quando il linguaggio tradisce le discriminazioni che neghiamo

gay

 

 

 

 

quando mettiamo le mani avanti iniziando il discorso dicendo: “non sono razzista, però … ” , “io non discrimino i rom, i gay, i neri, però … “, stiamo già dicendo molto in proposito, stiamo già tradendo lo sguardo razzista sulla realtà che a parole intendiamo negare a  chi ci ascolta e, prima ancora, a noi stessi

mi piace riportare un trafiletto di M. Valcarenghi apparso su ‘il Fattoquotidiano’ che argutamente evidenzia questa velata, ma neanche tanto, forma di razzismo o discriminazione che assume talvolta anche le forme più gentili ed eleganti (“io tra i rom o tra i gay ho tanti amici, quindi … “):

Né omo né etero: persone

di Marina Valcarenghi

in “il Fatto Quotidiano” del 16 giugno 2014

gay1

“Un mio compagno di università gay suona divinamente il clarinetto”. “Perché mi dice che è omosessuale?” “Beh … così per dire – poi il mio paziente proseguì sospettoso – perché mi fa questa domanda?” “Perché non credo che direbbe: “Un mio compagno di università etero suona … eccetera. Perché questa marcatura della differenza?” ”Non sono omofobo” “Non ho detto questo, ho detto che ha segnalato una diversità di orientamento sessuale in una frase che non la richiedeva. Come se io dicessi: “Una mia amica lesbica cucina il cus cus”. “Ma lo fanno tutti!”, protestò il mio paziente. “È vero, credo infatti che in molti casi – come nel suo – si tratti di un automatismo indotto dall’imitazione, o addirittura di un’inconscia affermazione di apertura alla diversità, ma di fatto, magari senza saperlo né volerlo, si conferma uno stigma”. Un mio amico mi disse: “… in fondo sono un gay di sessant’anni…” “Sei un uomo di sessant’anni” intervenni con tutta la dolcezza che sentivo. “Sì, hai ragione… non ci si accorge nemmeno più, ti hanno messo addosso un marchio e ormai te lo tieni e tanto vale sventolarlo come una bandiera. So che è una cavolata. Non è né un marchio né una bandiera, è un modo di essere”. Io e quel mio amico, come tanti altri, sogniamo un mondo dove l’omosessualità e l’eterosessualità non siano più argomenti, dove la scelta nell’amore e nel sesso, non di rado anche mutevole nel corso di una vita, sia finalmente un fatto privato, irrilevante nell’amicizia, nel lavoro, nello sport, nell’arte, nella politica e dovunque altrove, dove non siano più necessarie manifestazioni carnevalesche e zone separate, dove nessuno osi utilizzare l’opzione sessuale per alzare palizzate e distribuire svantaggi o privilegi. Ce la possiamo fare, è solo questione di tempo. Stiamo attenti al nostro linguaggio: le parole sono importanti.

 




Parigi: ragazzo rom linciato

Rom 16enne linciato a Parigi
Hollande: «Ingiustificabile»

Prelevato da un commando e massacrato di botte in una cantina perché considerato «colpevole» di un furto. Il presidente francese: «Viola i principi della Repubblica»

Un’immagine del campo rom dove viveva Darius (Afp)<img alt=”Un’immagine del campo rom dove viveva Darius (Afp)” title=”Un’immagine del campo rom dove viveva Darius (Afp)” src=”/methode_image/2014/06/18/Esteri/Foto%20Esteri%20-%20Trattate/-06-737218-01-02-20140617-171112-kfvH-U43020614397964pSH-1224×916@Corriere-Web-Sezioni-593×443.jpg?v=20140618202058″/>Un’immagine del campo rom dove viveva Darius

Il linciaggio dopo un furto

Il ragazzino, identificato solo come Darius, è stato trovato venerdì notte, in fin di vita dentro un carrello di supermercato abbandonato sulla strada nazionale numero 1, presso Pierrefitte-sur-Seine, un sobborgo settentrionale della banlieue parigina, nel dipartimento di Seine-Saint-Denis. Il ragazzino viveva da meno di un mese con la famiglia e altri 200 rom romeni nella bidonville. Venerdì sera un commando («una dozzina di persone» a volto coperto armati di spranghe) lo ha prelevato con la forza e portato in una cantina vicina. Li Darius è stato massacrato di botte. Secondo il commando era il colpevole di un furto in un’abitazione vicina. Dopo il linciaggio Darius è stato abbandonato agonizzante.

L’allarme

L’allarme è partito dalla madre che intorno alle 22:30 ha contattato la polizia per denunciare la scomparsa del figlio. La donna ha raccontato che qualcuno l’aveva chiamata poco prima dal cellulare di Darius chiedendo 15 mila euro di riscatto. Il giovane è stato ritrovato un’ora dopo, incosciente, con diverse fratture alla testa. Abbandonato poco lontano da un quartiere popolare dove nelle ultime settimane erano stati denunciati furti che gli abitanti della cité attribuiscono ai rom del campo vicino. Hollande ha promesso che «sarà fatto tutto il possibile per ritrovare gli autori dell’aggressione».

La condanna

Il linciaggio era stato precedentemente condannato con forza sia dal primo ministro Manuel Valls che dal ministro degli Interni Bernard Cazeneuve. L’aggressione è stata condannata anche da Louis Alliot, vice presidente del Front National e compagno della sua leader Marine Le Pen. Ma Alliot ha voluto anche sottolineare che i cittadini «hanno l’impressione di non essere difesi» e quindi «si difendono da soli

Razzismo e persecuzioni

Negli ultimi anni il governo francese ha attuato una politica repressiva nei confronti dei rom. Circa 20mila famiglie – riporta Amnesty – sono state cacciate dai campi nel 2013 in Francia, in gran parte d’estate. Nuove espulsioni sono attese a breve, tra cui quelle nel campo rom di Marsiglia. Il governo ritiene che i campi siano una violazione agli «standard di salute pubblica», ma secondo i critici le condizioni peggiorano soltanto quando le famiglie vengono cacciate e i campi demoliti. Ad aprile un rapporto di Amnety ha criticato i Paesi Ue per non aver fatto abbastanza per proteggere i rom e in particolare ha attaccato la Francia. Sos Racisme, dopo il linciaggio del ragazzino a Parigi, ha parlato dell’«ovvio risultato delle nauseanti tensioni a cui sono sottoposti dei concittadini». «Un cambiamento radicale» dei toni sui rom e una chiara denuncia delle violenze a cui sono esposti, è stata chiesta da Benjamin Abtan, presidente del Movimento antirazzista europeo di base (Egam)

.«Un atto innominabile e ingiustificabile, che si scontra con tutti i principi sui quali è fondata la nostra Repubblica». Il presidente francese Francois Hollande interviene con fermezza dopo il pestaggio di un sedicenne rom, in ospedale in coma e in pericolo di vita, che ha scioccato la Francia.

