preghiera introduttiva al c.c.i.t. 2014

LITURGIA di  ACCOGLIENZA

preparata da Agostino Rota Martir

p. agostino

Accensione del fuoco Canto iniziale.

Presentazione icona:  “Maria che abbatte i muri”

  Maria che abbatte i muri

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Preghiera:

Santissima Madre di Dio, Ti preghiamo, Madre della Chiesa, Madre dei Cristiani che soffrono, Madre dell’umanità divisa a causa di separazioni, di muri innalzati. Ti supplichiamo, con la tua ardente intercessione abbatti questo muro, abbatti le pareti del nostro cuore e tutte le pareti che generano l’odio, la violenza, la paura e l’indifferenza tra le persone e tra le nazioni. Tu che hai schiacciato il serpente antico con il tuo “Fiat”, Raccogli e unisci tutti noi sono il tuo mantello verginale, preservaci da ogni male. Apri per sempre nelle nostre vite la porta della speranza. Fa nascere in noi e nel nostro mondo la civiltà dell’Amore che scaturisce dalla Crocee dalla Risurrezione del tuo figlio Divino Signore e Salvatore nostro Gesù Cristo, che vive e regna nei secoli dei secoli. Amen. (Betlemme, Monastero Suore Melkite dell’Emanuele)

Lettura biblica: Ef. 2, 14-18

Egli infatti è la nostra pace,colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li dividevacioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri,a1 Padre in un solo Spirito.

Canto

Segno: trasformiamo i muri in ponti di vita

il ponte 1

Preghiere fedeli anche spontanee

1. Signore, vediamo intorno a noi tanti muri che escludono, separano, feriscono i cuori. Sono dettati dalla paura, da interessi meschini, frutto di egoismi. A volte ci scoraggiamo e rimaniamo impotenti. Ti preghiamo Dio della Vita dacci la tua Luce per comprendere che il Vangelo di Gesù ancora oggi è sfida perché dai muri che dividono gli uomini, possiamo costruire dei ponti di fraternità. PREGHIAMO:

Tutti: BEATI I COSTRUTTORI DI FRATERNITA’.

2. Signore, ti preghiamo per i Sinti e Rom che le nostre società continuano ad escludere attraverso leggi, calcoli, sgomberi e tanta indifferenza, anche da parte delle nostre comunità cristiane. Dona loro capacità di resistenza e non far mancare a loro la speranza di affrontare il loro cammino, fiduciosi della tua presenza. PREGHIAMO:

Tutti: BEATI COLORO CHE RESISTONO.

3. Ti ringraziamo Dio dell’amicizia di tanti Rom e Sinti, essi arricchiscono la nostra vita e ci aiutano a comprendere sotto un’altra Luce il Vangelo di tuo Figlio Gesù. Proteggi e sostieni questa amicizia. PREGHIAMO:

Tutti: BEATI I COSTRUTTORI DI AMICIZIA.

4. Per noi qui convenuti a questo Convegno del CCIT affinché la dinamica del Vangelo rafforzi i nostri cammini di vita con i Rom e Sinti e che le nostre diversità, diventino lo stimolo a vivere la convivialità delle differenze nello Spirito della Pentecoste. PREGHIAMO:

Tutti: BEATI I TESTIMONI DEL VANGELO

. Intenzioni libere… Tutti rispondiamo: ASCOLTACI SIGNORE.

Beati i piedi

Beati i piedi di chi condivide Il proprio pane con l’affamato. Di chi si fa solidale con il povero, di chi testimonia la giustizia e la misericordia. Beati i piedi che non si stancano mai di promuovere la verità e la pace, che non misurano e non calcolano, ma tracciano un solco di gratuità, che non si rassegnano, non si fermano di fronte alla fatica della strada alla delusione, al fallimento; Perché poggiano sulla vita del Risorto. Beati i piedi di chi ricerca la profezia. di una parola che illumina la storia, di chi costruisce fraternità e amicizia, in un mondo di esclusioni e pregiudizi. Beati i piedi della quotidianità, messaggeri dell’amore che dà direzione e unità ai frammenti dispersi dell’esistenza preda della molteplicità del tempo. Beati i piedi che aprono strade ancora invisibili, che avanzano portando nel cuore il mistero di una Presenza che è promessa mai compiuta di una PACE piena.

 

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p. Maggi commenta il vangelo di Pasqua

p. Maggi

EGLI DOVEVA RISUSCITARE DAI MORTI

 

Commento al Vangelo della domenica di Pasqua di p. Alberto Maggi

Gv 20,1-9

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

Se Maria di Màgdala si fosse recata al sepolcro un giorno prima, avremmo celebrato la Pasqua un girono prima. Scrive Giovanni nel capitolo 20 “Il primo giorno della settimana”, letteralmente “nel primo dopo il sabato”, “Maria di Màgdala si recò al sepolcro”. Perché Maria di Màgdala non si è recata al sepolcro subito dopo la sepoltura di Gesù, ma ha atteso il primo giorno dopo il sabato? Perché è ancora condizionata dall’osservanza della legge del riposo del sabato. E quindi l’osservanza della legge ha impedito di sperimentare subito la potenza della vita che c’era in Gesù, una vita capace di superare la morte. L’evangelista, attraverso questa indicazione, vuole segnalare ai suoi lettori che l’osservanza della legge ritarda l’esperienza della nuova creazione che viene inaugurata da Gesù. L’espressione “il primo della settimana” richiama infatti al primo giorno della creazione. In Gesù c’è una nuova creazione, quella veramente creata da Dio non conosce la morte, non conosce la fine. Ma la comunità, rappresentata da Maria di Màgdala, è ancora condizionata dall’osservanza della legge. Per questo ritarda l’esperienza della risurrezione. “Si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio”. Le tenebre sono immagine della comunità che ancora non ha compreso Gesù, che si è definito “luce del mondo”, il suo messaggio, la sua verità. “E vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro”. Ebbene la  rima reazione di Maria di Màgdala è correre da Simon Pietro e “dall’altro discepolo”. Gesù aveva detto: «Viene l’ora in cui  disperderete, ciascuno per conto suo»”. Ebbene, l’evangelista attribuisce a questa donna, Maria di Màgdala, il ruolo del pastore che raduna le pecore che si erano disperse. “E annunciò loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!»Non parla di un corpo, ma parla del Signore. E quindi già c’è l’allusione che è vivo questo Gesù. Ebbene, Pietro e l’altro discepolo cosa fanno? Si recano al sepolcro, l’unico posto dove non dovevano andare. Nel vangelo di Luca sarà espresso molto chiaramente dagli uomini che frenano le donne che vanno al sepolcro, «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?»Ebbene Pietro e l’altro discepolo vanno in cerca del Signore nell’unico posto dove lui non c’è, cioè nel luogo della morte. Come Maria, per l’osservanza del sabato ha ritardato l’esperienza di una vita più forte della morte, perché Gesù non può essere trattenuto nel sepolcro, luogo di morte. Lui è vivente. Così i discepoli vanno al sepolcro, l’unico posto dove non si può trovare Gesù. Se si  piange la persona come morta, cioè se ci si rivolge al sepolcro, non la si può sperimentare viva e vivificante nella propria esistenza. Corrono tutti e due i discepoli, giunge per primo il discepolo amato, quello che ha l’esperienza dell’amore di Gesù. Pietro, che ha rifiutato di farsi lavare i piedi e quindi non ha voluto accettare l’amore di Gesù espresso nel servizio, arriva più tardi. Ma l’altro discepolo si ferma e permette che sia Pietro il primo ad entrare. Perché? E’ importante che il discepolo che ha tradito Gesù e per il quale la morte è la fine di tutto – e questo era il motivo del tradimento – faccia per primo l’esperienza della vita. E poi entra anche l’altro discepolo, “vide e credette”. Ma il monito dell’evangelista molto importante è che “non avevano ancora compreso le scritture che cioè egli doveva risorgere dai morti”. La preoccupazione di Giovanni è che si possa credere alla risurrezione di Gesù solo vedendo i segni della sua vittoria sulla morte. No! La risurrezione di Gesù non è un privilegio concesso a qualche personaggio duemila anni fa, ma una possibilità per tutti i credenti. Come? Lo dice l’evangelista. “Non avevano ancora compreso le scritture che cioè egli doveva risorgere dai morti”. L’accoglienza della scrittura, la parola del Signore, nel discepolo, la radicalizzazione di questo messaggio nella sua vita, e la sua trasformazione, permettono al discepolo di avere una vita di una qualità tale che gli fa sperimentare il risorto nella sua esistenza. Non si crede che Gesù è risorto perché c’è un sepolcro vuoto, ma soltanto se lo si incontra vivo e vivificante nella propria vita. 

