecchie ben disposte: egli stesso ha inviato al teologo due lettere e in una di esse il papa ha scritto «resto a disposizione». E allora, scrivono, «ti chiediamo un passo in più: che Küng possa tornare nella sua condizione di “teologo cattolico”». «Sappiamo che non è facile», aggiungono, «ma abbiamo sovrabbondanti prove che sei specializzato in temi difficili».

Sollecita la riabilitazione di Küng anche Manuel Fraijó, teologo e filosofo spagnolo di formazione gesuita, che si pose a fianco di Küng, quando a questi venne ritirata la missio canonica, fino ad accettare di non insegnare più nelle facoltà cattoliche di Teologia e a rinunciare qualche tempo dopo al sacerdozio. Discepolo e amico di Küng (come anche di Karl Rahner, Wolfhart Pannenberg, Jürgen Moltmann, Johann Baptist Metz e José Luis López Aranguren), nell’articolo “La serena certezza del dovere compiuto” pubblicato il 24 dicembre scorso sul quotidiano spagnolo El País, ricorda gli oltre «60 libri, alcuni dei quali molto voluminosi, tradotti in molte lingue», attraverso i quali Küng «ha illuminato i grandi temi della vita umana: Dio, Gesù, la Chiesa, le religioni del mondo, il senso della vita, l’etica, l’aldilà, l’origine della realtà, la bramata pace, la politica e l’economia, la musica ed un ingombrante eccetera». L’anziano teologo svizzero guarda con «entusiasmo» a Francesco, aggiunge Fraijó, trovando nell’attuale papa «grandi somiglianze con l’ammirato Giovanni XXIII» e riconoscendo che sta mettendo mano a «riforme necessarie, lungamente attese e tenacemente difese da lui e da molti altri teologi». Accadrà allora, si chiede Fraijó, che «il papa prenderà il telefono e chiamerà Küng per dirgli che è riabilitato, che la Chiesa non può permettere che muoia come teologo non cattolico uno dei teologi della seconda metà del XX secolo e inizi del XXI che più ha contribuito alla diffusione e all’approfondimento del cattolicesimo nel mondo?».

José María Castillo spera

Di teologi puniti – Wojtyla regnante in coppia con il “suo” prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, card. Ratzinger, poi Benedetto XVI – perché la loro ricerca non si limitava al ruolo di microfono del Magistero ce n’è una teoria. La “riabilitazione” a breve (diciamo nel tempo di questo pontificato) di tutti loro sarebbe davvero un fatto storico ed insieme impensabile, ma per qualcuno di loro (oltre che per Küng, se si confida in quel “francescano” «sono a disposizione») è probabile: per esempio per il teologo spagnolo José María Castillo. Anche a questi il papa ha scritto una lettera. Lo ha rivelato, un po’ obtorto collo, lo stesso teologo in occasione dell’omaggio che gli è stato reso, in quanto maestro della Teologia Popolare, il 27 novembre scorso al Collegio Maggiore Chaminade, Università di Madrid. «Ho ricevuto nell’agosto scorso – ha detto – una lettera del papa, scritta di suo pugno» nella quale Francesco dice: «Ti ho perduto negli anni ‘80 e ora ti ritrovo»; il papa «mi ha detto che ne era rallegrato, ha aggiunto: “Ti chiedo di pregare per me come io prego per te” e ha terminato con un grande abbraccio». Il pontefice fa riferimento a quando (v. Adista nn. 39 e 50/88) Castillo fu destituito dall’insegnamento di Teologia dogmatica dell’Università di Granada (insieme a Juan Antonio Estrada, gesuita come Castillo, e in contemporanea con il claretiano Benjamin Forcano, cui venne sottratta la direzione della rivista Misión abierta) dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, dopo che una commissione di vescovi spagnoli nell’ottobre 1986 aveva pubblicato una nota critica nei confronti dei quaderni di “Teologia Popolare”, di cui il sacerdote era uno dei curatori. Tale teologia, nata sul finire degli anni ‘70 del secolo scorso, era il risultato della preoccupazione derivante dall’allontanamento, dal popolo e dalla gente, della teologia e della predicazione ecclesiastica, della catechesi, del Vangelo, ecc. La maggior parte dei teologi scrive una teologia che non è compresa dal popolo e che non gli interessa, sostiene infatti Castillo. (eletta cucuzza)

Fonte: Adista n. 2/2015




“io comunista proprio no!”, così si difende papa Francesco

 

 

 

così Francesco rovescia chi lo accusa di essere comunista

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nel libro intervista “Questa economica uccide” il Pontefice chiarisce le sua dottrina su globalizzazione e poveri

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Papa Francisco cercado por crianças na favela de Manguinhos (25 de julho de 2013)

 

 

 

 

 

<!-- --> «L’attenzione ai poveri non è un’invenzione del comunismo, ma è nella tradizione della Chiesa, che talvolta si dimentica della sua missione originaria e necessita di correzione e conversione»
papa Francesco lo dice a chiare lettere in “Questa economia uccide”, il libro intervista di Andrea Tornielli e Giacomo Galeazzi, i due vaticanisti de La Stampa.