Darius

il ragazzo rom linciato e papa Francesco

Il giovane rom, accusato di furto, aggredito e abbandonato in coma in un caddy di supermercato lungo la Nazionale 1, alla periferia di Parigi. L’indignazione dei politici. Le denunce delle associazioni. Il disastro di una guerra tra poveri che travolge i più deboli nell’indifferenza (o nel disprezzo) generale e tuttora in pericolo di vita, adducendo la scusa di un piccolo furto (nella foto il campo dove viveva), con il Front National che, usando la scusa dell’esasperazione per l’insicurezza, ammicca ai linciatori, ricorda un caso argentino di non più di tre mesi fa che causò un’importante intervento di Jorge Bergoglio.David Moreira era un ragazzo di 18 anni di Rosario, senza precedenti. Lavorava dalla mattina alla sera in un cantiere come muratore ma fu linciato a morte lo scorso 25 marzo da decine di vicini che gli attribuivano uno scippo. Il suo povero corpo fu letteralmente disfatto dalla turba di assassini anonimi nascosti dietro un’anomia momentanea. Non era il primo caso di linciaggio nell’Argentina dove l’allarme sicurezza è il principale cavallo di battaglia delle destre. Prima di lui, solo nel 2014, sarebbero stati una ventina gli adolescenti massacrati, spesso solo perché portatori di faccia, poveri e dalla pelle scura. Le fonti riportano che tra tre e nove sarebbero morti per le ferite riportate. La politica e soprattutto i media, con quegli orribili canali all-news tutti incentrati sulla cronaca nera e che si spacciano per informazione, avevano subito preso una linea pienamente giustificazionista: la gente è stanca, il governo è inerte, la giusta rabbia… di una società che va verso il medioevo prossimo venturo.In Italia è di pochi giorni fa l’oscuro caso della morte di un cittadino rumeno presunto autore di un furto, poi derubricata come malore. Hanno fatto bene, erano già i commenti del ventre della società abituata da anni di balbettii o connivenze aperte della politica. Di fronte all’instaurarsi del linciaggio come possibilità concreta e semi-legittima nella repressione di una piccola criminalità sempre identificata con tratti razziali o classisti (il lumpen, il Rom, l’immigrato, il ragazzo con tratti somatici “scuri”), in Argentina è però intervenuto un fatto nuovo che parla alla Francia, all’Italia e all’Europa.Due fratelli esiliati e tuttora residenti in Svezia hanno scritto a Jorge Bergoglio. Questi ha replicato nel giro di poche ore citando Lope de Vega con parole inequivocabili: «Ho immaginato la scena e ho sentito quei calci nella mia anima. Non era un marziano, era un ragazzo. Un delinquente, ma un ragazzo del popolo. Ho ricordato Gesù: che avrebbe detto se fosse stato lì? Chi è senza peccato scagli il primo calcio? Mi doleva tutto, sentivo il dolore del corpo del ragazzo, sentivo il dolore del cuore di quelli che lo scalciavano […]».Bergoglio prende atto della colpevolezza di David, sbagliando. Ma quel salto logico è una scorciatoia che non indebolisce ma rafforza il messaggio e mette la presunzione di colpevolezza in prospettiva: era, innanzitutto, un ragazzo del popolo. In Argentina le parole di Francesco, quel «ho sentito quei calci nella mia anima», arrivano come un raggio di luce sul perverso dibattito sulla presunta legittimità dei linciaggi, lo sbaragliano e lo delegittimano completamente. Nessuno, neanche il più cinico dei politici può più cavalcare quell’onda di fronte al corpo del papa dolente. Potranno esserci altre violenze dei deboli sul più debole ma non già più approvazione e giustificazione. Soprattutto quella spersonalizzazione della sanzione, in quell’orribile linciaggio che disumanizza sia la vittima che i carnefici, torna biopolitico nell’identificarsi nel corpo del papa.Non sto evocando un papa taumaturgo per i mali della società. Sono cosciente che non bastano le parole di Bergoglio per curare i guasti di un modello economico ingiusto. Questo mette le classi medie contro quelle popolari per farne nella difesa di un sempre più traballante benessere la prima linea della trincea del sistema rispetto alle masse di esclusi additate ai primi come nemico. La cronaca nera è in questo la più conservatrice delle pagine dei giornali. È necessario evocare l’umanità (laica o credente, non vedo troppa differenza) come unica speranza di salvezza terrena: solo sentendo sul proprio corpo i calci che ha sentito Francesco su quello di David e le sprangate su quello di Darius saremo capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo (cit.). E che sia il Vangelo, o Che Guevara poco importa.

 




festa della circoncisione al campo rom

circoncisione

 

 

 

 

 
ricevo  da p. Agostino Rota Martir queste informazioni che volentieri pubblico:

 

circoncis

 

 

 

 

Ciao, ieri festa al campo per la circoncisione (fatta in ospedale) di tre bambini. Molto sentita e celebrata dai Rom: musica, balli, colori e mangiare per tutti e non sono mancati i fuochi d’artificio, brevi ma vivaci.

 

circoncisio

Abbiamo dipinto su un grande pannello la bandiera dei Rom, per chi non la conosce: i colori azzurro (cielo) e verde (la terra) e la ruota che ricorda il lungo cammino dei popoli Rom.
Ciao Ago 



p. Maggi commenta il vangelo della festa della Trinità

maggi

DIO HA MANDATO IL FIGLIO SUO PERCHE’ IL MONDO SIA SALVATO PER MEZZO DI LUI

commento al Vangelo della domenica della Trinità (15 giugno 1014) di p. Alberto Maggi:

Gv 3,16-18

In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».

