intervista a papa Francesco a ‘il Messaggero’

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

«Nella chiesa non decido da solo»

intervista a papa Francesco a cura di Franca Gansoldati in “Il Messaggero” del 29 giugno 2014

L’appuntamento è a Santa Marta, di pomeriggio. Una veloce verifica e uno svizzero mi fa ccomodare in un piccolo salottino. Sei poltroncine verdi di velluto un po’ liso, un tavolino di legno, un televisore di quelli antichi, col pancione. Tutto in ordine perfetto, il marmo tirato a lucido, qualche quadro. Potrebbe essere una sala d’aspetto parrocchiale, una di quelle dove si va per chiedere un consiglio, o per fare i documenti matrimoniali. Francesco entra sorridendo: «Finalmente! Io la leggo e ora la conosco». Arrossisco. «Io invece la conosco e ora la ascolto». Ride. Ride di gusto, il Papa, come farà altre volte nel corso di un’ora e passa di conversazione a ruota libera. Roma con i suoi mali di megalopoli, l’epoca di cambiamenti che indeboliscono la politica; la fatica nel difendere il bene comune; la riappropriazione da parte della Chiesa dei temi della povertà e della condivisione («Marx non ha inventato nulla»), lo sgomento di fronte al degrado delle periferie dell’anima, scivoloso abisso morale in cui si abusa dell’infanzia, si tollera l’accattonaggio, il lavoro minorile e, non ultimo, lo sfruttamento di baby prostitute nemmeno quindicenni. E i clienti che potrebbero essere i loro nonni; «pedofili»: il Papa li definisce proprio così. Francesco parla, spiega, si interrompe, ritorna. Passione, dolcezza, ironia. Un filo di voce, sembra cullare le parole. Le mani accompagnano il ragionamento, le intreccia, le scioglie,  sembrano disegnare geometrie invisibili nell’aria. E’ in ottima forma a dispetto delle voci sulla sua salute. E’ l’ora della partita Italia-Uruguay. Santo Padre, lei per chi tifa? «Ah io per nessuno, davvero. Ho promesso al presidente del Brasile (Dilma Roussef ndr) di restare neutrale».

Cominciamo da Roma?

«Ma lo sa che io Roma non la conosco? Pensi che la Cappella Sistina l’ho vista per la prima volta quando ho preso parte al conclave che elesse Benedetto XVI (2005 ndr). Non sono nemmeno mai stato ai musei. Il fatto è che da cardinale non venivo spesso. Conosco Santa Maria Maggiore perché ci andavo sempre. E poi San Lorenzo fuori le mura dove sono andato per delle cresime quando c’era don Giacomo Tantardini. Ovviamente conosco Piazza Navona perché ho sempre alloggiato a via della Scrofa, là dietro».

C’è qualcosa di romano  nell’argentino Bergoglio?

«Poco e niente. Io sono più piemontese, sono quelle le radici della mia famiglia di origine. Tuttavia sto cominciando a sentirmi romano. Intendo andare a visitare il territorio, le parrocchie. Sto scoprendo poco a poco questa città. E’ una metropoli bellissima, unica, con i problemi delle grandi metropoli. Una piccola città possiede una struttura quasi univoca, una metropoli, invece, comprende sette o otto città immaginarie, sovrapposte, su vari livelli. Anche livelli culturali. Penso, per esempio, alle tribù urbane dei giovani. E’ così in tutte le metropoli. A novembre faremo a Barcellona un convegno dedicato proprio alla pastorale delle metropoli. In Argentina sono stati promossi degli scambi con il Messico. Si scoprono tante culture incrociate, ma non tanto per via delle migrazioni, ma perché si tratta di territori culturali trasversali, fatti di appartenenze proprie. Città nelle città. La Chiesa deve saper rispondere anche a questo fenomeno».

Perché lei, sin dall’inizio, ha voluto sottolineare tanto la funzione di Vescovo di Roma?

«Il primo servizio di Francesco è questo: fare il Vescovo di Roma. Tutti i titoli del Papa, Pastore universale, Vicario di Cristo eccetera, li ha proprio perché è Vescovo di Roma. E’ la scelta primaria. La conseguenza del primato di Pietro. Se domani il Papa volesse fare il vescovo di Tivoli è chiaro che mi cacceranno via».

Quarant’anni fa, sotto Paolo VI, il Vicariato promosse il convegno sui mali di Roma. Emerse il quadro di una città in cui chi aveva tanto aveva il meglio, e chi aveva poco il peggio. Oggi, a suo parere, quali sono i mali di questa città?

«Sono quelli delle metropoli, come Buenos Aires. Chi aumenta i benefici, e chi è sempre più povero. Non ero a conoscenza del convegno sui mali di Roma. Sono questioni molto romane, e io all’epoca avevo 38 anni. Sono il primo Papa che non ha preso parte al Concilio e il primo che ha studiato la teologia nel dopo Concilio e, in quel tempo, per noi la grande luce era Paolo VI. Per me la Evangelii Nuntiandi resta un documento pastorale mai superato».

Esiste una gerarchia di valori da rispettare nella gestione della cosa pubblica?

«Certo. Tutelare sempre il bene comune. La vocazione per qualsiasi politico è questa. Un concetto ampio che include, per esempio, la custodia della vita umana, la sua dignità. Paolo VI usava dire che la missione della politica resta una delle forme più alte di carità. Oggi il problema della politica – non parlo solo dell’Italia ma di tutti i Paesi, il problema è mondiale – è che si è svalutata, rovinata dalla corruzione, dal fenomeno delle tangenti. Mi viene in mente un documento che hanno pubblicato i vescovi francesi 15 anni fa. Era una lettera pastorale che si intitolava: Riabilitare la politica e affrontava proprio questo argomento. Se non c’è servizio alla base, non si può nemmeno capire l’identità della politica».

Lei ha detto che la corruzione odora di putrefazione. Ha detto anche che la corruzione sociale è il frutto del cuore malato e non solo di condizioni esterne. Non ci sarebbe corruzione senza cuori corrotti. Il corrotto non ha amici ma utili idioti. Ce lo spiega meglio?

«Ho parlato due giorni di seguito di questo argomento perché commentavo la lettura della Vigna di Nabot. A me piace parlare sulle letture del giorno. Il primo giorno ho affrontato la fenomenologia della corruzione, il secondo giorno di come finiscono i corrotti. Il corrotto, comunque, non ha amici, ma ha solo complici».

Secondo lei si parla così tanto della corruzione perché i mass media insistono troppo sull’argomento, o perché effettivamente si tratta di un male endemico e grave?

«No, purtroppo è un fenomeno mondiale. Ci sono capi di Stato in carcere proprio per questo. Mi sono interrogato molto, e sono arrivato alla conclusione che tanti mali crescono soprattutto durante i cambi epocali. Stiamo vivendo non tanto un’epoca di cambiamenti, ma un cambio di epoca. E quindi si tratta di un cambio di cultura; proprio in questa fase emergono cose del genere. Il cambiamento d’epoca alimenta la decadenza morale, non solo in politica, ma nella vita finanziaria o sociale».

Anche i cristiani sembrano non brillare per testimonianza…

«È l’ambiente che facilita la corruzione. Non dico che tutti siano corrotti, ma penso sia difficile rimanere onesti in politica. Parlo dappertutto, non dell’Italia. Penso anche ad altri casi. A volte vi sono persone che vorrebbero fare le cose chiare, ma poi si trovano in difficoltà ed è come se venissero fagocitate da un fenomeno endemico, a più livelli, trasversale. Non perché sia la natura della politica, ma perché in un cambio d’epoca le spinte verso una certa deriva morale si fanno più forti».

A lei spaventa più la povertà morale o materiale di una città?

«Mi spaventano entrambe. Un affamato, per esempio, posso aiutarlo affinché non abbia più fame, ma se ha perso il lavoro e non trova più occupazione, ha a che fare con un’altra povertà. Non ha più dignità. Magari può andare alla Caritas e portarsi a casa un pacco viveri, ma sperimenta una povertà gravissima che rovina il cuore. Un vescovo ausiliare di Roma mi ha raccontato che tante persone vanno alla mensa e di nascosto, piene di vergogna, portano a casa del cibo. La loro dignità è progressivamente depauperata, vivono in uno stato di prostrazione».