 

 

DAL “COMPAGNO” AL “LEONCAVALLINO”
In questo nuovo volume, Papa Francesco replica alla rete di accuse di “comunismo”, che vengono mosse da tempo nei suoi confronti. Dal «compagno Bergoglio» dell’ideologo di destra Maurizio Ruggiero, al “fuoco” di Antonio Socci (Libero, 9 novembre): «Dice sempre che ha conosciuto militanti comunisti in Argentina che erano brave persone. “Chi sono io per giudicare?”. Sfodera toni infuocati (e giudica) solo quando si scaglia contro il “liberismo selvaggio”. Il 28 ottobre ha ospitato in Vaticano vari movimenti noglobal, compreso il Leoncavallo e ha scagliato fulmini. Tanto che Fausto Bertinotti ha subito indicato in lui – venerdì sera, a Tg3 notte – il vero “rivoluzionario” del momento».

ASSONANZE CON L’IMPERO DI NEGRI
Socci, in quell’occasione, ha rilanciato le parole del vaticanista de L’Espresso Sandro Magister, secondo cui «ciò che più colpisce di questo discorso è la sua stupefacente somiglianza con le teorie sostenute dal filosofo Toni Negri e dal suo discepolo Michael Hardt in un libro del 2002 che ha fatto epoca: ‘Impero’». Per Negri, il mondo non è più governato da stati nazionali, ma da una struttura decentrata e deterritorializzata, che definisce Impero. Dunque ci troveremmo di fronte ad una papa “complottista” oltre che “comunista”.

PARTIGIANO E GRAMSCIANO
Il sociologo Umberto Di Maggio, coordinatore regionale di Libera contro le mafie in Sicilia, in senso più buonista ha parlato di «papa partigiano», in relazione al concetto di «globalizzazione dell’indifferenza», una «frase che assume una portata storica poiché definisce, come diceva Gramsci […] l’indifferenza come peso morto della Storia. Perché in fin dei conti l’abulia ed il parassitismo sono vigliaccheria e quindi rifiuto del senso autentico della vita. Parole partigiane quelle di Papa Francesco che, sconvolgendo ogni protocollo, ha scelto di essere ultimo tra gli ultimi». Affermazioni poi corrette dal giornalista e blogger Giuliano Guzzo che ha chiarito come Gramsci traducesse l’indifferenza in assenza di «impegno» e diceva di «odiare gli indifferenti», mentre Bergoglio si rivolge all’assenza di «amore» e critica, e non dice di odiare quelle persone.

PAUPERISTA E DISANCORATO ALLA REALTA’
Piero Ostellino sul Corriere della Sera (16 luglio 2013), all’indomani della visita del papa a Lampedusa, bacchettava il volto “francescano” del Pontefice «pauperista», che fa sistematicamente «l’elogio della povertà a uomini e donne di una “società dei consumi” e del benessere in crisi come la nostra, che non ce la fanno sempre a mettere assieme la colazione di mezzogiorno con la cena della sera e ad altri uomini e donne che non aspirano che a raggiungere un certo livello di consumi e un minimo di benessere – rischia di mettere in second’ordine il Papa gesuita, mostrando di sottovalutare il principio di realtà anche agli occhi di molti credenti».

UNA REPLICA CHE CHIARISCE IL SUO PENSIERO
«Di fronte alle accuse  di essere “marxista”, “comunista” e “pauperista”», nel nuovo libro di Galeazzo e Tornielli, «Papa Francesco esponendo il suo pensiero sui temi della povertà e della giustizia sociale, risponde indirettamente ad altre critiche, forse ancor più velenose, che serpeggiano in alcuni ambienti ecclesiali che faticano ad accettare un Papa “non imprevisto” ma “imprevedibile”» (Franco Garelli, La Stampa 13 gennaio).