Dio non è un giudice, ma è colui che comunica vita e offre all’umanità la pienezza di vita che si è manifestata e presentata nel figlio unico, Gesù. E’ il vangelo di Giovanni, capitolo 3, versetti 16-18, ma che avremo bisogno di integrare con il 19 e il 20, altrimenti il brano, così com’è amputato per la liturgia, non si capisce. “Dio infatti ha tanto amato il mondo”, quindi c’è questa manifestazione d’amore di Dio verso il mondo. Dio non è un Dio pessimista, un Dio nauseato dall’umanità, ma un Dio innamorato dell’umanità. Ed è talmente innamorato, ha talmente amato il mondo, “da dare il proprio figlio  unigenito perché chiunque crede in lui …”. Credere nel figlio unigenito significa credere nel modello di umanità. Qui Gesù viene presentato come il figlio unigenito. E’ figlio di Dio, in quanto Gesù manifesta Dio nella sua condizione umana, ma è figlio dell’Uomo in quanto rappresenta l’uomo nella condizione divina. Quindi in Gesù c’è il modello dell’umanità. Quanti hanno dato adesione a questo modello di umanità, e il modello di umanità, la crescita, la maturità piena dell’uomo, si ha in una capacità d’amore che non si lascia condizionare da nessuno. “Non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. La vita eterna per Gesù non è una promessa per il futuro, ma una possibilità nel presente. Chiunque vive mettendo nella sua vita un amore simile a quello che Dio ha per noi, cioè un amore totale, incondizionato e illimitato, ha già una vita di una qualità tale che si chiama eterna, non tanto per la durata, ma proprio per la qualità, che è indistruttibile: la morte non la potrà neanche scalfire. “Dio infatti non ha mandato il figlio”, e di nuovo insiste su questo “il figlio”, il figlio di Dio, il figlio dell’Uomo nella pienezza umana e che comporta la condizione divina, “nel mondo”, e qui non dice “per condannare”, il verbo è giudicare. Dio non è un giudice, ma colui che comunica vita. E il figlio lo stesso. Quindi non ha mandato il figlio per giudicare il mondo; questa era l’attesa dei farisei che attendevano un messia venuto a giudicare, a separare i buoni dai cattivi, i puri dagli impuri, ma non Dio, non Gesù. Quindi non ha mandato il figlio per giudicare, ma perché “il mondo sia salvato per mezzo di lui”. Gesù offre una alternativa di vita, offre un’alternativa di società. Quanti l’accolgono sono con lui nella pienezza della vita. “Chi crede in lui” – e credere significa dare adesione a questo modello d’uomo, un uomo capace di un amore illimitato e incondizionato – “non è giudicato”. Quindi non si va incontro a nessun giudizio. L’idea di un giudizio è estranea al vangelo di Giovanni. Chi crede non va incontro a nessun giudizio, ma è già nella pienezza della vita. Al contrario, chi non crede è già stato giudicato, “perché non ha creduto nel nome dell’unigenito”. E’ l’uomo che si giudica da solo, rifiutando questa pienezza di vita, questo amore. Il rifiuto della pienezza di vita, che è Gesù, comporta la pienezza della morte. Questo è il significato che vuol dare l’evangelista, questo giudizio che poi diventa una condanna. Quindi il messaggio di Dio è assolutamente positivo: chi lo accoglie è nella pienezza di vita, chi lo rifiuta non viene giudicato, ma da sé stesso si condanna. Ed ecco allora i versetti 19 e 20 che fanno comprendere meglio questo pensiero che altrimenti così è amputato. E l’evangelista scrive: “La luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce perché le loro opere erano malvage”. Ecco il giudizio. Quanti, pur vedendo brillare la luce del Signore se ne ritraggono, rimangono sotto l’ambito della morte. Quanti, invece, vengono attratti da questo cono di luce, entrano nella pienezza di vita. Infatti commenta l’evangelista, “Chiunque infatti fa il male odia la luce e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate”. Quindi non c’è nessun giudizio da parte di Dio, c’è una proposta positiva di vita. Chi lo accoglie è nella pienezza della vita; chi lo rifiuta perché questa pienezza di vita va contro i suoi interessi, va contro le sue aspirazioni, rimane nell’ambito della morte. Non per un giudizio di Dio, ma per un giudizio che l’uomo, per la sua scelta, si è dato da sé.

 




ancora sulle donne che amano preti

donna

LE CONSEGUENZE DELL’AMORE

PARLA UNA DELLE DONNE CHE HA SCRITTO AL PAPA
dal prezioso sito ‘finesettimana’ ricavo queste riflessioni come importante contributo alla riflessione sulle problematiche legate al celibato del clero in conseguenza anche della lettera di 26 donne che hanno scritto al papa perché in rapporto affettivo e di amore con altrettanti sacerdoti:

prete

 

 

 

 

 È successo ogni volta che il tema si è presentato alla ribalta dell’opinione pubblica che giornali e televisioni gli dessero grande rilevanza. Stavolta però, vuoi per il pontificato considerato di “rottura”, vuoi per un’opinione pubblica attenta ad ogni segnale di novità o di “svolta”, vuoi per un episcopato, quello italiano, in fase di transizione (e che quindi rende i media maggiormente “intraprendenti” su temi tradizionalmente considerati “scomodi”), anche nel nostro Paese la lettera di 26 donne che amano preti ha prodotto enorme clamore e dibattito.

Nel testo, rivelato da Vatican insider, ma pubblicato integralmente sulla homepage del nostro sito internet (www.adista.it), le firmatarie, che hanno voluto restare anonime (anche se nella raccomandata inviata in Vaticano hanno lasciato le loro generalità e recapiti telefonici), hanno detto a Francesco di essere «un piccolo campione» che parla a nome di tante che «vivono nel silenzio» e che chiede la revisione del celibato ecclesiastico.

«Vogliamo, con umiltà, porre ai tuoi piedi la nostra sofferenza affinché qualcosa possa cambiare non solo per noi, ma per il bene di tutta la Chiesa», scrivono. «Noi amiamo questi uomini, loro amano noi, e il più delle volte non si riesce pur con tutta la volontà possibile, a recidere un legame così solido e bello, che porta con sé purtroppo tutto il dolore del “non pienamente vissuto”. Una continua altalena di “tira e molla” che dilaniano l’anima».

«E allora ci chiediamo e ti chiediamo se è davvero giusto sacrificare l’Amore in virtù di un bene più alto e grande che è quello del servizio totale a Gesù e alla comunità, che a nostro avviso sarebbe svolto con maggiore slancio da un sacerdote che non ha dovuto rinunciare alla sua vocazione all’amore coniugale, unitamente a quella sacerdotale, e che sarebbe anche supportato dalla moglie e dai figli. Probabilmente gioverebbe all’intera comunità, si respirerebbe aria di famiglia, di libertà e accoglienza». Per discutere di tutto questo, chiedono un’udienza privata al papa: «Per portare davanti a te umilmente le nostre storie e le nostre esperienze, sperando di poter attivamente aiutare la Chiesa, che tanto amiamo, verso una possibile strada da intraprendere con prudenza e giudizio».

La lettera delle 26 non è la prima inviata ad un pontefice da donne che amano preti. Nel 2010 un’analoga iniziativa all’indirizzo di Benedetto XVI fu presa da un gruppo di donne che partecipano ad un blog all’interno del sito della rivista Il dialogo (di Monteforte Irpino) dedicato proprio al celibato ecclesiastico ed alle donne che hanno o hanno avuto relazioni con sacerdoti.

Sulle questioni sollevate dall’iniziativa delle 26 donne Adista ha interpellato sia una delle firmatarie, di cui tuteliamo la volontà di restare anonima, sia Stefania Salomone, che da anni si occupa di animare il blog sul sito del dialogo.org e che è stata tra le promotrici della missiva del 2010. (valerio gigante)

«Maturi i tempi per la svolta»

Intervista a una delle firmatarie

Nella vostra lettera chiedete al papa di riconsiderare il tema del celibato ecclesiastico, ma ancora di più, chiedete a lui un aiuto affinché il tema delle relazioni sentimentali che coinvolgono donne e preti esca dal clima di rimozione e clandestinità in cui oggi la Chiesa istituzionale lo relega. Cosa vi fa pensare che i tempi siano maturi per una svolta in questo senso?