Per le strade consolari di Roma si vedono ragazzine di appena 14 anni spesso costrette a prostituirsi nella noncuranza generale, mentre nella metro si assiste all’accattonaggio dei bambini. La Chiesa è ancora lievito? Si sente impotente come vescovo davanti a questo degrado morale?

«Provo dolore. Provo enorme dolore. Lo sfruttamento dei bambini mi fa soffrire. Anche in Argentina è la stessa cosa. Per alcuni lavori manuali vengono usati i bambini perché hanno le mani più piccole. Ma i bambini vengono anche sfruttati sessualmente, in alberghi. Una volta mi avvertirono che su una strada di Buenos Aires c’erano ragazzine prostitute di 12 anni. Mi sono informato ed effettivamente era così. Mi ha fatto male. Ma ancora di più vedere che si fermavano auto di grossa cilindrata guidate da anziani. Potevano essere i loro nonni. Facevano salire la bambina e la pagavano 15 pesos che poi servivano comprare gli scarti della droga, il “pacco”. Per me sono pedofili queste persone che fanno questo alle bambine. Succede anche a Roma. La Città eterna che dovrebbe essere un faro nel mondo è specchio del degrado morale della società. Penso siano problemi che si risolvono con una buona politica sociale».

Che cosa può fare la politica?

«Rispondere in modo netto. Per esempio con servizi sociali che seguono le famiglie a capire, accompagnandole ad uscire da situazioni pesanti. Il fenomeno indica una deficienza di servizio sociale nella società».

La Chiesa però sta lavorando tantissimo…

«E deve continuare a farlo. Bisogna aiutare le famiglie in difficoltà, un lavoro in salita che impone lo sforzo comune».

A Roma sempre più giovani non vanno in chiesa, non battezzano i figli, non sanno nemmeno farsi il segno della Croce. Che strategia serve per invertire questo trend?

«La Chiesa deve uscire nelle strade, cercare la gente, andare nelle case, visitare le famiglie, andare nelle periferie. Non essere una chiesa che riceve soltanto, ma che offre».

E i parroci non devono mettere i bigodini alle pecore…

(Ride)«Ovviamente. Siamo in un momento di missione da una decina d’anni. Dobbiamo insistere».

La preoccupa la cultura della denatalità in Italia?

«Penso si debba lavorare di più per il bene comune dell’infanzia. Mettere su famiglia è un impegno, a volte non basta lo stipendio, non si arriva alla fine del mese. Si ha paura di perdere il lavoro o di non potere più pagare l’affitto. La politica sociale non aiuta. L’Italia ha un tasso bassissimo di natalità, la Spagna lo stesso. La Francia va un po’ meglio ma è bassa anche lei. E’ come se l’Europa si fosse stancata di fare la mamma, preferendo fare la nonna. Molto dipende dalla crisi economica e non solo da una deriva culturale improntata all’egoismo e all’edonismo. L’altro giorno leggevo una statistica sui criteri di spesa della popolazione a livello mondiale. Dopo alimentazione, vestiti e medicine, tre voci necessarie, seguono la cosmetica e le spese per animali domestici».

Contano più gli animali che i bambini?

«Si tratta di un altro fenomeno di degrado culturale. Questo perché il rapporto affettivo con gli animali è più facile, maggiormente programmabile. Un animale non è libero, mentre avere un figlio è una cosa complessa».

Il Vangelo parla di più ai poveri o ai ricchi per convertirli?

«La povertà è al centro del Vangelo. Non si può capire il Vangelo senza capire la povertà reale, tenendo conto che esiste anche una povertà bellissima dello spirito: essere povero davanti a Dio perché Dio ti riempie. Il Vangelo si rivolge indistintamente ai poveri e ai ricchi. E parla sia di povertà che di ricchezza. Non condanna affatto i ricchi, semmai le ricchezze quando diventano oggetti idolatrati. Il dio denaro, il vitello d’oro».

Lei passa per essere un Papa comunista, pauperista, populista. L’Economist che le ha dedicato una copertina afferma che parla come Lenin. Si ritrova in questi panni?

«Io dico solo che i comunisti ci hanno derubato la bandiera. La bandiera dei poveri è cristiana. La povertà è al centro del Vangelo. I poveri sono al centro del Vangelo. Prendiamo Matteo 25, il protocollo sul quale noi saremo giudicati: ho avuto fame, ho avuto sete, sono stato in carcere, ero malato, ignudo. Oppure guardiamo le Beatitudini, altra bandiera. I comunisti dicono che tutto questo è comunista. Sì, come no, venti secoli dopo. Allora quando parlano si potrebbe dire loro: ma voi siete cristiani» (ride).

Se mi permette una critica…

«Certo…»

Lei forse parla poco delle donne, e quando ne parla affronta l’argomento solo dal punto di vista del maternage, la donna sposa, la donna madre, eccetera. Eppure le donne ormai guidano Stati, multinazionali, eserciti. Nella Chiesa, secondo lei, le donne che posto occupano?

«Le donne sono la cosa più bella che Dio ha fatto. La Chiesa è donna. Chiesa è una parola femminile. Non si può fare teologia senza questa femminilità. Di questo, lei ha ragione, non si parla abbastanza. Sono d’accordo che si debba lavorare di più sulla teologia della donna. L’ho detto e si sta lavorando in questo senso».

Non intravede una certa misoginìa di fondo?

«Il fatto è che la donna è stata presa da una costola.. (ride di gusto). Scherzo, la mia è una battuta. Sono d’accordo che si debba approfondire di più la questione femminile, altrimenti non si può capire la Chiesa stessa».

Possiamo aspettarci da lei decisioni storiche, tipo una donna capo dicastero, non dico del clero… (ride) «Beh, tante volte i preti finiscono sotto l’autorità delle perpetue…» Ad agosto lei andrà in Corea. E’ la porta per la Cina? Lei sta puntando sull’Asia?

«In Asia andrò due volte in sei mesi. In Corea ad agosto per incontrare i giovani asiatici. A gennaio nello Sri Lanka e nelle Filippine. La Chiesa in Asia è una promessa. La Corea rappresenta tanto, ha alle spalle una storia bellissima, per due secoli non ha avuto preti e il cattolicesimo è avanzato grazie ai laici. Ci sono stati anche martiri. Quanto alla Cina si tratta di una sfida culturale grande. Grandissima. E poi c’è l’esempio di Matteo Ricci che ha fatto tanto bene…»

Dove sta andando la Chiesa di Bergoglio?

«Grazie a Dio non ho nessuna Chiesa, seguo Cristo. Non ho fondato niente. Dal punto di vista dello stile non sono cambiato da come ero a Buenos Aires. Sì, forse qualcosina, perché si deve, ma cambiare alla mia età sarebbe stato ridicolo. Sul programma, invece, seguo quello che i cardinali hanno chiesto durante le congregazioni generali prima del conclave. Vado in quella direzione. Il Consiglio degli otto cardinali, un organismo esterno, nasce da lì. Era stato chiesto perché aiutasse a riformare la curia. Cosa peraltro non facile perché si fa un passo, ma poi emerge che bisogna fare questo o quello, e se prima c’era un dicastero poi diventano quattro. Le mie decisioni sono il frutto delle riunioni pre conclave. Nessuna cosa l’ho fatta da solo».

Un approccio democratico…

«Sono state decisioni dei cardinali. Non so se un approccio democratico, direi più sinodale, anche se la parola per i cardinali non è appropriata».

Cosa augura ai romani per i Patroni San Pietro e Paolo?

«Che continuino a essere bravi. Sono tanto simpatici. Lo vedo nelle udienze e quando vado nelle parrocchie. Auguro loro di non perdere la gioia, la speranza, la fiducia nonostante le difficoltà. Anche il romanaccio è bello».

Wojtyla aveva imparato a dire, volemose bene, damose da fa’. Lei ha imparato qualche frase in romanesco?

