profonda gioia, nonostante tutto!

 

ha senso essere contenti? anzi ha senso addirittura gioire? : nonostante le contraddizioni, il malessere generale tipico di un mondo, come il nostro, in rapide mutazioni, in inesorabile superamento, anzi distruzione, demolizione. di equilibri culturali, sociali, politici passati, che inevitabilmente non può non suscitare in molti smarrimento, crisi di identità, incertezze esistenziali … prova a rispondere a questa grande domanda il teologo L. Boff nell’articolo a seguire:

il posto della gioia

di Leonardo Boff (*)
In mezzo a un innegabile malessere mondiale, quest’anno ha fatto irruzione a sorpresa una figura che ci ha regalato speranza, allegria e piacere della bellezza: Papa Francesco. Il suo primo scritto ufficiale porta il titolo di Pontificia esortazione “La gioia del Vangelo”, richiama l’allegria, le categorie dell’incontro, la vicinanza, la misericordia, la centralità dei poveri, la bellezza, la “rivoluzione della tenerezza” e la “mistica del vivere insieme”. Tale messaggio fa da contrappunto alla delusione e al fallimento delle promesse di un progetto di modernità che avrebbe portato benessere e felicità per tutti e che invece sta mettendo a rischio il futuro della specie umana a causa dell’assalto devastante che continua a fare a danno di beni e servizi scarsi della Madre Terra. Dice bene Papa Francesco: “La società tecnica ha moltiplicato le possibilità di piacere ma ha grande difficoltà quando si tratta di generare allegria” (Es.,n.7). Il piacere ha a che fare con i sensi. La gioia ha a che fare con il cuore. E il nostro modo di essere, purtroppo, è senza cuore. Questa gioia non è quella dell’idiota che è tutto giulivo senza un perché. Essa sgorga dall’incontro con una Persona concreta che ti ha suscitato entusiasmo, ti ha dato una spinta e semplicemente ti ha affascinato. È la figura di Gesù di Nazaret. Non si tratta di quel Cristo, coperto di titoli, di trionfo e di gloria che la teologia posteriore gli ha assegnato. E’ il Gesù del popolo, semplice e povero, delle strade polverose della Palestina, che portava parole di freschezza e di fascino. Papa Francesco è la prova dell’incontro con questa Persona: è stata tanto trascinante che ha cambiato la sua vita gli ha creato una fonte inesauribile di gioia e bellezza. Per lui evangelizzare è rifare questa esperienza e la missione della Chiesa è riscattare la freschezza e il fascino per la figura di Gesù. Evita la parola diventata ormai ufficiale di “nuova evangelizzazione”. Preferisce ”conversione pastorale” fatta di allegria, bellezza, fascino, vicinanza, incontro, tenerezza, amore e misericordia. Che differenza con i suoi predecessori di secoli. Presentavano il cristianesimo come dottrina, dogma e norma morale. Si esigeva adesione senza limiti e senza un qualsiasi straccio di dubbio perché partecipava alle caratteristiche dell’infallibilità. Papa Francesco vede il cristianesimo da un altro punto di vista. Non è una dottrina. È incontro personale con una Persona, con la sua causa, con la sua lotta, con la sua capacità di affrontare le difficoltà senza fughe. Fanno piacere oltremodo le parole contenute nell’epistola agli Ebrei dove si dice che Gesù “è passato attraverso le stesse prove che abbiamo avuto anche noi… Lui è stato circondato di debolezza… tra grida e lacrime ha supplicato colui che poteva salvarlo dalla morte e non è stato ascoltato nella sua angustia”.
Preferisco questa versione che è stata avvallata da due grandi conoscitori delle sacre scritture come Harnack e Bultmann, a quella che traduce il testo con l’espressione: “e fu ascoltato nella sua pietà – Eusebeia, infatti, in greco, può significare oltre che pietà, anche angustia – e che ha dovuto imparare a ubbidire mediante la sofferenza” (Eb 4,15;5,2.7-8). Nella evangelizzazione tradizionale tutto passava attraverso l’intelligenza intellettuale (intellectus fidei) espressa dal credo e dal catechismo. Nella sua esortazione apostolica, il papa Francesco arriva a dire che “abbiamo imprigionato Cristo in schemi noiosi e così priviamo il cristianesimo della sua creatività”(cfr. 11). Nella sua versione, l’evangelizzazione passa attraverso l’intelligenza cordiale (intellectus cordis), perché lì hanno la loro sede l’amore, la misericordia, la tenerezza e la freschezza della persona di Gesù. Questa si esprime anche attraverso la vicinanza, l’incontro, il dialogo e l’amore. È  un cristianesimo-casa aperto a tutti, “senza i supervisori  della dottrina”, non un cristianesimo-fortezza chiusa e timorosa. Ora è di questo cristianesimo che abbiamo bisogno, capace di produrre gioia, perché tutto quello che nasce sul serio da un incontro profondo e vero genera allegria e nessuno ce la può togliere. È come l’allegria dei sudafricani nella sepoltura di Mandela: nasceva nel fondo del cuore e muoveva tutto il corpo. Nella nostra cultura mediatica, appartenente all’era dei Media e di Internet, manca questo spazio di incontro: occhi negli occhi, faccia a faccia, pelle a pelle. Per questo dobbiamo realizzare, per dirla come il papa, delle “uscite”: “uscita” da noi stessi per l’altro, “uscita” in direzione delle periferie esistenziali (le solitudini e gli abbandoni), “uscita” verso l’universo dei poveri. Questa “uscita” è un vero “Esodo” che ha portato allegria agli ebrei liberi dal giogo del faraone. Niente di meglio che ricordare la testimonianza di Dostoievski quando “usciva” dalla Casa dei Morti in Siberia. “A volte – scrive – Dio mi invia istanti di pace; in questi istanti, amo e sento di essere amato; è stato in uno di questi momenti che ho composto per me stesso un credo, dove tutto è chiaro e sacro. Questo credo è molto semplice. Eccolo: credo che non esiste niente di più bello, di più profondo, di più simpatico, di più umano, di più perfetto del Cristo; e io dico a me stesso, con un amore geloso che non esiste e non può esistere. Ancora più di questo: se qualcuno mi provasse che il Cristo sta fuori della verità e che questa non si trova in lui, preferisco rimanere con il Cristo piuttosto che rimanere nella verità”. Il Papa Francesco farebbe sue queste parole di Dostoievski. Non è una verità astratta che riempie la vita, ma l’incontro vivo con una persona, con Gesù, il Nazareno. È a partire da lui che la verità si fa verità.
Se il 2014 porterà un poco di questo incontro (chiamatelo Cristo, Profondo, Mistero dentro di noi, Sacro di ogni essere) allora avremo scavato una fonte da cui sgorga gioia infinitamente superiore a qualsiasi piacere indotto dal consumo.
(*) traduzione di Romano Baraglia