I tempi per affrontare il tema del celibato obbligatorio sono maturi ormai da tempo. Ogni periodo storico ha delle sue peculiarità. Guardiamo al passato. Chi avrebbe pensato, anni addietro, di sollevare questo dibattito? Eppure anche anni fa i sacerdoti avevano storie con alcune donne. Nell’attuale contesto storico si è più propensi a chiedere il confronto sulle tematiche che si ritengono importanti. Culturalmente si è più preparati ad affrontare un tema spinoso come quello sollevato da noi donne. Se non si prova a cambiare, il cambiamento non arriverà mai. Dobbiamo essere pronti a far sentire la nostra voce. Crediamo che questo papa, presentatosi come il papa dell’ascolto e della misericordia, più dei suoi predecessori non possa fingere che questo problema non esista e che in cuor suo sappia che un sacerdote può essere tale anche se sposato.

Quanto è diffuso, per la percezione ed il confronto che avete tra di voi, il fenomeno di relazioni stabili tra preti e donne?

Dal confronto avuto in questi anni con numerose donne, il fenomeno è molto diffuso: da brevi relazioni passando a relazioni che durano anni, con immenso dolore per donne e sacerdoti (nella più facile delle ipotesi). Queste esperienze si sommano ad altre vissute più da vicino. Personalmente ho visto, nell’arco di appena quattro anni, un sacerdote che ha chiesto e ottenuto la dispensa (e che in passato mi risulta avesse anche sentito un’altra donna); il travaglio del sacerdote che è stato il mio compagno; il tormento di un altro sacerdote per la vicinanza di una donna e per il chiacchierare della gente.

È proprio vero che ci si rende conto di qualcosa solo quando la si vive sulla propria pelle: mi fidai di quel sacerdote perché, un po’ come tutti, ho ingenuamente pensato che lui non potesse avere un interesse particolare verso di me. Era un pensiero che non mi aveva mai sfiorato. Invece quando sperimenti l’amore per un prete capisci che niente è impossibile, che tutto può capitare a tutti; quindi che non si deve mai giudicare o pensare “nella mia vita questo non accadrà mai”. Entrare in contatto con donne che hanno avuto la mia stessa esperienza mi ha aperto un mondo: siamo tantissime donne e tantissimi sacerdoti. Il fenomeno è più esteso di quanto si pensi. Tutte le barriere crollano, e scopri l’unica realtà: quella umana. Fatta di limiti e fragilità. Quando un sacerdote ama realmente una donna (e non è sempre così scontato) i due vivono i segni di in amore concreto. Vivono la relazione. La bellezza della relazione. Fatta di affettività e sessualità.

Finora, a vostro giudizio, cos’è che ha realmente impedito alla Chiesa istituzionale di affrontare, addirittura di parlare di questo argomento?

A nostro giudizio vi sono diversi aspetti che non consentono alla Chiesa di affrontare l’argomento. Di base, la paura generalizzata di un vero cambiamento che presume un’inversione di rotta, un rimettere tutto in discussione. Insomma, cambiamenti vasti e conseguenze complesse. Forse la posizione più comoda per la Chiesa è lasciare tutto com’è. Mi chiedo se, a lungo termine, sarà un bene fingere che il celibato obbligatorio (istituito per tutelare i beni della Chiesa) sia una legge divina! La Chiesa DEVE affrontare queste tematiche, rimettendo i figli di Dio al centro dell’attenzione. Come si può accettare la sofferenza dei figli di Dio? Mi auguro che papa Francesco ci dia una risposta. Mi auguro che altre donne e sacerdoti facciano sentire con coraggio la loro voce e la loro sofferenza.

«Ancora molta la strada da fare»

Intervista a Stefania Salomone

La lettera delle 26 ha suscitato enorme clamore, in Italia ed all’estero. Come giudichi i contenuti della missiva, e come mai a tuo giudizio i temi sottoposti da questo gruppo di donne al papa hanno prodotto un’eco così vasta?

Non poteva che essere così. La stessa cosa è accaduta quattro anni fa, quando, assieme ad altre nove donne, ho scritto la prima lettera aperta delle “donne dei preti” italiane al papa. L’interesse della stampa, specie quella estera, fu talmente grande da costringermi a spegnere il telefono perché non riuscivo a dare seguito a tutte le richieste. È un tema che suscita enorme curiosità nell’opinione pubblica. Si sa che i preti hanno storie sentimentali e/o sessuali, ma ci si limita a ridacchiarne o magari le si liquida con frettolose valutazioni moralistiche.

Difficilmente ci si interroga sul perché ad esempio una donna possa innamorarsi ed incominciare una storia già in partenza complicatissima, come quella con un prete o religioso. Semplice masochismo? Forse. Ma andrei un minimo più a fondo, considerando innanzitutto la valenza che “il senso del sacro” ha ancora oggi nella nostra cultura, specie nell’immaginario femminile.

Personalmente, apprezzo le intenzioni e considero in genere positivo ogni tentativo che viene fatto per rendere note problematiche scomode, a qualsiasi livello. Ho apprezzato meno, invece, sia il tono che le scarse argomentazioni contenute nella missiva. Mi è parso più una sorta di piagnisteo che una reale rivendicazione di un diritto, quale a mio avviso una comunicazione di questo tipo avrebbe potuto e dovuto rappresentare. Parlare unicamente del dolore, dell’emotività, di quanto noi donne saremmo brave ad “accompagnare” il prete nel suo ministero, francamente mi sembra limitativo e controproducente. Non parliamo poi del concetto di “porre le sofferenze ai piedi del papa”, che proprio mi fa orrore.

Il lavoro che da sette anni svolgo con le donne che mi contattano sul blog mira proprio ad aiutarle a liberarsi dalla cappa della religiosità, incominciando ad immaginare un prete meno sacro ed intoccabile, nonché un ruolo femminile meno legato al ricordo della perpetua, o a colei che deve avere pazienza ed aspettare che lui si renda disponibile ad un fugace incontro.
Le firmatarie della lettera hanno voluto mantenere il più stretto anonimato. Per quale ragione c’è ancora tanto timore ad uscire allo scoperto?

Le ragioni dell’anonimato sono diverse. Prima di tutto solitamente il prete non gradisce che lei si esponga, anche senza rivelare dettagli della storia. Il timore è principalmente quello del prete, e la donna in genere lo asseconda. In secondo luogo queste storie nascono come storie clandestine e il senso di segretezza è insito nel loro dna. Nei casi in cui una relazione diviene pubblica, le donne vengono spesso stigmatizzate dai parrocchiani, dagli amici, dai familiari, che sono generalmente molto “progressisti” solo se si parla di situazioni che riguardano persone sconosciute.