«Per ora poco. Campa e fa’ campa’». (Naturalmente ride )




l’intervista di papa Francesco a ‘il Messaggero’

Papa Francesco: intervista al quotidiano “Il Messaggero”

Il quotidiano romano “Il Messaggero” pubblica oggi un’intervista a Papa Francesco realizzata dalla giornalista Franca Giansoldati: nelle sue risposte il Santo Padre si sofferma tra l’altro sulle sfide rappresentate dall’attuale cambiamento “di epoca” e “di cultura”, che ha conseguenze sulla vita politica, finanziaria e sociale. Sfide a cui le istituzioni e la Chiesa devono rispondere tutelando il bene comune e custodendo la vita umana e la sua dignità. Una sintesi dell’intervista nel servizio di Davide Maggiore:

“Tutelare sempre il bene comune”, che include “la custodia della vita umana, la sua dignità”, è “la vocazione per qualsiasi politico”, afferma il Santo Padre. Oggi il problema della politica, “un problema mondiale”, nota Francesco, è che essa “si è svalutata, rovinata dalla corruzione, dal fenomeno delle tangenti”. Questa “decadenza morale, non solo in politica, ma nella vita finanziaria o sociale”, è alimentata dal “cambiamento d’epoca” odierno, che è anche “un cambio di cultura”. In questo contesto, la povertà di cui preoccuparsi non è solo quella materiale.

“Un affamato – spiega il Papa – posso aiutarlo affinché non abbia più fame, ma se ha perso il lavoro ha a che fare con un’altra povertà. Non ha più dignità”. Si impone dunque “uno sforzo comune” nell’aiuto delle famiglie in difficoltà, un compito che – riconosce il Pontefice – è “in salita”, ma va continuato, soprattutto lavorando “di più per il bene comune dell’infanzia”. “Mettere su famiglia è un impegno” – ribadisce – per le difficoltà economiche che si incontrano, mentre “la politica sociale non aiuta”. Commentando i bassissimi tassi di natalità dell’Europa, che è “come se si fosse stancata di fare la mamma, preferendo fare la nonna”, il Santo Padre nota che questo fenomeno non dipende solo da “una deriva culturale improntata all’egoismo e all’edonismo”, ma anche dall’attuale “crisi economica”.

Secondo Francesco, “la bandiera dei poveri è cristiana, la povertà è al centro del Vangelo”, che non si può comprendere “senza capire la povertà reale”. Va però tenuto conto che esiste anche “una povertà bellissima dello spirito, essere povero davanti a Dio perché Dio ti riempie”. Il Vangelo infatti “si rivolge indistintamente ai poveri e ai ricchi” e “non condanna affatto i ricchi, semmai le ricchezze quando diventano oggetti idolatrati”. Alla domanda su “dove stia andando la Chiesa di Bergoglio”, il Papa risponde: “grazie a Dio non ho nessuna Chiesa, seguo Cristo. Non ho fondato niente”. E poi ribadisce: “le mie decisioni sono il frutto delle riunioni pre Conclave. Nessuna cosa l’ho fatta da solo”.

Il Pontefice torna poi sui suoi prossimi viaggi in Asia, quello di agosto in Corea e quello di gennaio nello Sri Lanka e nelle Filippine. La Chiesa in Asia, dice, “è una promessa”. “Quanto alla Cina – continua – si tratta di una sfida culturale grande, grandissima”. Nel corso dell’intervista Francesco riprende brevemente anche molti altri temi già affrontati durante il pontificato, come “la questione femminile”, che va approfondita “altrimenti non si può capire la Chiesa stessa”. Citate poi la corruzione e lo sfruttamento – lavorativo e sessuale – di bambine e bambini. Il Papa parla di episodi di prostituzione minorile che gli furono segnalati quando era arcivescovo a Buenos Aires e che coinvolgevano anche anziani: “Per me sono pedofili queste persone che fanno questo alle bambine”, afferma.

Nel giorno in cui si ricordano i Santi Pietro e Paolo, patroni di Roma, non mancano i riferimenti anche alla quotidianità e alla tradizione della città di cui il Papa è vescovo. Questo ruolo, nota il Santo Padre, è “il primo servizio di Francesco”. Roma, secondo il Pontefice, condivide i problemi di altre metropoli “come Buenos Aires”. E proprio alla “pastorale delle metropoli” sarà dedicato un convegno a Barcellona il prossimo novembre. Ai romani, abitanti di una città “che dovrebbe essere un faro nel mondo”, il Papa augura infine di “non perdere la gioia, la speranza, la fiducia nonostante le difficoltà”.

(Tratto dall’archivio della Radio Vaticana)




il commento al vangelo domenicale di p. Maggi

 

 

 

p. Maggi

TU SEI PIETRO, E A TE DARO’ LE CHIAVI DEL REGNO DEI CIELI

SOLENNITA’ S.S. PIETRO E PAOLO 

29 giugno 2014

Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi

Mt 16,13-20

In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.

Per tenere lontani i suoi discepoli dal lievito dei farisei, cioè dalla dottrina dei farisei e dei sadducei, Gesù li porta lontano dall’istituzione religiosa giudaica e li conduce all’estremo nord del paese. E quanto scrive Matteo, nel capitolo 16, versetti 13-20. “Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo”, Cesarea di Filippo è all’estremo nord del paese, è la città costruita da uno dei figli di Erode il Grande, Filippo, e, per distinguerla dall’altra Cesarea marittima, è stata chiamata Cesarèa di Filippo. All’epoca di Gesù la città era in costruzione. Questo è un dettaglio da tener presente, nei pressi della città si trovava una delle tre sorgenti del fiume Giordano, che era anche ritenuta l’ingresso del regno dei morti. Quindi sono elementi che occorre tener presente per la comprensione di quello che l’evangelista ci narra. Ebbene Gesù conduce i suoi discepoli così lontano dalla Giudea e anche dalla Galilea per porre loro una domanda. “Domandò ai suoi discepoli: «La gente»”, letteralmente “gli uomini”, «chi dice che sia il Figlio dell’uomo?»L’evangelista contrappone gli uomini al Figlio dell’uomo, l’uomo che ha la condizione divina, quindi l’uomo che ha lo spirito e quelli che non ce l’hanno. Gesù vuole rendersi conto di quale sia stato l’effetto della predicazione dei discepoli che lui ha inviato ad annunziare la novità del regno. La risposta è deludente. “Risposero: «Alcuni dicono Giovani il Battista»”, perché si credeva che i martiri sarebbero subito risuscitati, «altri Elìa»”. Elia, secondo la tradizione, non era morto, ma era stato rapito in cielo e sarebbe tornato all’arrivo del futuro messia. «Altri Geremia»”, sempre secondo la tradizione era scampato a un tentativo di lapidazione, «o qualcuno dei profeti». Si aspettava uno dei profeti annunziato da Mosè, comunque tutti personaggi che riguardano l’antico. Nessuno, né i discepoli né la gente alla quale essi si sono rivolti, ha compreso la novità portata da Gesù. Allora Gesù dice: «Ma voi»”, quindi si rivolge a tutto il gruppo, «Chi dite che io sia?»Gesù si è rivolto a tutto il gruppo dei discepoli, ma è soltanto uno che prende l’iniziativa. “Rispose Simon Pietro”, Simone è il nome, Pietro è un soprannome negativo che indica la sua testardaggine, e quando l’evangelista lo presenta con questo soprannome, significa che c’è qualcosa di contrario all’annunzio di Gesù. “Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»”. Finalmente c’è uno dei discepoli che ha capito che Gesù non è il figlio di Davide, colui che con la violenza impone il regno, ma è il figlio del Dio (letteralmente) vivificante, cioè comunica vita. “E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone»”. Perché beato? Pietro è il puro di cuore e quindi può vedere Dio. Gli dice “beato”, però lo chiama «figlio di Giona»”. “Figlio”, nella cultura ebraica non indica soltanto chi è nato da qualcuno, ma chi gli assomiglia nel comportamento. E Gesù lo chiama “figlio di Giona”. Giona è l’unico tra i profeti dell’Antico Testamento che ha fatto esattamente il contrario di quello che il Signore gli aveva comandato. Infatti il Signore gli aveva detto: “Giona, vai a Ninive a predicare la conversione altrimenti io la distruggo” e Giona fece il contrario. Anziché andare verso est, si imbarcò sulla nave e puntò ad ovest. Poi finalmente Giona si convertì. Quindi in questo figlio di Giona Gesù fa il ritratto di Pietro: farà sempre il contrario di quello che Gesù gli chiederà di fare, ma poi alla fine si convertirà. «Perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli.»Ecco Pietro è il beato perché è il puro di cuore che può vedere Dio. “E io dico a te: «Tu sei  Pietro»”, il termine greco adoperato dall’evangelista è Petros, che indica un mattone, un sasso, che può essere raccolto e usato per una costruzione. “«E su questa pietra»”. Pietra no è il femminile di Pietro. L’evangelista adopera il termine greco Petra che indica la roccia che è buona per le costruzioni. E’ lo stesso termine che Gesù, nel capitolo 7, ha scelto per la casa costruita sulla roccia. uindi Gesù dice a Simone: “Tu sei un mattone. Su questa roccia”, e la roccia è Gesù, «Edificherò la mia chiesa»”. Il termine greco ecclesia non ha nulla di sacrale, ma è un termine profano che indica l’adunanza, l’assemblea di quelli che sono convocati. Quindi Gesù non viene a costruire una nuova sinagoga, ma una nuova realtà che non ha connotazioni religiose, e per questo adopera questo termine laico. «E le potenze»”, letteralmente “le porte”; le porte di una città indicavano la sua forza, la potenza. “«Degli inferi»”, cioè del regno dei morti. Ricordo che la scena si svolge vicino a una delle grotte che si pensava essere l’ingresso nel regno dei morti, “«Non prevarranno contro di essa». Quando una comunità è costruita su Gesù, il figlio del Dio vivente, quindi si comunica vita, le forze negative, le forze della morte, non avranno alcun potere. “«A te darò le chiavi del regno dei cieli»”. Concedere le chiavi a qualcuno significava ritenerlo responsabile della sicurezza di quelli che stavano dentro. Abbiamo detto altre volte che il regno dei cieli nel vangelo di Matteo non significa un regno nei cieli, ma è il regno di Dio. Quindi Gesù non dà a Pietro le chiavi per l’accesso all’aldilà, non lo incarica di aprire o chiudere, ma lo ritiene responsabile di quelli che sono all’interno di questo regno, che è l’alternativa che Gesù è venuto a proporre. «Tutto ciò che legherai sulla terra»”, qui  l’evangelista adopera un linguaggio rabbinico, che significa dichiarare autentica o meno una dottrina, «sarà legato nei cieli»”, cioè in Dio, «E tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli»”. Quello che Gesù ora dice a Pietro poi più tardi, al capitolo 18, lo dirà a tutti i discepoli. Le ultime parole che Gesù adopererà in questo vangelo rappresentano l’invio dei discepoli ad andare ad insegnare “tutto ciò che vi ho comandato”. Quindi nell’insegnamento di Gesù, questo messaggio che comunica vita, c’è l’approvazione divina, da parte dei cieli. Però, ecco la sorpresa, “Ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo”. Quando Gesù ordina significa che c’è resistenza. Nella risposta di Pietro c’era stata una parte positiva in quanto ha riconosciuto Gesù come il figlio del Dio che comunica vita, il Dio vivente, ma la parte negativa qual è? La gente ha detto che tu sei il Cristo, cioè il messia atteso dalla tradizione. Allora Gesù dice: “questo non lo dovete dire a nessuno”, perché lui non è il messia atteso dalla tradizione. Gesù è Cristo, è il messia, ma in una forma completamente diversa, non adopererà il potere, ma l’amore; non il comando, ma il servizio. E questo provocherà adesso lo scontro proprio con Simone. Quello che era stato definito “pietra” da costruzione, diventerà una pietra di scandalo.