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la città senza recinti: per vincere il confine del pregiudizio

‘la città senza recinti’

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mercoledì 16 aprile alle ore 17,  presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi Roma Tre (largo B. Marzi 10, ex mattatoio Testaccio), sono stati presentati i risultati della ricerca “Vincere il Confine: nuove strategie e pratiche nella costruzione della città inclusiva ed interculturale del futuro” realizzata dal Laboratorio interdisciplinare di Arte Civica dell’Università degli Studi Roma Tre. Una ricerca/azione su come le nuove generazioni rom e alcuni comitati locali chiedono di vincere il confine del pregiudizio e della marginalità prodotto dai  campi rom. 

Alcune anticipazioni della ricerca:

di Adriana Goni Mazzitelli*

Nel mese in cui si celebra la giornata internazionale dei Rom e Sinti in tutto il mondo, data che ricorda il primo congresso internazionale del popolo rom, tenutosi a Londra l’8 aprile del 1971, a Roma ricercatori, associazioni, comitati di quartiere e famiglie rom danno visibilità a una ricerca/azione promossa nella periferia romana per trovare percorsi reali di uscita dalla logica secuirtaria che nutre l’idea dei campi rom.

La ricerca presentata mercoledì 16 aprile racconta del tentativo di superare quella visione politica che finora ha pensato e ha organizzato i campi rom a Roma come soluzione al “problema” casa.  Ormai non sono soltanto le associazioni che si occupano di  diritti umani internazionali a denunciare l’operato del Comune di Roma per la “concentrazione” della popolazione rom in recinti senza le adeguate condizioni abitative, ma anche altre realtà sociali. Da una parte le nuove generazioni rom che, come racconta questo studio, sono pronte per riprendersi il loro “diritto a vivere la città”,  sopratutto quando  si aprono spazi accoglienti  capaci di promuovere attività rispettose della loro “diversità”. Dall’ altra i cittadini che abitano i quartieri limitrofi ai campi rom, che sono stanchi di vedere lo sperco di soldi pubblici, prodotto da politiche inefficaci di integrazione, che hanno generato solo un  peggioramento delle condizioni umane, fisiche e ambientali dei campi e delle popolazioni che ci vivono e dei  quartieri circostanti.

bimbiLa ricerca  fotografa le condizioni di conflittualità che vivono gli abitanti  nella periferia Est di Roma, dove  il disagio e la paura di confrontarsi,  sono risultato di un territorio nel quale sussitono diverse “enclave di miseria” che alimentano tensioni e incomprensioni. Una città “enclave” è quella dove le scelte politiche sono state orientate a “rinchiudere e sospendere”, alimentando culturalmente la logica del  “rinchiuditi e proteggiti” come segnala nella ricerca Alessandro Petti.  

La città di Roma viene descritta dai protagonisti di questa indagine, come un insieme di “enclave”, dove lo spazio pubblico si riduce e si elimina così la capacità di riunire e rafforzare l’interazione e l’identità delle comunità, cosi come la possibilità di accogliere i nuovi arrivati e decidere insieme il  proprio destino.

Sempre Petti propone un’immagine molto netta della situazione spaziale di organizzazione delle città contemporanee: “Lo spazio contemporaneo può essere descritto e intrepretato attraverso la contrapposizione di due figure l’“arcipelago” e l’“enclave – scrive – L’arcipelago è un sistema d’isole connesse, l’enclave sono semplici isole (…) Se da un lato vi è un élite che gestisce lo spazio dei flussi, vivendo in un mondo arcipelago che percepisce come unico e privo di esterno, dall’altro la sospensione delle regole dell’arcipelago produce vuoti giuridici ed economici, che fanno del sistema di enclave un buco nero, una zona d’ombra….”. (Petti 2007). A Roma continuano a crescere queste zone di sospensione, i campi sono quelle più evidente ma la ricerca fa emergere una segregazione spaziale e sociale che si è creata negli ultimi quarant’anni con una concentrazione di disagio nei palazzoni di edilizia popolare fino alle moderne strutture “temporanee” (Cie, Cpt, ecc.). Mentre le famiglie benestanti si raggruppano e “rinchiudono” scegliendo mezzi di sicurezza quali telecamere o quartieri sorvegliati.

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L’approccio di ricerca-azione ha permesso ai ricercatori di entrare nel cuore della periferia romana ed essere parte attiva della vita quotidiana di questi territori. I metodi etnografici hanno permesso invece di costruire “relazioni intense” con i diversi soggetti del quartiere dando l’opportunità di comprendere i vari sguardi dietro un territorio in apparenza omogeneo.

Per decenni i rom sono serviti da “capo espiatorio” per nascondere il degrado e l’abbandono della città e la mancanza di politiche adeguate a contrastare la marginalità e la  povertà in forma definitiva. Ma ormai è impossibile nascondere la crescita di disagio urbano, basta osservare quotidianamente le persone che per sopravvivere sono costrette a rovistare nei cassonetti,  o all’aumento dei senza dimora e il  moltiplicarsi di occupazioni abitative di famiglie italiane e straniere disperate. Persino la Corte Costituzionale rifiuta lo “stato di emergenza” dichiarato nei confronti delle popolazioni rom, impossibile pensare che una popolazione che a Roma viene censita in 6.800 individui possa sconvolgere una città di tre milioni di abitanti.

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Come spiega Paul Polansky nella prefazione del libro della ricerca, i rom hanno paura di prendere parola perché subiscono violenze permanenti dello Stato,ma le nuove generazioni sorprendono perché fanno parte di un fenomeno nuovo in Europa, che sarebbe un peccato non cogliere. Ovvero la possibilità per le seconde e terze generazioni di rom, e di chi lotta accanto a loro, di trovarsi di fronte a una società interculturale in crescita,  dove la  crisi economica  livella le distinzioni e le  “diversità”. Le contraddizioni del modello capitalista riguardano anche quelli  che lo Stato chiama “cittadini con pieni diritti”, portando grandi masse di popolazione in una situazione di povertà simile a quella che vivono da decenni le popolzioni  rom. (Gheorghe et alt:2013)

Durante la presentazione della ricerca, si illustrerano le diverse condizione di questo “apartheid” dei rom in Italia,  che secondo i ricercatori Francesco Careri e Azzurra Muzzonigro “va oltre la segregazione etnica, sopratutto negli ultimi anni, si riscontrano interventi mirati a costruire forme di segregazione fisica e spaziale,  quali sono  i campi rom, veri e propri ghetti e slum”. Inoltre verrà presentato il progetto Sàr San, che nasce nel 2012, grazie alla collaborazione con la Fondazione Bernard Van Leer, associazioni e università italiane. Il suo principale obiettivo era aprire uno spazio di dialogo e convivenza tra le popolazioni rom e i quartieri della periferia Est di Roma, per migliorare le condizioni di vita dei bambini, giovani e famiglie rom e di tutti gli abitanti del territorio.