2014 anno nuovo?

 

 

2014

“Comincia un anno nuovo. Se solleviamo lo sguardo incontriamo orizzonti appesantiti da grosse

nuvole che minacciano tempesta. Che fare? Arrendersi, scappare, deprimersi, disperare? La

tentazione c’è, ma pure qualcosa ci dice che dobbiamo dare un calcio ai lamenti e ai mugugni se

vogliamo entrare nell’anno nuovo col piede giusto”

così D. Maraini che ci invita, nonostante tutto a guardare con speranza al futuro e al nuovo anno che oggi inizia; ha delle parole convincenti:

2014 anno nuovo

Quando la speranza ci fa rischiare

 

di Dacia Maraini

in “Corriere della Sera” del 31 dicembre 2013

 

Comincia un anno nuovo. Se solleviamo lo sguardo incontriamo orizzonti appesantiti da grosse

nuvole che minacciano tempesta. Che fare? Arrendersi, scappare, deprimersi, disperare? La

tentazione c’è, ma pure qualcosa ci dice che dobbiamo dare un calcio ai lamenti e ai mugugni se

vogliamo entrare nell’anno nuovo col piede giusto. Vogliamo cominciare con una parola desueta e

impopolare? Una parola screditata perché apparentemente morbida e fragile. Ma che pure ha un

cuore di ferro. La parola speranza. Che ad alcuni suscita un risolino beffardo, ad altri uno sbadiglio

di noia. Ma pure bisogna riconoscere che senza speranza la realtà la si imbalsama come fosse un

corpo morto. Un corpo dal cervello piatto che, nell’euforia dell’onnipotenza tecnologica, teniamo in

vita pompando sangue dentro vene inerti.

2014 fiorito

Ma davvero è quello che vogliamo? Eraclito, che non era certo un ottimista, diceva che «senza

speranza è impossibile trovare l’insperato». Sperare infatti non vuol dire mettersi a braccia conserte

ad aspettare la manna dal cielo, ma rimboccarsi le maniche e darsi da fare. «Se ti trovi davanti due

strade», scrive Terzani, «una che va in su e una che va in giù, prendi sempre quella che sale». La

discesa è più facile, certo, ma di solito ti porta in un buco. Andare in salita è faticoso, ma è una sfida

e ti porta in alto. Pur sapendo che la speranza, come dice Bernanos, è piena di rischi. È addirittura

«il rischio dei rischi». Ma se non rischi e ti fermi impaurito, alla fine sarai travolto. Perché, come ci

suggerisce quella piccola cosa poetica che è l’orologio, tutto corre e si muove e chi resta fermo

viene spazzato via dalla gran scopa della storia. «La speranza è una cosa dotata di ali», pare di

sentire la voce maliziosa e intelligente di Emily Dickinson, «che mette su casa nello spirito e canta

un canto senza parole e non si ferma mai». Con quel poco di voce che ci è rimasta, ci tocca cantare,

se vogliamo che qualcosa in noi voli. Il pericolo della stasi, suggerisce Naomi Klein, sta nel creare

vuoti. «La politica odia il vuoto. Se non è pieno di speranza, qualcuno lo riempirà di paura». E la

paura fa sognare draghi dalle mille teste che soffiano fuoco. Per tagliare quelle teste, ci armiamo e

partiamo verso guerre inutili e micidiali. La paura arma la mano del razzista, del fanatico, del

guerrafondaio.

Faccio gli auguri alle persone che sanno sperare, come suor Rita e le sorelle di Casa Rut che

raccolgono le prostitute minorenni per le strade di Caserta, come gli organizzatori del teatro del

carcere di Latina guidate dal generoso Giorgio Maulucci, come il magistrato Di Matteo che sfida la

mafia e le sue minacce oscene, come a tutti coloro che, anziché nascondersi dietro il luogo comune

«tanto non c’è niente da fare, tanto sono tutti uguali», prendono per mano la vita come fosse un

bambino e si incamminano verso una salita impervia con cuore allegro