 




l’ ‘instrumentum laboris’ per il sinodo straordinario

presentato l’«Instrumentum laboris» dell’assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi sulla famiglia

Il Vangelo della famiglia; le situazioni familiari difficili; l’educazione alla fede e alla vita dell’intero nucleo familiare. Sono questi i tre ambiti nei quali si sviluppa l’Instrumentum laboris per l’assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi sulla famiglia, che si riunirà dal 5 al 19 ottobre di quest’anno per riflettere sul tema «Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto generale dell’evangelizzazione». Il contenuto del documento è stato presentato questa mattina, giovedì 26 giugno, nella Sala Stampa della Santa Sede.

La prima parte del testo tratta del disegno di Dio, della conoscenza biblica e magisteriale e della loro ricezione, della legge naturale e della vocazione della persona in Cristo. Il riscontro della scarsa conoscenza dell’insegnamento della Chiesa domanda agli operatori pastorali una maggiore preparazione e l’impegno a favorirne la comprensione da parte dei fedeli, che vivono in contesti culturali e sociali diversi.

La seconda parte, che affronta le sfide pastorali inerenti alla famiglia, considera in maniera particolare le situazioni pastorali difficili, che riguardano le convivenze e le unioni di fatto, i separati, i divorziati, i divorziati risposati e i loro eventuali figli, le ragazze madri, coloro che si trovano in condizione di irregolarità canonica e quelli che richiedono il matrimonio senza essere credenti o praticanti. Nel documento si sottolinea l’urgenza di permettere alle persone ferite di guarire e di riconciliarsi, ritrovando nuova fiducia e serenità. Di conseguenza, è invocata una pastorale capace di offrire la misericordia che Dio concede a tutti senza misura. Si tratta dunque di «proporre, non imporre; accompagnare, non spingere; invitare, non espellere; inquietare, mai disilludere».

La terza parte presenta dapprima le tematiche relative all’apertura alla vita, quali la conoscenza e le difficoltà nella ricezione del magistero, i suggerimenti pastorali, la prassi sacramentale e la promozione di una mentalità accogliente.

Nel documento si denuncia poi la scarsa conoscenza dell’enciclica Humanae vitae. Nella stragrande maggioranza delle risposte vengono messe in risalto le difficoltà che si incontrano sul tema degli affetti, della generazione della vita, della reciprocità tra l’uomo e la donna, della paternità e maternità responsabili. Quanto alla responsabilità educativa dei genitori, dal documento emerge la difficoltà nel trasmettere la fede ai figli e nel dar loro un’educazione cristiana soprattutto in situazioni familiari difficili, i cui riflessi sui figli si estendono anche alla sfera della fede.

Il documento sarà ora oggetto di studio e di valutazione da parte delle conferenze episcopali e confrontato con le diverse realtà locali in modo da evidenziare i punti focali sui quali avanzare proposte pastorali da discutere e approfondire durante i lavori dell’assemblea straordinaria e poi in quella ordinaria che si svolgerà dal 4 al 25 ottobre del 2015 e che avrà come tema «Gesù Cristo rivela il mistero e la vocazione della famiglia».

Il testo integrale dell’instrumentum laboris

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il teologo H. Kung parla della morte umana vissuta con dignità

 

Trasmissione Raitre Che tempo che fa

 

 

 

 

 

segni dei tempi

la morte umana dignitosa

 H.Küng

Il testo che viene pubblicato  riporta in gran parte il discorso che Hans Kung ha tenuto lo scorso anno al momento del ricevimento del premio Artur Koestler. L’occasione per la pubblicazione, come contributo al dibattito sulla delicata questione del fine vita, è il conferimento a Küng del “Grosso d’oro” da parte della città di Brescia il 25 giugno. Küng, contrariamente a quanto previsto, non potrà essere presente per i problemi dovuti ad un aggravamento del suo stato di salute e non potrà tenere la prevista Lectio magistralis su “Rinascita di speranza per la Chiesa e il mondo”.

Ho detto con convinzione sì a questo riconoscimento [1], perché rappresenta un’onorificenza speciale, in quanto mi viene dato non solo per il mio terzo volume di memorie  umanità vissuta) con il suo capitolo “Nella sera della vita”, ma per il mio lavoro di tutta una vita. Una via teologicamente responsabile Ero comprensibilmente ansioso di vedere come un filosofo riesca a comprendere un lavoro complesso di una lunga vita di teologo, Lei, caro collega Dieter Birnbacher, ha assolto a questo compito in modo brillante, profondo e con ampiezza di orizzonti. […] Il laudator non ha parlato solo della mia persona, ma ha fatto anche delle  appropriate riflessioni sul problema: non solo sull’etica mondiale, ma pure su una saggezza mondiale, o saggezza scolastica o dei dogmi e sulla penuria di esempi e di figure di riferimento, in grado di indagare con capacità l’integrazione e la complementarietà tra fede e ragione, religione e illuminismo. In questo nostro evento [2] sono molto importanti le affermazioni di Dieter Birnbacher sull’accettazione etica dell’aiuto a morire, che, secondo la mia e la sua opinione, si basa sulla fiducia in un Dio inteso non come assolutista, ma amoroso. Queste affermazioni mi rallegrano enormemente perché dimostrano che la mia proposta di una via di mezzo teologicamente responsabile, sul diritto all’autodeterminazione per motivi religiosi, ha trovato accoglienza anche nella DGHS (Deutschen Gesellschaft für humanes Sterben, Società tedesca per una morte umana, ndr), così come anche nella  EXIT, spesso diffamate come associazioni senza religione e di tipo materialista. Per questo vi ringrazio tutti sia che siate credenti o non credenti.