La ricerca-azione ha prodotto anche una sperimentazione metodologica innovativa che ha favorito l’utilizzo dell’Arte Civica come come racconta Maria Rocco, con nuovi linguaggi per far emergere bisogni e desideri dei gruppi sociali coinvolti. Attraverso strumenti come la Video-Arte Partecipativa e la Musicarterapia nella Globalità dei Linguaggi sviluppati da Maria Rosa Jijon e Mariana Ferrato, cosi come da Paola Grillo, Nicola Caravaggio e Roberta Ricci, si sono coinvolte direttamene le nuove generazioni rom, facendo emergere le reali problematiche che stanno vivendo e le possibili soluzioni.

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Un altro risultato innovativo del lavoro è stato l’avvio di un percorso per costruire una rete di resilienza cittadina, capace di affrontare le complessità dell’integrazione tra comunità Rom e i problemi della periferia, andando oltre le cronache stereotipate e i pregiudizi. Grazie al lavoro di supporto dell’Università  Roma Tre  con il supporto scientifico di Marianella Sclavi e Marco Brazzoduro si è  attivata una  Rete Territoriale Roma Est per il Superamento dei campi rom. È proprio dal lavoro di queste reti territoriali nasce la  richiesta alle istituzioni di un cambio di rotta urgente, rispetto alle attuali politiche di segregazione dei campi rom presenti nella Capitale. Un superamento che va costruito attraverso ambiti di partecipazione orizzontale e aperti, attivati con linguaggi inclusivi e tempi certi che dimostrino un vero interesse e un “ascolto attivo” nella costruzione di soluzioni a misura di ogni territorio e dei suoi abitanti.

Saranno presentati inoltre casi studio su alcune esperienze in America Latina e Italia, dove sono stati realizzati programmi urbani integrati di miglioramento della qualità abitativa nelle città di popolazioni svantaggiate e di diverse etnie, i cosiddetti “Piani per la pace e la convivenza nella diversità”. Nell’era delle città globali, una delle scommesse più importanti sarà quella di comprendere come affrontare le gravissime conflittualità, che portano ad un aumento della violenza urbana e del degrado ambientale.

La costruzione di città più giuste e con qualità di vita migliore per tutti e tutte, dipenderà in grande misura dal “confronto creativo” (Sclavi 2011), tra le diverse popolazioni, accettando la sfida di aggiornare i meccanismi di costruzione di città che devono avere i suoi cittadini come protagonisti e fare particolare attenzione alle dimensioni umane, culturali e ambientali.

* Dipartimento di Architettura Università degli Studi Roma Tre Laboratorio arti civiche

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“io prete degli zingari”: don Mario

 

don Mario

Don Mario Riboldi
Io prete degli zingari
Da oltre quarant’anni vive in una roulotte e percorre l’Italia per evangelizzare rom e sinti: condivide le usanze dei nomadi e ha tradotto il Vangelo nella loro lingua. Assicura: «Sono un popolo molto religioso»

 

Don Mario, “nomade tra i nomadi”

«Ero prete da un mese e stavo andando in bici a confessarmi, quando ho visto un gruppo di zingari e mi sono chiesto: chi porta il Vangelo a questo popolo? Sono passati 60 anni ed eccomi qua». “Qua” è un piccolo campo di Brugherio (in provincia di Monza), dove monsignor Mario Riboldi, che qualcuno chiama “Mario degli zingari”, vive da vent’anni insieme ad alcune famiglie di sinti tedeschi e italiani e di rom ungheresi. Con lui – cappellaccio nero in testa e baffetti tagliati corti – vive il padre barnabita Luigi Pieraboni, in una roulotte piccola ma accogliente.

All’interno del campo, un container di circa cinque metri per due è stato trasformato in una vera chiesetta. Il tabernacolo richiama la tradizione nomade: è una piccola tenda in stoffa, con i colori del tempo liturgico, mentre la Bibbia è sul trincast, un supporto di tre legni sul quale i rom in passato appoggiavano la padella per cucinare. Qui don Mario e padre Luigi celebrano tutti i giorni la Messa e recitano il Rosario con alcuni abitanti del villaggio di case in legno e roulotte. «Tra pochi giorni partiamo per Salerno, dove seguiamo un gruppo di rom italiani, poi andremo a Cuneo dai sinti piemontesi», mi raccontano. Da decenni, don Mario, brianzolo di 85 anni, gira l’Italia e l’Europa per dedicarsi alla pastorale dei rom e sinti, di cui a lungo è stato l’incaricato nazionale: «Mi presento con la Bibbia in mano e così si cammina».

Il primo a sostenerlo fu l’allora cardinale di Milano Giovanni Battista Montini: «Gli scrissi che avevo conosciuto un gruppo di sinti e si entusiasmò. Nel 1962, lo accompagnai a incontrare un gruppo di zingari croati e abruzzesi che vivevano in tende in un bosco vicino alla mia parrocchia. Disse: “Vi chiederete: cosa viene a fare quest’uomo vestito di rosso in mezzo a voi?”. Poi recitammo l’Ave Maria davanti a un piccolo altare alla Madonna del Rosario, allestito con un tappeto persiano». In quell’occasione, Montini disse a don Mario: «Tra due anni, ti lascio partire». Ma poi accadde l’imprevisto: Montini divenne papa Paolo VI. La faccenda si arenò fino al 1969, quando il cardinal Colombo gli disse: «Va bene, posso lasciarti andare. Vediamo cosa combini». Don Mario lasciò la parrocchia e divenne il primo prete ad andare a vivere tra gli zingari.

Racconta: «Sono un popolo a cui, pur vivendo in Europa, è spesso mancata un’evangelizzazione; ma gli zingari sono profondamente religiosi. Lo vedo ad esempio nel culto verso i defunti. Ho dovuto “superare” la mia mentalità, per penetrare nella cultura di questo popolo così strano, sparso un po’ ovunque in tutto il mondo».

Don Mario ha imparato le usanze degli zingari e la loro lingua, il romanès, per riuscire ad andare fino in fondo nei rapporti. Ha inventato canzoni religiose, ha tradotto i Salmi e il Vangelo di Marco in cinque differenti lingue dei rom e sinti. Spiega: «Dedico grande attenzione alla conoscenza dell’Antico Testamento. Nell’esilio e nelle vicissitudini del popolo ebraico, si possono trovare molti parallelismi con la storia degli zingari, spesso cacciati dai Paesi europei. C’è poi una grande domanda sulla vita dopo la morte, che si accompagna all’idea che i defunti continuino a proteggere i loro cari. Spesso dicono: “Se non ci fossero stati i miei morti e Dio, sarei morto in quell’incidente”».