Infine, esiste a mio avviso l’assioma donna-tentazione che la dottrina cattolica ha instillato nelle menti dei credenti e non, e che stenta ad abbandonarci. Mi è capitato spesso di parlare con donne che hanno relazioni con i preti e sentirle affermare “le sue sacre mani mi hanno toccato”, oppure di confrontarmi con qualcuno che non fosse coinvolto nella problematica e che mi dicesse: “Sì d’accordo, ma lui è un prete, perché andate a dargli fastidio?”. Quindi può capitare anche che una donna provi vergogna per la sua condizione. Magari la prova senza ammetterlo.
Ritieni che sotto questo pontificato possa essere maturo il tempo per una riconsiderazione del celibato ecclesiastico e, ancor di più, della questione (che pare riguardi circa un terzo del clero) delle relazioni amorose che coinvolgono i preti?

Stando alla mia esperienza, una percentuale molto alta del clero ha intrattenuto o intrattiene relazioni amorose/sessuali con uomini o donne. O, per lo meno, ha attraversato il momento della crisi, dell’innamoramento che ha magari gestito, soffocato o sublimato, come comunemente si usa dire. Comunque ben più di un terzo. In ogni caso ritengo che sia ben difficile che un pontefice qualsiasi, anche l’attuale, possa riconsiderare la disciplina del celibato ecclesiastico tout-court. Se particolarmente illuminato – ma personalmente credo che possa accadere unicamente per problemi legati allo scarso numero dei chierici attualmente in esercizio – questo papa potrebbe valutare la possibilità di ordinare uomini sposati.

E non sarebbe la stessa cosa. Si arriverebbe ad una situazione simile a quella degli ortodossi che possono sposarsi prima dell’ordinazione, ma non successivamente, e i membri della gerarchia vengono scelti tra i celibi. Quindi ci sarebbero preti di serie a e di serie b. E guarda caso fanalino di coda sarebbero proprio gli sposati che “hanno ceduto alla tentazione e piuttosto che ardere …”. (v. g.)




a proposito del centenario della grande guerra

 

 

primq guerra mondiale

per ricordare senza retorica  e mistificazioni

 

 

 

 

 

riporto qui sotto una bella riflessione di Sergio Tanzarella (docente di storia della chiesa alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale) che in occasione dei 100 anni della prima guerra mondiale ripensa a questa purificata da ogni memoria celebrativa, dalla solita retorica e mistificazione e menzogna che vogliono rivivere positivamente anche il negativo assoluto, assolutamente da condannare:

prima guerr mond

 

Ricordare e condannare

di Sergio Tanzarella

Sono trascorsi 100 anni dall’inizio della Prima Guerra Mondiale, tutti i protagonisti di allora – vittime e carnefici – sono morti, ma non è morta né la retorica, né la mistificazione, né la menzogna che pretende di ricordare e celebrare, oggi come ieri, la catastrofe di quegli anni.

L’attivismo celebrativo si era già messo all’opera nel 2012 con la mostra “Verso la grande guerra” al Vittoriano di Roma. Un mostra che aveva avuto come consulente storico Bruno Vespa, dando modo all’allora sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio e presidente del Comitato per la commemorazione Paolo Peluffo, cavaliere dell’ordine pontificio di San Gregorio Magno e molto altro, di affermare che «la grande guerra è stato un passaggio fondamentale nel processo di costruzione del nostro Paese perché è nell’affratellamento delle trincee il primo momento vero in cui si sono “fatti” gli italiani». Una tesi stantia che cerca, così, di riabilitare e giustificare quel massacro, collegandolo al completamento dell’unità nazionale.

E che la linea giustificazionista-governativa sia questa lo dimostra quanto ha scritto il 30 gennaio 2013 il Comitato per gli anniversari di interesse nazionale: «Se la Prima Guerra Mondiale è stata sicuramente un evento che si sarebbe dovuto evitare, perché connesso al dolore per il sacrificio di innumerevoli vite umane, tuttavia tale evento è stato pur sempre legato alla nascita di un sentimento di orgoglio nazionale, poiché ha portato a compimento il processo di unità nazionale». Linea ribadita anche dal Comitato per il centenario della Prima Guerra Mondiale: «Quello della grande guerra è un anniversario particolarmente importante per la costruzione della nostra identità europea».

pri guerr mond

Ecco dunque la mistificazione al lavoro: unità nazionale, identità europea, sacrificio di vite umane. Ancora dopo un secolo si impone la spiegazione di un disegno superiore e alto – Italia ed Europa – rispetto al quale la morte di 700mila italiani, 500mila mutilati e feriti gravi, 300mila prigionieri abbandonati dall’Italia perché considerati disertori e codardi, errori strategici pacchiani, un indebitamento che si è estinto solo nel 1980, una truffa colossale sulle spese di guerra con imputati generali, politici, industriali tutti rimasti impuniti, cioè una catastrofe nazionale totale viene compresa ed edulcorata con la patriottarda parola del «sacrificio», riproponendo la mistica di guerra della propaganda.

La stessa propaganda che oggi si ostina ad ignorare i risultati di centinaia di ricerche storiche, scientificamente ispirate, che restituiscono a quella guerra – attraverso uno studio scientifico delle fonti – l’orrore che essa è stata. In essa tutti i progressi tecnologici dell’epoca (gas, mitragliatori, aerei, artiglieria, lanciafiamme, proiettili dum-dum) furono messi a servizio di un’ideologia di morte su larghissima scala, in grado di produrre sui corpi e sulle menti devastazioni mai viste e permanenti. Non sapevano infatti descriverle né i medici nelle autopsie né gli psichiatri davanti a nevrosi e follie mai viste prima. A questo si aggiungevano il clima di terrore tra le truppe, costrette, in una guerra di cui nulla sapevano, ad assalti continui ed inutili ad inespugnabili trincee, le decimazioni di massa, i plotoni di esecuzione per le minime infrazioni, seguendo una linea di comando che partiva dall’autore di tutti gli ordini più efferati: il generale Cadorna.