Responsabilità per la mia morte

Desidero anche brevemente sfruttare l’occasione per esplicitare meglio la mia posizione che raccoglie sempre più consenso. Ma non deve sorprendere nessuno, il fatto che i nuovi problemi che si presentano e le rispettive soluzioni si scontrino spesso con incomprensioni o malintesi. Ad una sostanziale incomprensione marcata religiosamente o ideologicamente è difficile rispondere e a concreti malintesi ancor più. Per escludere ogni ambiguità dico a chiare lettere: – Non difendo e non ho in mente nessun suicidio; anche alla fine di una vita esiste un omicidio solo se viene commesso per basse motivazioni, imbroglio o violenza contro la volontà dell’interessato.

– Mi prendo la mia responsabilità per la mia morte nel momento che si presenterà, una  responsabilità che nessuno potrà togliermi. Naturalmente non voglio in nessun modo congedarmi subito dalla vita, ma solo ad un momento dato, che spero di riconoscere con lucidità.

– Il Signore, a me ottantacinquenne non manda un segno diretto dal cielo, ma il Signore mi dona, e lo spero, la grazia di riconoscere il giusto momento; perché se fosse troppo tardi, per me si presenterebbe una situazione senza via d’uscita, in una demenza incipiente.

– Che il Signore abbia preparato per me il momento opportuno, non posso dedurlo da documenti biblici e neppure giustificarlo con la ragione; che questa fine sia prematura, è una semplice opinione.

– Nella Bibbia, in nessun passo viene esplicitamente proibito il suicidio; per esempio viene raccontato con approvazione quello di Abimelech, di Sansone e del re Saul. La vita dono e compito

In quanto teologo e cristiano sono convinto che la vita umana, che l’uomo non si è dato da solo, è in fondo un dono di Dio. Ma la vita è anche secondo la volontà di Dio un impegno, un compito, per l’uomo. E’ consegnata alla nostra propria (e non altra) responsabile disponibilità. Questo vale anche per l’ultima tappa della vita: il morire. Nessuno deve essere spinto a morire, così pure nessuno deve essere costretto a vivere. Va da sé che l’uomo deve tener conto “dei limiti della sua libertà  imitata” (Vescovo emerito W. Huber). Ma la domanda precisamente è: quale è il confine che l’uomo non deve superare. La decisione, che io penso fatta non da una coscienza sviata, ma da una scelta fatta con responsabilità, è una decisione esistenziale presa in piena coscienza che resta nelle mani della sola persona interessata.

Ritengo un’arroganza, se i non interessati vogliono giudicare come una persona percepisca in modo soggettivo la propria condizione. Ho affermato più volte: chi crede in una vita eterna in Dio, l’eterno, al di là dello spazio e del tempo, non deve preoccuparsi di un prolungamento eterno del tempo della vita terrena.

La Croce di Gesù è senza paragoni

Non posso tralasciare un rimprovero, che mi viene fatto proprio da simpatizzanti e lettori dei miei libri: seguire Gesù non significa anche prendere su di sé la croce fino alla fine? Nei fatti la croce viene presentata come un oscuro progetto di Dio cosicché le sofferenze umane vengono sublimate e idealizzate. Al contrario la mia opinione è già contenuta nel mio libro di quarant’anni fa “Essere cristiani”: seguire la croce non significa imitare alla lettera la vita terrena di Gesù, non significa perseguire una copia fedele del modello di vita, della sua vita e della sua morte. La croce di Gesù è senza paragoni, unica per il suo abbandono divino ed umano, la sua morte è irripetibile. Non è questo il significato della sequela, l’esser lasciati da Dio e dagli uomini: patire gli stessi dolori, ricevere le stesse piaghe; ma nella propria unica situazione, e nonostante l’incertezza del futuro, fare la propria strada. Detto teologicamente: sequela intesa non nel senso dell’imitazione, ma nel senso della correlazione, della corrispondenza. La sequela della croce e la morte assistita non si escludono. Il mio ultimo passaggio riguarda la realizzazione pratica di una morte assistita umanamente.

Cure palliative e sostegno affettivo, a volte insufficienti

Al riguardo solo due punti:

1) Da tempo io sostengo l’utilità e la promozione dignitosa della medicina palliativa. Aiuta senza dubbio a combattere i dolori, le paure, l’irrequietezza, la mancanza di fiato e altri sintomi pesanti. Le terapie del dolore rendono sopportabile l’ultimo stadio a molti malati terminali e portano ad una morte umana. Ma anche chi fa le terapie del dolore ammette che in alcuni casi è possibile solo una riduzione permanente del dolore; si rende il paziente incosciente, togliendogli la “vigilanza”. I desideri di morte devono essere presi sul serio, ma non tutti possono essere affrontati solo con un di più di affetto. I desideri di morire possono essere dati anche da una permanente perdita di percezioni della propria dignità, o del senso della vita, o dalla mancanza di una possibilità oggettiva di miglioramenti della propria situazione di salute.

2) Il movimento “Hospiz”, che non si propone di intervenire medicalmente per la guarigione o il prolungamento della vita, ma di dare un affetto personale con la parola e l’impegno per una morte umana, è un movimento che io ho sempre sostenuto moralmente e promosso pubblicamente. Ma, il diritto a continuare a vivere non vuol dire l’obbligo a continuare a vivere.

Il processo della morte non deve essere pervertivo portando ad una vita vegetale, segnata da sonde e farmaci. Meno male che almeno nella mia Svizzera la maggior parte degli ospedali lavora secondo il concetto della Palliative care; una strategia adottata dalla politica sanitaria federale a motivo del cambiamento della struttura delle età, per cui aumentano i casi di persone anziane gravemente malate e bisognose di assistenza. La volontà dei pazienti viene presa sul serio; se qualcuno rifiuta acqua e cibo per morire, questo viene rispettato. La volontà di morire con deliberato consenso alla rinuncia del bere e del mangiare può diventare un’alternativa alla morte assistita. Il pensiero ufficiale della Chiesa non mi preoccupa. Posso solo ricordare che ancora oggi la dottrina romana condanna la pillola, la maternità assistita e i condom. Questa insensibilità dimostrata dal magistero nei confronti dell’inizio della vita non dovrebbe ripetersi in merito alla fine della vita umana.

Hans Kung

Note

[1] Si tratta del premio Arthur Koestler che la Società tedesca per una morte umana (DGHS) ha conferito nel 2013 a Hans Kung per il lavoro di una vita.

[2] Si tratta della cerimonia di consegna del premio avvenuta a Bonn l’8 novembre 2013

 




una svolta nel rapporto della chiesa con la mafia

 

il papa

 

 

 

 

 

 

quasi ottantenne, papa Francesco continua ad essere un vero ciclone all’interno della chiesa che ha accettato di guidare

anche nell’ultimo finesettimana, parlano in Calabria contro la mafia, ha mobilitato la chiesa contro la ‘ndrangheta che ruba il futuro ai giovani e avvelena le coscienze: è arrivato fin0 a dichiarare ‘scomunicati’ i mafiosi e a mettere in guardia membri della chiesa nei confronti di qualsiasi collusione con essi

talmente importante questo passo fatto da papa Francesco che credo opportuno offrirne un’ampia rassegna stampa (coll’aiuto insostituibile e imprescindibile del materiale messo a disposizione dal sito ‘finesettimana’) per avere un’ampia panoramica della eco avuta sui quotidiani e delle preziose riflessioni che l’evento ha provocato (ad ogni link corrisponde il testo del rispettivo articolo):

 