«Non solo il missionario porta, ma riceve molto. L’incontro profondo ti mette in crisi, perché non ti senti più l’uomo perfetto che arriva e spiega tutto. Avvicinando popolazioni diverse dalla propria, si impara a essere un po’ più universali, un po’ più “cattolici”. Un pizzico, perché in realtà si rimane sempre troppo concentrati su se stessi». Per esempio, si impara ad avere una vita meno frenetica, con meno ansia del risultato: «Ricordo di aver accompagnato un prete in un campo per degli incontri: la prima volta c’erano 40 rom, la seconda 20 e poi 4. Se ne andò sconsolato. Errore! Perché i 40 volevano il prete, mentre i 4 cercavano Dio: non sempre la ricerca coincide…».

In Italia, ci sono una quindicina di preti e suore che vivono tra gli zingari, ma don Mario sottolinea un’altra realtà importante, quella delle vocazioni tra i sinti e i rom: «Fra preti, suore e diaconi permanenti zingari, ne conosciamo 170, di cui ben 40 in India».

Tra i gitani c’è anche un martire della fede: Zeffirino Jiménez Malla, ucciso durante la Guerra civile spagnola (vedi box in alto). Anche qui, c’è lo zampino di don Mario: «Ne avevo sentito parlare nel 1975, ma le cose da fare erano tante. Ne parlai con il cardinal Martini, che mi disse: “Datti da fare”. Con padre Luigi andammo in Spagna per raccogliere la sua storia, ma il vescovo della diocesi spagnola ci disse che mancava tutto: il postulatore, i soldi per sostenere le spese della causa… Anche se non avevo né l’uno, né gli altri, gli dissi: “Andiamo avanti, ci pensiamo noi”. Così, nel 1997, Zeffirino fu proclamato beato e a lui sono ora dedicate chiese in tutta Europa».

Testo di Stefano Pasta

 

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il messaggio del Vaticano al ccit 2014

 

Dal Vaticano, 2 aprile 2014

Messaggio del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti ai Membri del Comité Catholique International pour les Tsiganes (CCIT)

(Cavallino Treporti, Italia, 4— 6 aprile 2014)

sinti oggi

Caro Padre Dumas,
Cari Membri del Comitato, Cari Partecipanti,

Mi dispiace di non poter essere presente ai lavori del vostro Incontro come auspicato dal vostro Presidente. Vi trasmetto tuttavia un caloroso saluto ed esprimo profondo interesse per l’argomento che avete scelto di trattare: “Abbattere i muri dell’isolamento e dell’esclusione: sfida evangelica di una dinamica sociale.”

Nel nostro mondo globalizzato, infatti, si continuano ad erigere muri che dividono i popoli dello stesso continente, genti dello stesso Paese o persone della medesima città. Anche tra i Paesi Europei, alcuni sono tuttora negativamente influenzati nelle loro scelte politiche verso i Rom, ai quali siete vicini nei vostri rispettivi impegni pastorali.

Gesù, portando la buona notizia agli uomini, si è fatto anche carico delle loro condizioni. Ha aperto le porte, ha abbattuto le mura di divisione e di inimicizia, come dimostra nell’incontro con la Samaritana, al pozzo di Giacobbe (cfr. Gv. 4, 1 — 42). Egli fa cadere un’antica separazione fra due popoli vicini, proponendo una cultura dell’incontro, basata sulla sincerità del dialogo.

Giovanni Paolo II, esortando a costruire un mondo aperto ed inclusivo, libero dalle paure e dalle separazioni, diceva: “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte… I … i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa ‘cosa è dentro l’uomo’. Solo lui lo sa!” (Omelia dell’inizio del suo Pontificato, 22 ottobre 1978, n. 5). Proprio l’anno scorso avete dedicato il vostro Incontro al tema dell’apertura e dell’accoglienza. La vita degli Zingari a volte sembra un enigma ma Cristo, che muove i vostri cuori verso di loro, sa cosa c’è dentro l’uomo, e ve lo rivela come un dono prezioso nell’amicizia che forgiate con loro. Negli anni avete maturato la consapevolezza che la storia degli Zingari “è una storia sacra”, come quella di tutti gli uomini fatti “a immagine di Dio”.

La sfida che affrontate con coraggio evangelico nelle vostre attività pastorali dimostra che per abbattere i muri si comincia nel cuore, primo spazio dove includere l’altro, e finché i cuori non saranno aperti, non sarà facile realizzare una società inclusiva. Questo momento di riflessione vi offre quindi l’opportunità di mettere insieme le vostre energie per creare una dinamica sociale in cui le culture diverse possono vivere insieme.

Benedetto XVI, durante l’Udienza ai rappresentanti di diverse etnie di Zingari e Rom, dopo avere ricordato la loro dolorosa storia, ne descriveva così la situazione odierna: “Oggi, grazie a Dio […], nuove opportunità si aprono davanti a voi, mentre state acquistando nuova consapevolezza […] Molte etnie non sono più nomadi, ma cercano stabilità con nuove aspettative di fronte alla vita. La Chiesa cammina con voi e vi invita a vivere secondo le impegnative esigenze del Vangelo confidando nella forza di Cristo, verso un futuro migliore […} Vi invito, cari amici, a scrivere insieme una nuova pagina di storia per il vostro popolo e per l’Europa! La ricerca di alloggi e lavoro dignitosi e di istruzione per i figli sono le basi su cui costruire quell’integrazione da cui trarrete beneficio voi e l’intera società. Date anche voi la vostra fattiva e leale collaborazione, affinché le vostre famiglie si collochino degnamente nel tessuto civile europeo! Numerosi tra voi sono i bambini e i giovani che desiderano istruirsi e vivere con gli altri e come gli altri” (Allocuzione ai Rappresentanti di diverse etnie di Zingari e Rom, 11 giugno 2011).

Tutto questo naturalmente richiede tempo e voi, cari operatori pastorali, avete saggiamente adottato la linea della fede e della speranza che aiutano a fare tutto con la pazienza che porta agli esiti attesi. Papa Francesco, nell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, parla di un tempo che supera lo spazio. Un tale principio, scrive il Papa, “permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione di risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone”. Prosegue dicendo che “è un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo” (n. 223). Si, l’impegno per i Rom chiede questa pazienza, senza la quale è facile credere che tutto sia inutile. Gli Zingari hanno bisogno dell’umanità delle società in cui vivono per sentirsi membri della famiglia umana, usufruendo dei diritti di cui godono gli altri membri della comunità nel rispetto della loro dignità e della loro identità (cfr. Orientamenti per una Pastorale degli Zingari, n. 48). Questo può essere il modo con cui affrontare alcune questioni che restano ancora una sfida per l’Europa, culla dei diritti umani. C’è bisogno da parte di tutti di un lavoro tenace e paziente. La Chiesa può essere d’ispirazione e può far confluire gli sforzi in un impegno comune per affrontare i seguenti dilemmi che sono alla base dei disagi umani dei Rom:

1. Molti Zingari vivono ancora in condizioni abitative precarie, dovute a problemi economici aggravati dalla crisi. Oltre alle consuete sistemazioni, molte “famiglie abitano in alloggi sociali sovraffollati”. Vivere nelle baraccopoli e sui marciapiedi delle città, soggetti all’inquinamento, nei pressi delle autostrade e delle zone industriali, abitare in alloggi fatiscenti “senza acqua potabile, né elettricità, né sistema di raccolta dei rifiuti”, è uno scandalo che non si può ammettere. Alcuni vorrebbero uscirne, ma spesso incontrano enormi difficoltà che affievoliscono la loro volontà, per cui ricadono nel loro status quo.