A suo servizio presso lo Stato maggiore, vi era il capitano medico, frate francescano, Agostino Gemelli. Il suo impegno di psicologo militare fu tutto rivolto a creare le condizioni perché i soldati annullassero totalmente qualsiasi senso critico e si assoggettassero ad obbedire agli ordini, quali essi fossero, senza pensare. Per ottenere questo utilizzò senza problemi ogni risorsa e stratagemma, anche ricorrendo all’universo religioso che pose a servizio della causa della guerra sempre compresa come opera salvatrice divina. Il programma gemelliano – in linea con la teologia del suo tempo – era quello di riconoscere innanzitutto il valore provvidenziale ed espiatorio della guerra. Ma egli andò oltre fino a sostenerne il valore divino. In un articolo del 1915, “La filosofia del cannone”, egli scriveva «Ho detto che la guerra è divina. Con ciò non intendo enunciare un paradosso. Io intendo dire soltanto che l’effusione del sangue umano, per opera della guerra, nelle terribili lotte dei popoli, ha un valore speciale, per il quale esso coopera al governo divino del mondo. Lo spargimento di tanto sangue innocente è una forma di espiazione della colpa del genere umano, espiazione che ha valore di rigenerare non solo individui, ma anche le nazioni». E appena due anni dopo, nel libro di psicologia militare Il nostro soldato, Gemelli teorizzerà il cannone come efficace strumento di catechesi: «Se vi ha dunque rinascita religiosa al fronte, questa si ha esclusivamente nell’ospedale. Ma la professione di fede cristiana non si realizza d’un tratto. L’educazione religiosa è stata compiuta dalla voce del cannone durante i mesi di trincea, e il soldato ha appreso questa lezione quasi senza avvedersene».

Leggere i tantissimi scritti di Gemelli di quegli anni, le sentenze dei plotoni di esecuzione, le lettere dei soldati scampate alla censura e le lettere anonime indirizzate al re “soldato” Vittorio Emanuele potrebbero servire a rendere questo anniversario occasione di costruzione di una memoria nazionale fondata non sull’ipocrisia, la mistificazione, la baggianata del tricolore elemento di coesione nazionale, ma sul riconoscimento che 5 milioni di italiani furono sottoposti ad una prova inutile, onerosissima e per molti di loro mortale. Altro quindi da quanto il Ministero dell’Istruzione prepara per i nostri studenti in quelle che definisce le «celebrazioni relative alla Prima Guerra Mondiale» grazie ad un storia da trattare – secondo le parole della sua direttrice generale Palumbo – in modo «nuovo e fresco». L’orrore non andrebbe mai celebrato, ma riconosciuto, ricordato e condannato.




dal Roma pride di quest’anno a Roma: “ci ved … iamo fuori”

nuova proposta1

 

IL DISCORSO DI NUOVA PROPOSTA LETTO DA CATERINA DAL PALCO DEL ROMA PRIDE 2014

“Lo slogan della campagna di comunicazione del Roma Pride di quest’anno e’ “ci vediamo fuori!”.
Fuori, alla luce del sole, senza nascondersi più, perché le nostre esistenze sono belle, degne e piene come quelle di ogni altra persona, e allo stesso modo dovrebbero essere protette e incoraggiate da uguali diritti e responsabilizzate da uguali doveri.
Noi di Nuova proposta, donne e uomini omosessuali cristiani, da tempo abbiamo fatto nostra questo stile di vita e di pensiero.
Ci sentiamo parte del popolo di Dio che cammina e vogliamo favorire il cambiamento tra le comunità cristiane che sono ancora troppo disinformate e spesso incapaci di accogliere e sentire veramente come “fratello o sorella” una persona omosessuale o transessuale. Noi, questo cambiamento, cerchiamo di promuoverlo dall’interno delle comunità stesse.
Negli ultimi anni ci stiamo impegnando per “portare fuori” le nostre storie di vita e proporre percorsi nuovi di accoglienza dentro le parrocchie, dentro i gruppi e le associazioni cristiane, proponendoci come interlocutori di un dialogo che sappiamo può essere anche duro e doloroso, ma che riteniamo indispensabile.
Accogliere significa entrare in relazione profonda con una persona, senza giudicare, senza porre condizioni, significa rispettare l’altra persona, i suoi desideri, la sua affettività e contribuire con ogni mezzo al dispiegarsi delle sua energie vitali, dei suo sogni,che sono qualcosa di sano e prezioso e possono essere importanti e utili per tutti, per il bene della società.
E’ finito il tempo di aspettare passivamente cambiamenti nel mondo cristiano o legittimazioni dall’alto.
Abbiamo capito che il cambiamento si realizza solo mettendosi in gioco, proponendo, mettendo in circolo le proprie esperienze, le proprie esistenze, trasformandole in occasione di crescita per la comunità intera.

nuova proposta3

Oggi più che mai,siamo di fronte a un’opportunità di cambiamento e crescita.
La domanda che si e’ rivolto spontaneamente il vescovo Francesco “chi sono io per giudicare un gay?” – comunque la si pensi – è stato un balsamo per molte persone, ma deve ora diventare un cambiamento concreto.
Quella sospensione di giudizio non basta!
Deve evolvere in crescita delle comunità cristiane nella loro capacità concreta di accogliere, incoraggiare, rispettare le persone omosessuali e transessuali nel loro desiderio di una vita piena, come tutte le persone che ancora oggi si trovano emarginate ed escluse a causa dei sistemi di potere.

nuova proposta

La nostra speranza, per cui continuiamo a lottare, è quella che di realizzare il progetto di libertà e di umanità proposto da Gesù 2000 anni fa: guardare ogni persona con gli occhi del cuore e non con quelli della legge, lottare perché chi viene lasciato indietro dalla società dei potenti, possa camminare a testa alta con la propria dignità di essere umano.
Gesù camminava e predicava “fuori”, per le strade, non nel tempio.
Dobbiamo continuare,tutti insieme, lesbiche , gay, etero, transessuali, credenti e non credenti a stare “fuori”, a produrre bellezza e speranza, a dialogare con tutti, a proporre valori nuovi e a lottare per diritti e doveri uguali per tutti!”!




le beatitudini secondo papa Francesco

   

Le beatitudini sono il programma di vita che ci propone Gesù!

 

Le beatitudini sono il programma di vita che ci propone Gesù!

Come si fa per diventare un buon cristiano?

Questa è la domanda che Papa Francesco si è posto ed ha rivolto ai partecipanti della Santa Messa in Casa Santa Marta oggi, lunedì 9 giugno 2014, spiegando poi, nel corso della riflessione, che la risposta a tale questione è semplice e la possiamo trovare nelle beatitudini, le quali sono “il programma di vita che ci propone Gesù; tanto semplice, ma tanto difficile“.

Il cammino delle beatitudini, ha spiegato il Pontefice, è complesso perché è un cammino contro corrente: “il mondo ci dice: la gioia, la felicità, il divertimento, quello è il bello della vita” ha detto “E ignora, guarda da un’altra parte, quando ci sono problemi di malattia, problemi di dolore nella famiglia“.

Perché questo? Perché sostanzialmente “il mondo non vuole piangere” quindi alla fin fine “preferisce ignorare le situazioni dolorose, coprirle. Soltanto la persona che vede le cose come sono, e piange nel suo cuore – ha quindi spiegato Bergoglio – è felice e sarà consolata” ma non nel modo terreno, perché “la consolazione di Gesù, non quella del mondo“.