“Non era mai accaduto che un Papa dicesse pubblicamente, senza giri di parole, che «i mafiosi sono scomunicati». Papa Francesco l’ha fatto dal pulpito, in una terra di mafia. Dopo quello alla frontiera dei migranti di Lampedusa, dopo quello tra i disoccupati della Sardegna, un nuovo viaggio italiano di Francesco nelle periferie del Paese, in Calabria. È la «geografia» di un Papa che predilige gli ultimi”
“nel carcere di Castrovillari Francesco si è immerso negli occhi pieni di lacrime dei familiari di Cocò… Nel ’93 dietro l’anatema di Karol Wojtyla contro i clan ci fu l’incontro con… i genitori del “giudice ragazzino” Rosario Livatino… Ieri Bergoglio ha compiuto uno storico passo avanti e ha mobilitato la Chiesa del Mezzogiorno contro la ‘ndrangheta che ruba il futuro ai giovani e avvelena le coscienze”
La scomunica e la speranza. La violenza e il bene. L’adorazione del male e del denaro e l’educazione delle coscienze. La ‘ndrangheta e una Chiesa che la combatte. Ma che deve fare di più, soprattutto per rispondere alle richieste dei giovani. Il messaggio di Papa Francesco è come sempre chiaro e diretto.
… è lì, in fondo allo stivale, che si gioca la tanto sbandierata battaglia per la legalità. E se il Papa si muove per risvegliare le coscienze, per farsi apostolo di una fede nel potere soprannaturale del Bene, ora è lo Stato che non ha più alibi per fermarsi a Eboli
il cardinale Pappalardo chiudeva le porte delle chiese ai boss. Poi spalancate da Scordato a divorziati e gay che, ripete la domenica, «non sono peccatori perché l’amore riscatta l’uomo, al contrario di chi si macchia del peccato di mafia, cioè idolatria del boss, cultura del dominio, della violenza, della morte…»
«Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono sco-mu-ni-ca-ti». Francesco aveva preparato un testo nel quale «per la fede nel Dio che è amore» esortava a «rinunciare a satana e a tutte le sue seduzioni», al «male in tutte le sue forme», agli «idoli del denaro, della vanità, dell’orgoglio e del potere».
Finalmente un Papa dice che «i mafiosi sono scomunicati» e tutti capiamo l’antifona: della rivoluzione di Francesco fa parte una semplificazione del linguaggio che lo espone a critiche all’interno della Chiesa, ma che rende comprensibili alle moltitudini le sue parole e a volte – come in questo caso – le mostra ispirate al «sì sì no no» del Vangelo.
«Alcune volte, purtroppo, la Chiesa è rimasta alla finestra rispetto a certi comportamenti lavandosene le mani. Altre volte, invece, è stata addirittura complice. Sono ambiguità non al servizio della verità. E ciò è sempre un male, perché sono comportamenti che tarpano le ali alle energie migliori, a coloro che, invece, vorrebbero mettere le proprie energie al servizio della positività».
Le parole che tutti si aspettano da Francesco in Calabria non sono nell’omelia ufficiale, distribuita alla stampa poche ore prima. Ma sorprendono ugualmente tutti, nel suo discorso a braccio. Jorge Mario Bergoglio alza la testa dai fogli e le pronuncia con voce ferma. Quasi un grido. «La ‘ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune» .
“Gli uomini della ‘ndrangheta non sono in comunione con Dio, sono scomunicati”. Le parole di papa Francesco fanno entrare la Chiesa in una nuova era.
Le ha pronunciato in Calabria non a Roma. Le ha pronunciate sapendo che sarebbero arrivate forti e chiare.” “Qualcuno potrebbe credere che sia naturale e scontato per la Chiesa ricordare un bambino ammazzato e bruciato, e denunciare i colpevoli. Ma purtroppo non è così….”
È dalla Piana di Sibari al termine della sua visita a Cassano allo Jonio in Calabria che Papa Francesco ha rinnovato ieri con fermezza la sua condanna per la mafia e per l’ndrangheta. «Quando non si adora il Signore si diventa adoratori del male – ha affermato -, come lo sono coloro i quali vivono di malaffare e di violenza e la vostra terra, tanto bella, conosce i segni e le conseguenze di questo peccato. La ‘ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune»
È ancora un vescovo del Sud, Domenico Mogavero, commissario della Cei e pastore di Mazara del Vallo, a dichiarare: «Nella Chiesa ci sono omertà e connivenze con i mafiosi. Ci sono preti che non hanno alcun timore di denunciare, ma non mancano quelli che fanno finta di non vedere. Adesso però c’è un vento nuovo».
mai un Papa si era spinto così tanto nel definire compiti e responsabilità della Chiesa e dei cattolici nell’impegno contro mafia, corruzione e malaffare politico. Se devo dire quello che penso davvero, affermo che quella di ieri è stata una giornata storica per la Calabria.
Non è soltanto il primo papa che lancia la scomunica contro gli uomini del crimine organizzato, qualunque sia il loro nome – mafiosi, camorristi, affiliati di ‘ndrangheta -ma con le sue parole impegna direttamente vescovi, clero, ordini religiosi e fedeli praticanti a recidere ogni legame con il sistema mafioso. Non è una condanna una tantum , è una chiamata all’azione. La Chiesa, che educa le coscienze – sottolinea Bergoglio – deve spendersi sempre di più per affermare il bene e contrastare il male
“la consapevolezza del fenomeno mafioso era percepita in una percentuale molto ridotta” “Esistono tante chiese. Ci sono numerosissime testimonianze di preti che si sono ribellati alla criminalità organizzata e per questo sono morte. Poi c’è da dire che la Chiesa, come istituzione, ha affrontato molto tardi il problema.”
I mafiosi non sono in comunione con Dio. Sono scomunicati”. Papa Francesco pronuncia la sua scomunica alla mafia e quella dell’intera Chiesa cattolica davanti a 250mila fedeli riuniti nella Piana di Sibari. E lo fa con voce fermissima…
“…le parole hanno un valore simbolico importante, soprattutto in un contesto sociale e culturale in cui i padrini guidano le processioni e ricevono talvolta benedizioni ecclesiastiche. E quindi, messe in fila, la beatificazione di don Puglisi “martire di mafia” lo scorso anno, la partecipazione di Bergoglio alla veglia per le vittime delle mafie promossa a marzo da Libera di don Ciotti e ora la «scomunica» degli ‘ndranghetisti offrono strumenti per marcare le distanze. Anche se silenzi, omissioni e collusioni non cesseranno per miracolo.”
“Francesco ha scomunicato i mafiosi «che adorano il male». È risalito alla coscienza… Ma adesso, in concreto, che si fa con i mafiosi scomunicati?… Ci vuole una Chiesa che non lasci soli i preti di frontiera… Galantino riunirà i suoi sacerdoti per parlarne. «Dovremo imparare a gestire queste cose»… La scomunica del Papa «ha una dimensione pubblica e un effetto sociale: aiuta la consapevolezza della gente»”
“Tra Chiesa e mafia si è combattuta, negli anni, una guerra a distanza… a fasi alterne… Così come instabile è stato, nel tempo, l’intervento di Roma contro la strumentalizzazione religiosa puntualmente messa in atto dai vertici di Cosa nostra e delle mafie che infestano il nostro Meridione. Per questo assume valore massimo la scomunica chiara, inequivocabile pronunciata l’altro ieri da Papa Francesco”
“Il peso simbolico della scomunica colpirà la narrazione pseudoreligiosa che la mafia fa di se stessa, aiuterà a recidere i rapporti che i boss hanno avuto con le chiese locali… renderà sempre più difficile il consenso sociale… Per questo Papa Francesco fa benissimo a pronunciare l’anatema contro i mafiosi, ma sarebbe bello anche che impedisse ai suoi collaboratori di utilizzare quell’arma con lo stesso stile di un passato non proprio radioso”
“«C’è chi nelle nostre terre non adora il Signore bensì il dio denaro, chi per i propri interessi usa violenza verso i piccoli, chi per raggiungere i propri obiettivi uccide… i mafiosi che così si comportano, si mettono da soli fuori dalla comunione con Dio, e per questo sono scomunicati. È un dato di fatto. Il Papa ha applicato la Parola di Dio alla realtà. L’ha fatto non per condannare, ma per invitare alla conversione chi è slegato dalla relazione con Dio»”
“Chiesa e mafia, mafia e chiesa. Tutti pregano. In tasca hanno sempre un santino… Sono religiosissimi. E ostentano la loro devozione. Siciliani. Calabresi. Campani… Il confine è ed è sempre stato invisibile. Per secoli… una chiesa che non è mai stata una sola, ma sempre divisa sulla mafia… Anche dopo l’anatema di Giovanni Paolo II… Qualche mese dopo, i sicari di Brancaccio hanno ucciso a Palermo don Pino Puglisi… uno che i ragazzi cercava di strapparli dall’abbraccio dei boss”



anche le briciole … contano

Lo spreco delle briciole

tante rose rosa

chi l’ha detto che le ‘briciole’ e le piccole cose non hanno valore, siano del tutto  insignificanti, trascurabili: in una bella riflessione T. Dell’Olio (su ‘Mosaico dei giorni’ del
 23 giugno 2014), richiama ad uno sguardo nuovo capace di cogliere l’unicità e il valore anche delle cose più piccole, sguardo che talvolta sembra perfino coincidere con quello di … Dio