2.In molti Paesi europei ci sono differenze tra gli indicatori di salute dei Rom e quelli della popolazione maggioritaria; il fatto che non dispongano di documenti di identità complica l’accesso ai servizi sanitari ordinari, senza dimenticare le discriminazioni che in alcuni casi subiscono dagli operatori sanitari, come i medici di base che rifiutano di recarsi nei quartieri o nei campi rom.

3. Inoltre, i Rom affrontano difficoltà nell’accesso all’istruzione. In Europa, la metà dei bambini Rom che ha l’età per frequentare la scuola non è mai stata scolarizzata; il 50% degli adulti è analfabeta; in molte regioni europee i bambini Rom non hanno un’istruzione qualificata, sono esclusi dal tessuto sociale e dal dibattito politico e culturale, nonostante siano europei. La situazione logistica delle loro abitazioni, la povertà estrema, i pregiudizi e .le loro tradizioni familiari li inducono spesso all’abbandono scolastico.

4. Essi incontrano anche enormi difficoltà nel campo del lavoro. Spesso sono discriminati perché non hanno un’istruzione sufficiente e non possono competere con altri lavoratori maggiormente qualificati. Il più delle volte sono esclusi proprio perché sono Zingari. Tutto questo non di rado li induce alla malavita, alla mendicità e ad attività pericolose per la salute.

Il Consiglio d’Europa promuove tutte le esperienze che si sono rivelate positive in questo campo. Queste pratiche sono portate avanti da mediatori tra i Rom e le popolazioni maggioritarie, messe in atto a livello locale e proposte poi a dimensione più ampia. Per quanto riguarda l’educazione, è interessante l’esempio della ex-Repubblica jugoslava di Macedonia con il progetto “Inclusione dei bambini rom nell’educazione prescolare” iniziato nel 2006. Lo stesso vale per l’Albania e la Slovacchia. Buona anche l’esperienza della Spagna che indica le tappe da compiere in questa mediazione. Valida per la loro integrazione nel settore della salute l’esperienza della Bulgaria.

Infine, il documento “Orientamenti per una Pastorale degli Zingari” resta per voi un riferimento fondamentale, da sfruttare ancora al meglio per il vostro servizio in mezzo a questo Popolo, perché offre linee importanti che sono frutto del lavoro comune.

Cari fratelli e sorelle, non sono forse queste le sfide da affrontare? E non è forse questa la dinamica di cui c’è bisogno, cioè dare spazio e tempo ai sogni degli Zingari e motivarli perché possano emergere? I Rom hanno il diritto di essere riconosciuti almeno come minoranze etniche nei Paesi in cui vivono, dato che nell’Unione Europea sono la minoranza più numerosa. La Chiesa ha il compito di portare il Vangelo di Gesù in mezzo a loro, ma anche di sostenere il loro sogno d’integrazione che passa per l’educazione, la salute, il lavoro e l’alloggio. Tutto ciò in collaborazione con le persone di buona volontà.

Vi auguro fruttuosi giorni di lavoro e che Dio vi benedica tutti!

Antonio Maria Cardinale Vegliò Presidente

Joseph Kalathiparambil Segretario

 

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la bellezza di una vera carezza

 

una bella riflessione di L. Boff sulla carezza che quando è vera e autentica diventa ‘essenziale’, cioè veicola tutta la persona,”la carezza è essenziale quando si trasforma in una attitudine, in un modo-di-essere che qualifica la persona nella sua totalità, nella psiche, nel pensiero, nella volontà, nella interiorità, nelle relazioni”
“è urgente al giorno d’oggi riscattare negli esseri umani la dimensione della carezza essenziale”

  

Perché diciamo carezza essenziale? Perché vogliamo distinguerla dalla carezza come puro moto psicologico, in funzione di un volersi bene fugace e senza storia. La carezza-emozione non abbraccia tutta la persona. La carezza è essenziale quando si trasforma in una attitudine, in un modo-di-essere che qualifica la persona nella sua totalità, nella psiche, nel pensiero, nella volontà, nella interiorità, nelle relazioni.
L’organo della carezza è, fondamentalmente, la mano: la mano che tocca, la mano che consola, la mano che stabilisce relazioni, la mano che culla, la mano che porta serenità. Ma la mano è più che una mano. E’ l’intera persona che attraverso la mano e nella mano rivela un modo-di-essere affettuoso. La carezza tocca l’essere umano nel profondo, là dove è situato il Centro della persona. Affinché la carezza sia veramente essenziale dobbiamo coltivare l’io profondo, quella ricerca del più intimo e vero in noi e non soltanto l’ego superficiale della coscienza sempre piena di preoccupazioni.
La carezza che emerge dal Centro offre integrazione e fiducia. Da lì il significato di accarezzamento. Nell’atto di accarezzare un bambino, la madre gli comunica l’esperienza più orientatrice che esista: la fiducia fondamentale nella bontà della vita; la fiducia che, in fondo, nonostante le numerose distorsioni, tutto ha senso; la fiducia che è la pace, e non un incubo, la realtà più vera; la fiducia di essere accolti nel grande Utero.
Come anche la tenerezza, la carezza esige totale altruismo, rispetto per l’altro e rinuncia a qualsiasi altra intenzione che non sia quella dell’esperienza di voler bene e di amare. Non è un contatto di pelle, ma un investimento di carezza e di amore attraverso la mano e la pelle, pelle che è il nostro io concreto.
L’affetto non esiste senza carezze, tenerezza e premure, così come una stella ha bisogno di un’aura per brillare, allo stesso modo l’affetto ha bisogno della carezza per sopravvivere. E’ la carezza della pelle, dei capelli, delle mani, del viso, delle spalle, dell’intimità sessuale che dona concretezza all’affetto e all’amore. È la qualità della carezza che impedisce all’affetto di essere bugiardo, falso o dubbio. È la carezza essenziale come socchiudere dolcemente la porta. Non esiste carezza nella violenza quando si sfondano porte e finestre, cioè nell’invasione dell’intimità della persona.
Lo psichiatra colombiano Luis Carlos Restrepo, che ha scritto un bel libro su «Il diritto alla tenerezza» (Vozes 1998), dice con precisione: «La mano, organo umano per eccellenza serve tanto per accarezzare quanto per afferrare. Mano che afferra e mano che accarezza sono due facce estreme delle possibilità di un incontro Inter-humano”.
In una riflessione culturale più ampia, la mano che afferra dà corpo al modo-di-essere degli ultimi quattro secoli della cosiddetta modernità.
L’asse articolatore del paradigma moderno è la volontà di afferrare tutto per possedere e dominare. L’intero continente latino americano fu afferrato e praticamente decimato dall’aggressione militare e religiosa degli iberici. Poi venne l’Africa, la Cina, tutto quello che si può afferrare, fino alla Luna.
I moderni afferrano dominando la natura, sfruttando i suoi beni e servizi senza nessuna considerazione di rispetto dei suoi limiti e senza dar-le tempo di riposo per potere riprodurre. Oggi cogliamo i frutti avvelenati di questa pratica senza alcuna premura e lontana da qualsiasi sentimento di carezza verso quello che vive e è vulnerabile.
Afferrare è l’espressione di potere su, di inquadramento dell’altro o delle cose al mio modo-di-essere.
Se osserviamo attentamente, non è avvenuta una mondializzazione, nel rispetto delle culture nella loro ricca diversità. Quello che è avvenuto si chiama occidentalizzazione del mondo, e nella sua forma più pedissequa: una amburgherizzazione dello stile di vita nordamericano imposta a tutti i quadranti del pianeta.
La mano che accarezza rappresenta l’alternativa necessaria: il modo-di-essere-cura, dato che “la carezza è una mano rivestita di pazienza che tocca senza ferire e ti lascia per permettere la mobilitazione dell’essere con il quale entriamo in contatto” (Restrepo).
È urgente al giorno d’oggi riscattare negli esseri umani la dimensione della carezza essenziale.
Essa sta dentro di noi tutti, sebbene coperta da un grosso strato di cenere di materialismo, di consumismo e di futilità. La carezza essenziale ci restituisce la nostra umanità perduta. Nel suo significato migliore rafforza pure il precetto etico più universale: trattare umanamente ogni essere umano, cioè con comprensione, con accoglienza, con premura e con carezza essenziale.
Leonardo Boff
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il primo battesimo di una coppia gay argentina