COSA E’ REALMENTE LA GLOBALIZZAZIONE DELL’INDIFFERENZA
Francesco non ha remore a rilanciare due concetti a lui cari. «La “globalizzazione dell’indifferenza” – spiega Garelli – è il grande rischio che il mondo d’oggi sta correndo; che viviamo in un sistema che ha alimentato non soltanto la ricchezza mondiale, ma anche le disparità e la “cultura dello scarto”; che l’attenzione per i poveri non è un’opzione politica o ideologica, ma anzitutto un criterio del Vangelo, il protocollo sulla base del quale i cristiani e gli uomini di buona volontà saranno giudicati; che la Chiesa non condanna i ricchi ma l’idolatria della ricchezza, che rende impermeabili al grido dei poveri».

DESTINAZIONE UNIVERSALE DEI BENI 
Ma a fianco di questi grandi appelli, il Papa richiama due criteri che la Chiesa oggi considera alla base degli ordinamenti socio-economici e politici: «Da un lato il principio della destinazione universale dei beni – sottolinea l’editorialista de La Stampa – dall’altro la scelta preferenziale dei poveri. Nel primo caso il principio sancisce che i beni della terra sono un dono che Dio ha elargito all’intera famiglia umana, per cui devono essere partecipati da tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità; ma che si regge anche su una precisa ragione sociale, tesa a ridurre gli squilibri tipici di un sistema capitalistico che enfatizza eccessivamente il diritto di proprietà e la legge del più forte».

SCELTA PREFERENZIALE DEI POVERI
Anche «la scelta preferenziale dei poveri» – ricorda papa Francesco – è un leit-motiv della tradizione e del magistero della Chiesa cattolica, forse oggi un po’ passato sotto silenzio per il timore che il messaggio cristiano venga interpretato più in chiave orizzontale che verticale, più come salvezza sociale che spirituale. Con la scelta preferenziale dei poveri la Chiesa non intende favorire un processo di pura liberazione sociale. Ma non può che stare dalla parte degli ultimi, sia per essere fedele al suo messaggio, sia riconoscendo che l’estensione dei diritti di cittadinanza rende più civile e armonica l’intera umanità».

IL CUORE DEL VANGELO
Il sito web belga in lingua fiamminga deredactie.be pubblicò lo scorso 4 aprile un video in cui Francesco ribadiva una linea netta sulle povertà: «Questo è il cuore del Vangelo, io sono credente in Dio e in Gesù Cristo, per me il cuore del Vangelo è nei poveri. Ho sentito due mesi fa che una persona ha detto: con questo parlare dei poveri, questo Papa è un comunista! No, questa è una bandiera del Vangelo, no del comunismo…la povertà senza ideologia, i poveri sono al centro del Vangelo di Gesù, basta leggerlo» (Il Messaggero, 4 aprile).

CASA, TETTO, LAVORO
Così come il passaggio più incisivo del suo discorso nell’incontro mondiale dei movimenti popolari tanto criticato da Socci: «E’ un crimine che milioni di persone soffrano la fame – disse il pontefice – mentre la speculazione finanziaria condiziona il prezzo degli alimenti, trattandoli come qualsiasi altra merce. Nessuna famiglia senza tetto. Nessun contadino senza la terra. Nessun lavoratore senza diritti. Nessuna persona senza la dignità del lavoro» (Il Fatto Quotidiano, 28 ottobre). Il suo, dunque, è «un programma di azione sociale» in senso buono, come lo definiva Giorgio Bernardelli su Vinonuovo.it (31 ottobre 2014).

IL RISCATTO DEI MENO ABBIENTI
Un programma orientato al riscatto dei poveri e non al loro mero compatimento. «La novità del tempo di oggi e di domani sta, secondo papa Francesco – scriveva Città Nuova (31 ottobre), riprendendo alcune espressione di Bergoglio – sta nel fatto “che i poveri non aspettano più e vogliono essere protagonisti; si organizzano, studiano, lavorano, esigono e soprattutto praticano quella solidarietà tanto speciale che esiste tra quanti soffrono, tra i poveri, e che la nostra civiltà sembra aver dimenticato o quantomeno ha molta voglia di dimenticare”».

UNA SOLIDARIETA’ CREATIVA 
Sicuramente il papa, concludeva la rivista dei Focolarini, sgombrando il campo dalle accuse di “comunismo” e “pauperismo”, «ha davanti ai suoi occhi la comunità di malati, poveri, storpi, ciechi, che cerca Gesù per avere forza, stare in piedi, imparare i gesti e le parole di una solidarietà creativa, che mette i poveri al centro. Il papa – ispirato da quella visione – può dire che il futuro sta in questo nuovo protagonismo dei poveri, che sono chiamati a fare la storia, prima che l’impero del denaro possa travolgere il mondo con la guerra e con lo sfruttamento».

sources: ALETEIA