 Abbiamo bisogno di frammenti. Anzi noi viviamo di frammenti, schegge, piccole finestre… che quotidianamente ci si aprono davanti anche nelle giornate più buie. Sono frammenti di vita. Di vita autentica. E, a ben vedere, mai nulla è banale, consueto, abitudinario. Tutto ha bisogno di un occhio nuovo capace di cogliere l’unicità di un incontro, di un gesto, di un particolare. Dio parla. Eccome se parla! Ha il gusto del particolare. Solo c’è bisogno che noi ne intercettiamo la presenza e che ne impariamo il linguaggio. Il dramma è piuttosto lo spreco delle briciole. Quelle che per noi non servono a nulla e che nutrono i passeri. Sembra un paradosso parlare di spreco di briciole in un mondo che butta via tanto pane. Eppure è importante. “Colligere fragmenta”, raccogliere i frammenti. Forse abbiamo proprio bisogno di esercitare mente, cuore e mani alla pratica di raccogliere l’apparente inutilità delle briciole.   T. Dell’Olio




le domande di Tonino Bello nel giorno del ‘corpus domini’

“Sono credibili le nostre Eucaristie? Cristo è nel pane. Ma lo si riconosce nello spezzare il pane”

 don Tonino Bello
Sono credibili le nostre Eucaristie?
 
Cristo è nel pane. Ma lo si riconosce nello spezzare il pane.
 
 
 
Non riesco a liberarmi dal fascino di una splendida riflessione di Garaudy a proposito dell’Eucaristia: “Cristo è nel pane. Ma lo si riconosce nello spezzare il pane”.
Sicché oggi, festa del Corpo e del Sangue del Signore, mi dibatto in una incertezza paralizzante.
Parlerò dell’Eucaristia come vertice dell’amore di Dio che si è fatto nostro cibo? Dirò della presenza di Cristo che ci ha amati a tal punto da mettere la sua tenda in mezzo a noi? Spiegherò alla gente che partecipare al pane consacrato significa anticipare la gioia del banchetto eterno del cielo? Mi sforzerò di far comprendere che l’Eucaristia è il memoriale (che parola difficile, ma pure importante!) della morte e della risurrezione del Signore? Illustrerò il rapporto di reciproca causalità tra Chiesa ed Eucaristia, spiegando con dotte parole che se è vero che la Chiesa costruisce l’Eucaristia è anche vero che l’Eucaristia costruisce la Chiesa?
Non c’è che dire: sarebbero suggestioni bellissime, e istruttive anche, e capaci forse di accrescere le nostre tenerezze per il Santissimo Sacramento, verso il quale la disaffezione di tanti cristiani si manifesta oggi in modo preoccupante.
 
Ma ecco che mi sovrasta un’altra ondata di interrogativi. 
 
Perché non dire chiaro e tondo che non ci può essere festa del “Corpus Domini “, finché un uomo dorme nel porto sotto il “tabernacolo” di una barca rovesciata, o un altro passa la notte con i figli in un vagone ferroviario?
 
Perché aver paura di violentare il perbenismo borghese di tanti cristiani, magari disposti a gettare fiori sulla processione eucaristica dalle loro case sfitte, ma non pronti a capire il dramma degli sfrattati?
 
Perché preoccuparsi di banalizzare il mistero eucaristico se si dice che non può onorare il Sacramento chi presta il denaro a tassi da strozzino; chi esige quattro milioni a fondo perduto prima di affittare una casa a un povero Cristo; chi insidia con i ricatti subdoli l’onestà di una famiglia?
 
Perché non gridare ai quattro venti che la nostra credibilità di cristiani non ce la giochiamo in base alle genuflessioni davanti all’ostensorio, ma in base all’attenzione che sapremo porre al “corpo e al sangue” dei giovani drogati che, qui da noi, non trovano un luogo di accoglienza e di riscatto?
 
Perché misurare le parole quando bisogna dire senza mezzi termini che i frutti dell’Eucaristia si commisurano anche sul ritmo della condivisione che, con i gesti e con la lotta, esprimeremo agli operai delle ferriere di Giovinazzo, ai marittimi drammaticamente in crisi di Molfetta, ai tanti disoccupati di Ruvo e di Terlizzi?
 
Purtroppo, l’opulenza appariscente delle nostre quattro città ci fa scorgere facilmente il corpo di Cristo. nell’Eucaristia dei nostri altari. Ma ci impedisce di scorgere il corpo di Cristo nei tabernacoli scomodi della miseria, del bisogno, della sofferenza, della solitudine.
 
Per questo le nostre eucaristie sono eccentriche.
Miei cari fratelli, perdonatemi se il discorso ha preso questa piega.
Ma credo che la festa del Corpo e Sangue di Cristo esiga la nostra conversione. Non l’altisonanza delle nostre parole. Né il fasto vuoto delle nostre liturgie.
 
Da “Alla finestra la speranza” di don Tonino Bello



p. Maggi commenta il vangelo del ‘corpus domini’

maggi

 

 