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

Argentina, ecco il primo battesimo per la figlia di una coppia gay

un collaboratore di Bergoglio a Buenos Aires spiega le motivazioni secondo le quali il Papa lotta per non escludere nessun bambino dal
Sacramento, prescindendo dalla situazione dei genitori

 «Se la persona viene a chiedere il battesimo, non c’è una mozione dello Spirito? E’ quello che in teologia chiamiamo grazia attuale ad aver mosso il cuore. Come l’etiope, negli Atti degli Apostoli, quando camminava e diceva: “Qua c’è dell’acqua. Perché non mi battezzi?”», ha spiegato. «Se un genitore chiede il battesimo per suo figlio, noi come facciamo? Non glielo diamo? Francesco dice che noi siamo ministri, non amministratori nel senso burocratico del termine. Nella mia parrocchia, qualsiasi giorno ci si può battezare, in qualsiasi messa. Sarebbe da matti non farlo. Poi nessuno può venire a criticare e dire che la gente non si battezza, perché anche questa è una contraddizione», ha detto. Ha raccontato che l’arcivescovo Bergoglio «si arrabbiava» quando veniva a sapere che in certe parrocchie, per qualche ragione, non si battezzava un bambino. Nel caso delle mamme single, soleva dire: «Se ha lottato per avere il figlio, per
non abortire, e poi noi non glielo battezziamo… Questa è una cultura che promuove immediatamente l’aborto: una mamma dice no all’aborto e quando vuole battezzarlo non ci riesce».

(Vatican Insider)

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il sindaco Marino: “mai più chiamarli ‘nomadi’ “

Marino

Roma, il sindaco Marino abolisce il termine “nomadi” dagli atti ufficiali

Il Campidoglio emana una circolare dove si invita a utilizzare d’ora in poi i corretti termini “Rom, Sinti e Caminanti” come primo passo per superare le discriminazioni

Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha deciso di abolire nelle comunicazioni istituzionali e negli atti amministrativi, il termine “nomadi”. “Chiedo che d’ora in poi – ha scritto in una circolare – che in luogo del riferimento al termine ‘nomadi’ sia più correttamente utilizzato quello di ‘Rom, Sinti e Caminanti'”. Il sindaco ritiene la scelta un passo per superare le discriminazioni.

“Credo che uno dei fattori centrali per superare le discriminazioni sia quello culturale – continua nella circolare -, affinché l’approccio metodologico di tipo emergenziale possa essere abbandonato a favore di politiche capaci di perseguire l’obiettivo dell’integrazione. In questo processo anche la proprietà terminologica utilizzata può essere, ad un tempo, indice e strumento culturale per esprimere lo spessore di conoscenza e consapevolezza degli ambiti su cui si è chiamati ad intervenire”.

Il sindaco auspica che “anche attraverso questa apparentemente semplice attenzione terminologica, possa essere testimoniata la considerazione che l’amministrazione capitolina rivolge a tutte le persone che vivono nel suo territorio. Un atto simbolico per il superamento di ogni forma di discriminazione

Ago

la reazione immediata e spontanea di p. Agostino Rota Martir che vive quotidianamente insieme a diverse famiglie rom – ‘nomadi’ solo perché ogni giorno rischiano di esserlo perché mandate via dalle forze dell’ordine come ricatto per non accettare passivamente norme e imposizioni per il loro ‘inserimento’ – non è molto positiva (ma se in genere ci indovina, eccome!, questa volta mi sento di dare un pò di credito al sindaco Marino il quale se per il 90% lo ha senz’altro fatto come mossa politica, almeno per il 10% credo che lo abbia fatto per convinzione, avendo peraltro assunto quella decisione – la prima in assoluto in Italia – dopo un incontro con l’associazione 21 luglio nel quale ha mostrato molta disponibilità al dialogo, riconoscendo quindi la propria ignoranza in materia e l’apertura, almeno nelle belle intenzioni, al superamento di tutto ciò che costituisce barriera culturale o materiale nei confronti dei rom):

Secondo me gran parte delle iniziative fatte x decreto o ordinanze lasciano desiderare..fumo negli occhi che spesso accontentano e fanno lustro ai soliti noti interessati a ..
Ciao ago

e dopo averci pensato un po’ sopra così ha … sbottato, articolando meglio il suo discorso (trovandomi, peraltro, molto d’accordo, riconoscendo generosamente la buona volontà del sindaco a differenza di tanti – o tutti – gli altri:

Il sindaco Marino e i Rom..non più nomadi?

Il sindaco Marino folgorato sulla strada di Damasco? Oppure su una di quelle strade-sentieri che conducono a qualche accampamento di nomadi? (pardon ora per ordinanza bisogna dire rom)..avrei preferito proprio su una di queste, perche’ la differenza non e’ da poco.

Ad ogni modo e’ apprezzabile da parte di un sindaco, la volonta’ di capire meglio e di lasciarsi “convincere” da chi la realta’ dei  rom la  conosce anche dal di dentro perche’ la frequenta.

M’auguro che l’esempio del sindaco di Roma trovi emulatori tra i suoi colleghi.

Ma permettimi anche di difendere e contestualizzare il mio sintetico intervento,  e che ribadisco: l’ordinanza di questo genere serve a ben poco e non mi piace tanto, come non mi sono piaciute le ordinanze anti accattoni, anti borsone, anti “vu cumprà”.. A quando anche un’ ordinanza che obblighi il pellegrino a fermarsi a Roma?

I rom sono nomadi? Quanti studi, pubblicazioni e conferenze..Loro, i rom cosa dicono,  cosa pensano? Due attivita’ da distinguere e da analizzare con attenzione e comprensione. Buon per il sindaco che attraverso una rapida ordinanza risolve una questione che e’ oggetto di discussioni, ricerche, dibattiti di carattere antropologico e sociale da almeno 3 decenni, in Italia e in Europa. Ad esempio in Francia la questione manco si pone, perche’ e’ prevista la possibilita’ di viaggiare e spostarsi e le amministrazioni locali devono garantire e offrire alle “persone viaggianti” (siano cittadini francesi, rom, sinti, tedeschi..) strutture e condizioni eque e rispettose per tutti, sia per chi sceglie di muoversi e per chi e’ stabile. Sono tanti i Rom in Francia che nomadizzano in questo modo, tanti altri hanno scelto di stare in case, appartamenti o su terreni privati: e’ una loro scelta! Oppure in campi Rom (nomadi) del tutto identici ai nostri!!