Così Gesù, in “un mondo di guerre, un mondo dove dappertutto si litiga, dove dappertutto c’è l’odio” propone “niente guerre, niente odio, pace, mitezza” proclamando beati i miti; in un mondo dove “tutti siamo stati perdonati” dove tutti apparteniamo a un grande “esercito di perdonati“ Gesù dice beati coloro che perdonano, che vanno “per questa strada del perdono“; ancora in un mondo dove “è tanto comune da noi essere operatori di guerre o almeno operatori di malintesi” Gesù dichiara beati gli operatori di pace e coloro che “hanno un cuore semplice, puro, senza sporcizie, un cuore che sa amare con quella purità tanto bella“.

Quelle di Gesù sono “poche parole, semplici parole, ma pratiche a tutti, perché il cristianesimo è una religione pratica: non è per pensarla, è per praticarla, per viverla




la singolare ‘gentilezza’ dei cattolici

i cattolici sono gentili, molto gentili, troppo gentili

sono contento di avere ritrovato, dimenticato in un cassetto e disperando ormai di ritrovarlo, questo piccolo ma intelligente articolo di un giornalista di Témoignage chrétien, Philippe Clanché ( l’intervento è apparso sul blog dell’autore: http://cathoreve.overblog.com/) sull’atteggiamento acritico, scarsamente professionale e con tratti da culto della professionalità nel trattare argomenti religiosi e in particolare concernenti la figura del papa

l’articolo è chiaramente datato, riferendosi ai primi momenti dell’elezione di papa Francesco, ma conserva indubbio valore paradigmatico di tanta scarsezza di professionalità:

il papa

 

 

Dal 1978, i cattolici hanno visto apparire al balcone di San Pietro in Roma un papa giovane e sportivo, poi due settuagenari, uno cerebrale e l’altro vicino al popolo. Ogni volta hanno acclamato il pontefice con la medesima forza e hanno esultato per l’azione dei cardinali e dello Spirito Santo. Si sono estasiati davanti a un pontefice che mette in scena la sua agonia in di-retta, poi davanti ad un altro che ha spiegato che, mancandogli le forze per reggere il pesante timone della Chiesa cattolica, preferiva ritirarsi. Alcuni giorni dopo, gli stessi si sono entusiasmati all’arrivo di un uomo di 76 anni, certo in forma, anche se privo di un polmone. Erano pronti ad acclamare un favorito di cui conoscevano il curriculum Vitae e hanno gridato di gioia per uno sconosciuto. Adorano le missioni papali ovunque nel mondo e approvano plebiscitariamente i settuagenari. Esagerando un po’, si potrebbe dire che qualunque persona vestita di bianco fosse apparsa al balcone di San Pietro avrebbe immediatamente ottenuto l’assenso generale dei fedeli. A Parigi, un centro giovanile tenuto da religiosi ha invitato a seguire su uno schermo gigante la messa d’intronizzazione del “Papa buono Francesco”. Il termine, che io sappia, è stato usato recentemente solo per Giovanni 23°, dopo che ha convocato un concilio, parlato agli ‘uomini di buona volontà’, contribuito ad evitare una guerra (la crisi di Cuba) e scritto testi storici sulla pace e la giustizia. Come è possibile, nel giro di due o tre giorni, dire che papa Francesco è, o sarà, “buono”? Bisogna ammettere che i nostri cattolici francesi, banderuole compiacenti, in questo loro atteggiamento sono sostenuti dalla stampa, altrettanto estasiata. I media profani vanno matti per i riti e lo scenario di questa monarchia fuori tempo, Il fumo bianco, il segreto, le guardie svizzere, è tutto talmente desueto e simpatico! Soprattutto poi se l’eletto viene da un Paese esotico! Le nostre televisioni sogna-no l’avvento dei nuovi papi come si dilettano dei matrimoni dei principi. (…) State tranquilli, questi stessi media non tarderanno a trattare il fenomeno cattolico con sarcasmo e incompetenza, appena gli esperti saranno tornati a casa. E appena il papa dovrà pronunciarsi su argomenti che incontreranno un consenso meno unanime del suo amore per i poveri. Quanto alla stampa cattolica, è di una deferenza che meriterebbe a volte che si ritirasse la tessera di giornalista professionista ad alcuni. Le immagini proposte dell’incontro con la stampa” del nuovo papa sabato 16 marzo sfioravano la caricatura. Ahimè, questa è la normale copertura mediatica in Vaticano. Conoscete molti luoghi in cui dei giornalisti professionisti applaudono al suo arrivo la persona che li ha convocati, alzano per bene i loro iphone per scattare delle foto (come ragazzini ad un concerto) e tornano a battere le mani all’uscita della star? II tutto senza avere il diritto di porre alcuna domanda. Benvenuti nel mondo magico della stampa cattolica accreditata presso la Santa Sede. Invitato ad una radio a commentare in diretta l’arrivo del nuovo pontefice, mi sono sentito a disagio davanti allo stupore permanente dei miei confratelli. Domani, fratelli e sorelle, sarà bello, perché abbiamo un papa or-nato di tutte le virtù! Uno sguardo più distaccato, più critico, in breve un po’ più professionale, sarebbe il benvenuto. E un atteggiamento così sarebbe anche un utile servizio alla Chiesa cattolica, che è pur-troppo priva di specchio, eccetto quello della regina di Biancaneve.




il vangelo di Pentecoste commentato da p. Maggi e p. Pagola

 spirito santo

Gv 20,19-23

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si

trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a

voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.

Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi».

Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i

peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

COME IL PADRE HA MANDATO ME ANCH’IO MANDO VOI

Commento al Vangelo di p. Maggi:

maggi

Il mandato di cattura era stato non solo per Gesù, ma emesso per tutto il gruppo. Fu Gesù, che in una posizione di forza disse alle guardie: “Se cercate me lasciate che questi se ne vadano”. Gesù è stato il pastore che ha dato la vita per le sue pecore. Ma ora il pastore va in cerca delle sue pecore, quelle che si sono smarrite a causa del suo arresto e soprattutto della sua morte infamante. E Gesù ne va in cerca, per recuperarle. Nonostante sia già stato dato l’annunzio della risurrezione di Gesù, i discepoli stanno nascosti per paura delle autorità. Non basta sapere che Gesù è risuscitato, bisogna farne esperienza. E’ quello che ci dice l’evangelista Giovanni. Quindi, “la sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei …”. I Giudei non sono il popolo, ma in questo vangelo rappresentano i capi, le autorità religiose. “Venne Gesù, stette in mezzo”, ecco il posto di Gesù nella comunità è al centro. Lui è il punto di riferimento. E’ lui il fattore di unità di tutto il gruppo. Quelle che seguono sono le prime parole che Gesù pronunzia, una volta risuscitato, nella pienezza della condizione divina, ed è un augurio di piena felicità. Il termine “pace”, dall’ebraico Shalom, indica molto più della nostra pace, ma indica tutto quello che concorre alla piena felicità degli uomini. Ma Gesù non si limita ad un annuncio verbale, a un semplice augurio, dimostra perché devono essere pienamente felici. “Detto questo, infatti, mostrò loro le mani e il fianco”. Sono i segni indelebili del suo amore. L’amore che lo ha spinto a dare la vita per i suoi non è stato la risposta in un’occasione drammatica, ma il normale atteggiamento di Gesù all’interno della comunità. Gesù non interviene nei momenti di emergenza e risponde col suo amore ai bisogni della comunità. Ma Gesù in mezzo alla comunità protegge, difende, aiuta e aumenta la capacità d’amore dei suoi discepoli che accolgono il suo amore. E infatti i discepoli gioirono. Se infatti prima erano nel timore, adesso sono nella gioia “nel vedere il Signore. E Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi». Mentre la prima pace era stata motivata dal fatto che l’amore, dice Gesù, che mi ha spinto a dare la vita per voi continua, la seconda pace è motivata dal fatto di essere chiamati a prolungare la stessa azione di Gesù. La pace e la felicità dell’uomo vengono da quest’amore ricevuto da Dio, e Gesù ha mostrato le mani e il fianco, ma viene anche dall’amore che va comunicato, e per questo Gesù, alla seconda pace, al secondo invito alla felicità, dice: «Come il Padre ha mandato me»”, e il Padre ha mandato Gesù ad essere manifestazione visibile del suo amore, un amore incondizionato dal quale nessuna persona, qualunque sia il suo comportamento, la sua condotta, si possa sentire esclusa. Ebbene, «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi»”, ecco la sorgente della felicità. I discepoli, ogni credente, è chiamato a prolungare la missione di Gesù a manifestare visibilmente l’amore del Padre. Questa è la fonte della gioia, della felicità piena. Quindi c’è un amore che viene comunicato, un amore che viene ricevuto da Dio, un amore che va comunicato agli altri. “Detto questo, soffiò”. L’evangelista ripete le stesse azioni di Dio sul primo uomo, quando si legge nel Libro del Genesi, capitolo 2, versetto 7, “Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere dal suolo, soffiò nelle sue narici, un alito di vita, e l’uomo divenne un essere vivente”. Ugualmente Gesù. Gesù completa la creazione, comunica all’uomo lo Spirito, cioè la stessa capacità d’amore che il Padre ha comunicato a Gesù e che ora Gesù comunica, ma non a tutti, a quanti accolgono il suo invito a prolungare con il loro amore l’amore che hanno ricevuto, quelli che vanno come il Padre ha mandato Gesù. «A coloro ai quali …»”, e qui non usa il verbo “perdonare”, ma “liberare dai peccati”. Per “peccato” l’evangelista non adopera quello che significa “colpa, sbaglio, mancanza”, ma una direzione sbagliata di vita. Cosa vuol dire l’evangelista? Qui Gesù non sta dando un potere ad alcuni, ma una responsabilità a tutta la comunità. La comunità deve essere questa luce dalla quale si effonde l’amore di Dio. Quanti, vivendo nell’ingiustizia, si sentono attratti da questa luce e vi entrano a far parte, hanno il passato (quello ingiusto) completamente cancellato. Invece coloro ai quali … e anche qui non c’è il verbo perdonare, ma “mantenere, trattenere, imputare”, «Resteranno imputati»”. Cosa vuol dire l’evangelista? Quanti fanno il male non amano la luce, ma vedendo brillare la luce, si ritraggono ancora di più nel cono d’ombra delle tenebre. Quindi non è un potere della comunità, ma una responsabilità: far brillare l’amore di Dio. Quanti se ne sentono attratti, hanno il passato completamente perdonato, quanti invece vedono in questo amore una minaccia ai loro interessi, alle loro convenienze, se ne ritraggono e sotto la cappa delle tenebre, sotto la cappa della morte.

 

VIVERE DIO DAL DIDENTRO

il commento di p. Pagola:

 

Alcuni anni fa, il gran teologo tedesco, Karl Rahner, osava affermare che il principale e più urgente problema della Chiesa del nostro tempo è la sua “mediocrità spirituale”. Queste erano le sue parole: il vero problema della Chiesa è “continuare a camminare con rassegnazione e noia ogni volta sempre su più strade comuni di una mediocrità spirituale.”
Il problema non ha fatto più che aggravarsi in queste ultime decadi. Di poco sono serviti i tentativi di rafforzare le istituzioni, salvaguardare la liturgia o vigilare l’ortodossia. Nel cuore di molti cristiani si sta spegnendo l’esperienza interiore di Dio.
La società moderna ha scommesso sull'”esteriore”. Tutto ci invita a vivere dal di fuori. Tutto ci pressa per
muoverci con fretta, quasi senza trattenersi in niente né in nessuno.
La pace non trova fenditure per penetrare fino al nostro cuore. Viviamo quasi sempre nella corteccia della vita. Ci stiamo dimenticando quello che è assaggiare la vita dal didentro. Per essere umana, alla nostra vita le manca una dimensione essenziale: l’interiorità.

È triste osservare che neanche nelle comunità cristiane sappiamo curare e promuovere la vita interiore. Molti non
sanno quello che è il silenzio del cuore, non ci si abitua a vivere la fede dal didentro. Privati dell’esperienza interiore,
sopravviviamo dimenticando la nostra anima: ascoltando parole con l’udito e pronunciando discorsi con le labbra, mentre il nostro cuore è assente.
Nella Chiesa si parla molto di Dio, ma, dove e quando noi credenti ascoltiamo la presenza silenziosa di Dio nel più profondo del nostro cuore? Dove e quando noi credenti accogliamo lo Spirito del Risuscitato nel nostro interiore? Quando viviamo in comunione col Mistero di Dio dal didentro?
Accogliere lo Spirito di Dio vuol dire smettere di parlare solo con un Dio il quale lo collochiamo quasi sempre lontano e al di fuori di noi, vuol dire anche imparare ad ascoltarlo nel silenzio del cuore. Smettere di pensare a Dio con la testa, ed imparare a percepirlo nella cosa più intima del nostro essere.
Questa esperienza interiore di Dio, reale e concreta, trasforma la nostra fede. Uno si sorprende di come è riuscito a vivere senza scoprirlo prima. Ora si sa perché è possibile credere perfino in una cultura confiscata. Ora si conosce una gioia interiore.Mi sembra molto difficile da mantenere per molto tempo la fede in Dio in mezzo all’agitazione e alle frivolezze della vita moderna, senza conoscere, benché sia in maniera umile e semplice, alcuna esperienza interiore di quel Mistero di Dio.Che l’agitazione non spenga la voce di Dio nel nostro interiore. .José Antonio Pagola