LA MIA CARNE E’ VERO CIBO E IL MIO SANGUE VERA BEVANDA 

commento al Vangelo di p. Alberto Maggi

Gv.  6,51-58

In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

Le parole che adesso leggeremo e commenteremo, quelle di Gesù nel vangelo di Giovanni, sono talmente gravi che, al termine di queste, gran parte dei suoi discepoli lo abbandonerà e non tornerà più con lui. Vediamo allora che cos’è di grave, di importante, che Gesù ha detto.
Nel capitolo 6 del vangelo di Giovanni troviamo un lungo e intenso insegnamento sull’Eucaristia. Giovanni è l’unico evangelista che non riporta la narrazione della cena, ma è quello che, più degli altri, riflette sul profondo significato della stessa.
Quindi il capitolo 6 è un insegnamento, una catechesi alla comunità cristiana, sull’Eucaristia. Leggiamo il capitolo 6, dal versetto 51. “«Io sono»”, e Gesù rivendica la condizione divina, “«il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno»”.
Gesù garantisce che l’adesione a lui è ciò che permette all’uomo di avere una vita di una qualità tale che è indistruttibile. Questa è la vita eterna. Gesù, il figlio di Dio, si fa pane perché quanti lo accolgono e sono capaci di farsi pane per gli altri, diventino anch’essi figli di Dio. “«E il pane che io darò è la mia carne»” – Gesù adopera proprio il termine carne, che indica l’uomo nella sua debolezza, “«per la vita del mondo»”.
Quello che Gesù sta dicendo è molto importante: la vita di Dio non si da al di fuori della realtà umana. Non ci può essere comunicazione dello Spirito dove non ci sia anche il dono della carne. Quindi il dono di Dio passa attraverso la carne, dice Gesù. L’aspetto terreno, debole, della sua vita. Qui l’evangelista presenta una contrapposizione tra gli uomini della religione che si innalzano per incontrare Dio – un Dio che la religione ha reso lontano, inavvicinabile, inaccessibile – e, invece, un Dio che scende per incontrare l’uomo.
“Allora i Giudei”, con questo termine nel vangelo di Giovanni si indicano le autorità, “«si misero a discutere aspramente tra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?»” Un Dio che, anziché pretendere lui i doni dagli uomini, si dona all’uomo fino ad arrivare a fondersi con lui, si fa alimento per lui. Questo è inaccettabile per le autorità religiose che basano tutto il loro potere sulla separazione tra Dio e gli uomini.
Un Dio che vuole essere accolto dagli uomini e fondersi con loro, questo per loro non solo è intollerabile, ma è pericoloso. Ebbene Gesù risponde loro: “«In verità, in verità io vi dico»”, quindi la doppia affermazione “in verità, in verità io vi dico” è quella che precede le dichiarazioni solenni, importanti di Gesù, “«Se non mangiate la carne del figlio dell’Uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita»”.
Gesù si rifà all’immagine dell’agnello, l’agnello pasquale. La notte del’Esodo Mosè aveva comandato agli ebrei di mangiare la carne dell’agnello perché avrebbe dato loro la forza di iniziare questo viaggio verso la liberazione e di aspergere il sangue sugli stipiti delle porte perché li avrebbe separati dall’azione dell’angelo della morte.
Ebbene Gesù si presenta come carne, alimento che da la capacità di intraprendere il viaggio verso la piena libertà, e il cui sangue non libera dalla morte terrena, ma libera dalla morte definitiva. Poi Gesù, tante volte non fosse stato chiara la sua affermazione, dice: “Chi mastica la mia carne”. Il verbo masticare i greco è molto rude, primitivo, in greco è trogon. Già il suono dà l’idea di qualcosa di primitivo, e significa “masticare, spezzettare”.
Quindi Gesù vuole evitare che l’adesione a lui sia un’adesione ideale, ma dev’essere concreta. Infatti dice: “«Chi mastica la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna»”. La vita eterna per Gesù non è un premio futuro per la buona condotta tenuta nel presente, ma una possibilità di una qualità di vita nel presente. Gesù non dice “avrà la vita eterna”. La vita eterna c’è già. Chi, come lui, fa della propria vita un dono d’amore per gli altri, ha una vita di una qualità tale che è indistruttibile.
“«E io lo risusciterò nell’ultimo giorno»”. L’ultimo giorno non è la fine dei tempi. L’ultimo giorno, nel vangelo di Giovanni, è il giorno della morte in cui Gesù, morendo, comunica il suo Spirito, cioè elemento di vita che concede, a chi lo accoglie, una vita indistruttibile.
E Gesù conferma che la sua “«carne è vero cibo e il suo sangue è la vera bevanda»”. Con Gesù non ci sono regole esterne che l’uomo deve osservare, ma l’assimilazione di una vita nuova. E la sua carne è vero cibo, quello che alimenta la vita dell’uomo, e il suo sangue vera bevanda, cioè elementi che entrano nell’uomo e si fondono con lui. Non più un codice esterno da osservare, ma una vita da assimilare.
Gesù ci presenta un Dio che non assorbe gli uomini, ma li potenzia. Un Dio che non prende l’energia degli uomini, ma comunica loro la sua. E Gesù continua ad insistere: “«Chi mastica la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui»”. Ecco la piena fusione di Gesù con gli uomini e degli uomini con Gesù.
Quello di Gesù è un Dio che chiede di essere accolto per fondersi con gli uomini e dilatarne la capacità d’amore. “«Come il Padre, che ha la vita»”, ed è l’unica volta che Dio viene definito come il Padre che è vivente, “«ha mandato me»”, il Padre ha mandato il figlio per manifestare il suo amore senza limiti, “«e io vivo per il Padre, così anche colui che mastica …»”, di nuovo Gesù insiste con questo verbo che indica non un’adesione teorica, ma reale e concreta, “«… me, vivrà per me»”.
Alla vita ricevuta da Dio corrisponde una vita comunicata ai fratelli. Questo è il significato dell’Eucaristia. E, come il Padre ha mandato il figlio ad essere manifestazione visibile di un amore senza limiti, così quanti accolgono Gesù sono chiamati a manifestare un amore incondizionato.
E conclude Gesù: “«Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono»”. Gesù mette il dito nella piaga del fallimento dell’Esodo. Tutti quelli che sono usciti dall’Egitto sono morti. I loro figli sono entrati. E Gesù contrappone il suo esodo che è destinato invece a realizzarsi pienamente.
E di nuovo Gesù insiste: “«Chi mastica»”, quindi adesione piena e totale, non simbolica, “«questo pane vivrà per sempre»”. Chi orienta la propria vita, con Gesù e come Gesù, a favore degli altri, ha già una vita che la morte non potrà interrompere




il vangelo assolutamente al primo posto

 

fra

 da noi si parla, in ambito intraecclesiale e conseguentemente anche in ambito pubblico e politico, di valori e principi irrinunciabili e non politicamente mediabili o ‘negoziabili’, pretendendo spesso delle politiche che, in nome di tali principi, generali e astratti,  umiliano o offendono o arrecano sofferenza alle persone: il vangelo invece ci rimanda incondizionatamente all’unico valore concretamente assoluto mai da mettere da parte: l’uomo con i suoi bisogni e necessità

mi piace riportare, qui sotto, il gesto forte, radicalmente evangelico che a Saint-Etienne, in Francia,  padre Gerard Riffard, il sacerdote cattolico della parrocchia di Saint-Anne, ha fatto e per il quale è stato convocato in tribunale:  aver cioè aperto le porte della sua chiesa a una quarantina di richiedenti asilo africani.

così p. Agostino Rota Martir, nel segnalarmi questo gesto, pubblicato dal sito ‘comune info’, si augura accada anche tra di noi:

Troverà qualche imitatore anche tra i parroci italiani?
Speriamo … è un modo per uscire da equilibrismi tattici/politici. L’accoglienza ha il primato sulla legge, almeno per il cristiano, anche se qualcuno dirà che non bisogna essere ingenui o che bisogna fare un’accoglienza “intelligente”…

 

 il prete dei Clandestini

 

Rischia una multa di 12.000 euro per aver ospitato un gruppo di immigrati nella sua parrocchia. Succede a Saint-Etienne, in Francia, dove sono sempre più numerose le voci di solidarietà nei confronti di padre Gerard Riffard, il sacerdote cattolico della parrocchia di Saint-Anne, convocato in tribunale per aver aperto le porte della sua chiesa a una quarantina di richiedenti asilo africani.

Durante l’udienza, l’ex parroco ha cercato in tutti i modi di spiegare che la sua azione era dettata unicamente dalla carita’ cristiana. Ma la giustizia ha mostrato il suo volto più duro e la pubblica accusa ha chiesto una sanzione da 12.000 euro per violazione della delibera comunale che avrebbe vietato di dare ospitalita’ in quell’edificio religioso in base alle norme burocratiche di sicurezza che regolano l’accoglienza del pubblico. Durante l’udienza, il prete, settant’anni, ha ricordato che ”lo Stato è obbligato dalla legge a dare asilo a chi lo richiede”, cosa che peraltro “non fa regolarmente”. E ha cercato di mostrare la contraddizione tra l’accusa che viene mossa contro di lui e “l’obbligo di non lasciare la gente fuori, in situazione di pericolo” che la stessa legge in teoria impone. Poi ha spiegato: “All’inizio, circa sette anni fa, ho cominciato ad accogliere alcuni senzatetto nel mio appartamento“. Ma nel corso del tempo, il loro numero è aumentato e il parroco ha deciso allora di mettere a loro disposizione la sala parrocchiale adiacente alla chiesa.

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“La giustizia può dire cio’ che vuole, mi è assolutamente impossibile lasciare dormire un bebe’ all’aperto”, ha protestato padre Gerard Riffard, spiegando che i rifugiati accolti in questi ultimi anni “provengono in maggioranza dalla Repubblica democratica del Congo o dall’Angola… e hanno lasciato i loro Paesi perché erano in pericolo di vita”. Lo scorso agosto, la commissione municipale di sicurezza ha avviato le ispezioni nella chiesa, decretando che era “impossibile ospitare in quelle condizioni”. Ma padre Riffard ha continuato ad accogliere i rifugiati, sfidando norme e burocrazia.

Manifestazioni di solidarietà nei confronti del sacerdote sono arrivate, intanto, da esponenti del partito comunista, come pure da monsignor Dominique Lebrun, responsabile della diocesi di Saint-Etienne: “Cosa deve fare un prete, un cristiano: lasciare degli individui nell’insicurezza della strada oppure aprire le sue modeste porte?”, si è chiesto il vescovo. La sentenza che dovrà dare una risposta a nome dello Stato francese è attesa per il 10 settembre.