Smettiamola di far credere che i campi Rom (nomadi) esistano solo in Italia.  Anche in Inghilterra, Irlanda ed America ce ne sono, e tra l’altro  sono anche oggetto di trasmissioni televisive molto seguite, ambientate in veri e propri campi ..nomadi! (“Il mio grosso grasso matrimonio Gipys” trasmesso su Real Time)

 

Un nomade ha forse meno diritti e doveri di un rom o di qualsiasi essere umano?

Come trovo un po’ strano che in una societa,’ che spesso sollecita la mobilita’ (flessibilita’) in nome del mercato del lavoro o per la globalizzazione (cosa non facciamo per essa), quante realta’, popoli e merci in continuo movimento, eppure vogliamo ad ogni costo i rom sedentari, costi quel che costi: per qualcuno la mobilita’ e’  quasi un dogma, quella dei rom e’ invece demonizzata, condannata e sospettata. E’ forse così altrove? Perché in Italia l’integrazione deve passare per forza solo ed esclusivamente dalla sedentarizzazione?  Possibile che tutte le Associazioni vanno in questo senso? Cosa ne ricavano?

Pochi anni fa (non il secolo scorso) delle famiglie rom di Coltano avevano espresso la loro volonta’ di continuare a vivere in roulotte, non gli andava di vivere in appartamento, ma non c’e’ stata ragione e in nome della cosi detta integrazione, indotte ad abitare in appartamento.

So che ci sono amministrazioni che si rifiutano di finanziare l’acquisto di roulotte, preferendo di gran lunga spendere per le case e appartamenti, sempre in nome dell’integrazione, ma che di fatto sono delle imposizioni di modelli e stili di vita che non sempre coincidono con quelli dei rom.  Per una famiglia rom vivere in una casa,  di fatto e’ diverso da come vive una famiglia italiana.

So di correre il rischio di essere definito “ideologico” (oggi chi non si allinea e’ cosi che e’ tacciato): mi chiedo se oggi i rom sono nelle condizioni di scegliere liberamente e serenamente il loro futuro.

So che ci sono rom che la loro vita si e’ complicata anche perche’ hanno smesso di nomadizzare, altri invece che vivono tranquilli in case e che poi lasciano quando ritengono utile riprendere a girare. Tanti hanno avuto il privilegio o la fortuna di averne una, a differenza di altri che la sognano, altri invece sanno accontentarsi di una baracchina o di una roulotte.

Sono differenti i motivi che spingono gruppi di rom ad essere o diventare per dei periodi dei “nomadi”: per lavoro, per opportunità, per regolarizzare i documenti, per motivi di famiglia, per paura dei servizi sociali che prendano i loro figli, semplicemente per cambiare aria per un certo periodo, per le continue minacce di espulsione e di sgomberi, per delle liti tra famiglie.. Spesso cio’ che accomuna la maggioranza dei rom, nonostante le loro differenze e’ proprio quello di dichiararsi sempre come “non nomadi”, un po’ per convenienza ma nello stesso tempo si sentono liberi dai nostri schemi, consapevoli e fieri anche della propria diversita’.

 

Certo e’ che il nomadismo dei rom, tipico di 40/50 anni fa’ non e’ piu’ quello di oggi; cosa ridicola riproporlo o solo pensarlo in modo nostalgico, anche se in genere l’immaginario collettivo piace pescare proprio nel mondo fantasioso del rom nomade.

Il nomadismo non e’ l’altra faccia della sedentarieta’ che ci sta un pochino stretta?

Forse ci vorrebbe un altra circolare per scoraggiare questo immaginario mondo gitano presente in ognuno noi: e i rom mi piacciono anche perche’ il loro “nomadismo” sfida e provoca le nostre immobilita’..pensiero nomade!

Una societa’ senza nomadi (rom, pellegrini, profughi..) forse e’ piu’ povera, senz’altro piu’ rannicchiata su se stessa.

 

Ciao Ago

10 aprile 2014 – campo  Rom di Coltano – Pisa

 

 

 

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denunciati 50 genitori rom – le osservazioni di p. Agostino

Agostino

sono stati denunciati ben 50 genitori di altrettanti bimbi rom dell’area che li accoglie – con infinite contraddizioni –  nel comune di Pisa e nella quale e coi quali p. Agostino Rota Martir della diocesi di Pisa (e membro dell’U.N.P.R.eS., cioè di un organismo ecclesiale per la pastorale tra i rom e i sinti) vive da tanti anni condividendo la loro vita, gioie, limiti, contraddizioni e quant’altro la concreta condivisione comporta

non credo che abbia meno titolo di altri – politici e stampa al seguito – ad esprimere una valutazione su questo fatto essendo il più ‘prossimo’ a loro: ritengo quindi imprescindibile oltreché interessante ascoltare la sua ‘lettura ‘delle cose

di seguito, dopo la ricostruzione giornalistica, le sue amare e preoccupate osservazioni:

 

Non mandano i figli a scuola: denuncia per 55 genitori rom

 

        PISA
‘il tirreno’ 28 marzo 2014
Non mandavano i loro figli a scuola. Non per qualche giorno. Da settimane e in alcuni da mesi. Con l’accusa di      inosservanza agli obblighi dell’istruzione elementare obbligatoria sono stati denunciati cinquantacinque genitori. Tanti      sono recidivi. L’indagine è stata condotta dai carabinieri della Compagnia, guidata dal maggiore Stefano Bove e      ha impegnato i militari delle stazioni di Pisa, Vecchiano, San Giuliano Terme e Calci. Durante le verifiche nelle scuole elementari      e medie, alle quali hanno collaborato tutti i dirigenti scolastici interessati, è stato accertato che circa trenta bambini      minorenni iscritti per l’anno scolastico in corso, non hanno frequentato le lezioni. Tutti i casi accertati riguardano famiglie      domiciliate a Pisa all’interno dei campi nomadi tra Riglione, Bigattiera e Coltano. I carabinieri hanno anche trasmesso informative      ai servizi sociali comunali per segnalare la situazione. Dietro il fenomeno della dispersione scolastica, infatti, spesso      si celano situazioni di disagio sociale e di degrado familiare. Contesti difficili che gravano sul regolare sviluppo del minore      e sulla sua effettiva integrazione all’interno del tessuto sociale. «Non di rado, infatti, i minori che non vengono avviati      alla scuola dell’obbligo, sono sfruttati per commettere reati, soprattutto di tipo predatorio, ma anche dislocati ai vari      incroci e dinanzi ai centri commerciali per l’accattonaggio» spiegano al comando dell’Arma. Non sono mancati, anzi      sono risultati piuttosto frequenti, i casi in cui i minori sono stati sorpresi alla guida di veicoli non coperti da assicurazione      e senza aver preso la patente. Nel 2013 la Compagnia di Pisa ha deferito sessantaquattro persone per lo stesso reato: non      aver inviato i figli a scuola nell’anno scolastico 2012/2013. Per il sindaco Marco Filippeschi «non si può in alcun      modo tollerare una situazione del genere, a danno di bambini e bambine. Allo stesso modo non si possono, né si devono      tollerare le illegalità che gravano sulla nostra città, lasciata da sola a convivere con squilibri evidentissimi      e gravissimi e reati che si ripetono quali maltrattamenti di minori, furti, smantellamenti di impianti per carpire il rame      e produzione di discariche abusive. Pisa chiede aiuto e chiede legalità»

Non mandano i loro figli a scuola Cinquanta rom denunciati

Il comandante dei carabinieri: «Spesso i minori che non vengono avviati alla scuola dell’obbligo sono sfruttati per commettere reati»

Cinquantacinque genitori o esercenti la patria potestà di una trentina di minori che vivono nei campi nomadi di Pisa sono stati denunciati dai carabinieri per inosservanza degli obblighi dell’istruzione elementare obbligatoria al termine di una serie di controlli mirati sul territorio in collaborazione con i dirigenti scolastici. Molti dei nomadi denunciati sono recidivi per lo stesso reato per essere stati denunciati lo scorso anno al termine di controlli analoghi.

NOTA AI SERVIZI SOCIALI 

Parallelamente, spiega il maggiore Stefano Bove, comandante della Compagnia di Pisa dei carabinieri, «sono state trasmesse note informative ai servizi sociali comunali affinchè adottino i provvedimenti opportuni, perchè dietro il fenomeno della dispersione scolastica spesso si celano situazioni di disagio sociale e di degrado familiare, che gravano sul regolare sviluppo del minore e sulla sua effettiva integrazione all’interno del tessuto sociale». «Non di rado – conclude Bove – i minori che non vengono avviati alla scuola dell’obbligo, sono sfruttati per commettere reati, soprattutto di tipo predatorio, ma anche dislocati ai vari incroci e dinanzi ai centri commerciali per l’accattonaggio».

le osservazioni di p. Agostino

Ci risiamo. L’anno scorso al campo della Bigattiera (Marina di Pisa) il comune toglie il servizio scuolabus, poi toglie luce ed acqua, perchè i rom devono convincersi che il campo è abusivo, anche se tutte le famiglie sono state indirizzate lì dal comune stesso nell’arco di diversi anni. Due anni fà circa l’allora assessore politiche sociali Ciccone, aveva invitato le scuole a non accettare i bambini nelle scuole per non far credere ai genitori di poter stare in un campo “abusivo”.

 
Poi c’era stata anche la decisione presa dal consiglio comunale che impegnava il comune a trovare un percorso condivisibile: riallaccio dell’acqua, luce e servizio scuolabus. Ma fino ad oggi niente, un campo con circa 130 persone senza luce (usano generatori e con i rischi che questo comporta), e l’acqua che arriva a intermittenza.
Nessuno che osa scandalizzarsi..se non del fatto che bambini rom non vanno a scuola.
 
“È un po’ come se uno ti sfila il portafoglio mentre sei in fila alla cassa e poi ti si addita al pubblico come quello che fa la spesa senza pagare.”
 
Ciao Ago
SECONDO APPELLO PUBBLICO PER I BAMBINI E LE BAMBINE DELLA BIGATTIERA

Anche quest’anno molti bambini e molte bambine della Bigattiera hanno avuto una frequenza scolastica saltuaria. Anche quest’anno le loro famiglie sono state denunciate dalle forze dell’ordine per evasione scolastica. Il sindaco ha commentato che “ è inaccettabile, non si può in alcun modo tollerare una situazione del genere, a danno di bambini e bambine”. Siamo perfettamente d’accordo con lui. Proprio per questo abbiamo spinto il primo agosto scorso il Consiglio Comunale ad approvare all’unanimità un Ordine del Giorno per ripristinare il pulmino scolastico, riallacciare l’utenza elettrica e aumentare la pressione dell’acqua con un’autoclave. Si può pensare che i bambini vadano a scuola sporchi, al buio e a piedi lungo una strada pericolosa come la Bigattiera? Il primo quadrimestre è passato e nulla è cambiato. 40 bambini e bambine stanno per perdere il loro terzo anno scolastico consecutivo, in barba alla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, alla legge italiana, alla Regione Toscana e al Consiglio Comunale di Pisa. Chiediamo quindi al Sindaco e alla Giunta di rispettare gli impegni presi e ripristinare al più presto i servizi dovuti a quei bambini e a quelle bambine, affinché possano subito riprendere a frequentare la scuola

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il primo battesimo per una coppia gay

papa-francesco

 Argentina, ecco il primo battesimo per la figlia di una coppia gay

 

Un collaboratore di Bergoglio a Buenos Aires spiega le motivazioni secondo le quali il Papa lotta per non escludere nessun bambino dal Sacramento, prescindendo dalla situazione dei genitori Andrés Beltramo Álvarez Città del Vaticano.

Si chiama Umma Azul ed è la figlia di una coppia composta tra da due donne. Il prossimo sabato, 5 aprile, sarà battezata nella cattedrale di Córdoba, città nel centro dell’Argentina. Secondo la stampa locale la madre e la compagna di lei, Soledad Ortiz e Karina Villaroel, dovrebbero ricevere anche la cresima lo stesso giorno,  prima del primo sacramento per la piccola, impartito dal parroco Carlos Varas.  

In questa chiesa i battesimi si celebrano le domeniche, ma questo sarà individuale, secondo le istruzioni del vescovo Carlos Ñáñez, che ha anche fornito delle indicazioni particolari riguardo all’atto battesimale. «Ho avuto un’udienza con il monsigniore e lui mi ha confermato che non ci sarà alcun problema in Cattedrale», ha detto Karina. Il religioso ha anche dato qualche consiglio riguardo i padrini (un amico della famiglia) e le due madrine (una di loro è la presidente argentina Cristina Fernández de Kirchner).

Il caso della coppia in questione ha sollevato diverse polemiche, sopratutto perché Villaroel, che non è la madre naturale, vuole che la polizia della provincia dove lei lavora (è una poliziotta), le riconosca un permesso di maternità per quattro mesi.

Loro, sposate poco più di un anno fa grazie alla legge del “matrimonio igualitario”, sono state la  prima coppia nel territorio di Córdoba. «Se Bergoglio non fosse stato eletto Papa, il battesimo sarebbe stato molto più difficile», hanno riconosciuto alcune fonti ecclesiastiche.

Quando era arcivescovo di Buenos Aites, l’attuale pontefice ha lottato per non escludere nessun bambino dal primo Sacramento, senza prendere in considerazione la situazione dei genitori. Questa richiesta è il risultato di una riflessione teologica profonda, ha spiegato a Vatican Insider il sacerdote Javier Klajner, responsabile della pastorale giovanile all’epoca e stretto collaboratore di Bergoglio come membro del Consiglio Presbiteriale.

«Se la persona viene a chiedere il battesimo, non c’è una mozione dello Spirito? E’ quello che in teologia chiamiamo grazia attuale ad aver mosso il cuore. Come l’etiope, negli Atti degli Apostoli, quando camminava e diceva: “Qua c’è dell’acqua. Perché non mi battezzi?”», ha spiegato.

«Se un genitore chiede il battesimo per suo figlio, noi  come facciamo? Non glielo diamo? Francesco dice che noi siamo ministri, non amministratori nel senso burocratico del termine. Nella mia parrocchia, qualsiasi giorno ci si può battezare, in qualsiasi messa. Sarebbe da matti non farlo. Poi nessuno può venire a criticare e dire che la gente non si battezza, perché anche questa è una contraddizione», ha detto.

Ha raccontato che l’arcivescovo Bergoglio «si arrabbiava» quando veniva a sapere che in certe parrocchie, per qualche ragione, non si battezzava un bambino. Nel caso delle mamme single, soleva dire: «Se ha lottato per avere il figlio, per non abortire, e poi noi non glielo battezziamo… Questa è una cultura che promuove immediatamente l’aborto: una mamma dice no all’aborto e quando vuole battezzarlo non ci riesce».

(Vatican Insider)

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